Cultura Commestibile 159

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N° 1 226 59 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia La Grande Firenze così grande che arriva a Milano “Dov’è S.Maria delle Grazie? Le do un indizio: c’è il Cenacolo di Leonardo” “Di sicuro non è a Firenze. Leonardo da Vinci dice? Beh, è in Toscana” Dario Nardella interrogato da un giornalista di La7

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N° 122659

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello,

aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

La Grande Firenzecosì grande che arriva a Milano

“Dov’è S.Maria delle Grazie? Le do un indizio: c’è il Cenacolo di Leonardo”“Di sicuro non è a Firenze. Leonardo da Vinci dice? Beh, è in Toscana”

Dario Nardella interrogato da un giornalista di La7

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Da nonsaltare

Un miliardo duecentocin-quanta milioni di anni fa. Esseri monocellulari

popolano gli oceani. Nell’at-mosfera terrestre comincia ad apparire l’ossigeno, che prima non c’era. Bisogna attendere ancora parecchie centinaia di milioni di anni per i primi pro-tozoi, e altre ancora per arrivare ai primi esseri pluricellulari complessi. Le terre emerse sono deserte. Un miliardo duecento-cinquanta milioni di anni fa. In una remota galassia due black holes continuano le loro orbite. Sono grandi, l’orizzonte degli eventi, la superficie dalla quale nemmeno la luce riesce scap-pare perché la velocità di fuga è uguale alla velocità della luce, ha un raggio di 100-150 km. Il raggio dell’orizzonte degli eventi è facile da calcolare: in chilometri, tre volte la massa del black hole misurata in unità di massa solare. Si definiscono neri perché assorbono la luce che li investe, oscurano quello che sta dietro. Ma non la nascondono: se li vedi davanti a te, intorno al cerchio nero che delimita l’orizzonte degli eventi vedi la luce degli oggetti che sono die-tro, perché il tragitto che questa luce percorre viene deviato ver-so di te lungo lo spazio tempo incurvato dalla loro massa: una grande, potente lente gravi-tazionale. Tutta la massa del buco nero è racchiusa nel punto centrale dell’orizzonte degli eventi, le leggi della fisica non riescono a descrivere la materia in quelle condizioni. Le orbite dei due buchi neri diventano più strette e più veloci, sempre più strette e più veloci, sempre più strette e più veloci, su su, fino a raggiungere una velocità pari a metà di quella della luce. Nello spazio tempo deformato dalle masse, onde gravitazionali, increspature dello spazio tempo, si generano a frequenza sempre più alta, di ampiezza sempre maggiore, e abbandonano il sistema alla velocità della luce; si espandono nell’Universo. In pochi decimi di secondo i due orizzonti degli eventi si fon-dono in uno. In quella piccola frazione di secondo, un’energia

pari a quella di 3 masse solari si converte in onde gravitazionali, con una potenza superiore a quella di tutte le stelle di tutte le galassie visibili. Dopo un intenso picco, l’emissione cessa, lo spazio tempo si quieta, come l’oceano dopo avere inghiottito una nave che affonda.14 Settembre 2015. In una sperduta landa semideserta nello stato di Washington, quello dove sta Seattle, la luce di un laser viaggia fra specchi sospesi, isolati al meglio da ogni disturbo previsto da una schiera di sperimentatori, in due tubi distesi sul terreno, lunghi 4 chilometri, in due direzioni perpendicolari. Nei tubi, un vuoto spaziale per evitare le minime deviazioni per l’urto dei fotoni del fascio di luce con le molecole dell’aria: perché quel fascio di luce serve a misurare il tempo di volo fra gli specchi sospesi in un tubo, e a confron-tarlo con il tempo di volo lungo l’altro tubo. L’insieme forma un interferometro di Michelson, il migliore strumento che abbia-mo per misurare differenze di distanza. Questo, l’esperimento LIGO, riesce a misurare diffe-renze di distanze fino a qualche millesimo del diametro di un protone. Serve ad intercettare e rivelare quel disturbo dello spazio tempo, l’onda gravitazio-

nale. Siccome i segnali previsti sono piccoli, e non sono stati ancora rivelati, per confronto un altro strumento simile è in funzione a Livingstone, a circa 3000 km di distanza. Un terzo interferometro, VIRGO, un po’ più corto, due bracci di 3 km, si trova in Italia, a Cascina, vicino a Pisa. Ma è chiuso per lavori, il 14 Settembre del 2015. Tornerà operativo nell’estate del 2016, con una sensibilità paragonabile a quella degli americani.L’onda gravitazionale che arriva alla Terra generata dalla collisione dei due black holes riproduce la deformazione dello spazio tempo all’origine, alla di-stanza di 1 miliardo e duecento cinquanta milioni di anni luce. Gli specchi dell’interferometro sono svincolati da qualunque forza, sono in caduta libera, come si dice, liberi di seguire le minime deformazioni dello spa-zio tempo, almeno lungo una direzione, quella del fascio, e per periodi di tempo dell’ordine di qualche centesimo - decimo di secondo. C’è voluto molto ingegno, molta competenza per riuscire ad ottenere strumen-ti così sensibili. Un lavoro paziente, appassionato, ricco di idee, delicato: come Michelan-gelo estrae dal marmo la statua di Mosè, così questi artisti dell’ingegnosità distillano dalla

tecnologia oggi esistente tutto quello che essa può dare.Il punto critico è rendersi conto che, al di fuori della nostra di-retta esperienza, e contro la no-stra intuizione, spazio e tempo non sono assoluti e rigidi nello stesso modo per tutti. L’eviden-za sperimentale e l’analisi fatta da Einstein dicono che lo spazio non è uniforme, regolare, ma si piega, si deforma, in presenza di massa ed energia; dicono che il ritmo del tempo non è uni-forme e regolare, ma dipende da come sono disposte massa ed energia nelle immediate vicinanze; dicono che abbiamo a che fare non con uno spazio ed un tempo indipendenti, ma con uno spazio che si mescola con il tempo: che quello che un viaggiatore nell’Universo vede come spazio, un altro viaggiato-re lo vede come una combina-zione di spazio e tempo diversa. A loro volta, spazio e tempo determinano come evolvono massa ed energia, che cercano di percorrere fra due eventi (cioè fra quello che accade qui ora, e quello che accadde laggiù, allora) la via più breve nello spazio tempo. Occorre il moto di una grande massa e di una grande quantità di energia per riuscire ad ottenere una piccola deformazione della geometria dello spazio tempo. E queste

di RuggeRo StangaDocente di Astronomia, Dipartimento di Fisica ed Astronomia, Università di Firenze e INFN, sezione di Firenze

Onde gravitazionali

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Da nonsaltare

deformazioni non sono statiche, scolpite nella roccia. No, anche esse mutano, seguono l’evolu-zione delle masse, danno vita ad impulsi di onde che si propaga-no, come i lampi di luce di un faro, lontano dalle sorgenti. Le onde gravitazionali, appunto: increspature nel tessuto dello spazio tempo. Molte sono le conferme sperimentali della teo-ria della relatività generale. Ora c’è anche l’osservazione diretta delle onde gravitazionali.Due stelle che orbitano sono più che sufficienti per genera-re onde gravitazionali: già si parla di interferometri che siano capaci di rivelare il segnale di normali stelle binarie compatte, le nane bianche, che ruotano una intorno all’altra con periodi di qualche ora, in una fase ben lontana dallo scontro finale. Ma la tecnologia attuale prevede che essi debbano avere bracci lunghi milioni di chilometri, e quindi realizzabili solo nello spazio. Fra non molto, si sentirà parlare di eLISA, questo è il nome del progetto. A terra, si riescono a rivelare solo segnali molto più veloci, prodotti da sorgenti molto più compatte, con una grande massa in uno volume piccolo: coppie di stelle di neutroni, le stelle così compatte che protoni del nucleo degli atomi ed elet-troni si fondono insieme per formare neutroni; e coppie di black holes. Un esperimento che costa qualche centinaio di milioni di dollari. Il tassello mancante del mosaico. Ne vale la pena?Si, per un buon numero di motivi. Intanto la cultura è un valore in sé. Secondo: la cultura è un valore in sé; terzo: la cul-tura è un valore in sé. Questo ce lo dice la storia dell’umanità degli ultimi due milioni di anni, circa. Capire e sapere fare, e raccontarselo, sono stati i mo-tori dell’evoluzione delle società umane. Fisicamente, non siamo molto diversi da Socrate, ma sappiamo fare un sacco di cose in più. In termini più diretti, la cultura e la diffusione del sapere hanno un valore strategico, in ogni campo. La meccanica quantisti-ca ha dato vita a computer e a mezzi diagnostici innovativi; il GPS funziona perché sappiamo

di relatività generale. Nel senso che avremmo anche potuto mettere in orbita i satelliti del sistema GPS, ma non saremmo riusciti a farlo funzionare, e saremmo ancora a chiederci il perché. E poi: la costruzione di siste-mi così raffinati ha costretto a produrre tecniche innovative

ottiche, meccaniche, di gestione dei dati, di analisi dei dati. E questo ha delle ricadute sulla tecnologia a disposizione di una società.Dal punto di vista scientifico: una nuova metodologia per stu-diare l’Universo. Ora che sap-piamo che le onde gravitaziona-li esistono, potremo investigare

segnali di durata ben maggiore; potremo arrivare fino alle soglie del Big Bang, con tecniche di rivelazione opportune. Cercare di sapere è sempre stato un investimento strategico.Infine, sempre la storia dice che tutte le volte che si è inventato uno strumento nuovo si sono scoperti fatti inattesi. Per esempio, già ora, i due buchi neri di quella massa, qualche decina di masse solari, pongono un problema: ma come si sono formati?

Che cosa sono, e a cosa serviranno

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adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. Togliete al fascismo l’imperiali-smo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il fascismo balcanico. Aggiungete al fascismo italiano un antica-pitalismo radicale e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il mistici-smo del Graal (completamente estraneo al fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola”.E così il testo di Eco si completa con una lista di caratteristiche tipiche di quello che lui chiama l’Ur-Fascismo o “Fascismo eter-no”, che non stanno dentro un sistema: “molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista”.Le elenco qui di seguito, rac-comandando però di andare a leggersi il testo per constatare la sua straordinaria attualità pur se scritto sul finire del XX secolo:• il culto della tradizione. Il tra-dizionalismo è certo più antico del fascismo, ma come questo richiede sincretismo, tollera contraddizioni e soprattutto non concepisce avanzamento del sapere;

• rifiuto del modernismo, cioè il rigetto dello spirito del 1789 e dunque dell’età della Ragione. Quindi “l’Ur-Fascismo può veni-re definito come irrazionalismo”;• il culto dell’azione per l’azio-ne. Pensare è perdita di tempo, “perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. … il sospetto verso il mondo intellet-tuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo”;• nessuna critica è accettabile, il disaccordo è tradimento;• “Il disaccordo è un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista… è contro gli intrusi. L’Ur-Fascismo è dunque razzista per definizio-ne”;• “L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale”. I fascismi storici fanno appello alle classi medie sfrut-tate.• “A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’o-rigine del ‘nazionalismo’. Inoltre gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici”. Dunque, ossessione del

complotto e xenofobia;• “Il pacifismo è collusione con il nemico; il pacifismo è catti-vo perché la vita è una guerra permanente”;• il disprezzo per i deboli e dunque l’elitismo tipico di ogni ideologia reazionaria;• il culto della morte e l’educazio-ne di ciascuno a diventare eroe;• ma siccome la guerra perma-nente e fare l’eroe sono giochi difficili da giocare, “l’Ur-Fasci-sta trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l’origine del machi-smo…”;• “Per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il ‘popolo’ è concepito come una qualità, un’entità mo-nolitica che esprime la volontà comune”.Ho dentro di me, ogni giorno, questo testo quando mi guardo intorno in questo mondo così tumultuoso e in continua tra-sformazione e quando mi sforzo di trovare qualche elemento di riconoscibilità, di comprensio-ne di quello che accade. Come non vedere i germi di questo Ur-Fascismo in molti movimenti anti-immigrati nell’Europa di oggi? Oppure nel femminicidio o nel machismo. O ancora nella esaltazione del popolo della rete come entità monolitica che esprime la volontà comune. C’è una “neolingua” che parla l’Ur-Fascismo che, come nel romanzo di Orwell, impone, monopolizza e rovescia i signifi-cati delle cose. Ma Eco ha posto ad esergo della sua vita la stessa frase del suo romanzo: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (“la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”). Aggrap-piamoci a quei nomi nudi delle cose, andiamo alla sostanza loro, scansando orpelli e rovesciamen-ti neolinguistici e impariamo a riconoscere gli Ur-Fascisti di oggi che purtroppo non si presenteranno a noi in cami-cia nera, ma più facilmente in doppio petto blu o con accat-tivanti linguaggi semplicistici e modaioli: “L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuo-ve forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo”.

La morte di Umberto Eco è stata celebrata in tutto il mondo come una perdita

comune, un vuoto incolmabile per la Cultura di qualsiasi latitu-dine. Non staremo, dunque, qui noi a ripetere con parole inade-guate il ruolo che Eco ha svolto negli studi semiologici, sulla storia medievale e nel romanzo contemporaneo. Conservo di lui un simpatico ricordo personale di un pranzo in cui, insieme ad Aldo Schiavone, mi deliziò di aforismi sulla cultura contempo-ranea e barzellette esilaranti di cui lui stesso Io narrante sembra-va divertirsi un mondo.Ma ancor di più, accanto e forse più dei suoi romanzi, sono lega-to ad un suo breve testo – a cui sono tornato non so quante vol-te nella mia vita – contenuto nel libretto “Cinque scritti morali” (Bompiani, 1979) dal titolo “Il Fascismo eterno”. Venti pagine fulminanti, intense e ad ogni rilettura sempre più attuali. È la testimonianza di una scoperta: il passaggio dall’inevitabilità della dittatura fascista alla “libertà” intesa come “liberazione” e la distillazione degli elementi basici del contenuto sostanziale dell’Ur-Fascismo nelle forme più disparate e subdole che il Fascismo può assumere anche ai nostri giorni. La scoperta giovanile della libertà: “la libertà di parola significa libertà dalla retorica”, insegnamento assorbi-to da ragazzo e che praticò per tutta la sua vita. E proprio per evitare la retorica della dichia-razione solenne “che loro non debbono farlo mai più”, Eco si domanda chi siano oggi quei loro e come fare a riconoscerli. Perché il Fascismo assume un conte-nuto così paradigmatico tanto da essere identificato, anche no-minalmente, come il nemico di ogni democratico (da Roosvelt che chiama a una vittoria contro il fascismo a Robert Jordan di Per chi suona la campana)? Non certo per la sua compiutezza filosofica (in verità assai debole), né per la sua primazia (la prima dittatura di destra a dominare in un paese europeo); il fascismo italiano “era un esempio di sgan-gheratezza politica e ideologica”, totalmente incoerente, ma dice Eco “il termine fascismo si

di Simone [email protected]

L’Ur-Fascismo

AddioEco

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Gli amici (intimi) sanno che nel 1969, ho avuto il piacere e l’onore di

conoscere Umberto Eco.Ora che ci penso, era l’anno dell’Allunaggio, non c’entra niente però, quello che per il mondo fu un evento straor-dinario, per me, l’incontro con il “Professore Semiologo” fu altrettanto speciale. Eco era già allora un “personag-gio”, colto, ironico, gentile e disponibile almeno nei miei confronti. Aveva già scrit-to libri come Opera aperta, La struttura assente e Diario Minimo, con il ben noto pezzo sulla “Fenomenologia di Mike Bongiorno”; tanto per citare i più noti e quelli più letti. Si può capire allora la mia grande soddisfazione quando si dichiarò disponibile a fare una presentazione per il piccolo catalogo della prima mostra del Gruppo Stanza: “Un gruppo di artisti giovani che si ponga il problema di un agire alternativo…ecc. ecc.”Negli anni, siamo rimasti in contatto epistolare, ancora non esistevano le mail, e quando, nel 1974 per ragioni esclusivamente economiche fummo costretti, ad annuncia-re la chiusura della rivista Ca Balà ne fu dispiaciuto e ce lo scrisse.Il suo conforto e il suo auspi-cio fortunatamente si concre-tarono! Infatti, dopo diversi mesi di gestazione, non ricor-do se furono i canonici nove, ricominciammo, con l’aiuto del Centro di Documentazio-ne di Pistoia, a pubblicare Ca Balà anche se con periodicità trimestrale.

L’Eco di Ca Balà di Paolo della [email protected]

Evidentemente stiamo attraver-sando una nuova stagione civile e culturale, oppure c’è qualcosa di singolare nella (in)cultura di chi deve governare la città di Firenze. C’è una continuità fra gli ultimi due sindaci: chi oggi è a Palazzo Chigi ebbe a scrivere un esilarante libro intitolato Dolce Stil Novo, ove, fra altre “perle” si discettava intorno agli eroici fatti di Francesco Ferruc-ci (in difesa della Repubblica fiorentina) a Gavinana: località

che, secondo l’illustre Auto-re, sarebbe stata alla periferia di Firenze piuttosto che sulla montagna pistoiese, dove gode, com’è noto, di un dignitoso monumento pubblico.Ora è la volta del suo pupillo e successore, da lui designato; il quale, interrogato su dove si trovasse il “Cenacolo” di Leo-nardo, ha titubato, affermando

tuttavia d’esser certo che si trovasse a Firenze, piuttosto che sul muro del Refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie!Così, molti si chie-dono: può un asses-sore alla cultura del comune di Firenze

non sapere dov’è il “Cenacolo” leonardesco? Altri più tolleranti

commentano che i vasti impegni per la ‘Città metropolita-na’ (o il fantasma di questa), il Comu-ne, le presidenze del Teatro Comu-nale e della Pergola lo impegnano molto, sottraendo-gli tempo da alcuni approfondimenti…

Burchiello 2000Almeno si dimettadi BuRchiello 2000

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Fiorentino, Campi Bisenzio, Casellina, ecc. Il massimo svi-luppo del sistema fu raggiunto negli anni ‘30 con circa 220 km di rete, il cui smantellamento fu completato alla fine degli anni Cinquanta.A partire dalla fine degli anni Ottanta nel capoluogo toscano si è ripreso a parlare di tram e si è arrivati alla fine degli anni No-vanta a definire le priorità degli interventi per la realizzazione del nuovo sistema tranviario.La rinascita del tram a Firenze è stata costellata di fortissime polemiche, di una tambu-reggiante propaganda contro questo mezzo di trasporto, ed in particolare contro il suo ritorno in Piazza Dumo. Si è tenuto anche un referendum popola-re nel febbraio 2007, al quale parteciparono circa il 40% degli aventi diritto al voto e poco più della metà di questi si espressero in modo contrario.

La prima linea della nuova rete (T1), entrata in servizio il 14 febbraio 2010, si estende per 7,4 km e conta 14 fermate: parte da “Villa Costanza” a Scandicci per terminare la sua corsa alla fermata “Alamanni Stazione” a Santa Maria Novella a Firenze. Il servizio viene effet-tuato con l’impiego di 17 treni (15 presenti sul tratto negli orari di punta), ciascuno capace di una capienza massima di 272 persone. La frequenza dei tram è di 4 minuti e sono circa 22 i minuti impiegati per completare il percorso.Attualmente sono in corso di realizzazione la linea 2 che col-legherà la Stazione Santa Maria Novella con l’Aeroporto Ve-spucci e la linea 3 che permet-terà di raggiungere l’Ospedale di Careggi sempre dalla Stazione ferroviaria centrale. L’entrata in servizio delle linee 2 e 3 della tranvia è prevista per il 2017, la

GEST prevede di portare il nu-mero di viaggiatori trasportati a raggiungere con esse complessi-vamente i 40 milioni/anno.Ancora in discussione i percorsi per assicurare i collegamenti con il centro storico e la zona est della città, nonché i prolunga-menti verso i comuni limitrofi a Nord ed Ovest (Sesto Fiorenti-no e Campi Bisenzio).A distanza di più di 5 anni è possibile trarre un primo bilan-cio dell’impatto che la prima linea della nuova rete tranvia-ria ha avuto sulla mobilità di Firenze.La linea T1 si è ormai attestata su un afflusso medio di circa 13 milioni di passeggeri (circa il doppio rispetto ai 7 milioni di passeggeri stimati come obietti-vo al momento dell’affidamento del servizio), su un percorso che, prima dell’arrivo della tramvia, era servito con linee di autobus che trasportavano circa 1 milione di persone l’anno.La Regione Toscana nel 2010 e nel 2012 ha effettuato delle rile-vazioni campionarie sull’utilizzo della tranvia, dal quale risulta che di circa il 24-25% di coloro che viaggiano ora con il mezzo pubblico prima si muovevano in auto o moto. Un’analoga indagine effettuata da GEST nel 2011, rilevava una percen-tuale del 54% di viaggiatori della tranvia che affermavano che in precedenza per effettuare lo stesso spostamento usavano mezzi privati.Non sono disponibili dati puntuali sugli effetti dell’intro-duzione della tranvia Firenze - Scandicci sulla circolazione stradale ed in particolare sul numero di veicoli in meno che ogni giorno sono in movimento sulle strade, dato che permet-terebbe di valutare in modo preciso la quantità di inquinan-ti sottratta dalla tranvia all’aria della città. Tuttavia, secondo una indagine della Regione Toscana del 2010 si stimava una riduzione di circa 3.000 auto al giorno; valutazioni più recenti espresse sulla stampa da parte di amministratori locali del Comune di Firenze, che sembrano plausibili in relazione ai viaggiatori trasportati dalla tranvia, parlano di una riduzio-ne del traffico nell’ordine del 20%.

Fra mobilità e qualità am-bientale delle nostre città vi è una stretta connes-

sione. Laddove gli spostamenti delle persone nella realtà urbana sono prevalentemente effettuati con mezzi privati il traffico rap-presenta una fonte determinan-te in termini di inquinamento atmosferico ed acustico, anche se il miglioramento delle presta-zioni in termini di emissioni dei veicoli verificatosi negli ultimi decenni ha sicuramente avuto effettivi positivi. Una delle poli-tiche strutturali possibili per le città è quella della realizzazione di sistemi tranviari, che, laddove funzionanti, hanno incontrato ovunque un notevole successo. Il successo di questo mezzo di locomozione è legato alla buona accessibilità, all’elevato comfort, ai bassi livelli di rumore e alle zero emissioni locali. Il suo svi-luppo ha in genere permesso di riqualificare aree urbane degra-date, ridurre il traffico stradale e aumentare lo spazio fruibile da pedoni e ciclisti.In altri paesi, ad esempio la Francia, le reti tranviarie si sono sviluppate già da alcuni decen-ni: sono state costruite linee tranviarie nelle maggiori città francesi quali Bordeaux, Caen, Clermont-Ferrand, Grenoble, Montpellier, Mulhouse, Nancy, Nantes, Nice, Orléans, Parigi, Lille, Lyon, Rouen, Strasbourg, Saint-Etienne, ecc. Ma estese reti tranviarie sono funzionanti in molti paesi europei: Spagna, Svizzera, Germania, Olanda, ecc.L’Italia è sicuramente in ritardo in questo ambito (così come nella realizzazione di linee metropolitane nelle grandi città, a fronte di quanto è stato fatto in altre metropoli europee), tuttavia qualche risultato è stato raggiunto, ed è giusto cercare di capire meglio le esperienze realizzate.A Firenze la prima tramvia elet-trica fiorentina era stata inau-gurata nel 1890, la città nella prima metà del secolo scorso era servita da una rete ramifi-cata, che comprendeva anche numerose linee extraurbane, che dalla città portavano a Prato, Poggio a Caiano, San Casciano, Fiesole, Bagno a Ripoli, Sesto

Il tram a Firenze: il successo della linea 1

di maRco talluRi

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nostro tempo.Firma la prefazione il filosofo Sergio Givone.Interviste a Giorgio Morales, Eugenio Giani, Felice Cecchi, Gianni Bechelli, Mario Primi-cerio, Paola Grifoni, Amos Cec-chi, Alessandra Marino, Simone Gheri, Sandro Fallani. Riflessioni e contributi di Fran-cesco Alberti, Mauro Bonciani, Alessandro Cavalieri, Giuseppe A. Centauro, Ilaria Ciuti, Virgi-

nio Di Giambattista, Giovanni Doddoli, Stefano Giorgetti, Jean Luc Laugaa, Mirella Loda e Mario Tartaglia, Giovanni Mantovani, Giuseppe Matulli, Saverio Montella e Vittorio Moschi.Il libro sarà presentato a Firenze (Palazzina Reale, Sala del Re, giovedì 3 marzo, ore 17) e a Scandicci (Centro Rogers, Auditorium, martedì 15 marzo, ore 17).

Il tram di Firenze, inaugu-rato nel febbraio 2010 con l’apertura della Linea 1 che

collega la stazione di Santa Ma-ria Novella con Scandicci, ha ri-voluzionato non solo la mobilità urbana del capoluogo toscano, ma anche il modo di vivere la città e i comportamenti dei suoi abitanti. Se ne parla nel libro Il nuovo tram di Firenze. La Linea 1 di Andrea Bacci, Aldo Frangioni e John Stammer, in uscita per Maschietto Editore. Il libro continua l’indagine avviata nel 2014 con Dentro Firenze. Architetture, architetti, progetti e percorsi del tempo presente di John Stammer, pubblicazione nata nell’ambito della rivista “Cultura Commestibile” e cu-rata da Aldo Frangioni, Simone Siliani e Michele Morrocchi. Questo libro dedicato alla Linea 1 è il primo di una serie che seguirà lo svolgersi del progetto della tramvia nell’area metro-politana di Firenze, con uscite coordinate con l’inaugurazione delle nuove linee. Gli autori del libro sono osservatori privile-giati: tecnici, amministratori, architetti, intellettuali, giorna-listi. Per farsi un’idea precisa del portato di questa infrastruttura e delle sue molte implicazioni per la vita della città, è neces-sario conoscere a fondo la sua storia, dall’ideazione alla messa in funzione (compreso il ‘prolo-go’ rappresentato dalla tramvia storica fiorentina), approfondire le caratteristiche del contesto urbano, riflettere sulle esigenze e le criticità di una città comples-sa come Firenze, ripercorrere i dibattiti sulle alternative, possi-bili o impossibili, che sono state avanzate. Oggi il tram a Firenze è una realtà consolidata, che conta oltre 13 milioni di passeggeri all’anno: un numero che supera ogni previsione. I cantieri aperti per le linee 2 e 3 e i progetti per gli ulteriori sviluppi della rete fanno prospettare uno scenario ancora più vasto per il prossimo futuro, che cambierà completa-mente il volto della città e la sua percorribilità. Il libro è arricchito da fotografie inedite, mappe, progetti e gra-fici che forniscono un quadro complesso dell’opera urbanistica fiorentina più importante del

La tramvia e la rivoluzione della gentilezza

Un libro racconta in dettaglio la storia del nuovo tram di Firenze, dall’ideazione alla messa in funzione, e come la città sta cambiando (e cambierà) gra-zie alla nuova in-frastruttura.

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Si vocifera a Palazzo Mada-ma che sia lei, la pasdaran dei cattodem, Rosa Maria Di Giorgi la ghost writer del maxi emenda-mento con cui si è votata la legge Cirinnà-non-più-Cirinnà sulle unioni civili. Oddio, più che wri-ter si dovrebbe dire eraser, perché la Rosa si è armata di bianchetto e ha incominciato a spennellare di qua e di là la proposta di legge sbiancandone quasi tutto, anima compresa. Infatti, la catto-Rosa ha iniziato a sbianchettare la ste-pchild adoption, ma poi si è fatta prendere la mano ed è andata avanti a togliere reversibilità, di-ritti, rovesci e tutto ciò che aveva un vago odore di zolfo. Poi, alla fine ha rimirato il suo capolavoro e - “Ava, come lava!” - si è detta che forse valeva la pena scrivere una legge ex novo più sintetica e chiara (quello della giurispru-denza informatica è il suo ramo specialistico) e ha cominciato così, con l’articolo 1:“Due omosessuali possono anche vivere insieme; purché non lo si risappia in giro.In tal caso la loro convivenza chiamasi Unione Civile.Nel caso in cui i due si dichiaras-sero o venissero vieppiù indiscuti-bilmente scoperti, la loro convi-venza debba dichiararsi Unione Incivile e debbono essere disuniti.”“Tutto il resto è noia, no, non ho detto gioia,ma noia, noia, noia, maledetta noia” , si è messa a canticchiare la Rosa. Ma il suo testo normativo non ha raggiunto l’Aula perché quando la senatrice

riunione

difamiglia

le SoRelle maRx

La cangura

Capitan rifresco

i cugini engelS

Due bandiere infangate. Po-tremmo sintetizzare così il fine settimana calcistico del nostro Paese. Due campioni che da anni tengono alta la propria bandiera, così radicati nelle loro città da rappresentarle ormai: un solo capitano per Roma, mille e più poltrone per Firenze. Eugenio e Francesco, due idoli, due sportivi. Instancabile a centrocampo il secondo, imbattibile nei rinfre-

schi il primo. Ecco in un calcio sempre più arido noi stiamo con le bandiere, noi stiamo coi campioni. E a chi dice che sia di cattivo gusto che il Presidente del Consiglio Regionale, che è anche presidente provinciale del CONI, sieda nel CdA di una squadra di serie A, noi rispondiamo che forse non sarà una lodevole iniziativa, ma il catering era di assoluto livello.

le avventuRe di naRdelik

Tirava una brutta aria nel palazzo del governo della città di Sottofaesulum. Il Leader Minimum aveva iniziato a lamentarsi dell’eccesso di espo-sizione mediatica del Servitor Cortese. In questi ultimi tempi fra sviolinate in tutte le sedi (il Servitor Cortese non manca-va occasione di dimostrare di essere un discreto violinista), fra baci senza pioggia al Piazzale Michelangelo (anche senza Dehor), e fra comparsate nelle principali tv nazionali, il Ser-vitor Cortese gli stava rubando la scena. E il Leader Minimum non sembrava gradire molto.Ma il Servitor Cortese non

sapeva cosa fare. Era o no il più bravo di tutti? Con quella sua faccia da bravo bambino che tutte le mamme vorrebbero per maritino alla propria bambina era proprio bellino e bravino. Che ci poteva fare? Ma biso-gnava trovare una soluzione per evitare le ire del Leader Mini-mum. Ci voleva Nardellik. E Nardellik ebbe l’idea. Bisogna-va che il Servitor Cortese di-cesse qualche corbelleria, Come quelle che diceva, e scriveva, il Leader Minimum quando ad esempio sbagliò il quartiere di Gavinana di Firenze con il luogo,sempre Gavinana ma sull’appennino pistoiese, dove

fu ucciso Francesco Ferrucci. E l’occasione si presentò presto. Intervistato da una televisione su dove fosse il famoso Cenacolo Vinciano il Servitor Cortese prese la palla al balzo. Prima balbettando un poco, e poi con una certa convinzione, anche se si vedeva che lo faceva controvoglia e che invece sapeva benissimo che il Cenacolo si trova a Milano accanto a Santa Maria delle Grazie, disse che se era un’opera di Leonardo da Vinci non poteva che trovarsi in Toscana. Il Leader Mini-mum ne fu contentissimo. Ora era certo che nessuno era più bravo e colto di Lui.

ha mostrato orgogliosa e gongo-lante il testo al Presidente del Consiglio, pare che il suddetto le abbia urlato in faccia: “Oh can-gurona, questa roba ginocchiona non la reggo nemmeno io. Torna ad occuparti del centenario di Dante e smetti di far danni!”

BoBo

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questa “debolezza” di tipo estetico/linguistico. Il fatto è che risulta estremamente difficile parlare delle opere, e soprattutto delle opere fo-tografiche, senza conoscere as-solutamente niente della vita o della personalità dell’autore. Di tutta la serie di immagi-ni rese note con la firma di Elaine Jones Heron, quelle visivamente ed emotivamente più coinvolgenti sono quel-le degli iceberg, realizzate verosimilmente nel corso di una o più escursioni nei mari artici (o antartici). Le masse galleggianti pigramente nelle acque tranquille di un mare gelido in cui spesso si rispecchiano creando fanta-stici giochi grafici, portano il segno della corrosione e del disfacimento, evocando l’ope-ra di un qualche scultore dalla creatività esuberante, piutto-sto che della banale opera del tempo che scorre, coadiuvato da qualche tiepida corrente o da qualche vento appena più caldo. I paesaggi di ghiaccio sono da sempre oggetto della curiosità di fotografi ed arti-sti, così dissimili dai paesaggi caldi, fatti di sabbia, terra, rocce o vegetazione, e la loro raffigurazione evoca sempre un mondo irreale, simbolico e distante. Paesaggi fatti da un solo elemento, acqua allo stato solido che emerge dalle acque allo stato liquido, e che è destinata a trasformarsi anch’essa nell’elemento che la contiene, quasi una allego-ria del ciclo della vita e della reincarnazione. Rispetto alle numerose immagini note di iceberg e ghiacciai, le im-magini a firma Elaine Jones Heron si distinguono per l’at-tenzione quasi morbosa alle forme, levigate o accidentate, lisce o profondamente incise, apparentemente soffici, evo-cative ed ingannevoli, talvolta messe a confronto con masse nuvolose dalle caratteristiche analoghe. Ed allora, non co-noscendo l’autore, si potreb-bero immaginare i fantasmi di ghiaccio di Elaine come una sorta di autoritratto, immense statue, fredde ed indifferen-ti, erette come protezione e difesa di una personalità di tutt’altra natura.

Della fotografa Elaine Jo-nes Heron non conosco niente, a parte le im-

magini in bianco e nero che vengono pubblicate sotto il suo nome sulle pagine on-line di B&W (bandwmag.com) ed altre immagini, meno interessanti e drammatiche, prevalentemente a colori, che è possibile trovare ancora on-line. Sembra che, in realtà, nessuno conosca niente, perché sulla identità della fo-tografa, come nazionalità, età, carriera, educazione artistica, percorso intellettuale, non esiste on-line assolutamente niente, nessun dato, nessun accenno. Il che è strano, così strano da far pensare che il nome con cui vengono fir-mate le immagini sia in realtà uno pseudonimo, un “nom de plume” o un nickname, sotto il quale si celano uno, o forse più fotografi. Non sarebbe una novità, fino dai tempi più antichi poeti e letterati hanno celato il loro vero nome die-tro un nome d’arte, più per opportunità che per mode-stia. Quello che è certo è che non si tratta di una fotografa professionista, ma di una persona che non ha nessun interesse a vendere le sue im-magini, né ha alcun interesse a promuovere la propria, di immagine. Potrebbe trattarsi di una seria professionista che preferisce non contaminare la propria figura professionale con la pratica della fotografia, praticata a livello amatoriale, ma che è comunque deside-rosa di mostrare la propria opera al mondo, anche in forma anonima. La storia della fotografia è piena di per-sonaggi così, medici, avvocati, o architetti, che danno sfogo al loro lato “creativo” con la pratica della fotografia, al di fuori ed al di sopra di qual-siasi logica di mercato. Ma in genere questi personaggi firmano le loro opere con il nome vero, e talvolta parteci-pano ai concorsi nazionali ed internazionali. Potrebbe allora trattarsi di un personaggio pubblico, per il quale sarebbe in qualche modo “disdicevo-le” o “riduttivo” confessare

di danilo [email protected]

Elaine Jones HeronFantasmi di ghiaccio

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Sensibilitàdi lauRa [email protected]

Ogni artista sente nel profon-do la necessità di uno scar-to dalla norma, in grado di

annientare la tradizione, rifiutan-do il passato e dando al mondo artistico un’impronta nuova e più originale possibile. Si tratta del bisogno irrinunciabile e antropo-logico di sottolineare i cambia-menti storico-sociali, mettendo in evidenza i riflessi culturali che ne conseguono, attraverso la pratica materiale e concreta della creazione artistica, che deve rifarsi al prima senza però rimanerne necessariamente vincolata. Allo stesso modo Ay-O si distaccò velocemente dalle tendenze della New York School, rifiutando la pittura e trovando negli happe-ning e nei ready made una più autentica forma di ispirazione. L’arte concreta, fatta di oggetti, diviene per l’artista l’unica arte possibile e l’unica realizzabile, mentre al contrario l’arte astratta si qualifica come un’antitesi asso-luta, priva di vincoli contestuali e di fatto inattuabile nel contempo-raneo sistema delle arti. Il punto di partenza si radica nell’esplora-zione dei sensi umani: olfatto, gu-sto, tatto, vista e udito vengono stimolati contemporaneamente in ogni sua performance, unendo multimedialità e processualità er-meneutica con l’obiettivo di coin-volgere il pubblico e condurlo alla scoperta delle infinite possibilità di percezione del corpo umano. La prassi artistica di Ay-O è un atto di sensibilità pura, tesa alla messa in luce della partecipazio-ne e dell’autenticità insita nel gesto più semplice e innocente, oscurato dalla complessità attuale. Nel disordine quotidiano si cela di fatto quel nulla impercettibile e significante che è impossibile tralasciare: in tal senso entrano in gioco i colori dell’arcobaleno e le plurime accezioni dello spettro dei colori, che divengono per l’artista un modo per combina-re l’arte contemporanea con la tradizionale visione giapponese della natura e della vita. La fascinazione si concretizza nella trasformazione di un qualsiasi oggetto in un nuovo linguaggio, caratterizzato dal colore e dalla composizione che decostruisce, separa e ricompone, facendo del mondo stesso una grande e immensa opera d’arte.

Ay-O

In alto R.G.D.Y.2., 1990Cesta di vimini con tagliatelle coloratein teca di plexiglass cm 26x66Al centro a sinistra Put In, 1991, Scatola in legno cm 7x8x8a destra Senza titolo, anni ‘00 T-shirt stampata con firma autografa Taglia XLA sinistra Senza titolo, 2006Litografia a colori cm 38x28A destra Ritratto di George Maciunas, 2007, Cartoncino sagomatocm 25x18,5

Tutte le immagini Courtesy Collezione

Carlo Palli, Prato

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Lo stesso vale per Cosmonauts: Birth of the Space Age, la bella mostra allestita allo Science Museum di Londra che ripercorre la storia dell’esplorazione spaziale sovietica.Curata da Doug Millard e da altri esperti, la mostra ha richiesto molti anni di preparazione, segna-ti da varie difficoltà burocratiche e diplomatiche.Il materiale esposto proviene da 18 sedi diverse: basi militari, collezioni private, scuole aero-

nautiche, altri musei. Si tratta di oltre 150 oggetti di vario tipo, compresi copie e originali di alcu-ne navicelle spaziali. La maggior parte di questo materiale non era mai uscito dalla Russia. La mostra sottolinea i numerosi record sovietici. Nel 1957 lo Sputnik 1 fu il primo satellite artificiale in orbita intorno alla Terra. Dopo Gagarin (1961) fu la volta di Valentina Tereshkova, prima donna nello spazio (1963). La Voschod 1 (1964) fu la prima

Nel 1914, quando già i venti di guerra scuotono l’Europa, da Firenze rimbalza una notizia clamorosa. Uno scienziato fio-rentino, l’ingegner Giulio Ulivi, ha inventato l’arma finale, un apparecchio “radio-balistico” in grado di far esplodere a distanza qualsiasi arma: il nemico può essere annientato utilizzando il suo stesso arsenale! Si può im-maginare lo scalpore che suscita la scoperta e l’interesse che si concentra sulla casa-laboratorio di Ulivi, che si trova al n.c. 52 (secondo altre fonti al 26) di Via Fra’ Giovanni Angelico.Ulivi aveva trovato per la sua in-venzione numerosi finanziatori, fra i quali l’ammiraglio Fornari, la cui figlia Maria era fidanzata con l’ingegnere: in omaggio alla fidanzata, il terribile raggio pro-dotto dal suo apparecchio, che in origine Ulivi aveva battezzato “raggio F”, diventa “raggio M”, come Maria ma anche come Morte.La documentazione relativa al raggio M è alquanto lacunosa:

pare che l’apparecchio emetta un’onda elettrica che, una volta entrata in contatto con una massa metallica, produce un’on-da di ritorno che, a sua volta, genera un’onda infrarossa che va a colpire la massa metallica e, se questa contiene esplosivo, accende una scintilla che lo fa detonare: pare impossibile che anche scienziati di chiara fama, fra i quali padre Alfani, direttore dello Ximeniano, prestassero fede a una faccenda del genere, ma tant’è…Il 29 aprile 1914, incalzato dalla stampa, l’ingegnere organizza una pubblica dimostrazione della sua invenzione: quattro bombe galleggianti vengono calate in Arno a Bellariva. Ulivi lancia il suo raggio da Monte Ceceri (a una distanza di 16,8 chilometri, precisa il “Corriere della Sera”) e le bombe esplodono una dopo

l’altra.Nuovi esperimenti l’8 e il 15 maggio; in queste occasioni le bombe vengono collocate in Arno vicine al Ponte San Niccolò e il raggio M le fa esplodere da Monte Senario con disarmante facilità: assiste anche il colonnel-lo Torretta, inviato dal Ministero

della Guerra. Quando il 15 Ulivi torna a casa, deve fendere la folla in delirio che riempie Via Fra’ Giovanni Angelico.La prova decisiva, su richiesta del Ministero, viene fissata per il 18 luglio, quando, oltre alla dimostrazione, Ulivi dovrà anche consegnare una completa relazione scientifica sulla sua in-venzione. Il 17 sera sul cancello di casa sua compare un cartello: “L’ingegner Giulio Ulivi essendo fuori di Firenze, l’officina viene riaperta lunedì”. Nessuno, a Firenze, vedrà più Ulivi né la sua fidanzata, con la quale è fuggito, né, ovviamente, i fondi dei finanziatori. Nel 1917 sarà avvistato a Lomazzo, dove una nuova applicazione del raggio M distruggerà uno stabilimento.Forse qualcuno doveva insospet-tirsi per lo svolgimento acqua-tico dei suoi esperimenti: con un ingegnoso sistema l’acqua d’Arno, filtrando nell’involucro della bomba, liberava un com-posto di acetilene che provocava l’esplosione, con buona pace del raggio M.

Sicuramente molti l’avranno già pensato, ma oggi possia-mo dirlo apertamente senza

essere “accusati” di simpatizzare per il comunismo sovietico: il pri-mo terrestre che abbia viaggiato nello spazio è stato un europeo. Ovviamente alludiamo al maggio-re Jurij Alekseevič Gagarin, che il 12 aprile 1961 compì il primo volo orbitale con un essere umano a bordo. La sua navicella era la Vostok 1. L’esplorazione dello spazio giocò un ruolo centrale negli anni della Guerra Fredda. La gara fra le due superpotenze fu tale che furono perfino concepiti due termini diversi per definire gli uomini che venivano inviati nello spazio: quelli statunitensi erano astro-nauti, quelli sovietici cosmonauti. Questa differenza si impose ovunque arrivando fino ai nostri giorni. Basti pensare al disco di Battista Lena I cosmonauti russi (Label Bleu, 2002), al romanzo di Alastair Reynolds L’ultimo cosmonauta (Delos Books, 2012) o ancora al film spagnolo El cosmonáuta (2013).

navicella spaziale equipaggiata da più piloti. Nonostante questo vantaggio iniziale, la ricerca spaziale sovietica non riuscì a progredire molto e venne presto superata da quella statunitense. A questo si aggiunse la situazione economica interna dell’URSS, che precluse forti investimenti economici. Negli ultimi tempi la ricerca spaziale russa è stata rilanciata in grande stile. Il 30 giugno 2015 Gennadij Ivanovič Padalka, comandate della navicella Expe-dition 44, ha stabilito il nuovo record di permanenza nello spazio (879 giorni accumulati in 5 voli). La gara fra le due superpotenze è già ricominciata, intrecciandosi con i venti di una nuova guerra fredda innescati dalla questione ucraina. Purtroppo parliamo in ritardo di questa mostra, visto che chiuderà il 13 marzo. Nel caso che non venga prorogata, chi non riesce a vederla potrà comunque leggere il bel catalogo curato da Millard. Il volume non raccoglie soltanto le foto dei materiali espo-sti, ma anche numerosi articoli firmati dai massimi esperti del tema in questione.

Cittadini dello spazio

di aleSSandRo [email protected]

di FaBRizio [email protected] Via Fra’ Giovanni Angelico

Il raggiodella morte

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portone magico: ogni volta che un personaggio lo attraverserà, dovrà affrontare le proprie paure. Il messaggio infatti, e la

morale laica che abbiamo voluto ribadire, è, in ultima analisi ‘cre-di in te’. È una lezione adatta a tutti, anche agli adulti, per cui

non c’è bisogno di scomodare entità sovrannaturali”. Prezzo unico euro 15, per informazioni www.operadifirenze.it

Hänsel e Gretel, la favola portata al successo dai Fratelli Grimm e trasfor-

mata in opera da Engelbert Humperdinck nel 1891, sarà in scena a Firenze (dopo 75 anni) al Teatro Goldoni di Firenze dal 5 al 13 marzo, tra spettacoli serali, pomeridiani e matinée per gli studenti. La nuova produzione dell’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino, in collaborazione con il Conser-vatorio Luigi Cherubini, è de-dicata in primis ai ragazzi, ma anche agli adulti, “a tutti quelli che, perdendosi nel bosco, prima o poi si imbattono in una misteriosa casetta di mar-zapane”. Cantata in italiano, la regia è di Gianmaria Aliverta, le scene sono di Alessia Colosso e le luci di Adriana Renna. Ad accompagnare lo spettatore in una casa-armadio magi-ca, all’interno del bosco, sarà l’Orchestra del Conservatorio Cherubini, diretta dal musicista iraniano Farhad G. Mahani, e il Coro di voci bianche del Mag-gio Musicale Fiorentino. Ad af-fiancarli, i maestri collaboratori Fabio Maggio, Nikolas Nägele, Chiara Pulsoni e Bojie Yin; sul palco, ci saranno i cantanti Pao-lo Anziliero, Eleonora Bellocci, Qianming Dou, Eunhee Kim, Francesca Longari, Veta Pilipen-ko, Ana Victoria Pitts e Dario Shikhmiri. Soprattutto, nel ruo-lo della strega ricca ma cattiva, che si contrappone nella fiaba ai genitori burberi che vivono in povertà, il famoso tenore Chris Merritt, che in conferenza stampa, ha raccontato come la possibilità di questo ruolo en travesti ricorra da tempo nella sua vita.Ha spiegato il regista Gian-maria Aliverta: “Sarà un’opera per tutti, vista con gli occhi dei bambini, perché volevamo che anche i genitori si tuffas-sero in quel mondo. La storia parte da una casa dove manca il cibo, una situazione comune e attuale, come succede in varie parti del mondo. La struttura della famiglia, infatti, inizia a vacillare dove non ci sono i sol-di. Abbiamo quindi evidenziato, nella storia, l’aspetto umano. Al centro della scena, infatti, ci sarà un grande armadio, un

di SaRa [email protected]

Contraddizioni. Non c’è niente da fare, strade e autostrade piacciono più delle ferrovie. È ovvio quindi che il traspor-to su gomma cresca, mentre quello su rotaia é relegato in posizione più che secondaria. Lo dice “Pendolaria 2015” il rapporto di Legambiente sul trasporto e sulle condizioni dei pendolari. Le cifre parlano da sole: mentre gli investimenti su strade e autostrade, tra il 2005 e il 2015, hanno toccato i 60 miliardi quelli per la rotaia si sono fermati a 40. L’unico investimento serio fatto è stato quello dell’Alta Velocità, opera che ha contribuito a moderniz-zare questo Paese. Tanto che alla fine si è finito per chiamarla, appunto, l’”Autostrada d’Ita-lia”. La scelta del nome già dice tutto: non si riesce a resistere al fascino dell’asfalto. Pensate, si sono investiti 300 miliardi per

realizzare questa infrastruttura che trasporta meno di 100mila persone al giorno, mentre si sono abbandonate le ferrovie regionali che trasportano – in condizioni assai precarie - 5 milioni di pendolari al dì. È lo strabismo, tutto italiano, che ha colpito la nostra classe dirigente, di destra, di centro e anche di sinistra, visto che solo il governo Prodi si è distinto, varando il piano “100 treni per i pendola-ri”. Subito archiviato da tutti i suoi successori. C’è di più. Lo Stato, oltre allo squilibrio degli investimenti, interviene poi con risorse ag-giuntive in favore dell’autotra-sporto: dagli sconti sul pedaggio autostradale alla riduzione dei premi Rca, dalle deduzioni for-fettarie alle esenzioni dell’accisa per quasi 3 miliardi nel 2016. Riservando le briciole alla mo-dernizzare della mobilità urbana e per i pendolari. Ovvio quindi ritrovarsi oggi con le città soffocate dall’inqui-namento e le ferrovie regionali in brache di tela: dal 2010 ad oggi i servizi si sono ridotti del 6,5% mentre i biglietti costano

di più. Con situazioni diverse da regione a regione. Si va dal taglio del 26% in Calabria, al 19 in Basilicata, del 15 in Campania e del 14 in Liguria. Qui, da noi ci siamo fermati ad un modesto 3,7%, come in Puglia e in Emi-lia. Per le tariffe si va dall’aumen-to record del Piemonte (+47%) a quello del 41 in Liguria, del 30 in Lombardia e del 25 in Umbria e Abruzzo. In Toscana si è toccato il 24, anche se per i pendolari l’aumento è differen-ziato in base al reddito Isee.Invertire questa tendenza non sarà facile. A meno che qualcuno non si decida a cambiare metodo nella selezione della nostra classe dirigente. Al posto degli amici fedeli, anche se incapaci, come diceva mia nonna, di fare un “o” con un bicchiere sarebbe l’ora di promuovere i più bravi. Voterei volentieri il sindaco di Massarosa che ha dimostrato di saper fare scelte coraggiose e innovative, come “Bike to work”: che premia - con 25 centesimi al km - chi va in bici al lavoro. Un modo per incentivare comportamenti virtuosi. Proprio ciò di cui ha più bisogno questo Paese.

di Remo FattoRini

Segnalidi fumo

Il ritorno di Hänsel e Gretel

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La mostra delle opere di Paola Di Bello “Home-less’ home” a Novoli nella

galleria Frittelli Arte Contem-poranea è una mostra che mette inquietudine. Ma un’inquie-tudine positiva. L’artista deve essere inquieto e deve suscitare sensazioni di inquietudine e di riflessione. Guardare un’opera d’arte non può essere una atti-vità “banale”. Deve indurre alla riflessione. È appunto quello che le fotografie di Paola Di Bello suscitano. Sono esposte opere non recenti che risalgono alla fine del secolo scorso e rappre-sentano una sintesi del lavoro di questa fotografa nata a Napoli, ma milanese di adozione, figlia d’arte (si è formata nello studio di suo padre Bruno Di Bello) e dal 2006 titolare della cattedra di Fotografia dell’Accademai di Brera. Fotografie da due raccol-te. La prima “Concrete Island” è formata da foto di oggetti di scarto fotografati a grandezza naturale nelle discariche e ri-prodotti, attraverso la rotazione dell’obbiettivo, nella posizione che avevano quando erano in uso. La stessa tecnica si può dire che viene usata nella seconda raccolta “Rischiano pene molto severe” che riproduce persone senza fissa dimora che dormono nella metropolitana di Mila-no. La curatrice della mostra Raffaella Perna dice che “ruotare l’obbiettivo per Di Bello è un gesto di cura, con il quale ella si fa carico della vulnerabilità di queste persone... per restituire loro visibilità e corpo”. Un lavo-ro importante, realizzato con il contributo della MM (la società che gestisce la metropolitana di Milano), che ha portato ad un contatto diretto con le persone coivolte, che erano perfettamen-te consapevoli dello scatto che li ritrae, e che hanno instau-rato con l’artista un rapporto personale duraturo. Ruotare l’obbiettivo è il primo passo per avviare una nuova lettura della realtà. Consente di avere un altro punto di vista. E migliora la percezione della realtà. La mo-stra è aperta alla Galleria Frittelli Arte Contemporanea via Val di Marina 15 a Firenze fino al 31 marzo dal lunedi al sabato con orario 10-13 e 15,30-19,30

di gianni Biagi [email protected] Il tetto dei senzatetto

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il casino di caccia di Edmond Kellerman, duca di Valmy. Nel 1882 divenne l’abitazione di Jules Marmottan e poi del figlio

Paul che l’arredò con la sua ricca raccolta di oggetti d’arte e dipinti del Primo Impero. Alla sua mor-te, nel 1932, donò la collezio-

ne, compreso importantissimi documenti storici, e l’abitazione all’Accademia di Belle Arti che la trasformò in museo nel 1934. Nel 1957 a questa originaria, prestigiosa raccolta se ne aggiun-ge un’altra, quella di Victorine Donop Monchy, che donò al Marmottan i quadri ereditati dal padre, medico di Manet, Monet, Pisarro, Renoir e Sisley. Nel 1966 Michel Monet, figlio del grande pittore, lasciò alla sua morte all’Accademia non solo la fiorita dimora di Giverny, protagonista di tanti capolavori del padre, ma anche la collezione di dipinti ereditata da lui. Una testimo-nianza artistica immensa che fece entrare il museo in possesso della più grande raccolta di opere di Monet. Nel 1987 si aggiunsero la donazione di Nelly Duhem dei quadri ereditati dal padre Henri, pittore e grande collezionista di artisti post-impressionisti e nel 1996 quella di Annie Rouart con opere di Morisot, Manet, Degas, Renoir...Da allora molte altre eredità e donazioni si sono aggiunte (e molto probabilmente si aggiun-geranno) all’enorme patrimonio artistico del museo Marmot-tan-Monet.

Grande attesa per la mo-stra L’art et l’enfant che si inaugurerà il 10 marzo al

museo Marmottan-Monet in rue Luis-Boilly 2 a Parigi. Come già annunciato da alcuni articoli sui giornali, l’esposizione con oltre 75 opere dei più grandi maestri della pittura francese dal Medioevo al Novecento offrirà un inedito elemento di lettura di questi capolavori: l’evoluzione da un punto di vista storico artistico della rappresentazione del bambi-no. Il percorso della mostra sarà strettamente cronologico, dai primi quadri nei quali la rigida iconografia del Medioevo limi-tata alla sfera religiosa impone il bambino-Dio, spesso in collo a Maria, si passerà alla pittura di corte del Rinascimento con il bambino-re, irrigidito, in un contesto rigorosamente cerimo-niale, sotto il mantello d’ermel-lino simbolo della continuità dinastica. Con l’illuminismo la rappresentazione del bambino riflette il nuovo interesse sociale e scientifico: sotto l’impulso delle teorie di Rousseau le nobili si fanno ritrarre mentre allattano al seno, i genitori mentre abbrac-ciano i loro figli e l’entusiasmo per i progressi della medicina alla fine del XVIII viene ben espresso nel macabro quadro di Gautier Dagoty di una donna incinta con il ventre squarciato e il feto in evidenza. Dal 1800 il bambino è ormai divenuto un soggetto che può anche rappresentare solo se stesso. Il Romanticismo e poi il Realismo lo ritrae in situazioni eroiche sulle barricate di guerre e rivoluzioni, di disagio urbano come la miseria, lo sfruttamento e l’abbandono, ma anche sereno in scene familiari di comoda quotidianità borghese. L’ultima sezione della mostra sarà dedicata all’influenza nel XX secolo del disegno infantile sulle avanguar-die e poi sull’art brut, entrambe in cerca di un nuovo vocabolario espressivo.Vorrei fare anche un piccolo accenno alla storia del Marmot-tan-Monet che ospiterà la mostra L’art et l’enfant perchè è abba-stanza particolare. Il museo fin dalla sua origine ha beneficiato di lasciti e donazioni senza prece-denti. Situato vicino al parco Bois de Boulogne, era in origine

Arte da bambinidi Simonetta [email protected]

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

Il migliore dei Lidi possibili

P.I.Liss – Prodotto interno lordissimo

di lido [email protected]

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New York, (escludendo quindi i percorsi specifici per i bimbi “ta-lented”) la pluralità e la diversità sono veramente, concretamente e quotidianamente un valore aggiunto: i miei bambini fin dai primissimi mesi di scuola, non ancora integrati linguisticamen-te, sono stati oggetto di pro-grammi speciali per la lingua. La scuola ha il dovere di insegnare, certo, ma non abbandona il bambino all’apprendimento della lingua in autonomia: se ne fa carico con un percorso che si chiama ESL (English as a Second Language) perché lo studente, anche se di passaggio, deve essere messo in grado di diventare membro effettivo della comunità scolastica e la scuola fa di tutto perché il bambino si integri veramente e pienamente. La presenza dei miei bambini (come di tutti gli altri stranie-ri) nella scuola è stata inoltre valutata positivamente nell’am-bito di una verifica condotta da ispettori che passano in rassegna le scuole per assegnare i fondi pubblici. Un bambino che si sta integrando culturalmente, linguisticamente e dal punto di vista relazionale, è un valore aggiunto in una classe e in una scuola, e se ne tiene conto nel decidere come e quanto premia-re quella scuola (e qui si apre il tema scottante dei finanziamenti alla scuola pubblica che adesso però non toccheremo). Il bimbo “straniero” (termine che suona strano a NY dove quasi tutti sono stranieri e nessuno lo è…) stimola l’attenzione al diverso da parte dei compagni, accende la curiosità e il dialogo, apre nuove prospettive alla didattica da par-

te degli insegnanti e produce nei bambini una spinta a prendersi amorevolmente cura dell’al-tro. E non sono solo parole: lo abbiamo sperimentato e toccato con mano. In Italia sull’integrazione dob-biamo ancora lavorare molto ovviamente e non solo a scuola, e quindi non si possono stabilire paragoni: qua immigrazione e integrazione sono il motore della nazione (anche se talvolta attraverso percorsi conflittuali, ovviamente) e proprio New York sta a dimostrarlo. Tornando al rapporto tra singolo e comunità, nel sistema italiano il gruppo classe è gene-ralmente il punto di partenza e quello di arrivo di un percorso di didattica: ottimo, se l’amal-gama funziona e se l’insegnante sa vedere i singoli all’interno del gruppo, sia quelli che hanno bisogno di maggiori stimoli che quelli che fanno più fatica. Se invece la classe è considerata come una platea a cui impar-tire il programma ministeriale, uguale per tutti, gli individui non si sentiranno riconosciuti e valorizzati, e le competenze spe-cifiche finiranno facilmente sot-to il tappeto perché il bambino sentirà che è necessario prima di tutto essere integrati nella classe e adattarsi a ciò che ci si aspetta da un buon studente.Esistono in Italia associazioni professionali e di genitori che si occupano della tematica della “plus dotazione” e che più in generale tendono a proporre un modello di scuola in cui ci sia davvero spazio e attenzione per tutti, con programmi speciali che incrocino classi di livelli

diversi, mettendo a confron-to studenti di varie età ma di competenze simili, o proponen-do compiti adeguati ai livelli di gruppi più o meno omogenei: più articolati per chi ha necessità di essere stimolato, più sempli-ci per chi deve raggiungere le competenze di base richieste. L’obiettivo deve essere sempre e comunque la salute e la felicità del bambino o del ragazzo, che ha diritto sempre ad essere rico-nosciuto e stimolato per quello che è. Il mio professore all’universi-tà sosteneva che per ottenere il massimo dagli studenti era necessario mettere l’asticella sempre un po’ più in alto rispet-to alle loro possibilità, ovvero pretendere sempre qualcosa in più di quello che possono dare, proponendo loro obiettivi molto avanzati. Forse non è proprio questa la strategia giusta con i bambini delle elementari, ma sicuramente non lo è nemmeno livellare la classe verso il basso, perché è necessario portare tutti a uno stesso standard minimo, che corrisponde poi agli obietti-vi ministeriali di base. Le maestre “illuminate” a cui abbiamo già fatto riferimento nei passati articoli sostengono che è necessario pretendere molto dai bambini: questo gra-tificherà i più brillanti e stimo-lerà chi ha bisogno di un aiuto in più, perché si produrrà un obbiettivo collettivo di classe a cui tutti arriveranno con l’aiuto dell’insegnante, ognuno con i propri mezzi, i propri tempi e le proprie competenze.L’articolo del Corriere da cui sia-mo partiti, titolava “Gli studenti non sono uguali. I più bravi vanno valorizzati”: può sembrare alternativamente un’ovvietà o un’affermazione da rampanti individualisti che perdono di vista il senso orizzontale della comunità scolastica. Nessuna delle due, direi: non è affatto un’ovvietà per tutto ciò che si è detto finora, ma non significa però nemmeno voler far primeg-giare “i bravi” a discapito degli altri. Implica piuttosto ricono-scere le abilità di ognuno e le differenze che ancora, grazie a Dio, ci caratterizzano, preziosis-sime e da tutelare in un mondo globalizzato che tende sempre più al rischio dell’omologazione.

Sul tema della valorizzazio-ne delle competenze speci-fiche che la scuola italiana

e quella statunitense riescono (o non riescono) a stimolare, siamo giunti all’ultima puntata e ci attendono un paio di riflessioni conclusive, come sempre basate sulla semplice osservazione di ciò che ci siamo trovati e ci tro-viamo a sperimentare sulle due sponde dell’oceano.In queste settimane si è svi-luppato su facebook un bel dibattito intorno all’argomento, recuperando quelle che sono le radici storiche della nostra gloriosa scuola pubblica, dalla Montessori a Calamandrei: radici dimenticate ma, come mi è stato segnalato, fortunatamen-te ripescate in alcuni progetti pilota come Scuola Senza Zaino (Nelle scuole italiane che resistono e innovano, Valentina Pigmei su “Internazionale” del 14 febbraio). Abbiamo osservato quanto in un sistema molto diverso dal nostro, quale quello americano, si possano recuperare stimoli e suggestioni per riportare da noi quell’attenzione in più alle po-tenzialità del singolo che spesso mancano. E ricordiamo che si ragiona di potenzialità a tutto tondo: logico matematiche, come creative o fisiche. Negli Stati Uniti ci sono scuole apposite a cui i bambini “gifted and talented” accedono attraver-so test e percorsi speciali: se un bambino sembra particolarmen-te brillante, se ne verificheranno le potenzialità per indicarlo eventualmente verso percorsi di apprendimento appositi che comprendono la frequentazione di una scuola dedicata. Non so se questa sia la soluzione migliore, forse no: i bambini si troveranno a frequentare una scuola che sicuramente li stimo-la e li sostiene nelle loro esigenze specifiche, ma si confronteranno solo con studenti con le loro stesse caratteristiche, sacrifican-do quella pluralità del gruppo classe che nel sistema scolastico italiano è importante, ma che alla fine è anche la ricchezza di una nazione come gli Stati Uniti. Dobbiamo però dire che nella ordinaria scuola pubblica che abbiamo sperimentato a

di chiaRa ulivi

La scuola e i talentiDa Firenze a New York (parte 5)

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che viene a sommarsi ad una moltitudine di altri frammenti fino a comporre la gigantesca opera finita, ricoprendo una ani-ma di polistirolo appositamente predisposta.Il Pinocchio di Belgrado si svilup-pa partendo da singole confezioni di cibo prodotte dall’industria, il cui modulo sono le classiche forme a mattoncino, assemblati alla maniera del gioco della Lego.

Successivamente il cibo è stato donato ad un orfanotrofio a sud della Serbia.Il Pinocchio di Tokyo, alto 15 metri, è un enorme pallone costruito in collaborazione con l’editore Gakken e la direzione delle scuole elementari giapponesi e il cui modulo o misura consi-ste nelle singole quantità d’aria soffiate dai bambini che hanno preso parte al progetto.

L’ultimo elemento è il dragone di tetrapak che ricompone questa stravagante trinità laica, anche lui assemblato unendo una gran-de quantità di singoli cartoni alimentari usati, rovesciati a mostrarne l’anima interna simile a scaglie metalliche. La biblioteca rappresenta, nella mia immagine, un luogo sacro dove la scrittura che viene con-servata nei suoi innumerevoli libri e le regole, gli insegnamenti e le storie che essi contengono, scaturiscono dalla grande Matita, e sono specchio ed immagine del volere di accrescimento che anima l’uomo, il “Pinocchio di Pinocchi” insieme agli altri è l’in-fanzia dell’umanità e il Dragone il suo spirito volante. Edoardo Malagigi alla Biblioteca Comunale di Lastra a Signa.In collaborazione con la Fonda-zione Sensus Firenze che fin dalla sua nascita collabora col Professor Edoardo Malagigi, condividendone gli intenti sociali e ospitando nella sedi di Firenze e Fiesole le sue opere e in particolare queste oggetto della esposizione di Lastra.Inaugurazione sabato 27 febbraio ore 11. La mostra rimarrà aperta dal 27 Febbraio al 1 Aprile 2016 in orario di apertura della biblio-teca.

I lavori di Edoardo Malagigi scelti per questa esposizione formano una particolare

famiglia di oggetti, solo apparen-temente disomogenea. La matita rappresenta il verbo sotto la metafora della scrittura, il contesto nel quale si svolge la mostra, ovvero una biblioteca, è la sommatoria del sapere stesso e la strada per perseguire questo sapere. Un luogo di incontro fra le opere di quelli che ritengono di dispensare conoscenze e cultura, come gli scrittori sono sicuri di essere, le persone che vogliono apprendere e sopratutto quelle persone illuminate che vogliono seguire una regola, che rappresen-tano il meglio delle tre categorie. La matita creatrice di scrittura in-dica agli occhi una traiettoria, alla stessa maniera di una freccia che prosegue idealmente la via segna-ta dallo sguardo, quindi evidenzia i pensieri che si vanno formando, unendo insieme due attitudini diverse, quella del vedere e quella del saper fare, indispensabili com-ponenti delle arti visive e della evoluzione del genere umano. Nell’unione di questo si crea la memoria e la capacità di trasfor-mare le cose reali nell’astrattezza dei simboli.Le altre parti che costituiscono l’oggetto della mostra sono tre pinocchi: quello costruito di frammenti di legno di altri pinoc-chi che sono i pezzi di scarto e difettati, quello fatto di confe-zioni di cibo e quello gonfiabile, questi ultimi due presenti solo in fotografia, essendo gli originali uno a Tokyo e l’altro mangiato.Che relazione esiste fra queste opere? Quella più evidente è il gigantismo, l’essere fuori scala.In realtà esistono più relazioni fra loro e consistono, per la parte pratica della realizzazione, nello sviluppo cellulare ed organico in-sito nel processo creativo proprio dell’autore e nel forte impatto sociale, sociologico e soprattutto ecologico nella parte di progetta-zione concettuale.Praticamente le opere di Edoar-do Malagigi si sviluppano sulla moltiplicazione o dilatazione di un singolo nucleo preso come modello. Nel “Pinocchio di Pi-nocchi” il modulo consiste in un frammento di legno dei gadget, solitamente venduti ai turisti,

Matita, Pinocchi e Draghi

di claudio [email protected]

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verso la formazione professiona-le per garantire la possibilità ai giovani come nuovi creativi di agire sul campo, così da indiriz-zare i propri interessi e le proprie motivazioni verso l’acquisizione di competenze specifiche che pos-sono essere avvalorate e messe a frutto in attività professionali at-tualmente sempre più richieste da istituzioni e imprese impegnate in ambito artistico culturale nella progettazione e nella produzione a favore di un capitale culturale che ha bisogno per crescere e svilupparsi di capitale umano in termini di risorse adeguate e competenze certificabili.Quali sono le specificità dei corsi? Nei tempi attuali l’informatiz-zazione e la digitalizzazione,

secondo i parametri europei, del patrimonio culturale, ma anche l’integrazione sempre più pronunciata delle nuove tecno-logie nel fare arte, comportano di proiettarsi verso obiettivi e traguardi che inevitabilmente implicano il rapporto stretto tra arte e tecnologia. Quest’ultima ha permesso la velocizzazione delle ricerche ed al tempo stesso una diversa percezione del nostro universo vissuto. Nell’ambito del-la formazione e della produzione creativa la competenza digitale è implicita, per cui analizzare e interpretare un’opera video per organizzare una mostra, o analizzare e scoprire un dipinto attraverso un’immagine ad alta definizione, effettuare la ripresa

diverse, molto leggera da dige-rire. Tra i piatti, il cacciucco, i primi con ragù bianco di cinta senese, la tradizionale salsiccia e fagioli. ma anche insalate e carpacci. Ora, il ristorante lancia il menu low cost a pranzo: prezzo inclusi acqua e caffè, dal lunedì al venerdì: 10 euro con dessert o contorno, 8 euro senza. A breve l’apertura di una “filiale” a Londra. Per info e prenotazioni: 055 247 8326.

di SPela [email protected]

di SaRa [email protected]

L’associazione culturale per le arti contemporanee Sincresis, fondata nel 2006

a Empoli, dal 2016 promuove e organizza corsi di alta formazione per curatori di eventi culturali, operatori ed esperti di produzio-ne video, fotografia, allestimenti, grafica, editoria e ambienti digita-li in base alle richieste del sistema artistico culturale di carattere istituzionale a livello pubblico e privato. La proposta didattica è articolata in moduli caratterizzati da lezioni teoriche e laboratori specifici secondo il corso scelto, lectures, work in progress e workshop condotti da docenti specializzati, stage in azienda, interventi di artisti, progettisti per proporre attività in presenza e on line con opportuni approfondimenti su esperienze di settore per am-pliare conoscenze e acquisire abilità tramite la sperimentazione diretta, come in un laboratorio attivo basato sul confronto, la collaborazione, la cooperazione, la riflessione critica, l’autova-lutazione che assumono rilievo come steps di un processo di insegnamento – apprendimento basato sul learning by doing e mirato, attraverso una attenta programmazione, alla costruzio-ne di un percorso rispondente a esigenze e bisogni dell’utenza per la certificazione di competenze di elevato livello professionale.Sincresis si avvale della preziosa collaborazione del Laboratorio Immagine e Comunicazione Di-gitale presso Var Group/ Gruppo SESA di Empoli, guidato dal docente ordinario Vito Cappel-lini dell’Università degli studi di Firenze ed è in partnership con Start_Art Projects di Firenze.Come è nata l’idea/il desiderio di creare un corso simile? Sincresis è nata come laborato-rio attivo, presentando work in progress e workshop di artisti in residenza, quindi l’intenzione di organizzare corsi improntati alla pratica laboratoriale oltre che alle conoscenze teoriche, si è originata proprio dalla volontà di alimen-tare il nostro iter creativo aspetto dell’insegnamento universitario svolto per molti anni negli ambiti della storia dell’arte contempo-ranea e delle arti multimediali, e di orientare le nostre attività

Un pranzo veloce, in linea con i tempi moderni, nel quartiere di Sant’Ambrogio, preparato con gli ingredienti dei banchi del vicino Mercato: si rinnova Johnny Bruschetta, tuscan bistrot di via de’ Macci 77/r, già premiato dalla community Yelp come uno dei migliori locali in Italia, grazie alle specialità dello chef Marco Rosi e le bruschette lunghe due metri.Nel menu, le ricette seguono le stagioni, prediligendo la freschezza degli ingredienti e la tradizione toscana, con ingredienti quali cavolo nero e lampredotto, serviti sulla bruschetta fatta con tre farine

Nuove tecnologieper l’arte

JohnnyBruschetta

di una performance, elaborare un catalogo multimediale per un evento, progettare un allestimen-to creando un ambiente digitale, sono aspetti consueti che rispon-dono alle esigenze in termini di innovazione, efficacia, visibilità, pubblicizzazione immediata. Le nuove tecnologie sono un mezzo, certamente, ma alimentano e espandono la creazione artistica oltre a valorizzare i beni cultura-li. I nostri corsi sono impostati propriamente secondo questo connubio tra arte e tecnologia, per cui anche la stessa formazio-ne diventa in parte didattica on line e progettazione con software specifici. Quali sono i punti di forza? Sicuramente oltre ad una precisa e approfondita base teorica come fondamento del lavoro progettua-le, l’organizzazione di workshop, gli stage in aziende di settore e in istituzioni specifiche, musei, gallerie, centri di ricerca, il rap-porto con gli artisti e le visite ai loro studi, il forum con curatori che già operano da tempo negli ambiti dell’arte contemporanea, con visiting professors ed esperti, l’organizzazione di eventi e la presentazione di progetti e lavori finali nei nostri spazi, sia di mo-stre, sia di materiali multimediali con il nostro sostegno tutoriale, il nostro ‘prendersi cura’ in modo rigoroso, – I care - direi. Come è organizzato il corso? Abbiamo pensato ad una distin-zione tra una prima parte teorica che investe tutte le discipline, dalla storia dell’arte contempora-nea alla critica d’arte, alla teoria e tecniche della comunicazione, che implica i primi mesi di fre-quenza per due giorni alla setti-mana, e una seconda parte prati-ca, con un intervallo di circa due mesi da dedicare alla progettazio-ne individuale, dedicata a stage, workshop, pratica laboratoriale, visite con accompagnamento a imprese, istituzioni pubbliche e private, quindi musei, gallerie, fondazioni, associazioni. Se qualcuno volesse maggiori informazioni?Vi invitiamo alla giornata di presentazione dei corsi sabato 12 marzo presso Sincresis in via della Repubblica, 52/54 a Empoli, potete anche seguirci su www.cor-siformazionesincresis.wordpress.com, www.sincresisarte.org, Face-book/sincresisarteformazione.

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Quello che vidi non parea un omuccio, tirato in secco dal brodo bollente:lasciatelo per me che me lo sbuccio,

uno di malebranche disse ardente.Guardai io ben quel corpo sventuratosballottato da quella brutta gente

tutti a goder d’averlo torturato.Così ridotto in brutte condizioninon era volto a cui ero abituato.

Venne dalla campagna a far funzioni,disse daddietro un diavolo sinistro,un chiaccheron che pur fece emozioni,

in poco tempo fu più di un ministroha la parlata tua vien da tuoi posti.Ci pensai ben: non è nel mio registro,

è inutile che abbiate i visi tosti,quello che fu a governar Fiorenza,e fece poi il duca a tutti i costi,

Canto XXII6a bolgiaFra i fraudolenti, si un trova un grande imbroglione, un grande affabulatore che viene ripescatop dai demoni di Malebranche che lo arpionano e lo deridono mentre, come rane immerse nella pece, alcuni dannati guardano attoniti.

non gli somiglia punto e in confidenzanon posso pensar che sia all’infernose così fosse perderei credenza.

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L

Quì siamo in un’altra parte della città, la famosa Bowery, la strada degli ubriachi e dei senza fissa dimora. Un’area, all’epoca, di incre-dibile degrado. L’area fu uno dei primi insediamenti di coloni olandesi nella seconda metà del diciassettesimo secolo. Nel corso degli anni ha conosciuto momenti di grande splendore e picchi di profondo degrado. Ai tempi di questo mio primo soggiorno a New York

la situazione era decisamente disastrata, come si può ben vedere da alcune immagini che mostrerò in questo e nei prossimi due numeri della rivista. Non ho più visitato questa parte della città ma, almeno secondo quello che mi hanno detto i bene informati, la Bowery è attualmen-te un luogo molto esclusivo e ricercato. Roba da veri yuppies e persone dal cospicuo conto in banca.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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