Cultura Commestibile 153

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N° 1 220 53 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Poveri per scelta C’eravamo abituati al fatto che i figli sarebbero stati più facoltosi dei propri genitori, oggi invece molti possono ambire a mantenere il livello della propria famiglia. Una situazione talmente nuova che viene letta come un crollo, invece è un sanissimo fermarsi in questa folle corsa verso un profitto sempre più grande. Alessandro Baricco

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N° 1220

53direttore

simone silianiredazione

gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Poveri per scelta

C’eravamo abituati al fatto che i figli sarebbero stati più

facoltosi dei propri genitori, oggi invece molti possono ambire

a mantenere il livello della propria famiglia.

Una situazione talmente nuova che viene letta come un crollo,

invece è un sanissimo fermarsi in questa folle corsa verso un profitto

sempre più grande.Alessandro Baricco

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Da nonsaltare

Torino, Bassano del Grap-pa, Verona, Brescia! Nel giro di pochi giorni si

sono verificate quattro morti in sala parto! Il Ministero ha di-sposto un’indagine (Audit) per verificarne le cause, indagine peraltro prevista come obbliga-toria dalle Linee Guida mini-steriali per ogni caso di morte materna, poiché rappresenta un “evento sentinella”. Questi eventi mi hanno fatto venire in mente alcune considerazioni che forse possono interessare. In primo luogo qualche in-formazione “sui numeri”. Le statistiche collocano l’Italia fra i Paesi a più bassa mortalità materna. Tuttavia le statisti-che non sono sempre “esatte” perché dipendono dalla qualità della rilevazione. Ora è eviden-te che la “mortalità materna” è chiaramente identificata dal flusso informativo corrente quando, come nei casi citati, la partoriente muore in ospedale o addirittura durante il parto. Tuttavia la mortalità mater-na è definita come il decesso durante la gravidanza o entro 42 giorni dal suo termine per qualsiasi causa legata o aggra-vata dalla gravidanza. Il flusso informativo corrente di alcuni paesi è più accurato di quello italiano e consente di valutare tale indicatore con più affidabi-lità. Questo è il motivo per cui è stato istituito, in Italia, un sistema di monitoraggio speci-fico per la mortalità materna, seppure applicato attualmente in sette regioni. Su questa base – assai attendibile – possiamo stimare che nel nostro paese si verificano circa 50 morti materne ogni anno. Una tasso, vale a dire un rapporto fra le morti materne (al numeratore) e i nati vivi (al denominatore), di 10 morti ogni 100.000 nati vivi, che non ci pone “in testa alle statistiche internazionali”, dato che nei Paesi Bassi tale tasso è di 6, ma con un buon piazzamento, analogo a quello della Francia e del Regno Unito. Anche in questo ambito le differenze sia per classe sociale/stato socio economica, ma anche per regione di residenza , sono rilevanti, poiché il tasso

di mortalità materna è di 5 in Toscana e di 13 in Campania!La seconda considerazione riguarda un fenomeno che definirei “percettivo”: con le in-formazioni sopra esposte di 50 decessi materni l’anno e pre-valentemente nel Sud Italia, i quattro tragici eventi di questo fine anno non possono essere un caso! Ci si attende infatti circa un evento alla settimana su tutto il territorio nazionale! Questa convinzione, o sensa-zione, deriva appunto da un fatto percettivo. Cioè mentre

noi, guardando l’andamento di un anno, ci stupiremmo se si trovasse il ripetersi di un de-terminato evento ad un ritmo regolare (uno la settimana) e, anzi, si sospetterebbe – giusta-mente – tale regolarità come organizzata artificialmente, ci meravigliamo dalla coincidenza di eventi, in una distribuzione casuale, quando osserviamo una “finestra temporale”!Faccio un esempio classico: in un gruppo di 25 persone occasionalmente (casualmente) insieme, ad esempio in una

cabina di una funivia, se ci sono due persone che hanno la stessa data di nascita qualcuno si sorprenda! Nessuna meraviglia, in realtà, come ha dimostrato Richard von Mises nel 1939, definen-dolo “il paradosso del com-pleanno” . Tale possibilità – o più correttamente Probabilità – risulta superiore al 50% se le persone sono 23 (P =0,51) e raggiunte lo 0,70 con 30 persone. Se poi il gruppo fosse di 365 persone e nessuno fosse nato nello stesso giorno, io sarei certo che vi è stata una selezione e non una distribu-zione casuale. I motivi di questa distorsio-ne percettiva non mi sono chiari. Forse si tratta di un dato evolutivo: il ripetersi di eventi, nel tempo e nello spazio, sono un segnale, collegabili ad una causa – potenzialmente utile o pericolosa – e la nostra perce-zione si è evoluta segnalando-celi, con soglie “prudenziali”, come qualche cosa di anomalo su cui puntare l’attenzione.Perché si muore di parto? Le ragioni sono varie; alcune, come l’eclampsia, la trombosi o l’embolia da liquido amniotico, sono difficilmente prevenibili e trattabili e risultano percen-tualmente più frequenti là dove

di Marco Geddes da Filicaia Mortalità materna:ieri e oggi

Tasso di mortalità materna x 100.000 nati vivi, 2015

Paradosso del compleanno: la probabilità che vi sia una coppia con la stessa data (giorno e mese) di nascita in relazione al numero di persone che compongono il gruppo.

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Da nonsaltare

la mortalità è molto bassa, come in Olanda. Altre come le emorragie e la sepsi, che sono certo emendabili, sono la causa più diffusa di morte nelle aree del pianeta in cui la mortalità materna è ancora assai rilevante In Italia, dove ora la morta-lità materna è di circa 10 x 100.000, nel 1966 era di 75 x 100.000! Alla fine dell’Otto-cento era del 364 su 100.000, e la causa prevalente era la febbre puerperale (o sepsi), una patologia che si è fortemente ridotta in larga parte del mon-do. Come è stato possibile con-trarre così drasticamente questa causa di morte? In modo assai semplice: lavandosi le mani.E qui torna alla mente la storia di Ignaz Philipp Semmelweis, medico di origine ungherese. Assunto nel reparto di oste-tricia dell’Allegemein Kran-kenhaus di Vienna, allora l’ospedale più grande e più famoso del mondo, nel 1846 vi svolgeva la sua attività quale assistente incaricato. La clinica aveva due reparti di ostetricia, il primo frequentato dagli studenti e il secondo dalle ostetriche. Semmelweis, avendo osservato l’alta frequenza dei decessi nel reparto frequentato dagli studenti di medicina, effettuò una rilevazione siste-matica della mortalità nei due reparti, utilizzando la accurata documentazione che veniva annualmente archiviata. La sua indagine prese in considerazione la mortalità per febbre puerperale nella I Clini-ca ostetrica (frequentata dagli studenti di medicina) e nella II Clinica ostetrica (frequentata dalle ostetriche), per il periodo 1841 - 1846, anni in cui tale patologia colpiva duramente le partorienti fino ad uccidere 1/6 delle pazienti. I risultati misero in evidenza che la mortalità nel reparto frequentato dagli studenti era tre volte superiore (9,93%) rispetto a quella del reparto affidato alle ostetriche (3,88%), con differenze altamente signi-ficative. Semmelwes aveva notato che la febbre puerperale si era diffusa in coincidenza con l’introdu-zione delle autopsie. A seguito del decesso di un suo amico, Jacob Kolletschka, professore

di medicina legale, che si era tagliato con un bisturi mentre effettuava un’autopsia, si con-vinse che alcune “particelle di cadavere” entrassero in circolo e che gli studenti di medicina entravano in contatto con tali agenti durante le autopsie e li trasmettevano alle puerpere durante la visita. Le convinzio-ni di Semmelweis si basavano sulle seguenti osservazioni:• in ciascuna delle due divi-sioni di ostetricia avveniva lo stesso numero di parti, da 3000 a 3.500; la differenza consisteva che nella prima divisione i parti erano effettuati dai dottori con

la collaborazione degli studenti, nella seconda dalle ostetriche e studentesse di ostetricia. Nella seconda clinica la mortalità era nettamente inferiore• la febbre puerperale era rara nei parti a domicilio e perfino nei parti che avvenivano nei vicoli, cosa non rara fra certe categorie di popolazione; in questa casistica la mortalità era bassa• mortalità e incidenza della febbre puerperale non erano correlate alla stagione, come evidenziavano le statistiche dell’ospedale, a differenza di quanto avviene per altre epide-

mie• la chiusura della I° clinica ostetrica, che era stata attuata a causa di alcuni lavori di riorga-nizzazione, riduceva nettamen-te la mortalitàNel maggio del 1847 Sem-melweis raccomandò a tutti gli studenti che frequentavano i reparti di ostetricia di non maneggiare cadaveri prima della visita e introdusse precise norme igieniche all’entrata in servizio nel reparto di degenza, consistenti nel lavaggio delle mani con acqua calda e sapone, nella pulizia delle unghie, nel risciacquo con un disinfettante (soluzione di cloro). A seguito di tali provvedimenti la mor-talità crollò e si ridusse ulte-riormente, avendo prescritto il lavaggio delle mani anche dopo ogni visita ostetrica, sulla base della intuizione che il contagio potesse realizzarsi anche fra partorienti. Le ipotesi di Semmelweis non trovarono ampio accoglimento nel corpo medico; andavano infatti contro le ipotesi più dif-fuse che attribuivano la febbre puerperale all’aria malsana (la teoria miasmatica); ancora nel 1864 nella clinica ostetrica di Vienna, al fine di prevenire tale patologia, venivano infatti istallati complessi impianti di ventilazione.Il problema che si poneva – e che in parte si pone anche oggi – è la messa in discussio-ne del paradigma che l’opera del medico non sia benefica o tuttalpiù non efficace, ma addirittura portatrice di peri-coli anche mortali. E’ questo paradigma mentale che faceva da muro alla accettazione delle teorie del dottor Semmelweis nonché alla applicazione dei provvedimenti da lui suggeriti. La sua drammatica storia (morì in manicomio) è stata oggetto di molteplici scritti, fra cui la tesi di laurea di Louis-Ferdinad Céline, e ha ispirato numerose opere: il film di Fred Zinne-mann del 1938, “That Mothers Might Live”, primo di una lunga serie di pellicole su Sem-melweis, e anche un dramma teatrale, di Giuseppe Sermonti.A lui è ora intitolata l’Univer-sità di Budapest, fondata nel 1769 dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria.

Marco Geddes da Filicaiae le statistichedella mortalità in sala parto

Ignaz Philipp Semmelweis (1818 – 1865)

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Tempo di Pitti e dunque di calzini e polpacci bene in vista per le strade della città. Uomini (molte meno le donne, vorrà dire pur qualcosa) portati a spasso dai propri vestiti per Firenze, feste e l’illusione che per qualche giorno ci si possa sentire come un venerdì pomerig-gio normale in Corso Como a Milano: fashion, fichi e affamati viste le porzioni minimal dei buffet. Roba che al mitico Eugenio Giani ne servirebbero venti o trenta per raggiungere la quantità di calorie che normalmente assume negli otto o nove appuntamenti con buffet che frequenta quotidianamente. Peraltro avete notato che l’immancabile Eugenio, dimostrando un senso del limite invi-

diabile, frequenti qualunque occasione conviviale cittadina salvo proprio le feste modaiole di Pitti? Sarà perché la maggior parte dei frequentatori non votano a Firenze o in Toscana? Meglio per lui così però, perché il rischio è quello che correva Renzi prima e Nardella oggi. Il premier, cercava, seguendo la propria indole di Zelig, di mimetizzarsi, agghin-dandosi a fashion victim e risultando il più delle volte ridicolo o fuori posto. Nardella invece non concedendo niente alla moda del momento e mantenendo l’aria tristanzuola che sempre lo caratte-rizza, risulta un alieno appena atterrato, ma comunque sorridente. Ma Pitti, insieme alle bestemmie degli automobi-listi, resta questo qua, oltre all’occasione per chi ci lavora, un simpatico diversivo, un vorrei ma non posso, di una provin-cia che nemmeno più ambisce a farsi metropoli.

Si preparano tempi bellicosi, nei quali solo cavalieri senza macchia e senza paura, protetti da una spessa corazza e pronti alla pugna, potranno salvarci dalle orde degli infedeli al soldo del Feroce Saladino. Grandi guerrieri saranno in prima fila a fermare l’invasione, prestando coraggiosamente il petto agli assalti e capaci di disar-cionare le cavallerie nemiche: a loro soltanto potremo affidare la sicurezza della nostra civiltà occidentale, che affonda le sue radici nella tradizione comunale del Medioevo. Non stiamo parlando, come i più potrebbero pensare, di una descri-zione retorica dello scontro di civiltà che taluni ritengono essere in corso fra Europa e Oriente, con migliaia di profughi che premono alle porte e

pericolosi terroristi che seminano il panico nelle nostre città. Tutt’altro. Siamo, invece, di fronte ad una nuova iperbole del pirotecnico presidente del Consiglio Regionale della Toscana, Eugenio Giani. Così si è presentato ai suoi fan sui social network: elmo stile XVII secolo, più propriamente detto “borgognotta”, evoluzione dell’elmo normanno, che lascia scoperto il viso e caratterizzato dal coppo crestato, tesa, gronda e guanciali incernierati, nella sua variante da “zappatore”, usata negli assedi delle fortezze. Alabarda, lama di scure sormontata da una cuspide per perforare la corazza dei cavalieri avversari e uncino per sca-raventare a terra gli assalitori, diffusa massicciamente in Europa dai successi militari dei mercenari svizzeri a parti-

Siamo stati fra gli sfortunati presenti ai 24 minuti della pre-dica-show di Roberto Benigni per la presentazione del nuovo libro di Papa Francesco pubblicato da Piemme (una delle tante isole editrici del nuovo colosso carta-ceo Mondozzoli, recente fusione fra la Mondadori e la Rizzoli). Francesco ha poi ricevuto tutta la compagnia di spettacolo con in testa Marina Berlusconi. Noi che eravamo grandi ammiratori del comico toscano (Benigni non Renzi naturalmente). Siamo stati colti da una profonda tristezza e nostalgia per la freschezza e gran-dezza del Roberto di Televacca, di

riunione

difamiglia

i cuGini enGels

le sorelle Marx

Pitti è tornato

Il Pap’occhio

La cioccolata

Giani cavaliere

la stilista di leninlo Zio di trotZky

“No, no e poi no, Dario! - tuona im-perioso da un capo del filo telefonico l’assessore Bettarini al commerci del Comune di Firenze – La licenza per spillare cioccolata calda a quei sabaudi di Venchi non gliela do. Ma che sei grullo? Questi prima di tutto son juventini e siccome ci rubano sempre le partite al Franchi, sicuramente ci fregano anche sulla cioccolata, ché invece di bicchieri da 20 cl. li fanno da 18 cl. Poi, al mio paese, a Borgo S.Lorenzo, la ciocco-lata la facciamo di molto meglio!”“Ma dai, Giovannino, non far le

bizze, via. - implora accomodante Nardella - Questi ci portano al TAR e poi se vincono ci tocca far mettere anche il thè arabo alla spina in via de’ Calzaiuoli. Poi magari fanno anche la spremuta di kebab questi minimarket di merda. Via, giù, dammi una mano”“Una mano? Te la do nel viso se non la smetti. Questi sono due esercizi di vicinato e quindi non possono somministrare, punto e basta!”“Va bene, gli dico di non fare eser-

“Berlinguer ti voglio bene” e tanto altro ancora degli anni settan-ta. Ci è apparso un infatuato Benigni, ormai raffinato teologo, aureolato in odore e sapore di beatitudine. Abbiamo atteso invano che all’udienza col papa argentino scattasse e lo prendesse in collo, come ai vecchi tempi, ma nulla di tutto ciò. Oppure che si rivolgesse a Sua Santità chiaman-dolo Bergogliaccio o più semplice-mente Caro Papocchio, come era solito fare in gioventù. Almeno poteva fare un bel gesto dadaista sollevando da terra la Marina e piroettare con lei fra le stanze del Vaticano, almeno per vedere se riusciva a farla sorridere a bocca aperta donandole così uno spunto di umanità.

“Sì, bel capolavoro tu hai fatto con quei troiai di dehors: io non li avrei messi nemmeno in piazza Romagno-li a Borgo, figurati se le fo’ mettere in via de’ Calzaiuoli a Firenze. Anzi, a dirti il vero vorrei bruciarli tutti quelle schifezze!”“Oh, non ti permettere sai: come osi criticare una cosa fatta sotto la illuminata amministrazione di Matteo? Comunque, te fai come vuoi: se si perde al TAR, ti rimando nel Mugello e ti garantisco che non ti prendono nemmeno a fare lo stradino a Ronta. E poi lo trovo io il sistema di risolvere questa faccenda: metto in campo Braghero e ci pensa lui, che è anche Piemontese come loro! click”“Ora intanto faccio un bel post su Facebook e risolvo il problema: Grazie Ministro Franceschini per la bella visita che hai riservato alla cit-tà in occasione di Pitti. L’occasione è servita anche per parlare dei progetti comuni per Firenze a partire dalla tutela delle botteghe storiche che in tutte le città d’arte sono rimpiazzate da attività commerciali di bassa qualità e degradate. Come? Con un vincolo alla destinazione commer-ciale dei negozi storici scovato da una normetta del codice dei beni culturali e che a giorni sarà discipli-nato per la prima volta a Firenze in modo particolare con il regolamento Unesco. I nostri caffè storici, le nostre botteghe artigiane non possono chiu-dere lasciando spazio a minimarket dozzinali come se nulla fosse...E così ci metto anche la spillatrice di cioccolata calda!”

cizi rumorosi altrimenti il vicinato si innervosisce: così gliela dai la licenza?”“Oh ma sei scemo? Esercizi vuol dire negozi, capito? Loro non hanno i requisiti amministrativi per sommi-nistrare, chiaro?”“Ma dai, allora potrei proporgli di mettere un bel dehors per la som-ministrazione. Sai, quei dehors che ho inventato io quando ero assessore al commercio con Renzi: ecco sotto quelli si può far di tutto”

re dal XIV secolo. Ecco il nostro lanzichenecco di Toscana, pronto alla pugna consiliare, in posizione di guar-dia. “Quest’arme terribile, - ci ricorda Giuseppe Grassi nel suo Dizionario militare italiano del 1833 - colla quale si poteva caricar di punta il ne-mico, od arrestarne l’impeto, si crede introdotta per la prima volta in Italia dagli Svizzeri nella prima loro calata, l’anno 1422; l’adopraron poscia e per lungo tempo i soldati Tedeschi chiamati Lanzi.” Arma con la quale Pallade doma il centauro nell’opera di Botticelli del 1482. Purtroppo la stazza di Eugenio è assai lontana dalla silfide Pallade, ma i nemici ch’ei fronteggia son ben più micidiali del povero centauro... anche se, per dir la verità, mezzi uomini e mezze bestie molti ve ne son al giorno d’oggi. Gia-ni, come sempre, interpreta il segno dei tempi ... ma quelli medievali.

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d’animo confusi, che oscillano fra l’indifferenza, l’inconsapevolezza, la preoccupazione, l’angoscia o la paura. Gli sguardi sembrano inseguire qualcosa, ma si tratta solo di illusioni, ricordi vaghi, sensazio-ni mutevoli. Nella maggior parte dei casi dietro agli sguardi c’è il vuoto, l’orrore di non riconoscere niente del mondo che li circonda, né persone né oggetti, né luoghi né cose. Sospesi in un luogo ed in un tempo che non esistono più, che hanno perso ogni significato, gli occhi guardano ma non vedono, non riconoscono, non riescono a dare ordine alla realtà. La loro vita è limitata a pochi ricordi disordi-nati, confusi e sovrapposti, sempre più deboli. Non si dovrebbero giudicare le fotografie per quello che non mostrano, ipotizzando significati al di fuori di quello che vi è raffigurato, e ci si dovrebbe limitare a leggere solo quello che esse contengono, ma nei ritratti di Alex si legge qualcosa di diverso dai ritratti che siamo abituati a vedere. Anche se guardano verso il fotografo, quei volti smarriti non sono coscienti di essere fotografati, non partecipano alla costruzione dell’immagine, non si sottraggono allo sguardo, ma lo ricambiano con indolenza, disinteresse, noncuran-za. Persi in se stessi, senza riferi-menti con il mondo esterno, senza curiosità di ciò che li circonda, si offrono alla fotocamera in tutto il loro candore e la loro trasparen-za, senza alcuna maschera, senza alcuna barriera. Questi ritratti, come ogni altro ritratto, servono per ricordare, ricordare anche chi si è dimenticato di noi e del mon-do. Servono per non dimenticare l’importanza di guardare in faccia le persone. Sempre, anche e soprat-tutto quando non le possiamo più capire.

Fino dalle origini della foto-grafia, il tema su cui si sono maggiormente concentrate

le energie di ricercatori e studiosi, è stato quello della restituzione dell’immagine del volto umano. Non è certamente un caso se il primo obiettivo fotografico, pro-gettato in maniera specifica per gli impieghi fotografici, è stato quello luminoso da ritratti di Petzval, e non è un caso se i primi profes-sionisti di successo della fotografia sono stati i “ritrattisti”. Preceduti da una tradizione pittorica secola-re, i fotografi ritrattisti vi attingono a piene mani, in maniera talvolta ingenua, talvolta subdola, alla ricerca di un metodo per esaltare le caratteristiche fisiche del volto, ma solo alcuni riescono ad andare oltre i limiti del ritratto pittorico, cercando di riprodurre non solo l’aspetto esteriore del volto nei suoi tratti caratteristici, ma di restituire anche la complessa psicologia del personaggio. Il rapporto dell’uomo con la sua immagine, da sempre conflittuale, si ricompone attra-verso la fotografia, ma attraverso questo passaggio finisce per com-plicarsi ulteriormente. Di fronte alla fotocamera le persone recitano e si atteggiano, modificano la propria espressione e contraggono i propri lineamenti, nel tentativo di assomigliare ai loro modelli ideali. Quella della fotografia del volto è una estetica del desiderio, e solo nelle immagini scattate senza la partecipazione cosciente del personaggio diventa una estetica dell’imprevisto.L’olandese Alex ten Napel, nato nel 1958 e residente ad Amsterdam, si è fatto notare per una selezione di immagini che rappresentano i volti di una serie di anziani personaggi, che per una volta non recitano, non si atteggiano, non fingono di essere qualcun altro. Le persone fotografate da Alex non possono fingere, perché non conoscendo la propria identità, non possono immaginare di essere qualcun altro. Hanno perduto la coscienza di chi sono, di dove sono e di quello che sta accadendo intorno a loro. Sono persone affette, in maniera spesso avanzata, dal morbo di Alzheimer. Persone le cui capacità cognitive e di memoria sono fortemente inde-bolite, oppure annullate. I tratti del volto non esprimono né determi-nazione né volontà, ma solo stati

di danilo [email protected]

Alex Ten NapelPersi nel tempo e nello spazio

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di laura [email protected]

Il movimento Fluxus non determinò soltanto la maggiore aderenza alla

vita quotidiana dell’Arte e della prassi artistica dei nascenti intellettuali, ma ebbe anche slanci dissacranti e provoca-tori, sintomatici del sentire social-politico degli emblematici anni Sessanta e Settanta. In un contesto storico denso di guerre dilanianti, rivoluzioni culturali e progresso tecnologico, fra aporie e contraddizioni, fu lecito per la nuova generazione di artisti osservare il mondo oltre l’appa-renza situazionale e assaporare il proprio presente da punti di vi-sta inediti e inaspettati. Nel vor-tice delle esaltazioni estetiche, delle celebrazioni interdiscipli-nari, della cooperazione senza limite e della sperimentazione senza freni la ricerca di Wolf Vostell si pone a metà strada fra la consapevolezza dell’artista moderno di essere portatore di nuova ideologia e la necessità di mettere in luce una nuova forma di pensiero critico, capace di non sublimarsi alle tenden-ze veicolate, ma di progredire partendo da tutto ciò che il mondo non vede o che fa finta di non vedere. Gli happening di Wolf Vostell furono una forma artistica intima e privata che rifletteva la condizione d’isola-mento dell’era post-bellica, con lo scopo di provocare reazioni e partecipazioni degli spettatori, ormai passivi e irrigiditi dalle contingente mass-mediatiche. In tal senso la televisione non si configurò come un nuovo mezzo di comunicazione dalle ampie possibilità, bensì come una pagina vuota. L’accezione negativa del termine spinse alla creazione di differenti livelli di realtà da sovrapporre, apparen-temente contraddittori e privi di legami, che si moltiplicavano senza sosta e senza meta, se-guendo il principio della deco-struzione. L’enorme potenzialità massificatrice del mezzo tele-visivo, nonché dei videotape e delle video-installazioni furono messi in discussione e, al tempo stesso, venne criticata anche la mitologia tecnologica, denun-ciando l’alienazione collettiva che ne conseguì. Il gesto deco-struttivo dell’artista rappresenta

Sopra Senza titolo, 1971Assemblaggiocm 40x33,7A fianco La revoluzione de la televisione n.4, 1990Tecnica mista e assemblaggio su tavolacm 115x72x22,5Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

quindi un atto di liberazione dal controllo del Sistema: un’uscita dalla dimensione oggettuale dadaista al fine di “atterrare” nei terreni concettuali e simbolici dell’azione. Non a caso il dé-coll/age, fulcro della poetica di Wolf Vostell, è un processo che pone l’accento sui fenomeni violenti dell’era contemporanea, è un modo di impadronirsi dei corsi e ricorsi distruttivi della vita, è «accidente, morte, lotta, vita, cambiamento, riduzione, problema, disturbi, merda, febbre, traspirazione, aborto, esclusione … principi psico-logici … la sovrapposizione di visibile e invisibile … dolore, diarrea, pattumiera, il tuo essere strappato». Di conseguenza i concetti di lacerazione, cancel-latura, interferenza e deforma-zione rispecchiano l’idea che l’Arte è una forma dialettica che provoca e suscita emozioni fortissime ai margini dell’ansia e della rabbia, che conduce il fruitore nel punto esatto di fu-

sione fra l’Eros e il Thanatos, fra la pulsione di vita e l’istinto di morte, fra l’amore e la violenza. Quella di Wolf Vostell è un’in-dagine sulla provocazione che non ha bisogno di spiegazioni, ma prende a prestito i docu-menti dell’oggi per restituirli al mittente sotto una nuova veste, più dissacrante e veritiera, più consapevole ma terribilmente pessimistica.

WolfVostell

La provocazione del lupo

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Come accennato, poiché “Semel in anno licet insanire” (gli Acca-demici della Crusca stanno ancora dibattendo se attribuire la primo-genitura della locuzione a Seneca o a Sant’Agostino) “annualmente, in occasione della scadenza delle nomine dei magistrati, veniva indetto dagli accademici uno stra-vizzo, convito in cui veniva letta la cicalata, orazione in burla su un argomento di poco conto, e si potevano muovere accuse contro i magistrati del seggio scaduto. In occasione di questi banchetti, più o meno sontuosi e solenni a seconda dell’occasione, veni-vano servite pietanze prelibate e ricercatissime”. Di alcuni di questi stravizzi è rimasto il menù; non c’è possibilità di sintesi, quindi vi riporto per esteso, riprendendolo dal sito ufficiale dell’Accademia della Crusca, quello del 24 settem-bre 1656:Primo servito freddo4 pasticci di vitella fatti a foggia di staccio, 4 pasticci a foggia di gerla,

4 pasticci a foggia di bugnola, 2 pollanche d’India entro un vagliet-to di pasta, 2 lingue fresche lardate e trinciate in fette, prosciutto in casse di pasta, gelatine di vari colori, biancomangiare in molti colori, susine di Marsilia, burro sciringato, tortiglioni, cedreti, sfogliate, tartere di pesce, insalate, capperi.Secondo servito caldo4 minestre in piatti grandi e uno di pasticci con piccioncini ripieni e starne e granellini di galletti e pistacchi, prugnòli et altro, mine-stre di prugnòli semplici, pasticci d’animelle et altri ingredienti, animelle lardate arrosto, capponi lessi con petti d’agnellotti, frittura di granelli, un arrosto sottile.Terzo servito caldo

Pasticci all’inglese, cioè morbidi; piccioni grossi lessi adornati di lattuga ripiena, starne lesse con cavol nero sopra, polli d’India vec-chi cotti in vino, teste di vitella di latte ripiene, uova lattate di color verde, minestre di sedani, uo¬va e tartufi secchi, tommacelle per ornare un arrosto, petti di vitella ripieni e fritti, polpettoni e cuore.Quarto servito d’arrostiFagiani adornati colle medesime

loro penne, tortole adornate con paste intagliate, capponi adornati con vermicelli di più colori, pic-cion grossi adornati di sfogliatelli, tordi ornati con paste sciringhe e limoni, stame adornate con gigli, beccafichi adornati con ciambel-lette di pasta burrate, pollanche d’India adornate di limoni lavo-rati, lombate di vitella adornate di pagnottelle ripiene, lombate di daino, lepre adornate.Quinto servito di fruttiLatte buono, fragole delle monta-gne di Pistoia, parmigiano in pezzi grandi, marzolini buoni, raveg-gioli, pere bergamotte, pere da quercie, susine simiane, lazeruole rosse e bianche, sfogliate, migliacci bianchi, pesche cotogne intere e in fette, uva ser Alamanna, sedani, carciofi, noce monde, finocchio dolce e forte, biscottini freschi, anaci confetti, scatole di cotogna-to, stuzzica-denti.Meno male che alla fine portarono degli stuzzicadenti per eliminare i residui delle animelle lardate e dei beccafichi con ciambellette.

Moon e Source Code. È difficile trovare un altro artista del ventesimo secolo che sia stato al tempo stesso attore e cantante, pittore e compositore. Un’ottima panoramica di questa versatilità ci viene offerta da David Bowie è (Rizzoli, 2013), catalogo della mostra allestita al Victoria and Albert Museum di Londra nel 2013 e visibile al Museo di Groningen (Paesi Bassi) fino al

13 marzo 2016. L’artista londinese è stato capace di reinventarsi continuamen-te, passando dalle complesse architetture elettroniche di Low al funky di Young Americans, con una gamma espressiva che gli ha permesso di collaborare con Brian Eno, Robert Fripp, Pat Metheny e altri talenti. L’anno scorso questa creatività inesauribile si è espressa anche in

Come sa chi ci legge, David Bowie è morto il 10 gen-naio per una malattia incu-

rabile. Crediamo che parafrasare le note biografiche già apparse sulla stampa non avrebbe senso, anche perché una vita artistica lunga e ricca come la sua non potrebbe essere riassunta nel poco spazio di cui disponiamo. Chi vuole conoscerlo meglio potrà integrare l’ascolto dei suoi dischi con la lettura del libro The Complete David Bowie (Titan Books, ultima ristampa 2011), scritto da Nicholas Pegg.Quello che ci lascia Bowie è un monumentale bagaglio di suoni, colori, immagini e parole: da dischi come Hunky Dory e i tre del periodo berlinese (Low, “He-roes” e Lodger) alle parti di attore in film come Furyo e L’uomo che cadde sulla Terra.In quest’ultimo, tratto dal romanzo omonimo di Walter Tevis, David interpreta la parte di un alieno: in questo modo l’artista ribadisce quell’interesse per la fantascienza che lo consa-cra come alieno del rock.Questa passione sarà poi eredi-tata dal figlio, il regista Duncan Jones, che realizzerà film come

un altro modo, come dimostra il musical Lazarus, messo in scena a New York poche settimane prima della sua morte. Speriamo che questo lavoro venga rap-presentato anche in Italia, pur sapendo che non sarà facile. Gentile, sorridente, lontano anni luce dal divismo e dal gossip, si era sposato nel 1992 a Firenze, in una chiesa anglicana che molti fiorentini non conoscono. Una cerimonia riservata, senza il clamore dei matrimoni faraonici che la nostra città ha conosciuto negli ultimi anni. “The stars look very different to-day”, “Le stelle sembrano molto diverse oggi”, dice una delle frasi più toccanti di Space Oddity, che lo impose all’attenzione mondia-le nel 1969. Gran parte degli amanti del rock nati negli anni Cinquanta, come chi scrive, sono profondamente tristi: un altro “fratello maggiore” ci ha lasciato. Ma rifiutiamo di salutarlo con un addio, come hanno fatto molti giornali. Cre-diamo invece che quando muore un artista come lui dovremmo considerare quanto siamo stati fortunati a vivere nel suo tempo e a cogliere la sua parabola proprio mentre questa stava prendendo vita.

Fratello alieno

di alessandro [email protected]

di FabriZio [email protected] Via degli Accademici della Crusca

Gli stravizi degli accademici

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e di integrazione della comunità islamica. Il momento certo non è tra i più favorevoli. Dopo gli attentati di novembre, nell’am-bito dello stato di emergenza, il ministro degli Affari Interni francese, Bernard Cazeneuve, ha dichiarato di voler chiudere le moschee radicalizzate ed espellere gli imam che predicano odio. Ma il confine tra atteggiamenti estre-misti e pericolosi e quelli suggeriti da una visione dell’islamismo molto ortodossa, non necessa-riamente illegali, non è sempre facilmente distinguibile dalla

nostra cultura. Per questo può essere utile ricordare che dopo i fatti di Charlie il CFCM (Conseil francais du culte musulman) si era radunato in tutta fretta per ribadire il rispetto alla libertà d’informazione e la condanna alla radicalizzazione, sostenendo co-munque che ognuno deve prendere le sue responsabilità. Il compito di CFCM non è quello della sicurezza ma della prevenzione. In una recente intervista a France 24 il presidente del Consiglio Francese del Culto Musulmano, Anwar Kbibech, sottolinea che

tutti gli imam dei 2500 luoghi di culto in Francia sono impegnati in questo lavoro di prevenzione e lo stesso CFCM ha inviato a tutte le moschee un sermone da leggere durante la preghiera del venerdì che attraverso le parole del Corano smentisce e condanna le interpretazioni dei terroristi. Sabato 9 e domenica 10 gennaio ha lanciato poi un iniziativa “por-te aperte” di tutti i centri di culto francesi. Un gesto simbolico ma anche un’iniziativa per riaffermare quel Islam così detto francese di pace e fratellanza.

A Parigi a pochi passi dal Museo di Storia Naturale, in rue Georges Despas 6,

si erge la Moschea, la più grande della Francia e la seconda in Europa dopo quella di Roma. Iniziata nel 1922 e inaugurata nel 1926, la Moschea fu costruita con i finanziamenti francesi e di alcuni paesi arabi in ricordo delle decine di migliaia di soldati musulmani morti per la Francia durante la prima guerra mon-diale. Fu il primo luogo di culto islamico costruito in questo paese che ha la più grande comunità musulmana d’Europa e la sua presenza aveva anche il fine di riaffermare la visione di un Islam così detto “francese” che accetta il modello laico e repubblicano del paese ospitante. La Moschea, costruita in stile ispano-moresco e decorata da artigiani magrebini, ha un maestoso minareto alto 33 metri, un grande patio ispirato alla Alhambra di Granada, una sala di preghiera con preziosi tap-peti, una biblioteca e un istituto di educazione religiosa dedicato alla formazione degli imam. Ac-canto a questi luoghi di preghiera e studio ci sono quelli dedicati al relax con il piccolo ma incantevo-le hammam, uno dei più vecchi di Parigi, al quale si accede da dietro il banco di dolciumi al pistacchio grondanti di miele, un fascinoso ristorante dove gustare uno dei più buoni cous-cous di Parigi e un giardinetto dove sor-seggiare un the alla menta circon-dati dai tanti uccellini impegnati a mangiare le briciole dei dolci lasciate nel piatto. Luoghi molto frequentati dai parigini perché fuori dal tempo e dal caosNel 2012 Le Figaro aveva rivelato in un articolo che lo Stato algeri-no, che finanzia in larga parte la Moschea, aveva iniziato attraverso la sua ambasciata a Parigi la pro-cedura per acquisirne la pro-prietà appellandosi ad una legge francese che permette ad un paese straniero che abbia finanziato un associazione nello Stato francese per 15 anni di pretenderne la proprietà. Intervistato recente-mente il rettore della Moschea di Parigi, Dalil Boubaker, ha negato che la richiesta di acquisizione sia stata formalizzata ma ne ammet-te il progetto che mirerebbe a sviluppare meglio azioni culturali

di siMonetta [email protected]

Fate la cosa giusta! Firmate la petizione (ww.change.org) per salvare la vita ad Alì Al-Nimr, condannato a morte in Arabia Saudita. Se non riusciamo a bloccare questa atrocità Alì sarà prima decapitato e poi crocefisso in pubblico fino alla putrefazione. La sua colpa? Aver partecipato, quando aveva 17 anni, ad una manifestazione contro il governo. Resta poco tempo per provare a salvargli la vita. La Corte Suprema saudita ha confermato la sentenza e, per seguirla, manca solo la ratifica da parte del re Salman. Nelle cronache si legge che Alì è anche

nipote di un eminente religioso sciita, oppositore del regime, arrestato nel luglio 2012 e an-ch’egli condannato a morte.Sottoscrivere questa petizione è il minimo che possiamo fare contro questa crudeltà. In difesa di Alì sono state già raccolte oltre 430mila firme. Serviranno anche a riaprire, risollevare e rimettere all’ordine del giorno la cancellazione della pena di morte. Ovunque.Pena ancora in vigore in 58 pa-esi del mondo. Arabia Saudita, Iraq, Usa, Pakistan: sono i 5 pa-esi dove viene più utilizzata. A si aggiunge il capitolo amaro della Cina. Ma lì non abbiamo dati: la pena è coperta dal segreto di stato. C’è poi il bicchiere mezzo pieno: nel mondo 140 paesi (oltre due terzi) l’hanno già abolita. Basti pensare che solo nel 1977 i

paesi abolizionisti erano appena 16. In poco più di 40 anni ne è stata fatta di strada. Ma non possiamo fermarci. L’esperienza dimostra che la pena di morte non funziona come deterrente contro la criminalità, viola il diritto alla vita ed è irreversibile: un autorevole studio ci dice che solo negli Usa, negli ultimi 30 anni, su 7.482 condanne ben 340 si sono rivelate sbagliate. Un condannato a morte su 5, se avesse avuto i mezzi per difen-dersi, avrebbe potuto evitare la sedia elettrica. Molto meglio e sicuramente più efficace la cer-tezza della pena piuttosto che la sua durezza estrema. Tutte cose ben dette e ben scritte nel lon-tano 1764 da Cesare Beccarla e messe in pratica, 20 anni dopo, proprio in Toscana - primo stato al mondo ad abolirla – il 30 novembre 1786. Ben fatto.

di reMo Fattorini

Segnalidi fumo

L’Islam in Francia

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sola condizione di verità della persona e luogo simbolico della trasparenza del sé a se stesso” - scrive Alain Montandon nella sua “passeggiata” (anche lui!), ricordando come in una simile prospettiva il “marchio necessa-rio del passeggiatore” (il nostro Walser, come ogni altro) sia la “marginalità”. Già allora, nel 2003, mentre

elaboravo una mia ‘filosofia del camminare’ – che poi avrei scoperto per nulla differente da quella di non pochi al-tri – mi rendevo conto che la passeggiata sortiva un effetto straordinario: essa dava forma al pensiero; era un suo valore specifico, oltre che un concetto passibile di sviluppi sterminati, che avrei vieppiù apprezzato

con crescenti consapevolezza e appagamento. Marginalità sociale, pienezza spirituale. La grazia dello scritto di Walser è certamente in grado di aprire nella mente del lettore var-chi insospettatamente fertili, rispetto al normale svolgersi di azioni quotidiane mai seria-mente riflettute; ovvero, dei meravigliosi scenari - alcuni dei quali qui solo accennati. Posso aggiungere, per averlo vissuto, che la lettura de “La passeggia-ta” sia essa stessa una corro-borante passeggiata mentale, divagante e creativa (del resto, leggere e camminare incedono con molte analogie nei rispetti-vi passi), al termine della quale auguro al lettore/camminatore di concludere così: “Tutt’a un tratto mi invase un indicibile sentimento dell’universo, e insieme, strettamente unito, un fiotto di gratitudine, prorom-pente con forza dall’anima lieta”.

Nella Pasqua del 2003 feci il mio incontro con “La passeggiata” di Robert

Walser. Nella nota a lapis dopo la pagina di copertina lasciavo scritto: “divorato”; in corrispon-denza con il mio wandering solitario nei boschi di mezza Toscana, che già sperimenta-vo da qualche anno, accadde subitaneamente che mi identi-ficassi con lo scrittore svizzero, che già nelle prime due pagine fissava con “straordinaria altezza poetica” (l’espressione è coniata da Emilio Castellani, traduttore dell’opera per Adelphi) alcune sensazioni a me note e soprat-tutto care: “per quanto mi riesce di ricordare, appena fui sulla strada soleggiata mi sentii in una disposizione d’animo av-venturosa e romantica, che mi rese felice” (…). Mi riempiva un’attesa gioiosa di tutto ciò che avrebbe potuto venirmi incon-tro o presentarmisi”. L’atteg-giamento che prepara l’uomo a godere di queste sensazioni già da allora si proponeva come una finestra aperta sul mondo, e sulla vita: fatto di attesa, di curiosità, di capacità di stupore; un sentimento impagabile che – a ben pensare - è alla portata di chiunque, come un ossimorico ‘privilegio democratico’; che rischia però di essere silenziato e sopraffatto dagli imperativi del fisico perfetto e dalle diete riparatrici, ove non più lata-mente dalla orrida dittatura della o del ‘wellness’. Ma io avevo - ed ho a tutt’oggi - la presunzione di ritenere che la passeggiata di Walser (come, molto modestamente, la mia) sia tutt’altra cosa. Un po’ come la doveva vedere Michel de Montaigne, uno dei più grandi filosofi nella storia, che dettò questa irrevocabile sentenza: “io passeggio per passeggiare”. Non necessariamente un atto di rivolta (contro l’esigenza on-nivora di finalizzazione pratica e diretta), quanto perlomeno una pausa di libertà, di quella libertà che quasi hegeliana-mente consiste nel seguire una necessità, qui tutta interiore, e - vorrei aggiungere – un bisogno di autenticità: “Questo spazio dell’autenticità è agli antipo-di della società, nella natura,

Io passeggioper passeggiare

di Paolo [email protected]

Il migliore dei Lidi possibili

Il mulino di Wall Street

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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Finestrino notte (su orizzonte piegato)* di Claudio Corfo-ne vince l’ottava edizione del Premio Santa Croce Grafica, a cura di Ilaria Mariotti, direttore artistico del Centro di Attività Espressive di Villa Pacchiani. L’iniziativa è realizzata dal Co-mune di Santa Croce sull’Ar-no, Assessorato alle Politiche ed Istituzioni Culturali. La premiazione ha avuto luogo sabato 9 gennaio e nell’occa-sione si è inaugurata la mostra del Premio, visitabile fino al 31 gennaio. La Commissione che ha designato l’opera vincitrice era formata quest’anno da Stefano Pezzato, conservatore del Cen-tro Pecci di Prato, dall’artista Remo Salvadori, da Alessandro Tosi, Direttore scientifico del Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa, da Ilaria Mariotti, Direttore di Villa Pac-chiani, e presieduta dall’Asses-sore alla Politiche e Istituzioni Culturali del Comune di Santa Croce sull’Arno All’ottava edizione hanno par-tecipato 18 artisti che proven-gono dal territorio nazionale,

o comunque attivi in Italia: Gabriele Arruzzo, Emanuela Ascari, Maura Banfo, Angelo Bellobono, Giovanna Caimmi, Adelaide Cioni, Claudio Corfo-ne, Marta Dell’Angelo, Alberto

Finelli, Cristina Gardumi, Michele Guido, Loredana Lon-go, Franco Menicagli, Rebecca Moccia, Carmelo Nicotra, Giu-liana Storino, Maria Angeles Vila Tortosa, Stefania Zocco.

le storie che i fagioli hanno da raccontare, ne rispetta il lungo cammino e li lascia due ore a familiarizzare con lo zucchero...Il successo è assicurato, chiunque si accorge della migliore qualità dei dorayaki. Qualcuno però si accorge delle lesioni e qualcuno

diffonde la notizia della diagnosi, il chiosco si svuota. Toku se ne va in silenzio. Sentaro e la ragazzina sola la cercheranno e noi con loro scopriremo le storie dei due protagonisti principali,Toku si era ammalata da ragazzina e, come usava, fu accompagnata dal fra-

tello in un “lebbrosario”, dove da allora vive, sposatasi con un altro malato, le fecero abortire il figlio che avevano concepito. La tri-stezza che annegava la luce degli occhi di Sentaro le ha ricordato la sua ed ha desiderato avvicinare la sua solitudine ed aiutarlo, suo figlio avrebbe avuto all’incirca la sua età. Sentaro ha ferito un uomo gravemente mentre era ubriaco e, in quanto carcerato, non ha potuto assistere la madre, morta lontano da lui, lavora pri-gioniero di un debito. Toku lascia i suoi attrezzi da cucina al giovane allievo, libera il canarino che la giovinetta povera le ha affidato in quanto nelle case giapponesi non si possono tenere animali. Il cuoco libera se stesso dal giogo padronale, in un giardino pubbli-co con un proprio carretto grida “Dorayaki!!!!” La regista, Naomi Kawase, ama molto il valore dei ricordi e delle tradizioni, rispetta il potere socializzante e pacifica-tore del buon cibo, ha costretto i due attori a lavorare davvero in un chiosco di dorayaki. La storia è tratta dal libro “An” di Duran Sekagawa.

Una favola di Natale può essere ritenuto “Le ricette della signora Toku”, un film

dall’anima delicata come i petali dei fiori di ciliegio quando, lievi ,volano a terra, un film in cui l’in-contro di tre solitudini e di due profondissime malinconie provo-ca, oltre ad un miracolo culinario, una svolta emozionale terapeutica per il tristissimo e isolato prota-gonista. E’ questa evoluzione che lo definisce favola, la vita non riserva tali fortunate casualità e positive evoluzioni. Sentaro pre-para, in un minuscolo negozio, i dorayaki, dolci tipici giapponesi che contengono un ripieno di “an”, una sorta di composta di fagioli azuchi, studentesse ricche e allegre si fermano per colazione, una, sola e povera, usufruisce di quelli riusciti imperfetti. Una dolcissima signora, che vede la ineffabile ed eterea bellezza dei ciliegi in fiore e sa come essa sia perfetta metafora della caducità della vita, si presenta risponden-do ad un annuncio in vetrina, desidera così tanto lavorare lì che, essendo davvero troppo anziana, si offre di farlo quasi gratis. Per convincere l’interdetto Sentaro gli regala un vasetto di an preparato da lei, come ogni giorno, da 50 anni...Dopo averlo cestinato il cuoco infelice, che si avvale di industriali barattoloni di an, ne assaggia il contenuto, il delizioso sapore sembra conser-vare attenzione e amore profusi nella sua preparazione. Cede e si fa aiutare dalla vecchietta che ha un evidente problema alle mani, “più sgradevole a vedersi che disturbante” dice, le sue dita sono deformate e la pelle deturpata da brutte e grosse escrescenze rossobluastre. E subito uno si rende conto di non sapere più nulla della terrifica lebbra, cui comunque subito pensa riappa-rendogli alla mente le foto delle sue mutilazioni viste nei libri di Patologia, già tanto ricordarsi che chi la causa è un “mycobacte-rium” che provoca granulomi simili a quelli, già complicatissi-mi, della tbc, sarà guaribile ora? Sarà infettiva? Ci saranno ancora i lebbrosari di letteraria memoria? Toku insegna al “principale” il suo lento e attento procedimento di preparazione della an... ascolta

Le ricette della signora Toku

Il finestrino notte di Corfone

di cristina [email protected]

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to della libertà e autonomia di ciascuno. È infatti ormai evidente che il più delle volte la violenza è la reazione maschile a gesti di autonomia compiuti dalle donne, vissuti come perdita della supre-mazia all’interno della relazione di coppia. Con la violenza si intende ripristinare i ruoli e i confini insuperabili per le donne, punire colei che non sta al suo posto, che ha superato il limite delle sue possibilità di azione e decisione. In

fondo, è questa concezione della donna che è all’origine dei recenti fatti di Colonia, dove durante la festa di San Silvestro centinaia di uomini hanno usato violenza fino allo stupro su donne che in tutta libertà vi partecipavano perché questo era il loro costume. Se si capisce che all’origine della violenza sulle donne si nasconde una questione di potere, una con-cezione gerarchica della relazione, si può pensare di fare nuovi patti

fra uomini e donne in un processo di educazione alla parità, che vuol dire: eguale dignità, eguale libertà nelle scelte e eguale autonomia nelle decisioni, anche quella, privatissima, di lasciare il partner senza scatenare reazioni incontrol-labili. Lo si deve però fare insieme. Insieme coltivare la bellezza dell’a-more, quello che non può essere o diventare sopraffazione, dominio, possesso, ma che è unione fra due soggetti liberi.

La violenza di Names

La mostra Names. La violen-za non è sempre visibile di Fiorella Ilario, alla galleria

La Corte Arte Contemporanea dall’8 al 12 gennaio, è un atto di coraggio culturale e sociale. L’artista fotografa ha scelto di rappresentare un tema difficile, che produce sofferenza e dolore, la violenza sulle donne. Ma l’arti-sta fiorentina riesce nell’intento di rendere la drammaticità del fenomeno. Lo fa con la raffina-tezza che la contraddistingue con 10 fotografie, delle quali 9 sono varianti di una figura coperta da un manto rosso, che emerge da uno sfondo oscuro, buio. Corpi legati a un semplice nome o figure anonime. Corpi nascosti, invisi-bili, destinati a vivere nell’ombra. È l’espressione plastica di ciò che la violenza significa nella realtà della vita di coppia o familiare, in una relazione distorta. La donna viene concepita dall’uomo come un oggetto di proprietà, sotto-posta al suo controllo. È lui che deve disporre del suo corpo e dei suoi gesti. La violenza è volontà di umiliazione, di annientamento della persona umana femminile, come se la donna avesse un valore inferiore rispetto all’uomo e quin-di se ne può anche abusare, la si può maltrattare, colpire, annien-tare. Ma la violenza sulle donne - che si tratti di violenza psicologi-ca, di maltrattamenti, di violenza sessuale, economica o della sua forma estrema, il femminicidio - oggi ha una dimensione eticamen-te e socialmente ancora più grave e inaccettabile, se possibile, che nel passato, perché si è accresciuto il loro valore intrinseco. Sono più istruite, hanno talento, vogliono realizzare i loro progetti di vita, aspirano ad affermare libertà, capacità, potere. E la violenza eser-citata su di loro contrasta e stride ancora più fortemente con questo loro rinnovato essere. Si è allargata la discrepanza fra ciò che le donne sono e vogliono essere e ciò che gli uomini vorrebbero che fossero. Inoltre, sul piano giuridico, si è ormai affermato il principio che la violenza contro le donne costi-tuisca una violazione dei diritti umani fondamentali. Un’acqui-sizione che deve diventare la base per costruire una nuova etica della relazione fra i sessi, fondata sul rispetto reciproco, sul rispet-

di Vittoria Franco

Il lavoro fotografico di Fiorella Ilario presentato venerdì 8 gennaio negli spazi de La Corte Arte Con-temporanea è il risultato di una ricerca artistica costante e attenta sul delicato ruolo della donna all’interno di una società troppo spesso drammaticamente propensa a una violenza ingiustificata.Realizzato per la Giornata Inter-nazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, NAMES - Violence is not always visible, è l’espressione, attraverso la ripeti-zione dell’immagine ricorrente di una donna completamente velata, di quanto la figura femminile possa essere ancora oggi occultata e le violenze subite taciute.I corpi delle donne ritratte nelle dieci immagini fotografiche presen-tate a La Corte emergono dall’om-bra in maniera silenziosa, ma con una potenza dirompente, obbli-gando chi guarda ad interrogarsi sull’identità dei soggetti raffigurati, così celati e nascosti, sui loro vissuti e sulle loro esperienze.Capiamo che si tratta di donne da un piccolo dettaglio, appena visibile – una scarpa che emerge

dal velo e dall’ombra – ciò fa sì che nella nostra testa riecheggino necessariamente alcune domande: chi sono queste donne? Da dove vengono? Cosa provano? Perché sono coperte?In realtà, a ben guardare, la figura è sempre la stessa, ripetuta ma leggermente variata, come se si trattasse di una variazione sul tema. I titoli stessi che accompagnano le opere (Untitle one, Untitle two e così via) sottolineano la sua ripetizione, una donna senza volto e senza identità, una tra tante, come purtroppo diviene colei che è colpita dalla violenza, svuotata del suo io per essere identificata solo come una vittima, senza riflettere realmente sull’emotività di chi queste drammatiche esperienze le abbia vissute o le stia vivendo. Ad aumentare il mistero che cir-conda questa figura è l’indicazione di un nome femminile (da qui il titolo del progetto) che emerge con brillanti caratteri rossi dall’oscurità da cui è avvolta la donna e il suo velo, lettere scarlatte che come un sottile fil rouge legano tutte le immagini. Personalmente ho tro-vato questo dettaglio molto sottile, come se fosse un rimando indiretto all’idea che spesso accompagna

purtroppo le donne vittime di vio-lenza: l’imputazione di una colpa di cui questa donna si è macchiata per i più e che indirettamente si estende come una macchia d’olio su tutte, un marchio che la e le segna in maniera indelebile.Quelle di Fiorella Ilario sono foto-grafie dalla raffinata esecuzione che hanno sull’osservatore un impatto molto forte, imprimendosi indele-bilmente nella sua mente. Le sue immagini rievocano alla memoria, in un dialogo per certi versi antitetico, quelle dell’artista iraniana Shirin Neshat, per la scelta delle modalità con cui sono esplicitati temi analoghi. Entrambe istaurano infatti un dialogo figura-tivo altamente poetico, capace di scuotere lo spettatore con immagi-ni e muti racconti: divengono così l’espressione concreta, attraverso le immagini, di problematiche spesso drammatiche.Violenza che si declina quindi in più forme, da quella “urlata” fatta di pura violenza fisica, a quella “silenziosa”, forse ancora più subdola, fatta invece di violen-za psicologica e soprusi, ormai incorporate nella nostra società, divenuti luoghi comuni a cui non si presta attenzione. Emblematico quindi il messaggio contenuto nel sottotitolo: Violence is not always visible - La violenza non è sempre visibile.Alla serata di presentazione di Names hanno partecipato con una serie di interessanti interventi Wanna Del Buono (avvocatessa e tra le fondatrici della Associazione Artemisia), Vittoria Franco (ex Senatrice già Responsabile alle Pari Opportunità) ed Elena Pulcini (Filosofa), contribuendo con le loro considerazioni ad arricchire l’incontro con alcuni necessari spunti di riflessione su un tema così delicato come quello della violenza sulle donne.

di carolina orlandini

opinioni a confronto

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Ma allora, dove esattamente doveva sbucare il tunnel che parte da via Montelatici? Non è difficile immaginarselo mettendosi nei panni del progettista. Ovviamente, il tunnel avrebbe dovuto essere il più breve possibile, per poi sbucare nelle vicinanze di piazza delle Cure, se possibile in un luogo dove non ci fosse bisogno di grandi opere per oltrepassare il Mugnone e la Ferrovia Faentina.Stabilito questo, è abbastanza facile immaginarsi quale fosse lo sbocco previsto del tunnel: è l’attuale via Piero Jaher, nei pressi della stazione di San Marco Vecchio, dalla quale si può arrivare in Piazza delle Cure passando sotto un sottopassaggio esistente

sotto la Ferrovia Faentina e poi passando dal ponte esistente sopra il Mugnone. Sarebbe stata una connessione perfetta! Oggi, via Ja-her è una strada senza sbocco che finisce letteralmente nei campi, in una zona dove ci sono degli orti comunali. E’ probabile però che fosse stata progettata conl’idea di connettere direttamente Le Cure con Careggi, andando più o meno in parallelo con la vecchia via dei Bruni, che però è troppo stretta per essere utile. Per cui, avrebbe avuto senso fare un tunnel che partisse da qualche parte oltre la collina di Montughi; via Monte-latici, appunto, sboccando poi in via Jaher. E’ probabile che chi l’ha progettata

pensasse esattamente a un tunnel, oppure a farla sboccare diretta-mente sulla via Bolognese.Cosa è successo allora che ha impedito di completare il tun-nel? Non lo possiamo dire con esattezza. Sul Web si trova che ci sarebbero state delle infltrazioni d’acqua che hanno impedito la continuazione dei lavori. Ma è forse più probabile che il tunnel sia stato reso impossibile dalla crisi economica degli anni 1930, con le sanzioni che seguirono la campagna di Etiopia e la generale militarizzazione dell’economia italiana che ne seguì. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci si sarebbe potuto ripensare ma, evidentemente, si ritenne più semplice e meno costoso allargare il sovrapassaggio di Piazza delle Cure, costruito nel 1914, che era inizialmente molto stretto e pensa-to principalmente per il passaggio del tram. Da allora, il sistema stradale nella zona delle Cure ha preso l’aspetto che vediamo ancora oggi.Si potrebbe riparlare oggi di un tunnel sotto la collina di Montu-ghi? Forse si, certamente sarebbe utile per evitare gli ingorghi quotidiani che affliggono Piazza delle Cure. Lo sbocco esiste ancora e nessun ostacolo impedirebbe di “sfondare” continuando l’attua-le via Jaher sotto la collina. Ma è anche vero che i tempi delle “grandi opere” sono passati; forse per sempre. E poi, il tunnel di via Montelatici poteva essere suffi-ciente per il traffico degli anni ‘30, ma sarebbe probabilmente troppo stretto per quello di oggi. Quindi, probabilmente il tunnel è desti-nato a rimanere incompiuto alle pendici della collina di Montughi. Si dice che sia servito come rifugio antiaereo per gli abitanti della zona durante la guerra; speriamo che non debba servire per questo scopo di nuovo!Comunque, se avete tempo per dedicarvi alla ricerca di Geoca-ching (https://goo.gl/RWcUAW) dell’ “uscita del tunnel”, provateci. Non è veramente l’uscita di nessun tunnel, ma è comunque una ricerca affascinante che vi porterà a scoprire tanti dettagli della zona delle Cure, a Firenze.

In Via Montelatici, nei pressi di Piazza Leopoldo, a Firenze, c’è una misteriosa struttura

dall’aspetto piuttosto malandato. Cercando sul Web, si trova che è l’ingresso di un tunnel cominciato negli anni 1930 e mai terminato. A parte questo, si sa poco di certo. Nel 2011, l’allora presidente del Consiglio Comunale di Firenze, Eugenio Giani, propose di com-pletare gli scavi, facendo sboccare il tunnel da qualche parte a Careg-gi. Ma questo non sarebbe stato molto utile dato che da Piazza Leopoldo si arriva facilmente a Ca-reggi con la viabilità esistente. E’ poco probabile che questa sia stata l’idea iniziale di quando il podestà di Firenze degli anni ‘30 aveva fatto cominciare i lavori. Si dice invece in un artico-lo recente (www.firenzefuori.it/2015/09/23/tunnel/) che l’uscita del tunnel era prevista dalla parte opposta, ovvero nella zona delle Cure. Questa sarebbe stata una cosa molto più sensata che avrebbe permesso di oltrepassare il “taglio” della ferrovia che ancora oggi separa la zona residenziale delle Cure dal centro di Firenze. Si dice addirittura che esiste ancora l’uscita opposta in quella zona e che è visibile dalla strada. In effetti, la ricerca di questa uscita è uno degli obbiettivi del gioco on line chiamato “geocaching”. https://goo.gl/RWcUAW. Non è niente facile a trovarsi, ma c’è effettiva-mente in quella zona una struttura che somiglia vagamente a quella di via Montelatici. Per non dare uno spoiler a quelli che si divertono con le ricerche di geocaching, non vi dico esatta-mente dove si trova, ma vi posso dire con buona certezza che quella NON è l’uscita del tunnel che parte da via Montelatici e non lo è mai stata. Che cosa sia questa struttura, non saprei dire, forse una rimessa, forse un deposito, forse un rifugio antiaereo che risale al tempo della guerra (secondo alcuni messaggi su Geocaching, non c’era prima del 1944). Infatti, a parte che non ha le dimensioni giuste, la distanza dall’altro in-gresso è tale che il tunnel avrebbe avuto bisogno di lavori di scavo veramente colossali, in particolare per passare sotto il Mugnone, per riemergere poi dalla collina opposta.

di uGo bardi

Il tunnel misterioso

Sopra l’ingresso del Tunnel in Via Mon-telatici, nei pressi di Piazza Leopoldo, così come appare oggi. A fianco la struttura che viene detta essere “l’altra uscita” del tunnel (ma non lo è!). Sotto quello che sarebbe dovuto essere proba-bilmente il percorso del tunnel, quando fu concepito negli anni 1930. Partendo da via Montelatici, doveva sboccare nell’attuale via Piero Jaher, dalla quale ci si sarebbe poi potuti connettere alla via Faentina, bypassando l’attuale sovrapassaggio di Piazza delle Cure.

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riflessi del mare, giù in fondo, tra il blu intenso e le schiume chiare.Si, penso, adesso ci sono dentro totalmente; ma forse è trop-po per i miei sensi, il totale di questa somma fa molto più di quello che sono in grado di assorbire, di trattenere. Accanto alla soddisfazione per la pienezza di ciò che sto vivendo avverto il velo irrazionale di rammarico per quel di più che non sono in grado di assimilare, e per quell’infinito che non sono in grado di percepire.Mi riporta a terra un rumore di sassi che rotolano; mi volto e vedo per un attimo tre giovani mufloni che si allontanano; sto giungendo a Malpasso e qui prendo la decisione di lasciare il sentiero principale e salire alla vetta attraverso il percorso at-trezzato con corde fisse che segue cresta. Non corro più, cammino, spicco qualche salto ed arrampi-co con mani e piedi; il panorama con il cielo ed il mare in tutte le direzioni toglie il fiato.

di GioVanni [email protected]

Corro, sono solo, sto spingendo forte, non so realmente perché, ma sto

andando al massimo. Come mi succede spesso quando la fatica è vicina ai limiti, quando sento pulsare le vene e avverto il sapore del sangue in gola, ho la sensa-zione che i sensi e i pensieri di-ventino più sottili; forse lo faccio proprio per questo, per arrivare qua dove mente e percezioni si fanno spazio da soli.Sto percorrendo il tratto finale della GTE, la grande Traversata Elbana, il sentiero che, al di fuori e al di sopra di tutti i centri abitati e dominando le coste frastagliate, costituisce la spina dorsale dell’Isola e il filo condut-tore per chi vuole godere della sua natura più autentica.Sono partito ormai da più di un’ora e sto salendo dritto verso la sella di Malpasso dominata dal Monte Capanne, l’ammasso quasi disordinato di graniti grigi vetta dell’isola e di tutto l’Arci-pelago.Avanzo a tratti correndo a tratti camminando ad ampi passi e spingendo con le mani sulle ginocchia per dividere lo sforzo tra gli arti. Con la testa bassa mi viene da osservare la forma ed i colori dei massi con le incro-stazioni di muschi e di licheni; sulla sommità di alcuni di questi proprio in mezzo al sentiero vedo le fatte della martora e dalla volpe; ho quasi la sensazioni di intrufolarmi in un mondo che non mi appartiene.Sono immerso in odori forti, freschi e pungenti allo stesso tempo; ho in bocca il sapore quasi amaro del rosmarino selvatico che sto succhiando per combattere la sete; avverto sulla pelle sudata il fresco dell’aria sec-ca e, appena accennato, il calore del sole invernale; tra le dita ho il ruvido dei granelli di sabbia che rimangono attaccati quando, per aiutarmi nella spinta, poggio a terra le mani; sento, o mi pare di sentire, lontano, il rumore delle onde sulle scogliere ripide e, più vicino, il vento tra le foglie degli arbusti e richiami di uccelli; gli occhi sono frastornati dai verdi dalla macchia e dei boschi, dai grigi dei graniti, dagli azzurri e dai blu che si insinuano nell’am-masso di nuvoloni scuri e dai

bobo

Sulla Grande Traversata Elbana (prima parte)

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Firenze cambia. Come e perché si comprende in relazione all’a-rea metropolitana di cui fanno

parte i comuni della cintura e in parte Prato. Il baricentro demogra-fico di questa conurbazione non sta più nel vecchio e glorioso quadrila-tero romano, ma a Novoli, vicino alla più prosaica area Mercafir, dove si prevede la costruzione del nuovo stadio e del centro commerciale da 50mila metri quadri di superficie di vendita. Novoli, il quartiere indu-striale del 1924, potrebbe divenire il centro della Firenze metropolitana. Un processo non pianificato che avviene con lentezza data l’inerzia dei fenomeni territoriali. Cresci e rischi di esplodere. Così l’espan-sione urbana degli anni ‘60 pose il problema del decentramento. Il piano del ‘62 voleva organizzarlo, ma le attività sono uscite dal centro in ordine sparso. La zona privilegiata è stata l’area nord-ovest: l’Osman-noro e Novoli. Alla fine degli anni ‘60, nelle aree ex-Montecatini e Esso sul retro della stazione di Rifredi, viene realizzata Firenze Nova, per re-sidenze, uffici e sedi di banche. Nel ‘74 la Regione stabilisce gli uffici della Giunta in via di Novoli in due anonimi edifici a torre. Negli anni ‘90 inizia il recupero dell’ex-area in-dustriale Fiat. Si realizzano l’Univer-sità, il Centro commerciale e infine il Palazzo di giustizia, megastruttura ricciana tripudio parossistico di forme e materiali, a fianco del quale, nell’area ex-Carapelli, si collocano per contrappasso i calvinisti uffici della Cassa di Risparmio. Si tratta di operazioni di recupero di aree industriali dismesse, che hanno migliorato il quartiere elevandone i valori immobiliari, con interventi individuali ciascuno tendente ad or-ganizzare un proprio spazio interno inclusivo e autonomo dal resto. Ma i vecchi sono duri a morire. Il vecchio centro, la città storica, non ha più il ruolo direzionale d’una volta, anche perché molti centri decisionali sono in altre città – vedi Banca Toscana, Cassa di Risparmio e Fondiaria. Vi rimangono però le sedi politiche di Regione, Città metropolitana e Comune, parte dell’Università, e la concentrazione della rete commer-ciale minuta, degli esercizi pubblici, delle strutture finanziarie e ovvia-mente ricettive. Diviene distretto turistico e del divertimento, quindi luogo di lavoro e di attrazione dato che quello che attrae il turista, oltre

Firenze: la metropoli bipolare

di Ferdinando seMboloni

monumenti e musei, e cioè shop-ping, locali e cibo, attrae pure la po-polazione locale. La sua risorsa, oltre ai monumenti e al prestigioso spazio urbano, è la Stazione ferroviaria di SMN che al contrario della ZTL ne mantiene la centralità. Il colpo deci-sivo? La nuova Stazione AV, dell’Alta Velocità. Quale che sia la conclusio-ne del tormentato processo: Belfiore secondo il progetto Foster, o Statuto secondo i No-Tav, sarà la svolta nel processo di decentramento dato che la stazione di testa è destinata ad un ruolo secondario e così il vecchio centro. Soprattutto se, come il buon senso vorrebbe, la Stazione Circon-daria che avrebbe dovuto connettere direttamente la Stazione AV di Foster col traffico regionale, verrà

ripristinata. Nel caso del progetto No-Tav il problema non si pone neppure dato che la Stazione AV sarebbe immediatamente connessa al traffico regionale escludendo quella di SMN. Si configura una città bipolare. In fondo era l’idea del piano del 1962. Qualcosa di simile a quello che è successo a Venezia-Me-stre. Due centri complementari che potrebbero convivere e collaborare: come una famiglia con madre e padre. Il vecchio centro materno e accogliente che rappresenta l’identità della città il cui rischio maggiore, più del turismo di massa, è quello di divenire estraneo alla vita quotidiana dei fiorentini metropolitani, movida a parte, e un nuovo centro metro-politano in formazione costruito

come una serie di spot raggiungibili col mezzo privato dove manca un progetto unitario di spazio urbano. La causa? Timore di comunicare e di condividere lo spazio, come nel caso dei due edifici della Regione, rintanati in una enclave a 100 metri dalla strada, e protetti (da chi?) dalla cancellata quando invece avrebbero potuto essere il fulcro di una piazza pubblica. Ci aveva provato Krier a dare a Novoli la forma urbana di un’area centrale. L’operazione è riuscita solo in parte intorno a nucleo universitario con l’architet-tura monumentale di Natalini, ma ostacolata da interventi introversi e inclusivi come il Centro commer-ciale e il Palazzo di giustizia. E c’è da supporre che lo stesso avverrà col nuovo stadio e con le nuove operazioni immobiliari che saranno innescate dalla linea 2 della tranvia. La tranvia è destinata a modificare l’area, ma rischia di rimanere un fatto puramente meccanico, traspor-tistico, se non si accoglie l’idea di realizzare spazi urbani condivisi fatti di strade, piazze, monumenti e iso-lati come nel vecchio centro invece dei tanti piccoli Fort Apache.

Scavezzacollodi MassiMo [email protected]

le aVVenture di nardelik

La gara per vendere l’edificio era stata bandita da tempo dalla società pubblica che ne deteneva la proprietà dalla sua costruzione nella metà del XIX secolo. Nessuno aveva sollevato polemiche e neppure la Soprintenden-za, che pure la doveva tutelare, aveva obiettato. Aveva solamente chiesto che fosse adibita a attività compatibili. Tutto era tranquillo fino a quando non sorse un dubbio. Ma si poteva vendere tranquillamente il tempio della rivoluzione(renziana)? E se fosse finito in mano agli infedeli? E se il Le-ader Minimum si fosse offeso e avesse scagliato i suoi strali contro il Servitor Cortese negandogli per l’eternità la partecipazione a Porta a Porta? Ci voleva Nardellik. E il nostro Supereroe mascherato prese in mano la situazio-ne. Basta con queste gare pubbliche. La ex stazione Leopolda deve essere comprata dal Comune di Firenze. Poi si vedrà che farne. Con calma. L’importante è impedire l’atto sacri-lego. Se Pitti Immagine si comporta bene (renzianamente bene si intende) allora potrà anche utilizzarla (visto che naturalmente non ha nessuna voglia di comprarla). Ma non sempre. In autunno alcuni giorni saranno per sempre riservati alla commemorazione dei fatal giorni. I Leopolda’s days

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Giusto punire libertà d’amore,sbraitavamo ai tempi della nonna,senza prole, negato era l’ardore.

Lecito era fra greci e fra romaniscambiarsi i ruoli d’uno stesso attore,que’ sentimenti eran pensati sani.

Ma vinse la novella religione,e comandò la legge de’ cristianiguai era dir ch’era sanza ragione.

Quando verrà il tempo di giustiziae anche qui si muterà visione?Provai dolore, non per amicizia,

oltraggio era veder uom d’intellettoche innocente usava con deliziacoricarsi con chi volea nel letto.

Molti del clero faceano l’istesso,finta facea la chiesa a non vederei suoi gioire con lo medesmo sesso.

Canto XIVVII cerchio 3° girone  Violenti contro natura, sodomiti, anch’essi colpiti da una pioggia incandescente, la punizione pare essere più leggera delle altre perché il peccato non è da Dante considerato così grave. Qui incontra Brunetto Latini, noto omosessuale e maestro di Dante. I due si abbracciano circondati da gay.

Pur verrà un giorno che a benvolereil mio Brunetto superi le leggie scavalcando le ostiche barriere

possa tornar fra le beate greggi.Arriverà al soglio un gran pastorea giudicar con natural conteggi

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Una delle sezioni piú affasci-nanti dell’enciclopedico Me-tropolitan Museum of Art,

adagiato sul lato ovest di Central Park nell’elegante Upper West Side di New York, è sicuramente quella che contiene le testimo-nianze delle culture dell’Africa, Oceania e Americhe (AAOA De-partment, assecondando il gusto newyorchese per gli acronimi). All’interno di questo dipartimen-to, uno dei dicassette del Museo, si può attualmente ammirare una piccola ma deliziosa mostra de-dicata ai “modelli architettonici” dell’America precolombiana. In realtà, come sottolineano gli stessi curatori della mostra, la defini-zione di “modelli architettonici” è piuttosto approssimativa rispetto al materiale esposto, che non è in-teso come una galleria di modelli intesi come fedele riproduzione di edifici esistenti, bensi’ come una rappresentazione, reale e simbo-lica allo stesso tempo, di alcuni aspetti della vita di queste antiche culture all’interno di specifici ambienti architettonici.La provenienza dei reperti, per lo piú da musei del Perù e degli Stati Uniti, illustra un aspetto interes-santissimo delle credenze religiose e dei rituali funerari in alcune civiltà del Messico e del Perù pri-ma e dopo l’arrivo degli Spagnoli. Si possono così ammirare qui riunite opere del mondo azteco o delle culture Chimu, Moche e Nazca della costa dell’Oceano Pacifico, tutte caratterizzate dalla rappresentazione di antichi edifici con scene di vita quotidiana che si svolge tra queste mura. Sicura-mente non possiamo non rima-nere colpiti dalla rappresentazione del “gioco della palla”, praticato dai popoli del Messico fin dai tempi piú remoti, come attestano i rinvenimenti di palle di gomma piena di varie forie fogge e dimen-sioni. Non si conosce precisamen-te come funzionasse il “juego de la pelota”, che non aveva nulla a che fare con gli attuali giochi del calcio o del rugby, ma si presume che i giocatori dovessero tenere in gioco una palla molto pesante spingendola con le anche. Il gioco doveva avere una valenza rituale, probabilmente anche connessa a sacrifici alle divinità, e sembra che la squadra vincente avesse il diritto di appropriarsi dei beni

Design for Eternitydi sebastiano [email protected]

indossati dalla squadra perdente e dal suo pubblico. Nel modellino in mostra New York è rappresen-tato un campo da gioco con le due squadre che si affrontano e gli spettatori seduti sulle gradinate: la vivacità dei particolari è incredi-bile, con la caratterizzazione dei singoli partecipanti all’azione, tra cui spettatori che commentano tra sè o un personaggio che sem-bra incitare una delle squadre con l’ausilio di una grande conchiglia per produrre suoni particolari, una sorta di antenato della mo-derna vuvuzela da stadio!Un altro vivacissimo esempio di

questa arte precolom-biana è la rappre-sentazione di un grande banchetto, non sappiamo se funerario o meno, della cultura Nayarit (Messico occi-dentale); in un edificio a due piani si vedono numerose persone banchettare e animali tutt’intorno che sicu-ramente approfittano degli avanzi; al piano di sotto le mummie degli antenati sono anch’esse parte del banchetto.Il motivo delle

mummie degli antenati trova la sua migliore rappresentazione nel grande modellino ligneo con parti di tessuto e intarsi di conchiglia di cultura Chimu (da Chan Chan, Perú nord-occidentale); vi è rappresentata la mummia di un antenato all’interno del suo palazzo, raffigurato con le reali caratteristiche di alcuni edifici scavati dagli archeolgi a Chan Chan. Il personaggio principale è accompagnato da altre due figure mummificate, le mogli, differen-ziate per il dettaglio delle orecchie di foggia diversa, a dimostrare

che una delle mogli era straniera. Si assiste qui a una vivace scena di banchetto all’interno della corte reale, ricordandoci come nelle culture andine, tra cui anche quella dell’impero Inca, gli antenati continuassero la loro vita tra i vivi, addirittura continuando ad avere delle proprietà. Le offerte per le mummie degli antenati sono un rituale antichissimo, attestato anche in altre culture antiche, che qui trova una sua vivacissima rappresentazione, tra suonatori, saltimbanchi, servitori di chicha (la bevanda fermenta-ta a base di mais che ancora si consuma in Perù) e, in una sorta di sottilissima “semiotica del mo-dellino”, la stessa rappresentazione di un modellino architettonico all’interno del modellino.La piccola ma ricca mostra del Met ci offre dunque una pro-spettiva privilegiata all’interno delle civiltà messicana e andina, come finora avevamo avuto solo per le antichità egiziane grazie ai modellini rinvenuti nelle tombe faraoniche, con la possibilità di rivolgere uno sguardo curioso e interessato su alcune scene di vita quotidiana e di rituali, funerari e non, che si svolgevano in questo affascinante mondo perduto.

Non so se posso intromettermi senza titolo alcuno nella drammatica questione della “Cosa” prodotta dalla premiata Fabbrica di chincaglieria ciclopizzata “Koons”, esibita sull’a-rengario. Intanto sarebbe necessario spiegare con un cartello multilingue per Il turista consumista di massa, che non si tratta di uno scarto di fonderia di Donatello, né di un’idea di Just Cavalli, anche se ne ricorda il profilo culturale.Quando il sig. Koons riterrà che il suo scopo pubblicitario sarà raggiunto gra-tuitamente, potrebbe, Dio ci scampi , essere perfino tentato di disfarsene, lasciando ai “beneficiati” i costi dello smaltimento.Poi, in quell’ottimo spazio pubblicita-rio, potrebbero essere collocatiin sequenza: un nuovo modello di Ferrari, un Rolex dorato gigantesco, in grado di umiliare con la sua ora esatta quello vetusto sulla torre sovrastante, o una Venere grassa e rosa su conchiglia di Botero, versione ironica di quella allampanata di Botticelli.

Propongo un prezzo altissimo per l’uso di un suolo pubblico così privile-giato, tanto quelli non badano a spese, mentre il Comune hasempre bisogno di soldi, a causa della dura Legge di Mercato.Il valore dell’opera è un derivato della sua “popolarità”, e il conseguente dell’incasso,e Koons si giova di quello che la Gio-conda, poveretta, subisce.Sul giudizio concordo pienamente con quello espresso da PhilippeDaverio, anche se mi pare troppo sottile e raffinato per Firenze.In effetti penso che qualsiasi offesa questo colossale Bed & Breakfastche soffoca l’Arte di cui si nutre da parassita, la meriti.

Era mia ferma intenzione prendere le competenze di certe presunte autorità culturali, private, nominate o istituzio-nali, per il culo, ma non vorrei essere frainteso.Post ScriptumModerato è una parola comoda ma da usare con moderazione.Serve a indurre a considerare Estremista tutte le altre opinioni.Un sinonimo di Moderato è Contenuto, che può signi-ficare anche Trattenuto, Autolimitato, Autocensurato. E’ una parola abusata dai democristiani, e Moderati vengono definiti i Paese Arabi del Golfo. Mode-rato(3) su posizioni politiche conserva-trici o prudentemente riformiste. Se fra Molotov e moderato non c’è nulla allora tutto si spiega. Fra i contrari di Modera-to, musicalmente c’è vivace, andante con brio, allegro. Fra i contrari di Estre-mista trovasi : Ossequioso, Sottomesso, Accomodante, Paraculo. Al tuo posto non userei mai la parola Moderato, ma non è un consiglio, telo dice un isolato inutilmente Dignitoso.

di roberto innocenti [email protected] La chincaglieria

ciclopizzata Koons

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La Nazione si è inventato per fare scegliere ai cittadini quale facciata vogliono per il recupero dell’ex hotel Majestic in piazza dell’Unità d’Italia a Firenze? E che dire del committente, tal Salvatore Leggiero, che invita alcuni dei migliori professio-nisti della città e poi, invece di scegliere autonomamente, o sottoporre i progetti ad

una valutazione di un gruppo definito di esperti, o anche non esperti ma persone identificate e capaci di assumersi quindi delle responsabilità, sottopone i progetti ad una votazione on line, come se si trattase di sce-gliere un candidato consigliere comunale dei 5 stelle? Con tutti i rischi che l’ on line comporta come il fatto di poter votare più

volte. Viva la democrazia diretta che è fuga dalle responsabilità. E in tema di fuga dalle respon-sabilità si stanno evidentemente facendo passi da gigante anche nel campo della trasformazione urbana. Una volta si diceva che il progettista, quando progetta-va un edificio, aveva una doppia committenza. Quella privata che gli aveva commissionato il progetto e quella “pubblica” costituita da tutti coloro che quell’edificio avrebbero visto, visitato, vissuto. Ora queste due committenze sono riunite in una sola, ipotetica, non conosci-bile, ma molto ampia.Quando l’hotel Majestic fu inaugurato nel 1973, su progetto di Lando Bartoli con Giovanni Sanità e Gianni Ormaghi, ci furono grandi pole-miche. La facciata era “aliena” rispetto al contesto costituito dalle facciate ottocentesche dei palazzi contermini. Ora invece dopo la votazione on line di cosa si discuterà? Forse è per questo che la committenza si è rifugiata nella rete. Meglio dare ad altri la responsabilità delle proprie azioni. E magari sperare di avere meno grane durante la costruzione.Non credo che sia un bene per l’architettura.

C’erano una volta i com-mittenti. Persone che con-tavano molto nel definire

il progetto. Spesso molto più dell’architetto. Certo ci volle un committente illuminato per consentire al F.L.Wright di cimentarsi nella Casa della Ca-scata. E altrettanto per consen-tire, sempre allo stesso Wright, di realizzare il Guggenheim Museum di New York. Ma anche la commitenza pubblica , anche in tempi più recenti, ha dato ottima dimostrazione di lungimiranza e di autonomia dalle mode e dal sentimento comune prevalente in quel momento. Che dire della scelta che la commissione presieduta da Jean Prouvè fece, contro ogni pronostico, nel 1971 per la scelta dell’edificio per attività culturali, oggi comunemente chiamato Centre Pompidou, nel centro di Parigi? Committenti capaci di tenere dritta la barra delle loro aspirazioni e delle loro convinzioni. E architetti in gra-do di cogliere il senso di libertà espressiva che queste condizioni consentivano. E allora cosa dire dell’idea di un X-Factor per l’architettura che il Quotidia-no Nazionale con la testata de

di John staMMer X-Factor per facciateurbane

L’ironia di Paolo della Bella

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L

L’anziana signora mi ha fatto la stessa tenerezza che mi aveva fatto la piccola cinesina del numero scorso. Anche qui siamo nei pressi del Central Park e questa povera donna, sicuramente di origine italiana, sta cercando un po’ di refrigerio nel solito clima caldo e appiccico-so delle giornate d’agosto nella Grande Mela. Sta chiaramente gustando una granita al limone ma tiene comunque sulle sue ginocchia

un maglioncino bianco assolutamente improponibile in una giornata infuocata come questa.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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