Cultura Commestibile 108

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N° 10 8 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia #verypirla

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N° 108

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

#verypirla

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Da nonsaltare

stante i cambiamenti sociali e tecnologici, in Inghilterra vi è ancora una forte domanda per un servizio bibliotecario moder-no, in luoghi aperti, accessibili, confortevoli, multifunzionali, gratuiti: un terzo della popo-lazione ha visitato la propria biblioteca di quartiere e nelle aree più marginali la percentuale sale al 50%. Ora, non sappiamo il grado di attendibilità di questo dato, né a quali parametri si rife-risca; ma, per fare un confronto di ordine di grandezza, la rile-vazione che il sistema informa-tivo della cultura della Regione Toscana registra un indice di impatto delle biblioteche pub-bliche, cioè la percentuale degli iscritti al prestito attivi sul totale della popolazione, che nel 2013 arriva all’8,8%. Questo ci indica quanto importante e capillare sia il sistema bibliotecario ingle-se. Dunque, il punto diventa non quello di difendersi dallo sviluppo della società digitale, bensì quello di andarle incontro, diventare dei nodi di una rete

sociale, dei centri di riferimento della comunità in cui i cittadini possano trovare servizi moderni (non solo quelli di prestito libra-rio), fondamentali per la loro vita quotidiana (dalla formazione alla ricerca di lavoro), in un ambien-te amichevole e accessibile. Per questo alcune delle raccoman-dazioni operative per il Governo riguardano il sostegno ai governi locali per dotare di WiFi veloce ogni biblioteca, la formazione degli operatori bibliotecari per renderli in grado di assistere i vi-sitatori nell’utilizzo e nell’accesso ai servizi online, il collegamento delle biblioteche con il sistema scolastico perché entrambi pos-sano contribuire alla formazione degli studenti. Le tecnologie digitali diventano dunque l’asse attorno al quale si discute di un rafforzamento del ruolo delle biblioteche di pubblica lettura. Così viene affrontato direttamen-te il problema di come costituire una biblioteca di ebook da poter prestare agli utenti, chiedendo al Governo di garantire tale possibi-

lità alle biblioteche nella riforma della legge sul copyright.Ma la discussione verte anche sulla sostenibilità economica. Qui il rapporto si riferisce a diverse buone pratiche in corso nei territori e alla indicazione metodologica che ogni realtà locale trovi la forma gestionale più adatta alla missione che alla biblioteca si vuole affidare, nell’ottica di rendere più efficien-te la gestione dei magri budget locali. In tutto il rapporto appare centrale il ruolo delle ammini-strazioni locali, tanto che esso si conclude con una serie di casi di studio che evidenziano varie soluzioni praticate al problema della gestione. La città di York che ha costituito una “public service mutual organisation” cioè una sorta di struttura mista (1/3 di dipendenti pubblici e 2/3 di cittadini della comunità) che oltre a tenere aperta la biblioteca offre il servizio di ambulatorio in collaborazione con i medici di base o il servizio di assisten-za all’accesso ai servizi online della pubblica amministrazione. Oppure il Suffolk dove le 44 biblioteche (oltre al servizio bibliotecario mobile, scolastico e carcerario) sono gestite da un’organizzazione indipendente che è una società industriale e di previdenza con uno statuto non profit. Nel Northamptonshire il servizio è gestito da Enterpri-se Hubs, una società di scopo costituita dalla biblioteca e dalla Northamptonshire Enterprise Partnership, che è l’incubatore d’impresa della regione. Su un articolo del Guardian del 2 aprile 2013 si riporta un’altra serie di casi (Wigan Council, il distretto di Kirklees, quello di Lewisham o il Greenwich Council) in cui esperienze positive di gestione dei servizi bibliotecari sono portate avanti da imprese sociali che, non limitandosi a offrire il prestito librario e l’accesso ai computer, riescono a fornire un più ampio spettro di servizi, rispondendo così alle richieste della comunità e trovando un certo equilibrio economico di gestione. Una via intermedia fra le gestione attraverso il puro volontariato (troppo instabile, poco professionale ed efficien-te, non in grado di rispondere alle diversificate esigenze della comunità, soprattutto in quelle

È in corso in Inghilterra un dibattito sul futuro delle biblioteche di pubblica let-

tura che coinvolge anche grandi quotidiani (come il Guardian), il governo e la BBC. Come se di questo tema in Italia si occu-passero insieme la Repubblica, il Ministero dei Beni Culturali e la RAI: da non credersi! Eppure è così. Tanto che il Governo ha commissionato una inchiesta indipendente per comprendere le condizioni delle biblioteche pubbliche locali dopo quattro anni di politiche di austerità e ricevere dei suggerimenti su come far funzionare meglio il sistema. Esso si trova oggi ad un bivio: i tagli ai bilanci degli enti locali possono portare alla chiusura o al ridimensionamento di un’esperienza che gestiscono da 150 anni, oppure costituire l’occasione per ripensarne ruolo e modalità di funzionamento, espandendone le funzioni e adeguandole allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche nell’accesso ai servizi pubblici. Ma, rileva l’indagine, troppo pochi decisori politici a qualsiasi livello hanno consapevolezza di quale apporto le biblioteche pub-bliche possono dare alle comu-nità moderne. Per questo - dopo sette mesi di incontri, sopralluo-ghi di buone pratiche, valutazio-ne di dati e relazioni giunte dai territori – il rapporto giunge ad avanzare tre raccomandazioni:la costituzione di unico grande portale per le biblioteche, da realizzare in partnership con i governi locali.la costituzione di una task force, guidata dai governi locali e in partenariato con altri soggetti coinvolti nel settore librario, per definire un quadro strategico nel settore e per implementare una serie di azioni innovative.la task force dovrà lavorare con gli enti locali per aiutarli a raffor-zare, rivitalizzare e se necessario cambiare il loro servizio biblio-tecario, nonché incoraggiare il coinvolgimento della comunità di riferimento.Raccomandazioni che si fondano sulla constatazione che, nono-

Inchiestasulle bibliotechemade in Uk

di BarBara Setti e Simone Silianitwitter @[email protected]

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Da nonsaltare

più marginali, ma che può bene integrarsi con la gestione più professionale) e quello del com-pleto outsourcing alle imprese puramente private (come il John Laing Integrated Service, grande company di gestione di global service di servizi, fra i quali an-che le biblioteche), che secondo molti potrà costituire il modello bibliotecario dei prossimi 30 anni.Il Rapporto di William Sieghart non sposa una particolare solu-zione gestionale. Tende piuttosto a sottolineare alcuni elementi comuni necessari a qualsiasi solu-zione il territorio voglia costrui-re: incoraggiare il coinvolgimen-to della comunità nella gestione delle biblioteche attraverso vari modelli, promuovere la forma-zione professionale del personale addetto proprio in direzione del coinvolgimento e dell’assistenza alla comunità, ampliare il range di servizi cui il cittadino può ac-cedere in biblioteca. Al Governo, dunque, il compito di costituire una Rete bibliotecaria digitale nazionale, sostenendo la diffusio-ne del WiFi per poter appunto ampliare l’offerta di accesso ai servizi, creando una piattaforma unitaria nazionale, con catalogo unico e carta nazionale di acces-so. Questo consentirebbe anche di collegare la rete di biblioteche di pubblica lettura all’Archivio Nazionale, alla British Library, alle Università e ad altre bibliote-che specialistiche. Qui sta la vera differenza con la situazione italia-na dove il circuito bibliotecario nazionale (Biblioteca Nazionale, Archivio di Stato, Università e Biblioteche storiche e specialisti-che) non interagisce quasi mai con il circuito delle biblioteche locali di pubblica lettura. E la diversità sta anche nel fatto che in Italia è stato quest’ultimo ad aver fatto registrare le maggiori innovazioni e crescita di utenti, mentre il circuito nazionale è sostanzialmente bloccato, isolato nella sua specifica funzione (con-servazione o ricerca), ma soprat-tutto particolarmente arretrato.Il ruolo centrale nella strategia di rilancio disegnata dal Rap-porto sulle Biblioteche inglese è assegnato ai governi locali. A questi spetta la guida della Task Force che il Rapporto raccoman-da il Ministero di costituire e a cui dovrebbero partecipare anche

istituzioni nazionali impegnate nell’ambito librario (dalla BBC alla British Library, dall’Arts Council England all’Associazione dei Bibliotecari). Alle biblioteche locali si affida il compito di es-sere il nodo di una rete di servizi anche nazionali cui i cittadini potranno accedere (sono 650 i servizi nazionali per il cittadino e per le imprese, dalle tasse auto-mobilistiche al rinnovo dei passa-porti, dalle prenotazioni e docu-menti per la licenza di guida alle registrazioni nelle liste elettorali, cui si immagina che il cittadino possa essere aiutato ad accedere dalla propria biblioteca locale, all’interno della Digital Inclusion Strategy lanciata dal governo che prevede il totale superamento del digital divide entro il 2020). E’ qui che il Rapporto suggerisce si giochi il raggiungimento dell’o-biettivo del programma nazio-nale TeachFirst che si propone di mettere fine alle diseguaglianze educative costruendo possibilità di formazione online e coinvol-gendo le comunità creando dei

veri e propri leader impegnati nel miglioramento delle scuole inglesi. Insieme alla Task Force, saranno i governi locali a definire delle linee guida per l’utilizzo dei volontari nei servizi bibliotecari, integrando e modificando anche normative nazionali esistenti. In definitiva il Rapporto disegna la biblioteca come un servi-zio pubblico locale, gestito e finanziato localmente, di cui sono responsabili di fronte ai contribuenti (frequentatori o meno delle biblioteche) politi-ci locali che, dunque, devono essere i protagonisti del rilancio di questa istituzione; cui però è chiamato ad un sostegno attivo il Governo centrale in vista di un interesse generale nazionale e delle proprie specifiche missioni e funzioni istituzionali. Così, chiarisce il Rapporto, se potreb-be sembrare più efficiente avere un minor numero di autorità bibliotecarie, noi non raccoman-diamo modifiche istituzionali in tal senso. In realtà è proprio da questa pluralità di soggetti e

di esperienze che provengono le migliori esperienze di rinnova-mento del servizio bibliotecario e questa è appunto la strada da percorrere.Il dibattito in Inghilterra è aperto e vedremo a cosa porterà nei prossimi mesi e anni. Quel che possiamo dire, dalle nostre latitudini, è che un dibattito e una visione del genere non è neppure lontanamente imma-ginabile in un paese come il nostro, che pure ha una tradizio-ne e un’esperienza di biblioteche pubbliche locali non inferiore a quella inglese. Senza considerare il fatto, pe-raltro tutt’altro che secondario, che, a livello amministrativo, il locale e il nazionale non dialo-gano mai, da questo rapporto emerge chiaramente come sia diversamente pensato e percepito il significato di biblioteca locale di pubblica lettura in Italia e nel Regno Unito.In Gran Bretagna la biblioteca non è considerata solo come un polo culturale, ma piuttosto come un polo sociale. Un luogo cioè dove alfabetizzare, aiutare, collaborare e venire incontro alle esigenze del cittadino. E questo spiegherebbe quella percentuale – veramente incredibile – pari al 50% degli utenti, che non sarà certo misurata dal dato del prestito librario o di consultazio-ne (da quel punto di vista forse le percentuali non saranno così mostruosamente lontane dalle nostre), ma dalla presenza delle persone nella biblioteca.Questo concetto in Italia non esiste: la biblioteca come “centro sociale nazionale”. Non è pre-sente né a livello di riflessione politica, né a livello di riflessione gestionale, perché chi gestisce le biblioteche in Italia è un biblio-tecario, mentre, forse, dovrebbe essere un gestore socioculturale per il quale lavorano una serie di esperti, tra cui anche il bibliote-cario.E forse sarebbe veramente rivoluzionario provare a ripen-sare il ruolo delle biblioteche, perlomeno in Toscana, ora che le biblioteche funzionano, in cui nascono e fioriscono, sotto la spinta dell’entusiasmo di un la-voro comunque importante che è stato fatto sul territorio e che proprio dall’analisi del territorio dovrebbe ripartire.

Intervista a Izzedin Elzirpresidente dell’Ucoi

Un dibattitosulle pubbliclibrary

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riunione

difamiglia

Al nostro caro Eugenio non la si fa! Ma vi rendete conto? Renzi si è portato frau Merkel in Palaz-zo Vecchio, e quei ragazzi della sicurezza di Palazzo Chigi hanno pensato di tenerlo fuori! Lui, che - ipse dixit - è Palazzo Vecchio. Ma Giani li ha fregati tutti: si è chiuso qualche ora prima del vertice nel bagno new age davanti all’ufficio del sindaco e ha atteso pazientemente, leggendo l’ultimo almanacco di Topolino, che il pre-mier arrivasse con la sua ospite nel Salone dei Cinquecento, e... cucù eccoti Eugenio che agita la sua ma-nina per salutare il “suo” Matteuc-cio. Hanno tentato di placcarlo gli

uomini sconcertati della sicurezza, ma lui ha sfoderato le sue doti at-letiche ed è uscito dal pacchetto di mischia con l’agilità di un quarter back e del saltatore con l’asta. An-gela ha notato la confusione e ha chiesto spiegazioni a Matteo, che non potendo illustrare alla Merkel il cursus honorem del Giani, ha preferito dirle: “è un figurante del Calcio Storico: un po’ esaltato, ma innocuo”. Ma Eugenio non ha fatto una piega: “eine lobenswerte Initiative”

Un giorno ci si dovrà cimentare con un catalogo del renzismo culturale. Non ne usciranno i grundgrisse ma l’opera avrà una sua valenza per capire quanto profondo è il cambiamento dei paradigmi culturali che per de-cenni hanno caratterizzato, alme-no, la sinistra italiana. Non solo quella radical chic delle terrazze-romane™ degenerate da Pasolini a Veltroni, ma persino quella della Milano da bere di craxiana memoria. La cultura renziana è un calderone di citazioni pop, di tweet in cui il contesto, la com-plessità, sono bandite. Come la memoria, il persistere, la ricerca. Il tempo del successo individuale preconizzato da Warhol passa da 15 minuti a pochi secondi. Tutto si cita dunque niente ha importanza, serve soltanto. Nel senso che è servo del fine (anch’esso minimo, minuto e contingente) che in quel momento occupa la mente e l’azione del proponente. La cultura non è più nemme-no petrolio, ma sfondo, quinta scenica del discorso pubblico immediato o del prodotto (fisico, politico, culturale) da piazza-re. Così l’iniziativa Farinetti/Baricco del racconto da propor-re con tema, ambientazione, protagonista o mera citazione la catena alimentare Eataly supera

“Se vai a Roma, comportati da romano”, deve aver pensato Cristina Giachi recandosi, quale vicesindaco del Comune di Firenze, a Shangai in visita istituzionale. Così intervenendo ad una inau-gurazione nella città cinese la troviamo bardata con un abito di foggia orientale, un simil kimono, grigio. In più, siccome (la cerimonia era all’aperto) il freddo doveva essere piuttosto intenso, la vicesindaca indossa una mantella di pelliccia beige chiara, il tutto ornato dalla fascia tricolore col giglio di Firenze. Inutile

dire che la prima immagine che si è affacciata alla mia mente sono stati Totò e Peppino impellicciati in Piazza Duomo a Milano. Insomma un mix non proprio riuscitissimo, a partire

dalla scelta dell’abito, non cinese (casomai giapponese) nel taglio, non azzeccato nei colori e soprattutto, visto lo scopo di promuovere il made in Florence in Cina, non utile alla bisogna. Come già notato per il di lei superiore consigliamo al prossimo riti-ro di giunta per fare squadra (figuratevi se di qui all’estate non ne scappa almeno uno) di far venire anche un consu-lente d’immagine. Certo non

sarà facile trovarne uno specializzato in miracoli, ma si può sempre tentare.

le Sorelle marx

i Cugini engelS

la StiliSta di lenin

BoBoEugeniofa cucù

Renzismo culturale

Un Mussolini da appendere

La Cinaè vicina

dra ha steso delle tele per terra e le ha “strapazzate”. Ha scelto una tecnica rude, selvaggia, come lei (grrrr!): “Ho scelto l’acrilico, bello veloce come me, e ho cominciato a stenderlo con spatole, pettini e coltelli”. Non si è inserita in una scuola artistica ben precisa, se non forse quella dello Spontaneismo Spensierato: “Man mano che dipingevo, attraverso il colore che prendeva forma, ho visto quello che volevo realizzare. È sempre così, non penso mai prima a cosa farò”. E anche su questo dice il vero. Ha fatto parlare di sé la svolta artistica dell’Alessandra selvaggia. Ma la palma per il miglior titolo va a “Lettera43.it”: “Un Mussolini da appendere”. Già fatto! Piazzale Loreto.

Nel più puro stile del neofitismo renziano, regola aurea secondo la quale meno sai di una cosa e più sei figo, anche la Alessandra Mussolini si è data all’arte. Nipote d’arte, la Mussolini tende a precisare: “A scuola, a educazione artistica, non ero brava, non sono un’appassionata d’arte”. Non c’è da dubitarne, alme-no a vedere i suoi ‘Graffi’ su tela che saranno esposti in una personale alla Galleria Plus Arte Puls di Roma. Ne sentivamo il bisogno? No, di sicuro, ma che volete farci, a lei gli viene spontaneo: “Evidentemente avevo un bisogno di esprimermi che è venuto fuori. È qualcosa che parte da dentro, anche violento, che non puoi fermare”. Così fra un ragù e una scappata a Bruxelles, l’Alessan-

il concetto di product placement o di opera commissionata (e persino quello più pregnante di marchet-ta). Il concorso serve al prodotto, la catena alimentare, così come il premio (la pubblicazione presso i volumi della scuola Holden o un corso presso la scuola stessa) è servo dell’intreccio cultural politico dei due proponenti. Un circolo vizio-so da perderci la testa, la versione farsa (per dirla con Marx) di un romanzo di Coupland. Un cor-tocircuito in cui nessuno si chiede cosa abbia prodotto la scuola Holden in termini di letteratura, cosa abbia pubblicato, che abbia lasciato, non dico memoria ma quantomeno traccia? Cosa sia servita oltre al legittimo profitto di chi l’ha fatta e alla costruzione di un discorso pubblico adatto ai tempi? Così come chiedersi a cosa serva eataly rispetto al pizzica-gnolo all’angolo? Quale contri-buto (oltre a quello degenerativo della lingua inglese nel nome) porti alla cultura, visto che come soggetto culturale si propone e pone? Invece tutto è già fluito via, la confezione luccicante ha già convinto all’acquisto e all’adesio-ne. Tutto scorre verso il prossimo tweet. Occorrerebbe fermarsi, riflettere. No, non ne verranno fuori in grundgrisse, ma forse sarà necessario prima o poi.

lo Zio di trotZky

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Dostoevskij e Givoneincontro perfetto

Metti una domenica mat-tina di gennaio con un pallido sole, un bel vento

gelido di tramontana e una conversazione di Sergio Givone su “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij. Passeggio tran-quillo alle 10,50 in direzione dell’auditorium di Scandicci dove si tiene, con inizio alle 11, la seconda delle lezioni-conver-sazioni dal titolo “Il libro della vita” organizzate dal Comune di Scandicci.(il primo appun-tamento è stato domenica 11 gennaio con lo storico Alberto Melloni che ha presentato “Il giornale dell’anima” di Giovanni XXIII). L’auditorium di Scandicci è un luogo bello e molto grande, progettato da Richard Rogers e Ernesto Bartolini nel cuore della città. A due passi dalla fermata “Resistenza” del tram. Penso che arriverò in orario e potrò con calma sentire Sergio che parla di Dostoevskij. Ma quando arrivo nella piazza vedo una lunga teoria di persone che, prove-niendo da diverse direzioni (il parcheggio, la fermata del tram, le strade adiacenti) convergono verso l’ingresso. Le scale sono piene di gente. Anche l’audito-rium è completamemente pieno. Ci sono persone che si danno da

fare per portare altre sedie. Alla fine Givone può iniziare a par-lare davanti a circa 400 persone. Ma prima il sindaco Fallani si è detto emozionato di questa affluenza, e felice naturalmente.Givone parla del libro, della capacità di Dostoevskij di esplo-rare le profondità dell’animo umano nella sua complessità e nelle sue contraddizioni, fin nelle sue più recondite , di un testo che anticipa e rende espli-citi, già nel 1864, concetti che saranno alla base delle riflessioni

di Friedrich Nietzsche e del suo “superuomo”. Parla del nazi-smo, dell’11 settembre 2001, parla della inesauribile capacità dell’uomo di pensare idee e di “farsi venire in mente” (quindi con un processo di acquisizione da qualche esterno a lui) pen-sieri così ignobili da far ribrezzo persino a lui stesso. Ma Givone parla anche della possibilità per l’uomo di determinare il proprio destino scegliendo l’una o l’altra via e della salvezza che può ve-nire dall’amore. Anche l’uomo

del sottosuolo ha la possibilità di salvarsi attraverso l’amore per una donna che lo ricambia, po-trebbe essere la svolta della sua vita ma lui sceglie l’odio e il di-sprezzo. Cità Borges e la liberta di essere. In qualsiasi momento della vita tutto può essere.L’auditorium è attento e in silenzio.Un lungo e emozionato applau-so segna la fine della conver-sazione che Sergio fa chiudere proprio dalle parole di Borges “tutto può essere”.Succede anche questo nella città di Scandicci o, per meglio dire, nella città metropolitana di Firenze. Che vi siano persone stupite, emozionate e quasi in-credule del bisogno di “cultura”, di riflessione, di pacatezza, di tempo per... ,di una sospensione dai twett, dai followers, dai like, che alberga dentro ognuno di noi. Ognuno lo sa, ma quando questo bisogno è confortato dagli altri allora lo stupore si manifesta. E ogni tanto stupirsi è una bella sensazione.

di gianni [email protected]

di BurChiello 2000

Mai si era giunti a tanta infantile strumentalizzazione del patrimonio artistico. Anche il cavaliere Musso-lini fece di tutto per sensibilizzare Hitler nelle sue due visite fiorentine. Non ottenne molto; e quando, nell’agosto del 1944 fu risparmiato il Ponte Vecchio dalle mine dei guastatori di Kesselring, il prezzo fu la distruzione dell’intorno, di via de’ Bar-di, via Guicciardini, Borgo San Jacopo, Porta Rossa.Adesso il “premier”, che ebbe a confondere piazza Gavinana a Firenze con la pistoiese Gavinana del Ferrucci (senza mai introdurre una errata/corrige nel suo libro), si è improvvisato “guida turistica”, discettando persino sull’ermetico ricetto segreto dello Studiolo di Francesco de’ Medici in Palazzo Vecchio. Così, la conferenza ufficiale con la Cancelliera Merkel si è tenuta nella tribuna del David, alla Galleria

dell’Accademia, sotto i “pendu-li” del David. Del resto, appena chiusi i 450 anni dalla morte di Michelange-lo, questa è stata una bella occasione commemorativa, inaspettata e imprevedibile: altro che pranzi e balli in museo con pagamenti a tariffa ! Bisognava vederli i due alzare gli occhi e

traguardare, dal basso verso l’alto, quella “natura” così ben resa dal Ma-estro di Caprese ! Ma l’importante è aver dato il segnale mediatico di un possibile “patto della bellezza”, nato all’ombra della espressiva anatomia del David. Il tutto, ovviamente, nel devoto, distante e ammirato silenzio del ministro dei beni culturali.

Sottoi pendulidel David

Il miglior presidentenel migliore dei Lidi possibili

di lido [email protected]

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JiříKolář

Manipolazioni

all’interno della sperimen-tazione verbo-visuale il collage ha assunto un ruolo

centrale e determinante, tanto da essere ormai considerato l’ele-mento primario di una rivoluzio-ne concettuale che dalle avan-guardie storiche perdura ancora oggi. Con l’avvento della tecnica del collage l’artista ha potuto affermare completamente la pro-pria libertà espressiva, costringen-do il fruitore al passaggio da una lettura contemplativa dell’opera d’arte a una più riflessiva. Insita nell’atto della creazione estetica la versatilità di questa tecnica ha affascinato poeti e pittori, assu-mendo un alto valore artistico e qualificandosi come strumento operativo attraverso il quale con-densare più concetti e garantire l’attualità sopra ogni misura. Provocazioni, prese di posizioni e alienazione dai vincoli della razio-nalità ordinatrice sono solo alcuni dei dettami e delle possibilità che la prassi collagistica permette al mittente del messaggio artistico. Nel corso della sua attività Jiří Kolář è riuscito a esplicitare la sua idea interpretativa liberando sia il linguaggio che l’immagine da ogni corrispondenza conse-quenziale, portando all’eccesso il principio della decostruzione. L’incanto della tecnica emerge come possibilità espressiva nella continua sperimentazione di varianti del collage stesso, che l’artista inventa e reinventa con la consapevolezza che tutto può diventare ed essere poesia. Alfabe-ti, amputazioni, chiasmi, strappi, lacerazioni, interventi pittorici e perforazioni donano nuove vitalità a un concetto d’immagine e di parola in decadimento, che devono essere necessariamente ri-scoperte alla luce di una contem-poraneità in divenire, ponendo l’accento sulla necessità di una nuova rivoluzione comunicativa dall’aulico potenziale simbolico e semantico. Allo stesso modo i raffronti/confronti e le compe-netrazioni/sovrapposizioni sono volti ad affermare l’esclusività della creazione estetica, poiché l’incompiuto aspira all’infinito e alle infinite opportunità che il collage può offrire nella severità degli incastri e nel preciso ordine ritmico che l’armonia delle parti pretende, con giochi di simme-trie e corrispondenze, al fine di

Sopra Hommage à ceux qui lavent toute la saleté du monde, 1969 ; Collage su oggetti

cm. 54x124x28A fianco Senza titolo, 1977

Collage abstrait su cartonecm. 29,5x20,5

Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

evocare l’idea di movimento e di dinamismo intellettuale. Jiří Kolář ha manipolato la parola e l’immagine esaltandone l’autono-mia e consacrando la tecnica del collage a un nuovo linguaggio in sé visuale e plastico, sottraendolo alla reificazione e rendendolo dedito a garantire la libertà espressiva propria di ogni genere artistico.

Fata morgana d’inverno, 1969Rollage

cm 27,6x44,5A sinistra

The Illustrated London News,

1967Collage

cm 173x29

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“L’istante è un frammento di tempo, esente dal movimento e dal divenire, che interrompe

il continuum temporale.” Questo concetto antichissimo (Parmeni-de) sembra anticipare il concetto stesso della fotografia, che non è solo la “registrazione di un’imma-gine ottica” (disegno fotogenico) ma è una registrazione visiva effettuata in un determinato punto dello spazio e del tempo. La divisione classica fra arti “dello spazio” (pittura, scultura, archi-tettura) e “arti del tempo” (poesia, letteratura, musica) viene messa in crisi a metà Ottocento dalla nasci-ta della fotografia, che è contem-poraneamente arte dello spazio e del tempo. E poiché i concetti stessi di spazio e di tempo sono fluidi e soggetti a molte interpre-tazioni diverse, anche antitetiche, il concetto stesso di fotografia si complica terribilmente. Eppure il concetto di fotografia (in quanto fare) e quello di istante sembrano coincidere, al punto di potere, con un minimo di fantasia, operare una sostituzione fra i due concetti. “L’istante (come la fotografia) è un frammento del tempo, ma è anche non temporale, per questo interrompe la continuità del divenire temporale e permette la transizione fra due condizioni op-poste, l’essere ed il non essere, la quiete ed il movimento.” In effetti la fotografia (lo scatto fotografico) “interrompe”, registrando e “con-gelando” l’istante (istante che può avere una durata anche superiore a quella dell’attimo), interrom-pe la continuità del divenire e permette la transizione fra il non essere e l’essere, ignorando tutto ciò che vi è a monte ed a valle dello scatto stesso. Ed ancora: “L’istante (come la fo-tografia) è un momento inaspetta-to che determina un mutamento improvviso in un attimo di tempo preciso, che non nega il tempo ma non è temporale, ed attribu-isce al tempo un senso diverso, un cambiamento del modo di intendere e sentire il tempo.” In effetti la registrazione fotografica “attribuisce al tempo un senso diverso” e rappresenta un “cam-biamento del modo di intendere e sentire il tempo”. Banalizzando, si dice che la fotografia “ferma” il tempo, e rende “immortale” ciò

la fotografia) è una realtà racchiu-sa nell’istante e sospesa fra due nulla. (Gaston Bachelard)“Il problema del cinema (come quello della fotografia) è lo stesso della filosofia, produrre e creare il reale, non solo rifletterlo. Il reale non è ciò che è presente, ma ciò che ha in sé in potenza l’avvenire. (Gilles Deleuze)L’immagine fotografica appartie-ne indubbiamente al passato e si nutre unicamente del passato. Ogni scatto, appena eseguito, riflette il passato, ma lo riflette per renderlo presente ai nostri occhi, e per proiettarlo implacabilmente verso il futuro.

Tempoe fotografia

che registra. In realtà la fotografia non ferma, ma “accompagna” il tempo e gli attribuisce un senso compiuto, un senso che altrimen-ti andrebbe perduto, come ben sanno i fotografi che “perdono” l’immagine per non essersi messi in sintonia con lo scorrere del tempo, scattando troppo in anti-cipo o, più spesso, tragicamente in ritardo. Per finire: “L’istante (come la fotografia) è quel momento particolare in cui si verifica un mutamento intermedio fra quiete e movimento, è legato sia al mo-vimento che alla quiete, ma non è né l’uno né l’altra.” La fotografia

stessa non è né movimento né quiete, opera una cesura nello scorrere del tempo, rendendo evidente e possibile ciò che non lo è necessariamente, è immobile ma vive del movimento interno all’inquadratura. Essa è allo stesso tempo movimento e quiete, ma non è né l’uno né l’altra. Ma ben oltre Parmenide, molti altri filosofi e pensatori moder-ni hanno formulato ipotesi sul tempo e sull’istante che possono perfettamente essere assunte come ipotesi sulla natura della fotogra-fia.“Il tempo non ha che una realtà, quella dell’istante. Il tempo (come

di danilo [email protected]

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tabula tutta da creare, ho raccolto gli elementi dalle scuole intorno a noi che si attaccano ancora tenacemente all’idea d’istruzione per non arrendersi alle politiche di distruzione: ho adagiato sulla fetta strati su strati fini come pagine

ricche di scrittura nutriente, dal gusto intenso e variegato, diversi tra loro ma accomunati dalla passione dei loro creatori che non è facile edonismo ma forte volontà di aggiungere il loro piccolo ingre-diente al grande menù dell’umani-tà. Ho aggiunto il frutto del lavoro dei teorici chiusi nelle loro stanze, coloro che non vedranno mai

ergersi opere dalle loro conclusio-ni, monumenti sulle loro vittorie, ma che da sempre accompagnano e qualificano le azioni dei padri, vuote senza il fine dettato da chi guarda lontano. Per amalgamare il tutto, le salse stillate dalle menti

più pungenti, saporite a tal punto da far storcere la bocca a qualcuno tanto attingano dalle teche meno aperte del nostro repertorio. Rico-perto il tutto con l’altra fetta, mi sono accinto a mangiare l’infinita pietanza percorso dal silenzioso quesito se sarei stato capace di assimilare l’intera sostanza.Il sapore mi ha invaso, annebbian-

Sul numero 100 di Cultura Commestibile avevamo posto un interrogativo

Cosa è cultura?Ecco un’altra risposta.

Mi sono fatto un panino poco fa. Un panino alla cultura.Ho preso una pagnotta ancora calda, calda come si scalda l’animo di chi deve trovare argomentazioni sempre più articolate, convincen-ti, per dimostrare la sua tesi di fronte al sostenitore dell’opposta altrettanto preparato, e fragrante, di quella fragranza che già al tocco avverti la fragile compattezza, coscienza che più impara e più sa di non sapere.Ho scelto un coltello dal mani-co di legno, levigato come un concetto che è stato maneggiato a più riprese perché ogni asperità scomparisse sotto l’assiomatica, e dalla lunga lama tagliente per pe-netrare senza resistenze anche nella materia più ostica, ed ho intaccato la crosta cotta con il calore della convinzione di chi spende la vita dietro al pensiero: lo scricchiolio della superficie che cedeva ricor-dava il rumore delle ossa dei tanti combattenti per la libertà finiti stritolati sotto le macine vorticose del pachiderma immobile che non ammette devianze ma tanto più affondavo, tanto più affiorava il morbido candore a cui l’evoluzio-ne aspira per ascendere dai primati ed essere finalmente primi.Posate due fette dialettiche su una

Matteo RiMi do i miei sensi esterni e, sebbene non abbia riconosciuto di primo acchito tutte le componenti, ne ho avvertito da subito il significativo valore nutritivo. Masticavo lenta-mente affinché la saliva si impre-gnasse di parole e concetti e ren-desse poi più fluida la mia lingua, ritmicamente perché le materie si scomponessero in singoli elementi che sarebbero andati a rafforzare le mie fragili fondamenta.Ogni morso era come salissi un gradino della piramide culturale, godendo di un nutrimento che non riempiva il mio stomaco né tantomeno la mia testa ma anzi la svuotava mettendo in evidenza il percorso di ciascuna sinapsi; ogni deglutizione, il gioire di una rinnovata sensibilità in grado di riconoscere forme nuove sul già visto, dare inediti nomi alle cose vecchie e appellativi usati alle scoperte.Mi sono leccato le dita ingerendo l’ultimo boccone, aspettandomi un prevedibile appesantimento dovuto al grande carico, ma niente di tutto questo!Sono ancora qui leggero come non mai, fortificato e migliorato, conscio che solo il coltivare il nostro pensiero potrà farci andare avanti. Convinto ormai che la cultura, oltre che commestibile, sia facilmente digeribile.

Ma che razza di argomenti! Viene da dire a quel gruppo di antro-pologi italiani che hanno fatto la petizione al presidente della repub-blica per sollecitare l’avvio delle procedure legislative per cancellare la parola razza dalla costituzio-ne italiana (art. 3). Per questi antropologi, negli umani, razza non individua una tassonomia scientifica specifica. Le differenze fisiche e genetiche non sono suf-ficientemente tante da poter dire che un nero e un bianco apparten-gono a razze diverse. Le cose sono differenti invece per le altre specie animali (e per le piante) all’interno delle quali si possono osservare quantità di elementi genetici suf-ficienti per dire che ci sono razze diverse. Per tale motivo, dicono gli antropologi guidati dal prof. Chiarelli, il concetto di razza negli umani non è scientifico. E siccome non è scientifico, sulla base di più approfondite acquisizioni, non va usato. Domanda: fino a che queste

più approfondite acquisizioni non sono state disponibili, era scientifi-camente lecito essere razzisti? Gli antropologi della petizione non si sono fermati solo alla ri-chiesta di cancellare la parola razza, ma hanno anche suggerito di rimpiazzarla con “gruppo etnico” che sarebbe scientificamente più accettabile. Anche qui viene da chiedersi, perché dovrebbe essere più accettabile? (Non c’è spazio per farlo qui, ma si potrebbe argomen-tare che gruppo etnico è un’espres-sione forse addirittura più razzista di razza. L’etimologia e la storia semantica di quest’ultima parola è un pot-pourri di usi iniziato nel XIII secolo e che si è specializzato anche nel significato di tassonomia umana soltanto nell’ottocento ad opera delle classificazioni scientifi-che dell’antropologia biologistica ed eugenetica). Anche dalle preci-

sazioni radiofoniche di uno degli antropologi firmatari si ricava che è cruciale che il discrimine che de-termina la scientificità della razza è di ordine naturale quantitativo. Il problema però è che la quan-tità non può essere stabilita solo sperimentalmente. L’asta dove far arrestare la soglia quantitativa del razzismo umano non è naturale. È una decisione politica e culturale che già in un passato non tanto remoto si è ammantata di scientifi-cità per non far apparire l’ideologia che in realtà la sosteneva. Fino a dopo la seconda guerra mondiale l’antropometria biologi-ca e l’eugenetica servivano proprio a misurare gerarchicamente le razze e ad elaborarne una tipologia ideale che, guarda caso, somiglia-va sempre al tipo nord-europeo. La differenza principale tra gli antropologi della petizione e gli antropologi biologisti dell’otto-cento e del novecento è che per i primi la quantità di differenza ge-netica e somatica non è sufficiente

a identificare una razza umana (ma evidentemente è sufficiente per identificare un gruppo etnico), mentre per i secondi lo era. Purtroppo ci sarà sicuramente qualcuno che facendosi beffe delle buone intenzioni dei petitori, considererà quantitativamente bastevoli gli stessi parametri che i firmatari della lettera giudicano in-sufficienti per stabilire razze umane e stilarne una gerarchia. Utilizzan-do analoghi elementi quantitativi c’è già qualche scienziato che elabora tassonomie gerarchiche sessiste, scale neurochimiche per misurare chi è più intelligente di un altro. Con le recenti possibilità aperte dal potenziamento neuroge-netico inoltre si può pensare persi-no di mutare i dati quantitativi che per ora ci impediscono di stabilire tassonomie umane scientificamen-te valide e portare così quegli stessi dati ad un livello dopo il quale la razza torna a discriminare scientifi-camente gli umani dentro la stessa specie umana.

Favola delle paroleRazza

di marCo PaCioni [email protected]

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Waste Recycling

Chi rammenta la legge dell’ateo e illuminista Antoine-Laurent de

Lavoisier e quel suo perentorio: “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”, non ha certo di che stupirsi se qualche ingegnere ha trovato il modo di metterla in pratica e di farne la base per evitare che il mondo industrializzato venga travolto da montagne di rifiuti. Semmai c’è da stupirsi che ci sia voluto così tanto tempo per trovare la soluzione. Eppure è così, tant’è che fino ad oggi ci siamo limitati a sbarazzarci dei rifiuti casalinghi, degli scarti industriali e dei reflui di ogni tipo sempli-cemente allontanandoli da noi e dai centri abitati, spedendoli altrove, magari al di là dei nostri confini, verso paesi più pove-ri. O invece seppellendoli in maleodoranti discariche; negli ultimi cinquant’anni abbiamo provato anche a incenerirli in certi enormi bruciatori, errone-amente confidando nel fuoco purificatore.Da qualche anno si dispone però di una metodica nuova, la pirogassificazione che sfrutta anch’essa il calore, ma senza produrre alcunché di dannoso. Proprio nella nostra regione sor-ge oggi un impianto di questo tipo che rappresenta una novità pressoché assoluta nel panorama industriale italiano. Si trova in un vasto pianoro nella perife-ria industriale di Santa Croce sull’Arno. E anche se ha un nome inglese, si chiama Waste Recycling, è italianissimo. Sono italiani i proprietari, i dirigenti, gli ingegneri ed anche la tecno-logia che utilizzano è italiana. Questa fabbrica è in grado non solo di accogliere ogni scarto sia civile che industriale, di selezio-narlo e di avviare i materiali così ottenuti alla rigenerazione se-condo procedure ormai standar-dizzate Ma di sottoporre alcune classi di rifiuti a trattamenti più complessi, tra cui, ultimo la pi-rogassificazione. Grazie a questo procedimento, all’interno delle sue ‘caldaie’ ermetiche i rifiuti vengono scomposti e trasformati in sostanze vetrose, ceneri e gas del tutto inerti e innocue per l’uomo e l’ambiente. Alla Waste Recycling le plastiche possono

lì a poco quella piccola azienda divenne un elemento nevralgico nel sistema dello smistamento dei rifiuti della zona, i quali, nel frattempo, non potevano più essere bruciati all’aria aperta. Vittorio che è sempre stato un appassionato e abile giocatore di carte – non si è mai fatto mancare una partita con i suoi tre amici di una vita – e anche per gli affari ha nutrito una passione istintiva, ha avuto fiuto e coraggio. Quando era poco più che un trasportatore, ha sempre saputo guardare avanti, con discrezione e caparbietà, investendo e innovando quando necessario.

Non ha fatto tutto da solo, ovviamente. Ha trovato soci e aiuto negli amici. Maurizio Gia-ni, per esempio, è uno di questi e dal ‘92 lavora fianco a fianco con lui. Il Giani è stato in questi due decenni l’interprete perfetto del dinamismo imprenditoriale del Lapolla. Insieme a Vittorio ha combattuto perché a Santa Croce - proprio lì dove fabbrica e ambiente sono in una rappor-to spesso stridente e conflittuale - sorgesse una azienda che della tutela dell’ambiente, della salute dei cittadini e della bellezza facesse la sua cifra portante. E insieme hanno voluto dare all’azienda un singolare profilo, anche culturale. Per tre anni Maurizio Giani – che intanto era diventato amministratore de-legato dell’azienda - ha coinvol-to la Waste Recycling nell’alle-stimento delle scenografie degli spettacoli del Teatro del Silenzio di Andrea Bocelli a Lajatico. Ma ancor prima ha significativa-mente e attivamente promosso e partecipato all’attività del gruppo Scart. Un gruppo di artisti e ‘creativi’ che dal 1998 hanno cercato di misurarsi col tema del riuso e del riciclo degli oggetti, nel tentativo di mostra-re, con un gioco di accostamenti e costruzioni paradossali, che dai materiali recuperati possono nascere nuovi e colorati oggetti d’uso. Perché qui, nel regno di Proteo, le suggestioni sono infi-nite e ogni cosa è in un perenne mutare.

di roBerto [email protected]

tornare ad essere riutilizzabili, i legni, i metalli, le stoffe, le pelli - ma anche materiali pericolosi come quelli che provengono da-gli ospedali o dalle demolizioni di costruzioni che contengono amianto – finiscono per trovare una nuova vita, rientrando se possibile in nuovi cicli produt-tivi.L’industria lavora a pieno ritmo, e da alcuni mesi ed è stato messo in funzione il pirogassificatore, dopo aver sopito le molte paure che le popolazioni del posto nutrivano perché temevano che, dietro quelle strutture moderne e quei silos, si nascondesse uno dei soliti e pericolosi incene-ritori. Ma le perizie tecniche hanno sempre dato ragione ai progettisti che la ritenevano del tutto innocua per la salute, e anche alla Regione Toscana che ha sostenuto l’iniziativa fin dall’inizio. Oggi l’azienda può veleggiare tranquilla, anzi ha da due mesi appena messo a punto un protocollo (Best Recycling) di collaborazione per lo smalti-mento sicuro dei rifiuti rivolto specificamente alle aziende gran-di e piccole del made in Italy. Le quali potranno risparmiare se decideranno di selezionare all’o-rigine i loro scarti di lavorazio-ne, prima di avviarli, senza costi aggiuntivi, al riciclaggio a Santa Croce. Ma soprattutto potranno esibire tale marchio a garanzia che i loro cicli di lavorazione sono rispettosi dell’ambiente e del risparmio energetico.

Oggi la Waste Recycling, che è collegata a importanti università e centri di ricerca scientifica, dà lavoro a un centinaio di persone tra ingegneri, chimici, tecnici, operai e amministrativi, ed è una realtà importante nel panorama industriale toscano.Eppure fino a qualche decennio fa, il luogo su cui sorge non era che uno dei tanti ‘campacci’ – così venivano chiamati – dove, grazie ad un continuo viavai di furgoncini, venivano scaricati gli scarti industriali, soprattut-to di quelli delle concerie, per essere bruciati all’aria aperta. D’altra parte Vittorio Lapolla, il fondatore e proprietario della Waste Recycling era uno di loro. Era arrivato in Toscana in cerca di lavoro, giovanissimo, veniva da un paesino del circondario di Potenza, ed era il penultimo di una famiglia numerosa compo-sta da ben otto fratelli. All’inizio aveva lavorato come operaio in una conceria, poi, dopo essersi presto sposato, aveva deciso di comprare un furgoncino e cominciare a trasportare gli scarti conciari, soprattutto al ‘Campaccio di Scacciapuce’, nella zona dei Cappuccini di San Miniato. Fin quando non decise di acquistare un piccolo terreno per tenerci il camionci-no e soprattutto per farne de-posito provvisiorio di rifiuti. La sua fu poco più che una piccola migliorìa organizzativa che però si rivelò azzeccata dal punto di vista economico, tanto che di

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La colonna sonora è una composizione che accom-pagna l’immagine: un film,

un documentario, uno spetta-colo teatrale. Trovare un’ecce-zione a questa regola è difficile, ma non impossibile. Ce lo dimostra il pianista olandese Marcel Worms, che con Baltic Souls (Zefir Records, 2014) ha realizzato il complemento sonoro ideale dell’omonimo libro Anime baltiche (Iperborea, 2014). L’autore è un altro olan-dese, Jan Brokken. Le due opere vengono comunque vendute separatamente. Come il libro, il disco è un omaggio sincero alla tragica storia dei paesi baltici: Estonia, Lettonia e Lituania. Le tre repubbliche furono infatti annesse dall’Unione Sovietica in seguito al patto Molotov-Von Ribbentrop (1939). Né slavi né germanici, questi paesi avevano stretti legami col resto del continente. Riga, capitale della Lettonia, veniva chiamata “la Parigi del nord”. In tutta l’area baltica vivevano da secoli consistenti minoranze te-desche e russe, mentre l’Estonia era legata culturalmente all’area scandinava. In queste terre multietniche erano nati artisti di grande rilievo. Pensiamo allo scrittore Romain Gary (Roman Kacew, 1914-1990), russo nato a Vilnius; al lettone Gidon Kremer, violinista e direttore

di aleSSandro [email protected] musica sacra medievale.

Come Pärt, Peteris Vasks ha guadagnato fama internazio-nale grazie ai dischi pubblicati dall’ECM. Del compositore lettone viene proposta “Mazā vasaras mūzika” (Piccola musica estiva). Ispirato alla natura come altre delle sue composizioni, il brano anticipa per certi versi il suo capolavoro, il ciclo piani-stico Gadalaiki (Le stagioni), composto fra il 1995 e il 2009. Purtroppo il disco include una sola compositrice, l’estone Ester Mägi, della quale Worms inter-preta “Lapimaa joud” (Melodia lappone). Nel brano, insieme a certi echi bartokiani, emerge il suo forte legame col patrimonio folklorico.Lo stesso legame segna l’opera di Jurgis Gaižauskas, unico lituano presente. La sua “Sonata n. 2 per violino e piano”, inten-sa e melodica, è uno dei brani più belli del disco. L’autore che chiude il CD, Ge-orge Gershwin, può sembrare fuori luogo, ma in realtà non lo è: quello che viene generalmen-te considerato un compositore americano era in realtà russo e si chiamava Jacob Gershovitz.Worms e Schoch, interpreti di alto livello, collaborano dal 2006. I due hanno realizza-to vari CD, fra i quali spicca quello con musiche di Dick Kattenburg (1919-1944), un giovane compositore olandese morto ad Auschwitz.

Musichedi un altro nord

Ingredienti per quattro persone1 pollo ruspante di 1,5 kg, 250 gr di zucchine, 2 grosse cipolle, 250 gr ricotta fresca, 150 gr di burroPreparazione della farcia: Lavate e affettate le zucchine e le cipol-le. Fatele rosolare nel burro. A cottura ultimata, mettetele in una zuppiera e aggiungete la ricotta. Mescolate con una forchetta fino a ottenere una farcia omogenea e salate a vostro gusto.Preparazione del pollo: Posate il pollo sul tagliere dalla parte del petto e, servendovi del trinciapolli, tagliate la spina dorsale da un capo all’altro, procurando, per quanto possibile, di praticare il taglio esattamente al centro, in modo che la pelle rimanga ben attaccata all’osso su entrambi i lati. Posatelo

Pollo ripieno di pollosopra il tagliere col petto verso l’alto e le cosce piegate all’interno. Quindi schiacciatelo, con un colpo secco del palmo della mano o con un martello di legno, assestato sul petto. Fatelo con forza, badate, perché si tratta di spezzare lo ster-no, le clavicole, la gabbia toracica e la forcella. Se la struttura ossea non sarà troppo rigida, avrete più spazio per la farcia che vi accinge-rete ad introdurre sotto la pelle. Incominciando dal collo, introdu-cete le dita fra la pelle e la carne e procedete verso il codrione, per staccarla da uno dei due lati del petto. Poi staccate gradatamente, con tutta la mano, quella delle co-sce, lasciandola attaccata soltanto all’estremità. Ripetete l’operazione

sull’altro lato del petto.Introducete la farcia con una mano, incominciando dal collo, e con l’altra, lavorando all’esterno, procurate di distribuirla unifor-memente. Dopo aver riempito le cosce, farcite il petto senza economia. Infine ripiegate, tiran-dolo, il lembo di pelle del collo per chiudere l’apertura. Ora praticate una piccola incisione con la punta del coltello fra la coscia e il petto e infilatevi dentro l’estremità dell’os-so della coscia. Fate lo stesso con l’altra coscia. Questo impedirà che si allarghino e sporgano all’esterno durante la cottura. Lavorando con entrambe le mani, lisciate la pelle affinché la farcia si distribuisca in modo tale da far riassumere al pol-

lo la sua forma naturale. Mettetelo nel forno preriscaldato a 240°, dopo 10 minuti riducete il calore e, trascorsa mezz’ora, cospargetelo spesso con il sugo che si racco-glierà nel recipiente. Per la cottura completa ci vorranno 50-60 minu-ti. Questo modo di farcire il pollo assicura alla carne un sapore unico e una piacevolezza

d’orchestra, nato a Riga da genitori di origine tedesca. Let-tone era anche il pittore Mark Rothko (Markus Rotkowics, 1903-1970). A differenza del libro, che offre un panorama artistico com-plessivo, il disco si concentra ovviamente sui musicisti. Se si eccettano due brani, il piano di Worms è costantemente affiancato dal violino di Ursula Schoch. Viene dato particolare rilievo all’Estonia, che effetti-vamente rappresenta un caso particolare. Grande appena il doppio della Toscana, con una

popolazione che non arriva a 1.500.000, il paese nordico si è rivelato una straordinaria fucina di talenti. Questo nonostante la sua musica “colta” si sia svilup-pata soltanto nell’ultimo secolo, metà del quale ha conosciuto i pesanti limiti imposti dalla dit-tatura. Ecco perchè tre dei sei compositori scelti sono originari di questo paese. “Für Alina” è un brano piani-stico di Pärt, la prima compo-sizione dove il musicista estone utilizza il principio del tintin-nabulum, un’armonia triadica derivata dai suoi studi sulla

di miChele [email protected]

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Nell’indagare il rapporto tra ope-ra letteraria e ambiente naturale, l’ecocritica pone l’accento anche sulle relazioni tra mondo umano e non umano, in un’ottica nuova dove la letteratura entra a far par-te di un ‘tutto’, secondo l’assunto base dell’ecologia – teorizzato da Barry Commoner – per cui “everything is connected to everything else”. Di conseguenza, il sistema entro cui il testo si pone deve necessariamente essere ampliato e abbracciare l’intera ecosfera, come suggerisce il prefisso ‘eco’ (dal greco oikos) indicante la casa, la dimora, ovverosia la natura. Mutando la prospettiva d’analisi, il testo diviene sonda e strumento, proprio perché il linguaggio non veicola solo con-cetti ma induce a una riflessione sulla crisi del pianeta. Una crisi, è bene ribadirlo, piuttosto recente e che ha visto il concetto stesso di ‘ecologia’ mutare la sua valenza: e se, nell’Ottocento, per il biologo tedesco Hernst Haeckel – che primo coniò il termine Ökolog-ie – esso indicava lo studio delle interazioni fra organismi viventi e ambiente; nel secolo successivo è andato a abbracciare l’intero spettro delle scienze umane. Pun-

rispondente alla realtà. Tutto è da ricercare nella differenza tra umano e non umano, nella soglia che porta l’uomo a concepire la natura nelle sue accezioni più comuni: rifugio (e già l’Eden biblico esprime bene il concetto) o forza devastatrice (si pensi al le-opardiano “Sterminator Vesevo”). L’ecologia, al contrario, mira proprio a superare tale dissidio, in nome di un nuovo umanesi-mo, non più antropocentrico e guidato dal costituirsi reciproco di essere umano e ambiente, dove la natura si caratterizza nella propria biologica essenza. Da ciò deriva l’approccio interdiscipli-nare dell’ecocritica, nell’applicare il paradigma scientifico all’opera letteraria in quanto oikos-lògos, narrazione di un luogo, di una dimora, di un ambiente abita-to e adesso in pericolo. Nella cultura dello zapping – volendo usare un’espressione di Giulio Ferroni – siamo attraversati da una simultaneità delle immagini, dove l’Altro (il non umano) si è fatto irriconoscibile; e se la “crisi” dell’ambiente e della cultura sono le facce della stessa medaglia, l’opera letteraria deve indicarci la via: un percorso che esca fuori dal seminato e ci conduca alla riscoperta del mondo, insegnan-doci a riabitare la nostra ‘casa’.

to di arrivo di questo processo è il 1962, quando Silent Spring di Rachel Carson venne pubblicato negli Stati Uniti, assurgendo poi manifesto del movimento ambientalista. Tutto, ancora una volta, ha inizio da un libro e lì, sempre, dobbia-mo tornare, perché la tentazione di leggere l’intera letteratura attraverso la specula dell’ecocriti-ca è forte e innesca subito quella

memoria intertestuale, dove le rappresentazioni della natura si affiancano: dai toni pastorali dell’idillio bucolico, per arriva-re alle roussoviane Rêveries du promeneur solitaire. Eppure, in entrambi gli esempi citati, siamo dinanzi a un’immagine anti-e-cologica, dove l’ambiente viene relegato al ruolo di sfondo o, nel secondo caso, a natura inconta-minata, frutto di un ideale non

L’ecocritical’alteritàoltre i confini

di diego [email protected]

Secondo lo “Stato delle anime” del 1760 risulta gestore, e forse anche proprietario, del Caffè Greco a Strada Condotti in Roma un tal “Nicola di Madda-lena caffettiere” manco a dirlo “levantino” cioè proveniente da quel Levante (Oriente) nel quale il caffè, già noto come infuso in territorio persiano, si era propagato nel XV secolo. Il dato trova riscontro in un documento proveniente dalla parrocchia di San Lorenzo in Lucina conserva-to presso l’Archivio del Vicariato. In oltre 250 anni di vita le sale del Caffè hanno visto passare artisti, pensatori, potenti. In par-ticolare all’inizio del XIX secolo il locale di Via Condotti divenne il ritrovo preferito di artisti e intel-lettuali tedeschi che si trovavano a operare in Italia all’epoca dei Grand Tour.L’elenco delle personalità che hanno frequentato le sue sale è sterminato: Byron, Ludwig II

di Baviera, Apollinaire, Goethe, Gogol, Hawthorne, Joyce, Tho-mas Mann, Melville, Wagner, Nietzsche, Twain, Orson Welles, Pier Paolo Pasolini e altri ancora.Molti sono gli aneddoti sul Caffè. Andersen abitava al piano superiore, e ancora oggi puoi sederti sul suo divano. Uno degli episodi più famosi è quello che Casanova ricorda nella sua sapida e brillante “Histoire de ma Vie”, autentica summa dello spirito libertino e spregiudicato del ‘700. Il giovane veneziano, giunto nella Capitale nel giugno del 1744 con l’incarico di segre-tario del potentissimo cardinale Francisco Troyano Acquaviva d’Aragona, rappresentante del Regno di Spagna presso la Santa Sede, narra il suo primo ingresso

nel “Caffè di Via Condotta”. Fra ecclesiastici libertini, eunuchi, pettegolezzi, ironia ne viene fuori un piccolo quadro di vita quotidiana nella Roma del tempo “...Un altro venne a dire all’abate Gama che se voleva trascorrere il pomeriggio a Villa Medici, l’avrebbe trovato in compagnia di due “romanelle” che si accon-tentavano di un quartino, una moneta d’oro pari a un quarto

di zecchino. Un altro abate lesse un sonetto incendiario contro il governo, e parecchi vollero co-piarlo. Un altro ancora lesse una satira che faceva a pezzi l’onore di una famiglia. In quel momento vidi entrare un abate piuttosto attraente; a giudicare dai fianchi e dalle cosce mi parve una ragaz-za travestita e lo dissi all’abate Gama, ma questi mi rispose che era Beppino della Mammana, un famoso castrato. L’abate, infatti, lo chiamò e gli disse ridendo che lo avevo scambiato per una ragaz-za. Quello sfrontato mi guardò fissamente e rispose che se volevo andare a passare la notte in sua compagnia mi avrebbe dimostra-to se avevo torto o avevo ragione, a mio piacere...”. Nel corso del tempo le sale si sono arricchite con innumere-voli opere d’arte e cimeli storici. Oggi, con oltre 300 opere espo-ste, il Caffè Greco è la più grande galleria d’arte privata aperta al pubblico esistente al mondo.

di Stefano [email protected] Caffè letterari

Casanovae Toro Seduto

ecoletteratura

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affollatissima e festosa - perfino giovani coppie con bambini in carrozzina - la

39°edizione di Bologna Artefiera sembrava più l’occasione di uno svago domenicale alternativo, che una mostra mercato. Questo anche per l’intelligente allesti-mento, non solo degli stands, ma anche della rete degli spazi- corridoio, con luoghi di sosta destinati a piccoli bar, snack, ecc. In tale atmosfera è emersa una caratteristica di fondo della rassegna 2015: cioè il confronto “fra gli antichi e i moderni”, per parafrasare la seicentesca que-relle. Ma qui non si è trattato di diatriba, bensì di dialogo, di una rinnovata ricerca delle radici del contemporaneo e delle sue possibilità innovative. Forse l’occasione è stata quella del centenario della nascita di Alberto Burri, che ha indotto a riconsiderare il Novecento attraverso uno dei suoi più rivoluzionari rappresentanti .Come si poteva riproporre il grande Umbro - si saranno detti i curatori - separando del tutto la contemporaneità da quella sua precoce esperienza artistica?. E’ così possibile vedere il grande “Cellotex CW1”, del 1981, proveniente da Palazzo Albriz-zini di Città di Castello. Ma anche opere di minore formato e e di grande suggestione, fra cui le “Combustioni” e i “Cellotex” nero e oro che hanno influenza-to intere generazioni di artisti. La “ Main section” ha visto l’ inaugurazione prevista: un big dell’arte italiana contemporanea, Michelangelo Pistoletto, fra gli artisti più quotati internazio-nalmente, ha fatto da padrino. Insieme a lui, tutti quelli che costituiscono la modernità ultra-storicizzata, ormai presenti nelle più importanti aste mondiali, da Balla, Boccioni, De Chirico, Morandi fino a Fontana, Man-zoni, Boetti, Calzolari, Penone . Insomma ai maggiori rappresen-tanti del contemporaneo classico e dell’ “Arte povera” .Da tali altezze, guardiamo co-munque con altro occhio certe prove legate alla comunicazione di massa, al cinema, alla pubbli-cità come, per es., gli acrilici di Ester Grassi -”New Pop”- allo

spazio Testoni, dove la volontà di raggiungere un largo pubbli-co porta alla semplificazione, ma con la consapevolezza di chi ha visto e imparato dai grandi ma-estri, come - per citare la moda - Courrèges da Mondrian.Non mancano artisti più legati alle sperimentazioni dell’arte di ricerca visiva, ottica e cinetica - Alviani, Colombo e altri - e all’astrazione degli anni Settan-ta, quali Olivieri.D’altra parte il collezionismo è fatto di ‘moderno’ e contem-poraneo in progress, ma già in qualche modo codificato, poiché nessun collezionista che si rispetti spreca i suoi soldi e compromette la sua fama di connaisseur con scelte sbagliate. Nella edizione bolognese del 2015, questo è un dato da tener ben presente .Infatti, per la pri-ma volta, i collezionisti di arte contemporanea si sono riuniti in una rete, con un protocollo condiviso, e in quanto tali si sono imposti come uno dei soggetti principali della Fiera, con beneplacito del Ministero dei Beni culturali . Alcune delle principali gallerie italiane come Artiaco, De’ Foscherari, Mazzo-li, Minini, hanno rappresentato l’arte contemporanea con uno sguardo anche al loro percorso storico, nell’ area intitolata “I Protagonisti”. Altre Gallerie hanno esposto un solo artista, magari della forza di un Leonar-do Cremonini, con cui dovran-no confrontarsi i più giovani. A proposito di quest’ultimi, la sezione “Nuove proposte “, importantissima per il futuro destino dell’arte tout court, è dedicata agli under 35, per la scoperta e valorizzazione di nuovi talenti.Nell’insieme della rassegna si è visto meno “Video art”, ma molta di più fotografia, di alta qualità e interesse per i nuovi linguaggi sviluppati, così da rientrare, a pieno titolo, nelle espressioni artistiche della mi-gliore contemporaneità. Un originale collegamento con l’arte internazionale si è costi-tuito, in Fiera, con la sezione “Focus Est”, che getta un occhio all’Est europeo. Tale confronto è ampiamente sviluppato con la mostra ”Too early Too late”, aperta fino al 12 aprile alla Pina-coteca Nazionale di Bologna.

Alberto Burri – Combustioni – foto di Aurelio Amendola

Alla Fiera dell’Arte

Scavezzacollodi maSSimo [email protected]

di annamaria manetti [email protected]

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La Chevalerie Ogier de De-nemarche, un poema epico degli inizi del XIII secolo,

racconta che Carlo Magno passò per Lucca, dove l’aveva condotto l’inseguimento del vassallo ribelle Uggeri il Dane-se. Il re dei Franchi – spiega il poema – si recò in San Marti-no, dove a quei tempi stava il Volto di Lucca, quello che Ni-codemo fece a Gerusalemme, e dopo avergli reso omaggio gli offrì un mantello d’oro lucente. Questa leggenda, come molte altre che fanno parte del patrimonio storico letterario europeo, testimonia un culto e una fama che nel XII-XIII se-colo erano vivi e ben conosciuti in tutto il mondo cristiano. Di questi episodi ben presenti alla consapevolezza degli studiosi fino a qualche decennio fa, sto-rie che arricchivano di gustosi aneddoti le dissertazioni degli eruditi degli ultimi due secoli, si è smarrita in gran parte la memoria. Per rimediare a questa perdita progressiva, a Lucca, è nato ARVO (www.archiviovolto-santo.org realizzato col soste-gno della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca), un progetto con l’ambizione di riallacciare tutti i fili che si dipanano dal potente emblema del Volto Santo e la volontà di porsi come uno strumento organico di conoscenza. La pre-sentazione ufficiale del progetto dell’Archivio Digitale del Volto Santo, si è tenuta lo scorso 16 gennaio presso Villa Bottini a Lucca, alla presenza di un vasto uditorio e delle autorità cittadine. ARVO è un nuovo strumento digitale pensato ad uso degli studiosi ma rivolto anche a un pubblico colto interessato al fenomeno reli-gioso e ai pellegrinaggi storici. ARVO è frutto della collabo-razione tra la SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino, Firenze) e l’Associazione Mons Gaudii ed è curato dalla ricercatrice Ilaria Sabbatini. Il progetto vede la partnership dell’Archivio di Stato di Lucca, dell’Archivio Storico Diocesano di Lucca, dell’Università di Siena (Cen-tro di studi sugli ospedali

Prende vita l’archiviodel Volto Santo

a Cura di aldo [email protected]

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storici), dell’Università di Tours  (Département d’Histoire et d’Archéologie), del Complesso Museale e Archeologico della Cattedrale di Lucca. Patroci-nano il progetto il Comune di Lucca, l’Istituto Storico Luc-chese, l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo (ISIME), e l’Arcidiocesi di Lucca.Il progetto intende avviare un recupero della messe di cono-scenze sul Volto Santo a partire dalle fonti manoscritte e icono-grafiche, raccogliendo la vasta bibliografia su quello che fu e rimane un emblema della stessa identità lucchese. La leggenda e il culto del Volto Santo furono

peraltro condivisi ben al di fuori della Città, tanto da porsi come un ponte culturale e spi-rituale tra Oriente e Occidente, un elemento di contatto tra genti diverse ma unite da una potente componente comune.Seguendo le tracce della diffu-sione del culto del Volto Santo, si ritrovano le due anime dei lucchesi coesistenti in un raro equilibrio: l’orgoglioso senso di appartenenza a una comu-nità dalle grandi tradizioni e il valore della propria libertas insieme all’apertura verso il vasto mondo: spartiacque le Mura. Il Volto Santo infatti, oltre a parlarci della devozio-ne della città di Lucca, che da secoli si esprime attraverso cerimonie religiose, ma anche feste e momenti di incontro, è anche un punto di riferimento per lo studio di quel fenomeno così importante che furono e continuano ad essere i pelle-grinaggi a Gerusalemme ed in altri luoghi simbolo della cri-stianità. Lungo quel reticolo di strade che congiungeva Roma e Santiago di Compostela, Lucca occupava una posizione chiave ed anche per questa ragione il culto del simulacro lucchese assunse una grande rilevanza, molto al di sopra di una sem-plice pratica devozionale locale quale si tende a giudicarlo oggi.Co

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avanzi del processo di frantuma-zione e la-

vaggio della pietra per la formazione delle ghiaie

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Public Space è un luogo della durata di tre minuti e quarantacinque secon-

di. Questo è il tempo concesso al pubblico per vedere e per vedersi, fino al punto da essere inglobato nella visione stessa, vertigo autoriflettente. Del resto, ogni spazio realizza la propria possibilità proprio grazie alla visione.Il regista Marcantonio Lunardi affronta un processo seman-tico-chirurgico sul linguaggio cinematografico attraverso il medium della videoart, intesa, strutturata ed mostrata come atto linguistico che si fa porta-tore di significato riassemblan-do e riassegnando valore agli strumenti del discorso filmico e dell’immagine alla base.Il discorso visivo di Public Space concede tutto alla dimensione visiva, ma attraverso una pro-gressiva acquisizione di potere da parte dell’immagine rispetto agli altri sensi, depriva l’idea stessa della vista di un rapporto olistico con il corpo e la senso-rialità.La società occidentale ha in-fatti sviluppato l’approccio alla multimedialità fin dagli anni Sessanta. Come teorizzato da Marshall McLuhan nel 1963, i media costituiscono un’esten-sione dei cinque sensi umani. La realtà diviene suscettibile di infinite riproduzioni attraverso la fotografia, e gli utenti sono chiamati ad un percorso che oscilla tra la consapevolezza e la cecità ogniqualvolta si intera-gisca con l’automatismo del medium.Public Space è dunque un pro-cesso di riscrittura il cui punto di origine converge nella possi-bilità di narrare per immagini, anche nel momento in cui esse hanno atrofizzato gli altri sensi, relegandoli ad una posizione marginale, e il cui consumo reso immediatamente accessibile, le ha trasformate in una auctoritas, in una “verifica di esistenza” che raramente viene messa in discussione.I progressi nella tecnologia nella diagnostica prenatale hanno modificato la percezione del proprio corpo durante la gravidanza. L’ascolto e la comu-nicazione della sfera sensoriale

nella scrittura visiva del regista i loro corpi parlano e producono effetti di senso. Arti drenati del vitalismo, si lasciano cadere su una culla, cercando di toccare un simulacro, un vuoto, in una staticità che richiama alla mente l’esattezza delle regole compo-sitive della prospettiva rinasci-mentale italiana. Le immagini narrano secondo proprie regole e rompono con la convenzione della cinematografia classica che vieta all’attore di guardare attra-verso l’obiettivo della macchina da presa (al fine di favorire l’illusione referenziale e l’imme-desimazione di uno spettatore passivo). Non c’è alcun mondo parallelo lasciato agli osservatori fuori dallo schermo. Non ci lascia rifugiare da ciò che accade nel video Lunardi, perché i fon-damenti della realtà all’interno della soglia estetica sono i mede-simi della contemporaneità del-lo spettatore. L’inquadratura è lo strumento con il quale egli è chiamato a sentire, a condivide-re, a partecipare all’ossimoro di quei corpi deprivati, congelati e riassegnati ad una nuova parola, quella che agisce attraverso il mostrare, il negare, l’evocare, il condividere.A noi è richiesto di indagare la loro nuova natura, di ristabilire un dialogo sinestetico, che dalla vista si affranca proprio grazie alla visione stessa, per rimettere in discussione i processi che ci hanno formato, plasmato e condizionato. Senza scusanti. Non sono ammesse.

Ri–costruzione negazioneossimoricain Pubblic space– emotiva che accompagna le trasformazioni della donna, sono state affidate al control-lo dell’immagine digitale di ecografie e screening, i quali sostituiscono e rivelano ciò che prima era “segreto” ed esternato a partire dall’ascolto interno e personale della donna stessa.L’immaginazione della futura vita umana si trova ad essere ridefinita e ristrutturata dal me-dium dell’immagine divenuta simulacro. Le immagini mentali si separano dalla percezione del corpo, da un dialogo tra il tutto e le sue parti, per divenire entità autonome. Si sovrappongono al ciclo vitale. Sono divinità, e si tace ad ascoltarle.In Public Space, i personaggi si offrono per un’ibridazione con i dispositivi digitali che tengono appoggiati sul proprio ventre mentre mostrano immagini

ecografiche di feti. Le donne appaiono assenti, come assopite, appaiono sole, anche quando aumentano, moltiplicandosi nei passaggi da un’inquadratura all’altra. Moltiplicare è però sempre in relazione ad un’ os-servatore. Spettatore non è solo quello all’interno dello scher-mo, colui che guarda rapito lo schermo ridotto di un tablet, ma lo sono anche coloro che si trovano all’esterno dell’inqua-dratura, chiamati in causa dallo sguardo diretto di una donna che guarda “in macchina” e attraverso i propri occhi chiede loro di “guardarsi”.Lunardi mette in atto una riflessione sulla negazione della realtà fisica e umana, servendosi degli stessi strumenti che hanno condizionato e asservito i suoi personaggi. Sebbene privati del dialogo e di emozioni fisiche,

di manuela de [email protected]

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Ci son cose che ti bruciano dentro. Idee che ti accom-pagnano. Fissazioni che non

ti lasciano perché dentro sai che possono rappresentare qualcosa di davvero importante per te. Le grandi storie hanno bisogno del loro tempo però, del momento giusto. E il tempo giusto è’ quello che auguro ad Andrea Bruno Savelli che venerdì debutta con una nuova produzione al Teatro Dante-Carlo Monni di Campi. Lo spettacolo si chiama Attaccan-te nato, dal libro di Alessandro Alciato e Stefano Borgonovo sulla vita di quest’ultimo; grande attaccante di Fiorentina e Milan scomparso, bruciato via, dalla SLA, la stronza come la chiamava lui. Un libro, una vita, che ha ossessionato (spero mi consenta il termine) il regista fiorentino nel volerne fare uno spettacolo e lo ha portato con costanza e perseveran-za (doti che sono in lui cresciute in questo tempo anche forse grazie a questo progetto) a mettere in scena questa vita, questa fissazione per la vita.Una storia di vittorie e sconfitte,

sui campi e nella vita. L’alter-narsi di successi sportivi, di vita umana e di lotta alla malattia. Di caparbietà e tenacia, di un messaggio semplice ma fortissimo di speranza, di non arrendersi mai. Così la vita di Stefano Borgonovo dagli esordi alla serie A, il Milan e la Fiorentina, la coppia stratosfe-rica e mitica con Roberto Baggio. E poi la famiglia, la malattia, la lotta, la fondazione contro la SLA.

Tutto questo segnerà il racconto di Attaccante Nato, in cui il ruolo di Stefano Borgonovo sarà affidato al volto noto di Massimo Poggio. Un racconto che sappiamo essere forte ma affrontato con la leggerezza, la scanzonatezza ma anche la forza, la fisicità che Savelli ha nelle sue corde autoriali e che, in questi anni, il pubblico ha imparato ad apprezzare.Uno spettacolo che vede il Teatro

Dante-Carlo Monni cimentarsi con una propria produzione, insieme al Comune di Campi e alla Fondazione Stefano Borgo-novo, che rappresenta, in tempi di ristrettezze, un segnale bello e importante di investimento, di scommessa, su un’opera inedita. Come forse il lettore avrà intuito, chi scrive, su questo spettacolo, viola quel principio di imparzialità (talvolta un po’ ipocrita invero) che si dovrebbe avere nell’affronta-re questo mestiere. Di ciò chiedo preventivamente scusa, ma di questa fissazione ho avuto la fortu-na di veder nascere la scintilla. Poi come capita per le cose della vita, ne ho perso un po’ le tracce, spe-rando sempre dentro di me che la luce trovasse la sua via. E’ l’emo-zione dell’amico dunque a scrivere più che il dovere del cronista e quell’emozione che prende per le grandi storie, le grandi passioni umane proprio come quella di Stefano Borgonovo. Una passione che non vediamo l’ora di vedere su quel palco.Attaccante Nato – Teatro Dante Carlo Monni, Campi Bisenzio – 6, 7 febbraio, ore 21

La fissazione della vita

“ANTICA CASA Luigi Gonnel-li - Firenze via Ricasoli 6 - Libri Antichi e Moderni, Autografi, Manoscritti, Stampe, Disegni, Oggetti d’arte e d’antichità, Musica”, questa è l’ampia offerta della Libreria Antiquaria Gonnelli nel 1887, stando ad un annuncio pubblicitario che ho trovato in un bel fascicolo de “L’Illustrazione Italiana”. Ancora oggi, dopo quasi 150 anni, la libreria prosegue la sua attività negli stessi locali di via dei Servi e con la medesima gestione familiare.La libreria fondata da Luigi Gon-nelli nel 1875 diviene presto un importante punto di riferimento per bibliofili e Istituti Bibliografici e i suggestivi ambienti cinquecen-teschi sono meta di frequentazione per letterati e personaggi illustri in cerca di incunaboli o edizioni pregiate (tra loro Gabriele D’An-nunzio, Giovanni Papini, Benedet-to Croce e Giuseppe Prezzolini); poi, con la gestione del figlio Aldo, l’attività libraria è affiancata da iniziative di mostra e vendita di pittura. Dipinti di Giovanni Fat-tori e dei “Macchiaioli”, di Primo Conti, Ottone Rosai e Giorgio De

Chirico vengono infatti esposti in una saletta, ricavata da un antico cortile rinascimentale attiguo alla libreria, che diverrà nota come Saletta Gonnelli. A tutto questo si aggiunge, già dalla fine dell’Ot-tocento, un’importante attività editoriale che prosegue tuttora con la pubblicazione di collane presti-giose e dei “Quaderni Gonnelli”, stampati in occasione di mostre di arte e grafica. Produzione culturale ed artistica contraddistinguo-no l’attuale gestione di Marco Manetti (pronipote di Aldo) cui va anche il merito di aver ripristinato l’attività di aste librarie. Produzio-ne culturale, si diceva, perché le mostre a tema, organizzate nella ormai storica “Saletta” e curate da Emanuele Bardazzi, radunano sempre preziosità altrimenti poco fruibili. Questa volta è il turno di Alfredo Müller, cui si rende omaggio con un ritorno in “Saletta” a distanza di 85 anni dalla sua importante esposizione personale di stampe e dipinti. Müller, livornese di origini

svizzere, si forma alla scuola acca-demica di Gordigiani ma appena ventenne soggiorna a Parigi dove scopre la pittura degli impressioni-sti, in particolare di Monet e Pis-sarro. L’incontro con Delâtre, poi, gli permette di sperimentare l’inci-sione a colori che sarà caratteristica della sua produzione più affasci-nante e lo vedrà rappresentante di punta di questa tecnica così in voga durante la Belle Époque. La mostra ci presenta diverse tra le più belle e rare incisioni eseguite a Parigi tra ‘800 e ‘900 oltre a una serie di tempere inedite legate alle famose “Arlecchinate” e alcuni dipinti, per un totale di circa 40 opere. Risulta molto interessante, in questa esposizione, la presenza di stampe in diversi stati il cui con-fronto esalta il virtuosismo tecnico e l’effetto delle varianti, offrendo così un’ampia panoramica sull’età d’oro dell’acquaforte a colori. La mostra è stata anche l’occasione per presentare il catalogo ragionato dell’opera grafica di Müller. Una pubblicazione imponente (400 pa-gine), con oltre 200 stampe (quasi tutte realizzate intorno a Parigi tra il 1896 e il 1906), centinaia di di-segni, acquerelli, pastelli e schizzi,

edita dall’associazione “Les Amis d’Alfredo Müller” con l’intento di promuovere a livello interna-zionale l’opera dell’artista. Hélène Koehl, curatrice del catalogo, ha svolto ricerche da un capo all’altro del globo per raccogliere l’ampio materiale e sulla base di comparazioni rigorose e spoglio di carteggi ha potuto anche rettificare datazioni errate; il risultato del suo lavoro ci permette di comprendere l’ampiezza, la diversità e l’origi-nalità di questo artista “troppo francofilo in Italia, troppo italiano in Francia.

Alfred Mülleralla Gonnelli

di miChele morroCChitwitter @michemorr

di luiSa [email protected]

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Le cose belle sono semplici, non sono altisononanti, non hanno bisogno di comunicati

stampa, né palchi, né riflettori per essere semplicemente belle.Di cose belle Madrid è piena, qualcuno un giorno mi disse che se le avessi scoperte tutte avrei smesso di amarla, ma non vedo questo pericolo all’orizzonte, sarebbe come pensare di poter conoscere il fondo del mare nella spiaggia di fronte casa…Ma poi di fronte casa mia il mare neanche c’è, c’è piuttosto la Casa del Pianista che non è un teatro o un club, ma una casa vera e propria, un appartamento al 6º piano che è per l’appunto la casa di un pianista, italiano, trapiantato a Madrid da ormai più di 10 anni.Si chiama Guglielmo Foffani e presentarlo non è semplice, perché è una specie di moderno superman e come tutti i supereroi anche lui si sveste… nel caso di specie si sfila il camice da laboratorio e si infila nei panni - rigorosamente neri - del pianista, salvando gli spettatori dal tedio di una domenica sera pigra e nevosa. Dopo diversi anni dal primo incontro lo ascolto al pianoforte di casa sua insieme al violinista Luca Bagagli per la Prima di un nuovo progetto, MUSICinemA, uno spettacolo di quasi 60 minuti con uno splendido repertorio di colon-ne sonore firmate Nicola Piovani, Nino Rota ed Ennio Morricone che fanno tanto bene all’anima, checché ne dicano i suoi vicini…Guglielmo, perché Rota, Morricone e Piovani? A parte Nino Rota che è morto, Luca ha lavorato con Morricone e Piovani, li conosce personalmen-te, quindi è una musica che lui conosce molto da vicino. È stata una cosa molto spontanea, un po’ per la vicinanza di Luca a questo repertorio, ma anche per il fatto di essere entrambi italiani. Abbiamo cercato di proporre qualcosa di italiano e la musica da film italiana riuniva una serie di requisiti inte-ressanti.Come è nata la vostra collaborazio-ne?Tramite un amico comune violi-nista. Poi Luca è venuto qui a Ma-drid per fare un corso di direzione d’orchestra ed è cominciato tutto.L’idea di fare i concerti a casa cam-bia la percezione di chi ascolta?

succederà, essendo solo piano e violi-no, in un teatro si dovrebbe ricreare quell’intimità, ma con delle luci si fa abbastanza facilmente, è per comodità che restiamo qui, però se vengono fuori delle occasioni interessanti...Ma i tuoi vicini cosa ne pensano?Li invito sempre e vengono, non hanno mai fatto problemi se facessi un concerto tutte le settimane, o se facessi concerti rock, sarebbe più problematico. C’è soprattutto il vicino di sotto che invito sempre, lui ha visto tutte le varie proposte,

viene su, si mette lì, conosce la zona dove si sente meglio.Il tuo che pubblico è?Vario. C’è gente che viene dai primi concerti di tango. Il tango raccoglie sia pubblico giovane che quello più attempato, è sempre stato un mix.E ritornano, questo è l’importan-te...Molti ritornano in modo ciclico, c’è chi ripete più volte perché è la novità, poi l’effetto novità svanisce, però c’è tanta gente che ritorna, non funzionerebbe se no perché non c’è pubblicità. Le mie “operazioni marketing” consistono nel mandare un paio di email, an-nunciamo i concerti con massimo 2 settimane di anticipo. Mando una prima mail e ci sono quelli che si organizzano e rispondono immediatamente, ma un sacco di gente ci pensa all’ultimo momen-to, è per loro che mando 2 giorni prima un last-minute.Ci sono degli altri progetti in cantiere?Stavamo giusto questo pomerig-gio creando una nuova cosa con Luca, un po’ più folle di MU-SICinemA, l’abbiamo chiamata Sonata Sperimentale per violino e pianoforte. Sperimentale nel senso di non scritta, quindi ci sarà molta improvvisazione, cercando di strutturare all’interno di un  gioco d’improvvisazione un po’ più spin-

di valentina monaCatwitter @valentinamonc

L’aspetto diverso dell’essere a casa è la vicinanza, soprattutto con il violino che è uno strumento che si è abituati a vedere a distanza. In questo modo però ti perdi tutta una serie di dettagli di movimento e sonori che invece a pochi metri di distanza percepisci pienamente, a livello di ascolto sei più vicino a quello che sentono i musicisti di un’orchestra. Il rumore della corda io lo sento, il pubblico invece normalmente non può perché è un suono che si perde nei primi metri, mentre il suono che perce-pisce è solo quello che va fino in fondo. Oltre a questa vicinanza rispetto agli strumenti, in casa si crea, allo stesso tempo, un effetto sorpresa per cui la persona che arriva non sa bene cosa aspettarsi. La percezione è completamente diversa. Quindi non avete intenzione di cambiare location?La Casa del Pianista  nasce perché con il gruppo Ayahuasca Tango provavamo a casa mia. Poi ci siamo resi conto che fare i concerti qui era più speciale, più magico che in un locale. Con Ayahuasca Tango abbiamo suonato tante volte nella Casa del Pianista, ma  abbiamo riempito anche l’Auditorium del Conde Duque, siamo stati in Germania e in Italia in posti molto più grandi. con MUSICinemA non so cosa

to, rompendo un po’ di schemi.Dal lunedì al venerdì fai l’ingegne-re, attualmente lavori all’Ospedale Nazionale per Paraplegici di Toledo e al Centro Integrale di Neuroscienze di Madrid. Cosa c’è del tuo lavoro nella composizione e nei concerti del fine settimana?E, al contrario, cosa c’è invece del pianista nel tuo lavoro quotidiano?Prima di tutto la parola ingegnere non mi definisce bene, mi sento più un ricercatore. Nella ricerca c’è un aspetto creativo che riproduce gli stessi processi che si mettono in moto in qualsiasi lavoro creativo, compresa la musica. In questo senso i due mondi si parlano. All’i-nizio sembra che i due mondi non si tocchino più di tanto, invece con il tempo capisci che non è così. Quando abbiamo fatto il pri-mo concerto di Ayahuasca Tango è stato per il concerto di Natale per l’Associazione dei pazienti paraple-gici, un’occasione nata all’interno di un contesto di lavoro, da lì sono poi venuti fuori dei contatti. Per il primo disco abbiamo avuto infatti l’appoggio della Fondazione Ospedale Nazionale per Paraple-gici di Toledo; si creano insomma delle sinergie sorprendenti, però direi che il punto di contatto è il processo creativo. Poi ci sono delle altre analogie chiare. All’interno della musica c’è uno studio molto rigoroso, molto simile a quello delle tecniche di determinati rami del sapere. Approfondisci lo studio di uno strumento, approfondisci un campo di ricerca, più o meno è lo stesso tipo di lavoro. E poi c’è l’aspetto più “improvvisativo”. Nella musica classica la creazione è tutta scritta, nella musica improv-visata la creazione è nel momento, è adesso e domani non sei più in grado di riprodurre quello che hai suonato il giorno prima. In ricerca quello non c’è tanto. Le cose però si compensano, ho sempre cercato di compensare gli aspetti più mentali e quelli relativi alla perfor-mance. In fondo, l’equivalente del concerto nella ricerca è la presen-tazione davanti a un pubblico: la presentazione può essere piccola, puoi avere un’interazione con stu-denti più dinamica, meno fluida o più formale, contesti più o meno analoghi a quelli di uno spettaco-lo musicale, insomma i punti di contatto non mancano. E alla fine ti rendi conto che una cosa ti serve per l’altra, per esempio per perdere la paura del palcoscenico…

GuglielmoFoffaniPianista“casalingo”e ingegnere

rebushispanico

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a me piace andare a Roma. In un pomeriggio e una mattina ho visto tre cose

belle, curiose ed interessan-ti. Salto a piè pari la Galleria Borghese, scrigno di capolavori tali che Botticelli o Andrea Del Sarto non hanno numero per un’audio guida in cui non è contemplata la descrizione degli affreschi stanziali e della miriade di statue romane, e che, infine, ha bigliettai e tipi all’accoglienza sgarbati e sfuggenti, toilettes sgarrupate, Bar e Bookshop scarsini e per quantità e per qualità di cibarie e oggetti in vendita. Bernini e Caravaggio da soli basterebbero a riempire occhi ed anima per un tempo indefinito e li ho rivisti volentie-ri. Amo il cinema e quindi “Ci-necittà si mostra”, visita guidata alla nostrana, mitica “fabbrica di sogni”. Fellini domina, ormai romano eccellente, si entra, la Venusia del suo Casanova emer-ge dalla terra del giardino per accoglierci. L’ingresso è dedicato alla Inaugurazione del Duce, ai divi dell’epoca e agli sfollati che ci abitarono dopo le distruzioni della guerra. Curiosa la “stanza del regista” che propone dei cassettini contenenti oggetti d’uso di proprietà di chi qui ha girato film più o meno impor-tanti, l’inseparabile megafono di Fellini , il “Ventolin” di Scorse-se, evidentemente asmatico, vari occhiali bianchi, fra le migliaia che la Wertmuller possiede. Si passa dentro un sottomarino, vero e rumoroso, che fa anche un pò paura. Non posso citare tutto e passo alla visita di un enorme set distante, un Foro Romano con Palazzi, Templi, colonne, iscrizioni latine e la-stricato, dietro la “suburra”, ca-supole e botteghe del popolino. Preparato per una serie america-na colà famosissima e ignorata da noi, adusi a ruderi, marmi, pietre pompeiane e storie di Cesari ed Imperatori. Vista sug-gestiva, tatto fantastico, tutto in vetroresina, polisterolo e car-tongesso, leggero come piuma! Un pò nascosto quel che resta del set di Gangs of New York, case di legno stortignaccole e miserabili. Lascio la Holliwo-od Tiberina e corro a Palazzo Braschi, Museo di Roma, e mi

immergo in una passeggiata fra “I vestiti dei sogni”, mostra omaggio ai più grandi costumi-sti italiani che hanno ricevuto ovunque considerazione e premi su premi e che sono fra gli “ar-tisti” che hanno fatto grande il nostro cnema. Si ammirano due preziosi oggetti dell’epoca,1915, in cui ancora essi non esistevano e le dive usavano abiti propri, il lieve ed enorme scialle in cui si avvolge Francesca Bertini in Assunta Spina, ed un abito Fortuny appartenuto a Lydia Borrelli. Una stanza intera è dedicata a “Il Gattopardo”, la scena del ballo e il valzer che la sostiene ci avviluppano, inva-

Roma e i sognidi CriStina [email protected]

dono, inebriano, di fronte a noi il vaporoso abito bianco tutto balze fiocchi e gale che indossa Angelica, i suoi abiti di coto-nina “per tutti i giorni”, quelli delle principesse, di Tancredi e dell’impeccabile ed altero Prin-cipe. Tosi che ne è disegnatore ed artefice, è presente anche con le toilettes imperiali di Ludwig e quelle decadenti dell’altera Mangano in Morte a Venezia. Disegni e acquerelli dei bozzetti sono esposti in una sala, alcuni come se mostrassero le tappe della ricerca, la via per arrivare al risultato. Certo si può ben vedere quanto Fellini si diver-tisse a realizzare i propri sogni

e le proprie fantasie, gli abiti di Ghilardi per 8e1/2, Cabiria , e soprattutto quelli di Giulietta degli spiriti sono proprio, oltre che improbabili, pirotecnici, cappelli, colori, nastri, fiori, bislacche fogge comunicano la onirica e vitale forza delle idee, della creatività. I costumi di Donati per Pasolini e il suo Edipo hanno avuto bisogno di due speciali macchine, una che tesseva fili grossi come corde, un’altra, infernale, che plisset-tava kilometri di tele per le tuni-che delle comparse, l’abito di Giocasta- Mangano sembra una scultura...Tante altre meraviglie da ammirare.

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il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto con la l. 195 (c.d. Piccoli) del 2 maggio

1974 n. 195. Negli anni successivi nuove leggi si sono succedute con l’intento di rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostenta-mento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi potentati economici.I buoni propositi risultarono tuttavia smentiti dagli scandali affiorati successivamente (tra cui i casi Lockheed e Sindona). Il referendum abrogativo dell’aprile 1993, seguente tangentopoli, vide il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti che rinacque po-chi mesi dopo, quando il Parlamen-to, aggiornando il provvedimento legislativo definendolo “contributo per le spese elettorali”.Successivamente nel 1997, fu regolamenta nuovamente la contri-buzione volontaria ai movimenti o partiti politici e nel 1999, reintro-dotto un finanziamento pubblico completo per i partiti svincolandolo dalle spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. Altre norme migliorative si succe-dono fino al 2012, distinguendo il contributo pubblico in una sorta di

“doppio binario”, perché separa il contributo come “rimborso” delle spese per le consultazioni elettorali, quale “contributo” per l’attività politica, dal contributo “a titolo di cofinanziamento”.Col d.l. n. 149/2013, il gover-no Letta aveva già proceduto all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, mantenendo solo la possibilità di finanziamento privato, ma la concreta cessazione del finanziamento pubblico, così come impostato dalla l. 96/2012, avverrà solo nel 2017. Rimane solo la destinazione volontaria del 2 per mille dell’irpef, su precisa scelta del contribuente, e quindi la possibilità di usufruire di detrazioni fiscali collegate alle specifiche erogazioni liberali dei privati. A decorrere dal 2014, le erogazioni liberali in de-naro effettuate dalle persone fisiche in favore dei partiti politici, sono ammesse in detrazione ai fini Irpef come oneri deducibili, per un im-porto pari al 26% e per importi an-nui compresi tra € 30 ed € 30.000. Pari importo si detrae dall’IRES, per i soggetti diversi dalle persone fisiche. Tutto ciò a condizione che le donazioni siano corrisposte tramite strumenti tracciabili.La legge di stabilità 2015 aggiun-ge che le medesime erogazioni

continuano a considerarsi detraibili anche quando i versamenti sono ef-fettuati, anche in forma di donazio-ne, dai candidati e dagli eletti alle cariche pubbliche in conformità a previsioni regolamentari o statutarie deliberate dai partiti o movimenti politici beneficiari delle erogazioni medesime.Nei fatti, il 2 per mille si è rivelato un flop, infatti i contribuenti che hanno sostenuto uno degli 11 partiti ammessi alla ripartizione sono stati 16.518, per un gettito totale di appena 35 milioni di euro. Ecco perché sono tutti d’accordo che il meccanismo del 2 per mille vada rivisto. In effetti la contribu-zione indiretta non appare indicata a garantire ai partiti vere risorse, per cui occorre provvedere cercando una soluzione che contempli l’esigenza obiettiva di recuperare il finanziamento pubblico, ma solo per una parte limitata e che, per quello privato, che comunque è sempre esistito, sia almeno possibile adottare tutti gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento per garantire la trasparenza, uno dei cardini della normativa sull’anticor-ruzione. Attualmente molti finanziamenti ai partiti passano attraverso le fondazioni che, con la normativa

attuale, possono operare senza alcun controllo; molte fondazioni politiche mascherano la loro finalità organizzando convegni, giornate di studi; editando pubblicazioni, ecc. e così facendo raccolgono sostegni liberamente ed in maniera anonima, infatti queste fondazioni non sottostanno, oggi, ad obblighi di rendicontazione e quindi non devono comunicare i nomi dei benefattori. Bastano poche regole per inquadrare queste fondazioni nell’ambito della “trasparenza”, è’ sufficiente disporre l’obbligo di iscriversi al Registro Imprese, in apposita sezione, e di pubblicare sul loro sito i nomi dei donatori (almeno per importi definiti signi-ficativi).In Italia, nonostante i recenti provvedimenti sulla trasparenza, come il d. lgs. n. 33/2013 e la l. c.d. “anticorruzione” n. 190/2012, non esiste un Freedom of Information Act, eppure lo stesso Renzi, nel 2013, ne sottolineava l’esigenza. Adesso che è allo studio la revisione completa dell’impresa sociale, pos-siamo disporre del momento più adatto per applicare queste regole.Crediamo che così possa almeno emergere il circuito di interessi che da sempre rimane nelle nebbie di una legislazione volutamente opaca.

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexLe eteree cellulose-opere di della Bella hanno in comune la ricerca, voluta o casuale non ci interessa, di proporre svariati effetti barocchi. Noi ci siamo permessi, all’insaputa dell’au-tore, di manomettere Scottex 7 brancicandolo in modo da raggiungere delle forme acute che si concludono in una cu-spide per realizzare un’opera gotica, non per dispetto ma per sperimentazione: speriamo che l’artista non ce ne voglia.

Sculturaleggera

Per la trasparenza dei soldi ai partiti

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di roBerto [email protected]

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In occasione del Carnevale 2015, Il Cenacolo degli Sparecchiatori, e il Centro Socio Culturale Anziani del Fuligno, con il patrocinio dell’Arga (Ass. Giornalisti Agri-coltura, Alimentazione, Ambien-te…) promuove l’VIII edizione del pubblico concorso“La più buona Schiacciata alla Fiorenti-

na” riservato non solo a fornai, pasticceri, ristoratori ma anche a massaie, casalinghe e casalinghi competenti di Firenze. Martedì 17 febbraio, alle ore 12,30 Centro Anziani del Fuli-gno, in via Faenza, 52. Partecipare è semplicissimo, e del tutto gratu-ito: basta telefonare dal lunedì al venerdì al numero 055 2728603 dalle ore 9,30 alle 12,30 e dalle ore 15,30 alle ore 18,30.

Debutta in prima nazionale il 3 febbraio al Teatro Studio di Scan-dicci il nuovo lavoro di Giancarlo Cauteruccio Napolisciosciammocca primo atto di una trilogia sulle città di mare che Giancarlo Cau-teruccio ha ideato, scegliendo Napoli, Genova e Trieste. Il viaggio inizia con la città partenopea in cui egli rende omaggio a Eduardo De Filippo e ai suoi amici Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Enzo Moscato. Da sempre legato all’architettura, in questo singolare progetto Cauteruccio legge i luoghi, i paesaggi, i sentimenti, attraver-sandoli e lasciandosi attraversare dalle canzoni del grande repertorio, (da ‘O sole mio.ta Torna a Surriento), per restituirne un’energia inattesa e anche tragica. Napoli è per eccellenza la città che canta e viene cantata nel mondo, contiene in sé una drammaturgia della musica che da sempre la definisce, ma la sua potente bellezza che si riflette nel mare oggi è offuscata e corrotta dalle emergenze del presente. . Dal 3 febbraio al 15 febbraio 2015, dal martedì al sabato ore 21.00, domenica ore 18.00, lunedì riposo.

Napolisciosciammoccaal Teatro Studio

in

giro

La più buonaschiacciata

alla fiorentina

A R C H I T E T T U R A A D A L G H E R OArchitecture At Alghero .Master

Giovedì 29 Gennaio 2015 | ore 17.00Aula AIPb, Complesso di Santa Chiara, piazza Santa Croce, Alghero

Nel 2000 a Firenze nasce la nuova Convenzione Europea del Paesaggio. In essa si ridefiniscono tutti i parametri che disegnano il concetto di qualità del paesaggio contemporaneo, viene posto al centro il rapporto tra uomo e territorio, il paesaggio diventa un concetto culturale, la sua qualità legata ad un fattore percettivo.Il principio che emerge dalla Convenzione si fonda sul concetto che un “bel paesaggio” non si può più misurare solo secondo i gradi di eccellenza degli elementi di cui è composto, ma si giudica dalle forme dell’equilibrio che tale sistema ha prodotto e crea, nel tempo, con le azioni dell’uomo.

Davide Virdis, laureato in architettura a Firenze con una tesi sul rapporto tra linguaggio fotografico e rappresentazione dello spazio, sviluppa la sua ricerca principalmente nel campo della fotografia di architettura e paesaggio con una attenzione all’aspetto antropologico collaborando spesso durante con sociologi, antropologi ed urbanisti. Uno dei suoi lavori recenti: Routes of Water (edito da Grafiche Gelli).

Davide Virdis

CONFERENZA

WATERSCAPEDESIGNING SETTLEMENTS

FOR SUSTAINABLE COASTAL TERRITORIES

Davide Virdis

IL PAESAGGIO COME FENOMENO PERCEPITO Il progetto fotogra�co nella lettura del territorio e della città.

Approcci metodologici e l’esperienza sul campo.

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31gennaio

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

In tempi di terroristici scontri di civiltà, è opportuno precisare che ogni disegno riproducente nudi femminili non ha nessun riferimento con le 72 houri (vergini) nel paradiso islamico.

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L

La raccolta della frutta. In questo caso si tratta di albicocche. Il ranch dove sono state scattate le immagini era quello dei miei suoceri, la famiglia di Dominic e Carmela Speno. Calabresi tutti e due, lui era nato negli Stati Uniti mentre lei era originaria di Spezzano Picco-lo, un paese in provincia di Cosenza alle pendici della Sila. Carmela era arrivata negli Stati Uniti con la madre e la sorella più piccola

nel mese di luglio del 1929, il fatidico anno della grande crisi, per ricongiungersi al padre emigrato da solo alcuni anni prima. Il piccolo chihuahua legato al paraurti di questo transatlantico (almeno per me che ero abituato ad una misera Fiat “500”) è ovviamente il cane di una delle tante famiglie di raccoglitori messicani che lavoravano a giornata nel frutteto di famiglia.

Patterson, San Joaquin Valley, 1972

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

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