Alias domenica 14 7 13 sulla psicoanalisi

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di PAULO BARONE ●●●La psicoanalisi è minacciata, il suo profilo teorico e la sua efficacia clinica sono screditati, la sua esisten- za è «sotto attacco»: puntualmente si rinnova il grido d’allarme che ac- compagna le sorti sempre incerte e precarie della psicoanalisi, e ogni vol- ta si rinnova la conseguente chiama- ta alle armi dei suoi sostenitori, co- stretti a «riaffermarne le ragioni», pronti a «difenderla». Non è forse ve- ro, in fondo, che sin dal suo atto di nascita la psicoanalisi rappresenta un’anomalia, uno scandalo mal tolle- rato, qualcosa da «correggere», da normalizzare e dunque volentieri da sopprimere? Ultimo, in ordine di tempo, a riproporre la centralità di un simile schema, dopo una recente polemica a mezzo stampa sulla pre- sunta mancanza di statuto scientifi- co della psicoanalisi, è oggi un inedi- to «cartello» analitico, sotto il cui ves- sillo quattro psicoanalisti in rappre- sentanza delle differenti scuole – due freudiani (Argentieri e Bologni- ni), un lacaniano (Di Ciaccia) e uno junghiano (Zoja) – hanno deciso di mettere in disparte le rispettive di- vergenze dottrinali per coalizzarsi dapprima con un «manifesto» comu- ne, poi con un libro, esplicito sin dal titolo: In difesa della psicoanalisi (Ei- naudi, «Vele», pp. 128, 10,00). Posto, dunque, che quello dell’at- tacco-difesa sia davvero un dispositi- vo permanente e irrinunciabile nella rappresentazione che la psicoanalisi dà di se stessa, chi è il nemico attua- le della psicoanalisi e qual è l’imma- gine della psicoanalisi che emerge- rebbe sotto la pressione di questo en- nesimo accerchiamento? Occorre- rebbe innanzitutto cominciare a di- stricare quel riferimento all’età della psicoanalisi, quei suoi proverbiali «cento anni» dell’intercalare corren- te, presentati tra le righe come un ci- clo coerente o un nucleo uniforme cui ricondurre e in cui stabilizzare gli inevitabili mutamenti intervenu- ti. Anche accettando di ragionare in termini di «storia della psicoanalisi» – cosa per nulla scontata, perché dà ad intendere, senza dirlo, che la psi- coanalisi si muova nel tempo come un’entità già configurata, provvista sin dal principio di una sua essenza che si svolge progressivamente – si dovrebbe distinguere, almeno, la fa- se pionieristica e «pestilenziale» del- l’esordio, quella dell’espansione de- gli anni ’50 e ’60 e quella odierna, non meglio identificata e tuttavia contrassegnata da una serie sparsa di tratti generici ben evidenti e rico- nosciuti (anche dal «cartello»): la pre- senza del lessico psicoanalitico nel linguaggio comune, l’uso dei suoi concetti nelle produzioni pubblicita- rie, la sua progressiva istituzionalizza- zione e burocratizzazione, la sua in- terconnessione con i settori della psi- chiatria, della medicina e della psico- logia, la moltiplicazione delle scuole, la variegata offerta delle «psicotera- pie a orientamento psicoanalitico». Tutti questi segni aspecifici, il cui elenco potrebbe continuare, sareb- bero l’indice di una tendenza da par- te della psicoanalisi – già diagnosti- cata con chiarezza, per esempio, da Fachinelli e da Deleuze verso la me- tà degli anni ’70 – a infiltrare i pori e le fessure del campo sociale sino a saturarlo. Come una nebulosa in espansione, la psicoanalisi – dopo aver permeato in precedenza la cul- tura «alta» – avrebbe disseminato, poi, l’atmosfera sociale ordinaria, la cultura sfocata, a bassa frequenza, ovviamente non con il marchio a fuo- co dei suoi concetti puri e originari con cui terrebbe il corpo sociale di- rettamente sotto tiro, ma nel solo modo possibile, cioè attraverso la lo- ro deviazione, il loro snaturamento. Come definire, allora, la fase attua- le se non come quella della sovrae- sposizione della psicoanalisi, della sua uscita fuori di sé? Dinnanzi a questa inedita e complessa condizio- ne di auto-irretimento – in cui la psi- coanalisi tende a coincidere con il contesto sociale, occupando cioè un ‘luogo’ che è sistematicamente al di là del luogo dove essa stessa ritiene di essere, un ‘luogo’ che eccede la sua capacità di riconoscersi – che senso ha correlare gli «attacchi» odierni a quelli degli esordi, come se si trattasse sempre del medesimo, immutato fenomeno di «resistenza» oppostole da un mondo pregiudizial- mente ostile, se non allo scopo di re- cuperare una qualche forma di di- stanza e sperare di mettere al sicuro il proprio nucleo identitario? Quan- do, così, i quattro autori del libro-car- tello sentono la necessità di tornare all’atto di nascita della psicoanalisi – o delle varie psicoanalisi – e ribadir- ne i concetti fondamentali, non la «difendono» se non a patto di costru- ire una psicoanalisi «difesa», sulla di- fensiva, isolata tanto dal mondo in cui vive quanto da ciò che essa è di- ventata impregnando il mondo di sé (due facce della stessa medaglia). In questo senso, decidendo di ri- spondere all’ultimo «attacco» è co- me se gli autori del libro-manifesto avessero ingoiato un’esca avvelena- ta. Cos’è, infatti, questa accusa sulla presunta carenza di scientificità nel trattamento delle sindromi gravi co- me l’autismo (il casus belli) se non un’ulteriore spinta affinché la psicoa- nalisi esibisca le proprie credenziali presso l’opinione pubblica presen- tandosi come una disciplina in pos- sesso di un sapere specialistico, «mo- derno», competente, coerente, affi- dabile, in costante aggiornamento sulle recenti scoperte, che si pronun- cia con la sicurezza dell’esperto quan- do è chiamata a dire la sua su questo e su quello, su un caso clinico, sull’ul- timo caso di cronaca, su una tenden- za sociale insorgente? Il «cartello» asseconda puntual- mente queste richieste e avalla que- sta «posizione», soddisfatto di poter assegnare alla psicoanalisi un posto d’onore imperituro in seno alla mo- dernità occidentale e alla sua cultura, – cosa indiscutibile; ma gli autori non si accorgono del fatto che, proprio a partire da questa ‘onorificenza’, il lo- ro «cartello» vincola in modo tacito la psicoanalisi a fare blocco con una cer- ta versione, ideologicamente specifi- ca, della modernità, definita su due piedi, per esempio, un «mondo aper- to e pluralista», di stampo perciò libe- rale: il che è doppiamente paradossa- le, perché un simile intreccio blinda una volta per tutte quel rapporto tra psicoanalisi e modernità fondato in- vece sull’idea – terribilmente più di- namica e travolgente – di «crisi per- manente»; ma soprattutto perché la scena contemporanea è oggi marca- ta, piuttosto, dal fatto che tale para- digma di «crisi permanente» ha esau- rito le sue risorse, raggiunto il pro- prio limite e toccato il suo punto di rottura, con la conseguenza, tra le molte, che qualunque chiara riparti- zione o distinzione è resa impossibile (indecidibile, indiscernibile). Chi può stabilire oggi dove finisca la «ricerca della scienza» e dove co- minci l’«ideologia scientista», dove fi- nisca lo stile occidentale e cominci il «modo di produzione asiatico», l’eco- nomia «reale» e la «finanza», lo sguar- do «interiore» e quello «rivolto al- l’esterno», il passo «profondo e ponde- rato» dell’analista e l’«aria superficiale del tempo», per riprendere alcune di- stinzioni, date invece per certe dal car- tello In difesa della psicoanalisi? PSICOANALISI CONOSCI TE STESSA CARVER CONSTANCE WILDE ELTIT SANZ PSICOANALISI TEOBALDI DI PAOLO POSTORINO PERISSINOTTO MACCHIAIOLI A PARIGI BUTTI DUE FREUDIANI, UN LACANIANO, UNO JUNGHIANO ACCANTONANO LE LORO DIVERGENZE TEORICHE E SI RIUNISCONO SOTTO UN INEDITO CARTELLO «IN DIFESA DELLA PSICOANALISI». MA RISPONDENDO ALL’ENNESIMO ATTACCO INGOIANO UN’ESCA AVVELENATA SEGUE A PAGINA 4

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supplemento a il manifesto

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Page 1: Alias domenica 14 7 13 sulla psicoanalisi

di PAULO BARONE

!!!La psicoanalisi è minacciata, ilsuo profilo teorico e la sua efficaciaclinica sono screditati, la sua esisten-za è «sotto attacco»: puntualmentesi rinnova il grido d’allarme che ac-compagna le sorti sempre incerte eprecarie della psicoanalisi, e ogni vol-ta si rinnova la conseguente chiama-ta alle armi dei suoi sostenitori, co-stretti a «riaffermarne le ragioni»,pronti a «difenderla». Non è forse ve-ro, in fondo, che sin dal suo atto dinascita la psicoanalisi rappresentaun’anomalia, uno scandalo mal tolle-rato, qualcosa da «correggere», danormalizzare e dunque volentieri dasopprimere? Ultimo, in ordine ditempo, a riproporre la centralità diun simile schema, dopo una recentepolemica a mezzo stampa sulla pre-sunta mancanza di statuto scientifi-co della psicoanalisi, è oggi un inedi-to «cartello» analitico, sotto il cui ves-sillo quattro psicoanalisti in rappre-sentanza delle differenti scuole –due freudiani (Argentieri e Bologni-ni), un lacaniano (Di Ciaccia) e unojunghiano (Zoja) – hanno deciso dimettere in disparte le rispettive di-vergenze dottrinali per coalizzarsidapprima con un «manifesto» comu-ne, poi con un libro, esplicito sin daltitolo: In difesa della psicoanalisi (Ei-naudi, «Vele», pp. 128, ! 10,00).

Posto, dunque, che quello dell’at-tacco-difesa sia davvero un dispositi-vo permanente e irrinunciabile nellarappresentazione che la psicoanalisidà di se stessa, chi è il nemico attua-le della psicoanalisi e qual è l’imma-gine della psicoanalisi che emerge-rebbe sotto la pressione di questo en-nesimo accerchiamento? Occorre-rebbe innanzitutto cominciare a di-stricare quel riferimento all’età dellapsicoanalisi, quei suoi proverbiali«cento anni» dell’intercalare corren-te, presentati tra le righe come un ci-clo coerente o un nucleo uniformecui ricondurre e in cui stabilizzaregli inevitabili mutamenti intervenu-ti. Anche accettando di ragionare intermini di «storia della psicoanalisi»– cosa per nulla scontata, perché dàad intendere, senza dirlo, che la psi-coanalisi si muova nel tempo comeun’entità già configurata, provvistasin dal principio di una sua essenzache si svolge progressivamente – sidovrebbe distinguere, almeno, la fa-se pionieristica e «pestilenziale» del-l’esordio, quella dell’espansione de-gli anni ’50 e ’60 e quella odierna,non meglio identificata e tuttaviacontrassegnata da una serie sparsadi tratti generici ben evidenti e rico-nosciuti (anche dal «cartello»): la pre-senza del lessico psicoanalitico nellinguaggio comune, l’uso dei suoiconcetti nelle produzioni pubblicita-rie, la sua progressiva istituzionalizza-zione e burocratizzazione, la sua in-terconnessione con i settori della psi-chiatria, della medicina e della psico-logia, la moltiplicazione delle scuole,la variegata offerta delle «psicotera-pie a orientamento psicoanalitico».

Tutti questi segni aspecifici, il cuielenco potrebbe continuare, sareb-bero l’indice di una tendenza da par-te della psicoanalisi – già diagnosti-cata con chiarezza, per esempio, daFachinelli e da Deleuze verso la me-tà degli anni ’70 – a infiltrare i pori ele fessure del campo sociale sino asaturarlo. Come una nebulosa inespansione, la psicoanalisi – dopo

aver permeato in precedenza la cul-tura «alta» – avrebbe disseminato,poi, l’atmosfera sociale ordinaria, lacultura sfocata, a bassa frequenza,ovviamente non con il marchio a fuo-co dei suoi concetti puri e originaricon cui terrebbe il corpo sociale di-rettamente sotto tiro, ma nel solomodo possibile, cioè attraverso la lo-ro deviazione, il loro snaturamento.

Come definire, allora, la fase attua-le se non come quella della sovrae-sposizione della psicoanalisi, dellasua uscita fuori di sé? Dinnanzi aquesta inedita e complessa condizio-ne di auto-irretimento – in cui la psi-coanalisi tende a coincidere con ilcontesto sociale, occupando cioè un‘luogo’ che è sistematicamente al dilà del luogo dove essa stessa ritiene

di essere, un ‘luogo’ che eccede lasua capacità di riconoscersi – chesenso ha correlare gli «attacchi»odierni a quelli degli esordi, come sesi trattasse sempre del medesimo,immutato fenomeno di «resistenza»oppostole da un mondo pregiudizial-mente ostile, se non allo scopo di re-cuperare una qualche forma di di-stanza e sperare di mettere al sicuroil proprio nucleo identitario? Quan-do, così, i quattro autori del libro-car-tello sentono la necessità di tornareall’atto di nascita della psicoanalisi –o delle varie psicoanalisi – e ribadir-ne i concetti fondamentali, non la«difendono» se non a patto di costru-ire una psicoanalisi «difesa», sulla di-fensiva, isolata tanto dal mondo incui vive quanto da ciò che essa è di-ventata impregnando il mondo di sé(due facce della stessa medaglia).

In questo senso, decidendo di ri-spondere all’ultimo «attacco» è co-me se gli autori del libro-manifestoavessero ingoiato un’esca avvelena-ta. Cos’è, infatti, questa accusa sullapresunta carenza di scientificità neltrattamento delle sindromi gravi co-me l’autismo (il casus belli) se nonun’ulteriore spinta affinché la psicoa-nalisi esibisca le proprie credenzialipresso l’opinione pubblica presen-tandosi come una disciplina in pos-sesso di un sapere specialistico, «mo-derno», competente, coerente, affi-dabile, in costante aggiornamentosulle recenti scoperte, che si pronun-cia con la sicurezza dell’esperto quan-do è chiamata a dire la sua su questoe su quello, su un caso clinico, sull’ul-timo caso di cronaca, su una tenden-za sociale insorgente?

Il «cartello» asseconda puntual-mente queste richieste e avalla que-sta «posizione», soddisfatto di poterassegnare alla psicoanalisi un postod’onore imperituro in seno alla mo-dernità occidentale e alla sua cultura,– cosa indiscutibile; ma gli autori nonsi accorgono del fatto che, proprio apartire da questa ‘onorificenza’, il lo-ro «cartello» vincola in modo tacito lapsicoanalisi a fare blocco con una cer-ta versione, ideologicamente specifi-ca, della modernità, definita su duepiedi, per esempio, un «mondo aper-to e pluralista», di stampo perciò libe-rale: il che è doppiamente paradossa-le, perché un simile intreccio blindauna volta per tutte quel rapporto trapsicoanalisi e modernità fondato in-vece sull’idea – terribilmente più di-namica e travolgente – di «crisi per-manente»; ma soprattutto perché lascena contemporanea è oggi marca-ta, piuttosto, dal fatto che tale para-digma di «crisi permanente» ha esau-rito le sue risorse, raggiunto il pro-prio limite e toccato il suo punto dirottura, con la conseguenza, tra lemolte, che qualunque chiara riparti-zione o distinzione è resa impossibile(indecidibile, indiscernibile).

Chi può stabilire oggi dove finiscala «ricerca della scienza» e dove co-minci l’«ideologia scientista», dove fi-nisca lo stile occidentale e cominci il«modo di produzione asiatico», l’eco-nomia «reale» e la «finanza», lo sguar-do «interiore» e quello «rivolto al-l’esterno», il passo «profondo e ponde-rato» dell’analista e l’«aria superficialedel tempo», per riprendere alcune di-stinzioni, date invece per certe dal car-tello In difesa della psicoanalisi?

PSICOANALISICONOSCI TE STESSA

CARVER • CONSTANCE WILDE • ELTIT • SANZ •PSICOANALISI • TEOBALDI • DI PAOLO • POSTORINO• PERISSINOTTO • MACCHIAIOLI A PARIGI • BUTTI

DUE FREUDIANI, UN LACANIANO, UNO JUNGHIANOACCANTONANO LE LORO DIVERGENZE TEORICHEE SI RIUNISCONO SOTTO UN INEDITO CARTELLO«IN DIFESA DELLA PSICOANALISI». MA RISPONDENDOALL’ENNESIMO ATTACCO INGOIANO UN’ESCA AVVELENATA

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(4) ALIAS DOMENICA14 LUGLIO 2013

di FRANCO LOLLI

!!!Come può l’essere umano convivere con la mancanza di fondamen-to che caratterizza la sua esistenza? Quali strategie di sopravvivenza sogget-tiva è in grado di inventare per rispondere all’impatto traumatizzante conla malattia e la morte? Che possibilità ha di resistere all’urto annichilentedell’insensatezza del vivere? E, soprattutto, cosa ha da dire la psicoanalisi aquesto riguardo? L’ultimo lavoro di Laura Ambrosiano e Eugenio Gaburri,Pensare con Freud (Cortina, pp. 135, ! 15,50) è un’appassionata meditazio-ne su questi interrogativi, frutto di una lunga pratica psicoanalitica di ascol-to della sofferenza umana, fecondata da una profonda riflessione filosoficasulle questioni fondamentali dell’esistenza. I due noti psicoanalisti italianiconcentrano la loro attenzione sul processo di sublimazione, ovvero sullafunzione psichica che offre all’essere umano la possibilità di attribuire unsenso alla propria vita e alla propria finitudine, di significare, cioè, il realeinsensato della morte, il destino impersonale e impassibile, l’opacità delmondo, ciò che Bion, come ci ricordano gli autori, aveva definito «O», l’as-soluto impensabile. Il nucleo centrale da cui prende spunto la loro elabora-zione consiste, infatti, in una rigorosa considerazione del modo in cui l’uo-mo «fa i conti» con l’esperienza limite della perdita, della mancanza e, piùspecificatamente, della possibilitàdella propria morte, esperienza dicui la vicenda personale del padredella psicoanalisi sembra offrirsi co-me rappresentazione paradigmati-ca.

Nei primi mesi del 1923, Freudscoprì di avere una leucoplachia alpalato: le sue conoscenze medichegli consentirono di capire immedia-tamente che si trattava di un tumo-re maligno. Eppure, di fronte a taleevidenza, decise di farsi operarecon una semplice ablazione daMarkus Hajek, un chirurgo non al-l’altezza della gravità della situazio-ne. La sorprendente reazione diFreud alla manifestazione pertur-bante della malattia e all’effettotraumatico causato dalla prospetti-va della propria morte fu la conse-guenza dell’azione di un meccani-smo difensivo specifico, il diniego(Verleugnung); l’ineluttabilità dellanatura maligna della propria malat-tia – insopportabile per il suo caricoangoscioso – era stata rigettata, ripu-diata a favore della instaurazione di

una credenza più tollerabile e me-no minacciosa.

La scelta di affidarsi alle cure diun medico considerato a dir poco«disinvolto» va letta, dunque, comesconfessione della gravità della ma-lattia mediante la banalizzazionedella risposta sul piano terapeutico:quella scelta sbagliata costrinseFreud, a pochi mesi di distanza dal-la prima infelice operazione, a sotto-porsi a un secondo intervento radi-cale di asportazione della formazio-ne cancerosa (dimostrando, in talmodo, di avere «accettato» fino infondo l’effettiva gravità della patolo-gia). La consapevolezza della realtàdel tumore maligno aveva scalzatola precedente coesistenza di dueconvinzioni in aperta contraddizio-ne tra loro, condizione psichica de-terminata dall’azione del meccani-smo difensivo della Verleugung; perun verso, la coscienza della severitàdella diagnosi, per l’altro, la sua sot-tovalutazione, a smentirne il versan-te angosciante.

Non è azzardato, a questo propo-sito, pensare che sia stata proprioquesta esperienza personale a per-mettere a Freud di sviluppare, neglianni immediatamente successivi, ilconcetto di Verleugnung, sottoline-andone non solo il versante patolo-gico (a fondamento della strutturaperversa) ma anche la sua declina-zione ’quotidiana’, ’abitudinaria’,di difesa – mediante allontanamen-to – dalle esperienze più dolorose.

Ma la denegazione non è il solomodo di affrontare l’orrore dellamorte – scrivono Ambrosiano e Ga-burri. Esposto alla vulnerabilità del-la malattia e alla passività a cui laprospettiva della morte lo riduce,l’uomo, infatti, è capace di elabora-re ciò che gli accade recuperandouna forma di attività (per non sentir-si – dicono gli autori – «un mosceri-no disperso in un universo che vaper conto suo») che passa attraver-so la possibilità di raccontarsi, dirappresentare, di sublimare.

La sublimazione, allora, si confi-gura proprio come la facoltà tuttaumana di riaffermare la spinta allavita, di mantenere accesa la scintil-la a esistere, di riuscire, cioè, «a direla nostra» anche in presenza di si-tuazioni annichilenti, di trasforma-re la sensazione di essere invaso (dafuori e da dentro) dall’ineluttabilità

della nuda vita in attività rappresen-tative quali sono l’amore e la subli-mazione, di accogliere (facendonequalcosa) l’opportunità di una vitache non si è scelta né chiesta: in po-che parole – quelle straordinaria-mente intense di Winnicot – di farein modo che la morte ci colga vivi.La sublimazione, diversamente dal-la rimozione, non impone una ri-nuncia; al contrario, canalizza

l’energia pulsionale mettendola alservizio del raggiungimento di me-te e scopi diversi, allargando pro-spettive e orizzonti, rendendo possi-bile la creazione e l’invenzione. Mac’è di più, sostengono Ambrosianoe Gaburri. La sublimazione è apertu-ra verso l’Altro, potenziamento deilegami, possibilità di incontro, sod-disfazione narcisistica che, al con-tempo, è a disposizione della comu-

Una duplice operazione sarebbe co-sì al fondo dell’immagine in corsodella psicoanalisi: isolare e prelevareuna certa fase «sicura» dal ciclo dellamodernità e proiettarne la figura sul-lo schermo amorfo rappresentatodalla variante contemporanea di es-sa, in modo da ri-guadagnare una di-stanza dal gelatinoso, indecifrabilepulviscolo che la caratterizza. Mal’esser venuto meno di questa «di-stanza» è davvero riconducibile, an-che per la psicoanalisi, a un inciden-te di percorso, a un caso reversibile?

A dispetto di qualsiasi accusa, ilsuo potere d’indagine e la sua capa-cità conoscitiva si sono rivelati viavia incontestabili, tanto che lo stesso«odio» riservatole fu giudicato, giànegli anni ’60, da Winnicott una rea-zione comprensibile rispetto al «bi-sogno dell’individuo di restare segre-to e isolato», e dunque una riprovadella sua efficacia.

Partecipe di un processo storicoche tra la fine dell’800 e il ’900 è statoconcorde, rapido e inarrestabile, losguardo psicoanalitico – come la fo-tografia e il cinema secondo Benja-min – è penetrato nei particolari enei recessi più intimi delle cose finoa farle esplodere in mille frantumi,tutti a loro volta parimenti significati-vi; è passato a dare valore agli ele-menti secondari e trascurati, ai dé-chets – come certi scrittori della pri-ma metà dell’’800 «a uno stuzzica-denti tutto ingiallito» secondo Auer-bach o come Warburg agli accessori,ai capelli o al panneggio del vento –esplicitando, o forse creando addirit-tura delle «realtà» e una «sensibilità»mai viste prima, come nella migliorefantascienza.

Dopo un corteggiamento e unadiffusione così pervasivi, come e do-ve ripristinare un supposto fronteelementare della realtà, se non inmodo arbitrario o per opportuni-smo tattico? E come far tornare al si-lenzio, alla profondità, alla misura lamiriade di «individui atomizzati enarcisisti» (ormai una categoria mo-rale) che siamo diventati dopo avereprofuso nelle più piccole fibre delcorpo sociale tanta sollecitazione,tanta stimolazione, tanta elettricità?E una volta sgranate, per così dire, lecose in quote ormai infinitesimali (ilnostro pulviscolo contemporaneo,appunto) come non considerare chel’indecidibilità, il sì e il no simultaneiche le caratterizza – impressi anchenel ritmo sincopato, convulso e invo-luto della lingua quotidiana, nonchénel ricorso continuo a paradossi e os-simori del linguaggio specializzato –siano non tanto l’indice di una con-dizione regressiva a cui il processodi mediazione, rivendicato dalla psi-coanalisi classica, dovrebbe sempredi nuovo prestare il suo indispensa-bile soccorso, quanto l’esito di unamediazione che, raggiungendo ilsuo limite, avendo già mescolato tut-to con tutto, risulta ormai immedia-tamente «contraddittoria», inservibi-le, fonte di ulteriore disordine e diequivoci, come certi fenomeni politi-ci e sociali di «crisi della rappresen-tanza» starebbero a indicare?

Il solo, autentico «nemico» degnodi considerazione della psicoanalisisarebbe così la sua stessa ombra,l’ombra irriconoscibile di ciò che essaè diventata andando fuori di sé graziealla sua formidabile potenza d’indagi-ne, ombra che contribuisce a infittirel’ombra irriconoscibile della scenacontemporanea. Per quanto confu-sa, inedita, ignota e minacciosa siaquesta scena, è soltanto da qui chepotrà nascere un’altra immagine,un’immagine nuova della psicoanali-si, che accetti di ricongiungersi al-l’ombra, in nome – come diceva op-portunamente Deleuze – non dello«sviluppo» (basta con ogni forma di«sviluppo»), ma «di quello che è perciascuno il proprio sottosviluppo, ilproprio terzo mondo intimo», graziea una «capacità di immedesimazione– come sosteneva Fachinelli commen-tando Rilke – in cui noi feriti, divente-remmo madre di creature ferite».

SU LACAN

Un lessicoinafferrabilecome lo èl’inconscio.Intervistaa Di Ciaccia

SAGGI " «PENSARE CON FREUD» PER CORTINA

Nella sublimazioneuna risorsa vitale

BARONE DALLA PRIMA

Il solo autenticonemicodella psicoanalisiè la sua ombra

di ALEX PAGLIARDINI

!!!La parola di Lacan, il suolinguaggio, la sua voce non sicapiscono, sono muro, fanno muro.Perché non scrive in modosemplice? Perché non diceesplicitamente quello che vuoledire? Domande legittime che nelcorso degli anni hanno trovatodiverse risposte. Tra queste, duesembrano particolarmentesignificative. La prima: la parola diLacan è volutamente inafferrabileperché isomorfa all’inconscio, diper sé inafferrabile. La seconda: isuoi testi sono enigmatici alloscopo di rendere chi tenta diaddentrarvisi un enigma a se stesso.Dunque sono testi isomorfi alfunzionamento di un’analisi.Nell’intervista di Doriano Fasoli aAntonio Di Ciaccia, che di Lacancura le opere in italiano, titolata «Io,la Verità, parlo». Lacan clinico.Saggio-conversazione (Alpes, pp.104, ! 12,00) non si entra

frontalmente nelle ragioni del«muro Lacan», ma da dietro,affermando l’implacabile chiarezzadi Lacan. Non è una provocazione,né una battuta, ma una chiave, percerti versi etica, per incontrare efrequentare l’insegnamento dellopsicoanalista francese. Lacanincomprensibile, inavvicinabile,può diventare improvvisamentechiaro, ma a due condizioni, fraloro intimamente intrecciate. Laprima: che lo si ami, cioè che nelsuo muro si sia incontrato qualcosadel proprio sintomo. La seconda:che al suo muro si sia trovato unpunto d’accesso particolare econtingente, quello della propriadivisione soggettiva, della propriaferita incancellabile: condizionientrambe soddisfatte dal rapportodi Di Ciaccia con i testi di Lacan.Ma che Lacan è questo?Fondamentalmente il clinicorigoroso, quello che ha sviluppatouna logica ferrea della conduzionedella cura e della sua fine. Il clinico«spietato», quello che ha fatto dellacura analitica un’esperienza senzasconti possibili, quello deciso a nondare scampo all’inconscio delpaziente e al suo sintomo. Il clinicoche ha sganciato l’esperienzaanalitica dall’ideale, consegnandoleil dovere di attenersi al peggio,quello che ha tolto l’analista dallaposizione del sapere o del maestroconvocandolo nell’unico posto chegli conviene per poter funzionarecome tale, quello dello scarto «perrealizzare ciò che la strutturaimpone, vale a dire permettere alsoggetto – al soggetto dell’inconscio– di prenderlo come causa didesiderio». E, ancora, il clinico cheha separato definitivamente lapratica analitica da qualsiasiesigenza di benessere, quello che

UN SAGGIO A QUATTRO MANI DI AMBROSIANO E GABURRI, LE DOMANDE DI DORIANO FASOLI SULLA OSCURITÀ DI

PSICOANALISI

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(5)ALIAS DOMENICA14 LUGLIO 2013

nità: garanzia, pertanto, del pattosociale e della convivenza, la subli-mazione è «messa in comune», con-divisione della propria fragilità tra-sformata in chance, superamentodella solitudine che risulta dall’in-contro con il proprio limite.

La cura psicoanalitica, concludo-no gli autori, punta esattamente aquesto. Il suo scopo non è illuderel’uomo sulla possibilità di esorcizza-

re la contingenza a cui è esposta lavita, bensì rendere tollerabile la ca-sualità, fare di un cattivo incontroun’occasione, «mettere in circola-zione» la propria esperienza trau-matica metaforizzata e trasformatadal trattamento della rappresenta-zione, non liquefacendosi di fronteall’incalzare del reale e, al contrario,fronteggiandolo tramite una nuovapossibile forma di soggettivazione.

di LUIGI ZOJA

!!!Il grande cuoco non è necessariamente chiti fa gustare una cosa squisita: con gli ingredientie i fornelli di oggi questo è diventato relativamen-te facile. Il vero maestro è chi ti spiega cos’è labuona cucina in un libro o in una conferenza, la-sciandoti ancor più convinto che se l’avessi as-saggiata. Anche nella musica potrà passare allastoria soprattutto chi te l’ha fatta capire col rac-conto, senza farti sentire una nota. Cosa c’entraquesto con Psicologia alchemica, il testo di Ja-mes Hillman apparso ora da Adelphi (pp. 443, !35,00). È quasi la stessa cosa: questo libro farà fa-re al lettore il più grande viaggio fra i colori dellasua vita attraversando 443 pagine rigorosamentein bianco e nero, senza nessuna illustrazione.

Hillman è stato a volte chiamato il più grandepsicologo dei nostri tempi: ma è soprattutto ungrande narratore. Sono sempre necessarie delleimmagini per raccontare le immagini? Quelloche noi chiamiamo «vedere», ci dicono le neuro-scienze, non è un fenomeno esterno, apparte-nente agli oggetti che osserviamo: è costituito dauna serie di riflessi che si producono dentro dinoi. Hillman porta questa verità al suo estremo:ci fa vedere i colori usando soltanto il racconto.

In un mondo di riproduzioni industriali tecni-camente perfette è un «miracolo» di cui abbiamobisogno per continuare a considerarci uominiche usano la propria mente. Le immagini oggi so-no perfette, si trasmettono sugli schemi attraver-so il globo, a costi ridicoli e a velocità supersoni-che: ma sono ormai tutte «là fuori». La nostra fan-tasia, la creatività interiore che chiamiamo imma-ginazione, anzi, tutta quella entità che gli antichigreci chiamavano psiche, si inaridisce e muoreper mancanza di esercizio. Il coro dell’Antigoneha descritto per sempre l’essenza dell’uomo sen-za mostrare un uomo. Hillman, a differenza diSofocle, è anacronistico nel mondo della riprodu-cibilità tecnica illimitata. Ma compirà il miraco-lo: costringere molti a comprare un libro per ca-pire i colori attraverso pagine chenon ne contengono.

Una delle poche notizie biografi-che che James Hillman raccontavavolentieri era: «Nato nel 1926 a At-lantic City, in una stanza d’alber-go». Non era un pettegolezzo butta-to a caso, ma un emblema. La cittàsull’Atlantico, che ne prende il no-me, calzava a pennello con la suanascita: era cittadino dell’Occiden-te, di qualunque sponda atlantica.Si trovava a suo agio nella classicitàgreco-romana e nel Rinascimentotoscano come nella ipermodernitàdi New York o del Texas.

Come per Ulisse, per James Hill-man contava poco la residenza fis-sa. È sempre stato alla ricerca. Nonha viaggiato per vivere, ha vissutoper viaggiare, tanto fra le forme diconoscenza che fra i continenti. Co-me Ulisse, era spinto da curiositàpersonali. Ma sapeva raccontarequello che aveva trovato in mododa far sentire che riguardava tutti.

Chi era? Che professione esercita-va? Come voleva esser chiamato?Hillman è stato, prima di tutto e insenso molto ampio, un autore. Mapensare alla sua identità lascia an-cora incerti. Ricordo la sorpresa(sua e di noi ascoltatori) quando auna conferenza stampa gli chiese-ro come si definiva. Perché esitavaa rispondere? Si trovava in Italiaper il suo settantesimo complean-no: a quell’età doveva aver avutotempo di pensarci. Si passò la ma-no sulla fronte e sugli occhi, conun gesto lento, schivo, molto suo,raccogliendo nel palmo il passato:«Quello che mi viene in mente, ri-spose, è solo un termine tedesco,per giunta un po’ antiquato: Kultu-rkritiker. Forse in italiano si puòtradurre semplicemente critico del-la cultura: qualcosa che compren-de l’analisi psicologica, sociale, sto-rica, ma non coincide con nessunadi esse». Queste parole che sembra-no appartenere al passato sono pro-babilmente qualcosa che lo descri-verà anche nel futuro: Hillman nonè stato tanto un terapeuta che aiutapazienti i quali si interrogano su sestessi, quanto una quintessenza dicultura euro-americana che aiutatutto l’Occidente a capirsi.

Richiederà molto tempo valutarechi, come lui, non ha vissuto solo acavallo di due continenti, ma anchedi due secoli, di diverse culture e ge-nerazioni. Il primo, monumentalevolume della biografia hillmaniana

scritta da Dick Russel è uscito in questi giorni esaranno necessari anni prima che sia pronto il se-condo. Ma si può già chiaramente dire quale, frale diverse personalità che gli sono state assegna-te, è destinata a sopravvivere.

In una pubblicazione del 1998 (Post-JungiansToday, a cura di Ann Casement, ed. Routledge),il filosofo australiano David Tacey attribuiva aHillman quattro identità, quasi fossero reincar-nazioni successive: la prima, analista junghiano;la seconda, fondatore della psicologia archetipi-ca; la terza, ecopsicologo, la quarta autore pop.Dietro a queste etichette sta una realtà più linea-re. Hillman ha studiato negli anni ’50 e ’60 alloJung Institut di Zurigo. Ha potuto ancora incon-trare Jung ed è diventato direttore didattico del-l’Istituto. Ha poi fondato la psicologia archetipi-ca (seconda fase), ma senza mai rinnegare ilmaestro. Con la fine degli anni ’80 ha riportatoall’attualità una riflessione centrale sia al pen-siero di Freud che a quello di Jung, ma gradual-mente dimenticata nella seconda metà del Se-colo XX: quella clinica è solo una, e forse neppu-re la più importante, fra le applicazioni dellapsicoanalisi. Essa è (come in qualche occasioneho avuto modo di dire), non un particolare con-tenuto, ma uno dei grandi contenitori della mo-dernità: una delle rivoluzioni che l’hanno scon-volta dalle radici. Anzi, quella che l’ha riformu-lata proprio partendo da ciò che non si vede, daquelle radici del pensiero che la psicoanalisi hachiamato «inconscio».

Hillman ha riformulato il problema nel se-guente modo. Gli psicoanalisti si guardano allospecchio e aiutano i pazienti a farlo: ma è tem-po che gettino lo sguardo attraverso le finestre(la sua terza fase, che non è stata solo «ecopsico-logia», ma osservazione ampia del mondo ester-no dopo di quello interiore). Nella sua vita con-creta questa trasformazione di interessi coinci-se con la coraggiosa decisione di rinunciare aipazienti, vivendo solo dei proventi di conferen-ze e libri. Da quel momento, alcuni dei suoi te-

sti ebbero più diffusione di prima. Venne ancheinvitato a trasmissioni televisive: ma, come tut-ti possono constatare prendendo in mano Psi-cologa alchemica, la sua produzione rimase as-solutamente colta e senza concessioni commer-ciali (certo non «pop»).

La morte di Jung aveva lasciato, come accadeai grandi, più di una eredità. Da una parte leidee sulla formazione dei simboli nella psiche elo studio della sua evoluzione individuale. Dal-l’altra (quella scelta da Hillman), l’intuizioneche esista una psiche inconscia universale. Mitie divinità possono essere straordinariamente si-mili in popoli e epoche ben diversi: devono dun-que essere nati da questo comune inconscio col-lettivo. La prima eredità conduce alla via dellaclinica. La seconda porta agli archetipi, formedel pensiero ereditarie, non apprese ma semprepresenti nell’inconscio: conduce a una riflessio-ne filosofica e culturale, coraggiosa perché nonporta a applicazioni immediate, mentre si so-vrappone con altri campi del sapere (antropolo-gia, storiografia, storia delle religioni e così via)causando diffidenze e rivalità. Questa però, seregge alla prova del tempo, ha un risultato indi-retto ancora più importante: diviene terapia del-la civiltà, critica dei mali del mondo e del tempoin cui viviamo. Hillman la imboccò senza esita-zioni. Fondando la «psicologia archetipica» ri-scoprì e applicò a quelli che Freud aveva chia-mato «disagi della (o: nella) civiltà» l’antica ideadi anima mundi.

Durante una intervista che gli feci nove annifa, arrivammo alla conclusione che, senza esser-ne del tutto consapevole, aveva proposto pro-prio quello di cui la nostra frenetica post-moder-nità ha più bisogno. Tutto intorno cambia: la ri-voluzione delle comunicazioni (telefonia mobi-le, internet), quella demografica (crescita espo-nenziale degli anziani e delle migrazioni), e cosìvia. Se è vero che ormai ogni generazione, qua-si ogni decennio porta più sconvolgimenti diquanti prima ne portasse un secolo, l’aumentodi depressioni, ansie, nevrosi, più ancora che apatologie singole è dovuto a un generale e per-manente senso di instabilità. Ma si può curaresolo con terapie individuali quello che è così vi-sibilmente uno squilibrio generale? Sapere dal-la «psicologia archetipica» di Hillman che la sta-bilità degli archetipi non appartiene solo allapsiche individuale, ma all’anima del mondo, hacontribuito a rifondare lo studio delle trasfor-mazioni profonde della nostra cultura. Contem-poraneamente ci ha rassicurato narrando cheessa è ancorata a fattori immutabili, di cui ave-vamo disperato bisogno.

La psicologia archetipicadi James Hillman,una terapia per la civiltà

SAGGI " UNA RICERCA DI GHERARDO UGOLINI

Effetti di parentelafra il procedimento analiticoe la catarsi tragica

ha messo al centro di una cura non«lo stare meglio», il miglioreadattamento alla realtà, ma lapossibilità di incontrare eacconsentire a una propriasoddisfazione, di trovare un proprioe singolare assenso alla pulsione.Infine, questo Lacan è il clinico cheha demolito l’idea di comprensionedi sé, di consapevolezza del proprioinconscio da perseguire comescopo dell’analisi, rovesciandocompletamente questo assunto:nell’analisi si tratta di produrrel’inconscio per arrivare aacconsentire al «fatto» di nonesserne che un effetto. Nel corsodella sua intervista, Fasoli incalzaDi Ciaccia sul rapporto che Lacan, epiù in generale la psicoanalisi,intrattiene con la scienza, con lapsichiatria, con la psicoterapia, conla religione, con l’arte. Le rispostescelgono di orientarsi su alcunidettagli particolari, evitando diuniversalizzare, di «spiegareappieno», e mantenendo sullo

sfondo un’altra delle questioniattraversate dal testo, ossia il ruoloe la funzione della psicoanalisi nelnostro mondo. Ma è sempre da unaprospettiva clinica che puòspiegarsi tutto il resto – il rapportocon l’arte, con la nostracontemporaneità e così via. Inparticolare, torna a riproporsi piùvolte la posizione dell’analista,ritratta in varie forme, da quella del«lentamente di scatto», ossimoroche definisce la postura etica diLacan, a quella del santo ateo, che èateo perché assume «ogni suo attoin prima persona, non giustifica ilsuo atto nel nome di Dio: non cercané aureole né ricompense, nonteme giudizi né castighi.» QuestoLacan ci fa incontrare così, e dinuovo, la posizione insostenibiledell’analista e consegna unadomanda, che come ogni domandacontiene già la risposta: aglipsicoanalisti, oggi, di tutto questo(aureole, ricompense e così via)importa qualcosa?

di FEDERICO CONDELLO

!!!Ogni nuovo sapere,sosteneva Althusser, inventa i suoioggetti prima ancora che i suoimetodi. Certo, presto o tardi, ogninuovo sapere inventerà i suoianticipatori e la sua più o menofantastica genealogia. Allapsicoanalisi ciò è accadutoquando Freud viveva ancora:anzi, è il caso di dire, compliceFreud, che con i suoi richiamicivettuoli a Empedocle o aPlatone ha suscitato unaspasmodica caccia agli antefatticlassici del freudismo. Caccia chepuò parere fatua, e che tuttaviatenta non di rado classicisti epsicoanalisti: forse perché, degliuni come degli altri, solletical’amor proprio. E così, grazie auna prevedibile reazione, libriinteri sono stati scritti perdimostrare ovvietà palmari: peresempio, che l’eros platonico nonè perverso e polimorfo. Ciò nontoglie che una scrupolosaindagine della cultura classica diFreud possa riservare bellesorprese, se condotta con sanosenso della storia. Si pensi alTimpanaro della Fobia romana,accesamente antifreudiano mailluminante su molti punticruciali del «classicismo»psicoanalitico. Un altro esempiodi ricerca fruttuosa ci viene oradal saggio di Gherardo Ugolinititolato Jacob Bernays el’interpretazione medica dellacatarsi tragica (Cierre grafica, pp.259, ! 30,00) che introduce etraduce – ed è la prima versioneitaliana – i Lineamenti deltrattato perduto di Aristotelesull’effetto della tragedia, scrittidal filologo tedesco nel 1857.

C’entra, questo piccolo episodiodi storia filologica, con lanascitura psicoanalisi? C’entra sì,e non solo perché Bernays fu lozio della signora Freud. Laparentela concettuale è qui piùprofonda delle parenteleanagrafiche. Come si sa, lanozione aristotelica di «catarsitragica» è affidata a poche,ellittiche righe della Poetica.Ovvio che, in assenza didocumentazione, la congetturaregni sovrana: e impressionante èla ridda di ipotesi suscitate daquelle scarne righe, con la loro«paura» e la loro «pietà» (o«brivido» e «cordoglio»), con leloro brave «passioni» (di chesorta?) e, appunto, con la loro«catarsi». Che effetto fa, latragedia, secondo Aristotele?Purifica moralmente oesteticamente, come ritenevanoLessing e Goethe? Chiarificaintellettualmente, come molticredono oggi? E cosa purifica? La«paura» e la «pietà» medesime,oggetti più che mezzi? O purificai personaggi, condotti a unsuperiore stato di conoscenza,più di quanto non purifichi ilpubblico? Oppure quelletormentate righe – come nonpochi hanno proposto, specie direcente – vanno lasciate perdere,o addirittura cassate quale spuriaaddizione? Se si escludequest’ultima comoda mainconsistente trovata, il dibattitoresta aperto. Dibattito nonmeramente erudito, perchédecidere di quell’accennoaristotelico ha sempre significatodecidere, a conti fatti, dellafunzione che si assegna allatragedia o all’arte tout court:funzione morale? Conoscitiva?

Squisitamente estetica?Sfacciatamente estatica? Suquesto dibattito, già vivace aitempi, il saggio di Bernays ebbeun effetto esplosivo. Perché la suaipotesi andava in marcatacontrotendenza rispetto almoralismo o all’intellettualismodominanti fino almeno a Lessing.Per Bernays la tragedia noneduca, non chiarifica, nonsublima. La tragedia «purga»: insenso medico-fisiologico, e condovizia di paralleli non sempregradevoli. La catarsi lassativasuscitò proteste. Se si aggiungeche Bernays dava largo spazio alnesso fra tragedia e estasiorgiastica (dionisiaca,coribantica, e così via), c’èquanto basta per capire loscandalo. Ma molti, e a ragione,si convinsero: a partire daWilamowitz, su su fino a Pohlenz,Schadewaldt e oltre. Con dimezzo il Nietzsche della Nascitadella tragedia, che certo non fuinsensibile al verbo di Bernays,allievo del suo stesso maestro:Ugolini documenta bene comeNietzsche faccia ibridare Bernayscon Goethe, dovendo forse più alprimo che al secondo. E Freud, ilmarito di Martha Bernays? Lascoperta dell’inconscio, e delcomplesso edipico, è ancoralontana. Ma gli Studi sull’isteriascritti con Breuer nel 1895, efondati sul caso di BerthaPappenheim alias Anna O.,trattato fra il 1880 e il 1882,straripano di passaggi cheriprendono concettualmente etestualmente la tesi di Bernays: apartire da quel «metodocatartico» che consiste nelrivivere la situazione patogenaper «scaricarne» gli affettirepressi. Esattamente la catarsiaristotelica secondo Bernays.Non c’è da stupirsi, dunque, seFreud paragonerà l’Edipo resofocleo a una terapiapsicoanalitica, o se ladrammaturgia contemporanea –Hofmannsthal in primis – siispirerà insieme a Breuer-Freud ea Aristotele-Bernays. E, in fin deiconti, non c’è da stupirsinemmeno se la filologia a volteconcorre, per vie carsiche, asviluppi culturali imprevedibili.

LACAN, «PSICOLOGIA ALCHEMICA» DI JAMES HILLMAN. E LA LETTURA DEI CLASSICI GRECI NELL’OTTICA DI JACOB BERNAYS

Egon Schiele, «Donna appoggiatacon calze verdi», 1917; in basso,Jacques Lacan

Cinque titoli sotto il segnodi Freud, di Lacan e di Jung,i classici del pensiero criticoche più stabilmentehanno inflenzatola mentalità, il vocabolarioe l’idea stessa di modernità