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di TOMMASO PINCIO ●●●È convinzione antica e mai tra- montata, se non un fatto acclarato, che il pubblico di romanzi sia in maggioranza composto di donne. In virtù di questa convinzione viene da- to per assiomatico che un romanzie- re incapace di parlare all’animo fem- minile difficilmente conoscerà il suc- cesso commerciale. Ricordo, al ri- guardo, la sicumera con cui un libra- io preconizzava una carriera oscura a Cormac McCarthy, quando questi era ancora quel che si suol dire auto- re di nicchia. «Non venderà mai. Non piace alle donne» diceva il catti- vo profeta. Viste le scelte di buona parte dell’editoria, chiaramente vol- te a attrarre principalmente un ses- so, si deduce che le fortune conosciu- te in tarda età da McCarthy siano sta- te ascritte dagli operatori del settore al novero delle eccezionalità che con- fermano la regola. Non meno evi- dente è che, mercato a parte, ben al- tri dovrebbero essere i termini per stabilire il valore letterario di un’ope- ra. La questione sessuale resta tutta- via un nodo importante, dal quale sa- rebbe ipocrita prescindere. Può inol- tre servire a osservare da scorci im- previsti il profilo di autori pure stu- diatissimi e da tempo canonizzati. Joseph Conrad, per esempio. Il semplice nome evoca un univer- so all’apparenza ben delimitato e molto maschile. Storie della parte equorea del pianeta dove le donne sono presenti al più come un ricor- do della vita di terra e dunque un qualcosa di antitetico alla vita insta- bile e raminga del marinaio di lungo corso. Dovendo screditare Conrad agli occhi di una signora desiderosa di conoscerlo, Henry James ebbe in- fatti buon gioco. Gli bastò fare leva sulla fama di lupo di mare del polac- co: «Ma, mia cara, ha passato la vita in mare, senza mai conoscere don- ne acculturate». L’interlocutrice non prestò ascolto. Si adoperò per incon- trare Conrad, ricavandone un’im- pressione non soddisfacente. Forse perché condizionata dall’avviso di Ja- mes, l’uomo le parve ipersensibile, esaurito, e per di più incurante verso eventuali segni di intelligenza nella moglie poiché in essa non cercava al- tro che un lenitivo alle ansie della vi- ta. Gli stessi critici del tempo rimpro- verarono allo scrittore una scarsa considerazione per l’altro sesso; me- morabile una recensione di Il Negro del «Narcissus», nella quale si osser- vava che «l’unica presenza femmini- le nel libro è la nave». L’immagine di autore mascolino fu in buona parte incoraggiata dagli editori, e proprio per ragioni di mer- cato o, per meglio dire, di marke- ting. Nel 1904, sulle pagine della rivi- sta che pubblicò a puntate Nostro- mo, comparve una succinta biogra- fia. Vi si sosteneva che per Conrad le cose dovevano sempre assumere la forma di una nave, tanto nella scrit- tura che nel navigare. Con gli anni, il diretto interessato cominciò a patire il fatto di essere stato ingabbiato nel personaggio dell’ex marinaio che rie- voca avventure per soli uomini in po- sti lontani. A un certo punto ammise apertamente di desiderare «un po’ di requie per tutte queste mie navi». La svolta giunse nel 1913 con l’uscita di Chance. Sebbene appesantito da una struttura farraginosa, soprattut- to nella parte iniziale, il romanzo gli regalò il primo nonché unico vero successo commerciale, affrancando- lo dalle ristrettezze. Si dà il caso che sia il romanzo in cui una donna con- quista per la prima volta il ruolo di protagonista e, stando al parere di al- cuni critici, quello che segna la fine del Conrad migliore – il che è certa- mente opinabile ma non del tutto in- fondato. Qualsiasi giudizio si voglia dare su un libro comunque impor- tante e di pregio notevolissimo, non si può negare che lo stigma del mari- naio scapolo ha resistito. Ancora og- gi ricordiamo l’autore pressoché sol- tanto per questo. Una conferma, quantunque soltanto locale, è che, mentre non sono mai mancate nuo- ve edizioni di Cuore di tenebra, Li- nea d’ombra e altre storie di navi, Chance ha conosciuto soltanto due traduzioni italiane. Disertava le no- stre librerie da parecchio, segnata- mente dagli anni novanta, quando uscì l’edizione curata da Francesco Binni per Newton & Compton. Riap- pare ora, dopo quasi un ventennio, presso Adelphi («Biblioteca», tradu- zione di Richard Ambrosini, pp. 400, 20,00) con un titolo alternativo a Destino, sempre adottato in passato. Perché stavolta sia stato scelto Il ca- so è evidente. «E se mi domandi co- me, perché, per quale ragione, ti ri- sponderò: Suvvia, per caso! Per puro caso, così come accadono le cose, fortunate o sfortunate». A parlare in questi termini è Marlow, il principa- le (ve n’è infatti più d’uno) narratore di comodo del romanzo, e lo fa illu- strando come l’eroina in questione, la giovane e esile Flora de Barral, si ri- trovi priva di mezzi e «praticamen- te» orfana, dopo il crollo rovinoso dell’impero finanziario del padre, speculatore senza qualità. Non è per via di un disegno coerente, di un concatenarsi logico di eventi, e dun- que di un destino, se la vita di Flora ha imboccato una determinata stra- da. Una filosofia forse un po’ spiccio- la, che pare troncare sul nascere qualsiasi interpretazione ulteriore; se le cose càpitano per caso, spiegar- le non serve a niente. Peccato però che il nostro narratore razzoli al con- trario di come predica. Anziché limi- tarsi a esporre i fatti nudi e crudi, ci gira attorno, li infarcisce di commen- ti e considerazioni sulla natura delle cose, al punto di prevaricarli. Si ha perciò l’impressione che raccontare le disgrazie di Flora de Barral sia po- co più di un pretesto, quasi che il ve- ro intento di Marlow sia quello di of- frire all’interlocutore e, indiretta- mente anche a noi lettori, la propria visione del mondo. Più che un narra- tore inattendibile, è un falso narrato- re, un filosofo mascherato, un impo- store. Parimenti, la sventurata eroi- na del romanzo, più che una prota- gonista è un oggetto di disquisizio- ne, quando non un mero termine di paragone. È convinzione di Marlow che l’aspirazione a penetrare l’essen- za di tutte le cose, incluso l’infinito stesso, sia una prerogativa maschile aliena alle donne, inclini invece all’Ir- rilevante. A suo dire, le donne per prime si annoierebbero in un mon- do governato da principî femminili, perché un simile mondo sarebbe sopportabile soltanto preservando certe illusioni fruste «senza le quali la creatura media di sesso maschile non può vivere». Per il lettore affezionato di Con- rad, Marlow è una vecchia conoscen- za. Compare nelle vesti di narratore sia in Lord Jim che in Cuore di tene- bra. Non è mai un protagonista, ma un testimone. Avendo anch’egli un passato di navigatore, la tentazione di vedervi un alter ego dello scrittore è forte, e qualora lo fosse davvero, un alter ego, Marlow e Conrad sareb- bero accomunati da un sessismo in- qualificabile. Nei complicati rappor- ti che lo scrittore intratteneva con l’universo femminile, gli studiosi hanno ovviamente frugato parec- chio e non vale la pena di tornarci. Lo stesso si può dire di Marlow. Che egli non faccia le veci di Conrad è or- mai chiaro a chiunque, ma in quale misura e in quali modi il pensiero dell’uno rispecchi quello dell’altro è questione sulla quale si può ancora discutere. Qualcosa d’oggettivo tut- tavia c’è. La presenza di Marlow co- stituisce un filtro, un velo che noi let- tori non possiamo squarciare. Lord Jim, Kurtz, come pure Flora de Bar- ral, non sono mai fisicamente pre- senti, il che significa che non li vedia- mo mai con gli occhi della nostra im- maginazione bensì attraverso il ricor- do e le opinioni del narratore. Ne sia- mo tenuti a distanza, sicché per noi sono spesso poco più che fantasmi, trasfigurazioni di tipi umani e non personaggi in senso stretto. L’assente è un motivo che ricorre spesso in Conrad, assumendo forme diverse. Il ricorso a un narratore di comodo come Marlow è soltanto la più eclatante di esse. Sindrome del compagno segreto: potremmo defi- nirla così. In fin dei conti la carenza di personaggi femminili o la loro ca- ratterizzazione apparentemente ap- prossimativa non è che l’effetto estremo di questa sindrome. La don- na mancante è la massima manife- stazione di un’alterità impalbabile. Non se ne afferra la reale consisten- za, nondimeno incombe e condizio- na alla misteriosa maniera del caso. È un’alterità che prescinde e sovra- sta la mera differenza sessuale e non va dunque ricondotta alle donne di carne e ossa. Non per nulla, nelle sue farneticanti disamine dell’ani- mo femminile, Marlow parla di uo- mini medi, naturale complemento alle donne smosse soltanto dall’Irri- levante; a questi uomini va la stessa misera considerazione riservata al- l’altro sesso. Si profila allora, implici- ta, l’esistenza di una creatura uma- na d’ordine trascendente, un uomo che è maschio soltanto in quanto fi- gura letteraria, ovvero una creatura che si nutre solo di estremi (o anche solo d’amore come Flora), tutta tesa al sublime, alla comprensione del- l’incomprensibile. Ma un uomo (o una donna) simile, se mai esistesse, non potrebbe mai raccontare. Da qui l’esigenza di ricorrere a un Mar- low, a un intermediario, una carica- tura di narratore che faccia quel che un narratore non dovrebbe mai fare: spiegare, dire l’indicibile, dare un or- dine al caso, come in Chance, chiave d’accesso fondamentale all’universo di Conrad, malgrado i limiti e le for- zature. ALBINIA CIRCE DIAZ ANDRIC THOREAU LONDON LANCHESTER WHARTON ITALIA: SCRITTORI PER LA CRISI MOSTRE: RINASCIMENTO A FIRENZE NEL 1913, CON IL ROMANZO «IL CASO», JOSEPH CONRAD OTTENNE IL SUO SOLO VERO SUCCESSO COMMERCIALE. PER LA PRIMA VOLTA ASSEGNAVA IL RUOLO DI PROTAGONISTA A UNA FIGURA FEMMINILE. POI PERÒ, SECONDOALCUNI, SI AVVIÒ AL DECLINO LA DONNA MANCANTE

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alias il Manifesto 26.05.2013

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di TOMMASO PINCIO

●●●È convinzione antica e mai tra-montata, se non un fatto acclarato,che il pubblico di romanzi sia inmaggioranza composto di donne. Invirtù di questa convinzione viene da-to per assiomatico che un romanzie-re incapace di parlare all’animo fem-minile difficilmente conoscerà il suc-cesso commerciale. Ricordo, al ri-guardo, la sicumera con cui un libra-io preconizzava una carriera oscuraa Cormac McCarthy, quando questiera ancora quel che si suol dire auto-re di nicchia. «Non venderà mai.Non piace alle donne» diceva il catti-vo profeta. Viste le scelte di buonaparte dell’editoria, chiaramente vol-te a attrarre principalmente un ses-so, si deduce che le fortune conosciu-te in tarda età da McCarthy siano sta-te ascritte dagli operatori del settoreal novero delle eccezionalità che con-fermano la regola. Non meno evi-dente è che, mercato a parte, ben al-tri dovrebbero essere i termini perstabilire il valore letterario di un’ope-ra. La questione sessuale resta tutta-via un nodo importante, dal quale sa-rebbe ipocrita prescindere. Può inol-tre servire a osservare da scorci im-previsti il profilo di autori pure stu-diatissimi e da tempo canonizzati.Joseph Conrad, per esempio.

Il semplice nome evoca un univer-so all’apparenza ben delimitato emolto maschile. Storie della parteequorea del pianeta dove le donnesono presenti al più come un ricor-do della vita di terra e dunque unqualcosa di antitetico alla vita insta-bile e raminga del marinaio di lungocorso. Dovendo screditare Conradagli occhi di una signora desiderosadi conoscerlo, Henry James ebbe in-fatti buon gioco. Gli bastò fare levasulla fama di lupo di mare del polac-co: «Ma, mia cara, ha passato la vitain mare, senza mai conoscere don-ne acculturate». L’interlocutrice nonprestò ascolto. Si adoperò per incon-trare Conrad, ricavandone un’im-pressione non soddisfacente. Forseperché condizionata dall’avviso di Ja-mes, l’uomo le parve ipersensibile,esaurito, e per di più incurante versoeventuali segni di intelligenza nellamoglie poiché in essa non cercava al-tro che un lenitivo alle ansie della vi-ta. Gli stessi critici del tempo rimpro-verarono allo scrittore una scarsaconsiderazione per l’altro sesso; me-morabile una recensione di Il Negrodel «Narcissus», nella quale si osser-vava che «l’unica presenza femmini-le nel libro è la nave».

L’immagine di autore mascolinofu in buona parte incoraggiata daglieditori, e proprio per ragioni di mer-cato o, per meglio dire, di marke-ting. Nel 1904, sulle pagine della rivi-sta che pubblicò a puntate Nostro-mo, comparve una succinta biogra-fia. Vi si sosteneva che per Conrad lecose dovevano sempre assumere laforma di una nave, tanto nella scrit-tura che nel navigare. Con gli anni, ildiretto interessato cominciò a patireil fatto di essere stato ingabbiato nelpersonaggio dell’ex marinaio che rie-voca avventure per soli uomini in po-sti lontani. A un certo punto ammiseapertamente di desiderare «un po’di requie per tutte queste mie navi».La svolta giunse nel 1913 con l’uscitadi Chance. Sebbene appesantito dauna struttura farraginosa, soprattut-to nella parte iniziale, il romanzo gliregalò il primo nonché unico verosuccesso commerciale, affrancando-lo dalle ristrettezze. Si dà il caso chesia il romanzo in cui una donna con-quista per la prima volta il ruolo diprotagonista e, stando al parere di al-cuni critici, quello che segna la finedel Conrad migliore – il che è certa-mente opinabile ma non del tutto in-fondato. Qualsiasi giudizio si vogliadare su un libro comunque impor-tante e di pregio notevolissimo, nonsi può negare che lo stigma del mari-naio scapolo ha resistito. Ancora og-gi ricordiamo l’autore pressoché sol-tanto per questo. Una conferma,quantunque soltanto locale, è che,mentre non sono mai mancate nuo-ve edizioni di Cuore di tenebra, Li-nea d’ombra e altre storie di navi,Chance ha conosciuto soltanto duetraduzioni italiane. Disertava le no-stre librerie da parecchio, segnata-mente dagli anni novanta, quandouscì l’edizione curata da FrancescoBinni per Newton & Compton. Riap-pare ora, dopo quasi un ventennio,presso Adelphi («Biblioteca», tradu-zione di Richard Ambrosini, pp. 400,€ 20,00) con un titolo alternativo aDestino, sempre adottato in passato.

Perché stavolta sia stato scelto Il ca-so è evidente. «E se mi domandi co-me, perché, per quale ragione, ti ri-sponderò: Suvvia, per caso! Per purocaso, così come accadono le cose,fortunate o sfortunate». A parlare inquesti termini è Marlow, il principa-le (ve n’è infatti più d’uno) narratore

di comodo del romanzo, e lo fa illu-strando come l’eroina in questione,la giovane e esile Flora de Barral, si ri-trovi priva di mezzi e «praticamen-te» orfana, dopo il crollo rovinosodell’impero finanziario del padre,speculatore senza qualità. Non è pervia di un disegno coerente, di un

concatenarsi logico di eventi, e dun-que di un destino, se la vita di Floraha imboccato una determinata stra-da. Una filosofia forse un po’ spiccio-la, che pare troncare sul nascerequalsiasi interpretazione ulteriore;se le cose càpitano per caso, spiegar-le non serve a niente. Peccato peròche il nostro narratore razzoli al con-trario di come predica. Anziché limi-tarsi a esporre i fatti nudi e crudi, cigira attorno, li infarcisce di commen-ti e considerazioni sulla natura dellecose, al punto di prevaricarli. Si haperciò l’impressione che raccontarele disgrazie di Flora de Barral sia po-co più di un pretesto, quasi che il ve-ro intento di Marlow sia quello di of-frire all’interlocutore e, indiretta-mente anche a noi lettori, la propriavisione del mondo. Più che un narra-tore inattendibile, è un falso narrato-re, un filosofo mascherato, un impo-store. Parimenti, la sventurata eroi-na del romanzo, più che una prota-gonista è un oggetto di disquisizio-ne, quando non un mero termine diparagone. È convinzione di Marlowche l’aspirazione a penetrare l’essen-za di tutte le cose, incluso l’infinitostesso, sia una prerogativa maschilealiena alle donne, inclini invece all’Ir-

rilevante. A suo dire, le donne perprime si annoierebbero in un mon-do governato da principî femminili,perché un simile mondo sarebbesopportabile soltanto preservandocerte illusioni fruste «senza le qualila creatura media di sesso maschilenon può vivere».

Per il lettore affezionato di Con-rad, Marlow è una vecchia conoscen-

za. Compare nelle vesti di narratoresia in Lord Jim che in Cuore di tene-bra. Non è mai un protagonista, maun testimone. Avendo anch’egli unpassato di navigatore, la tentazionedi vedervi un alter ego dello scrittoreè forte, e qualora lo fosse davvero,un alter ego, Marlow e Conrad sareb-bero accomunati da un sessismo in-qualificabile. Nei complicati rappor-ti che lo scrittore intratteneva conl’universo femminile, gli studiosihanno ovviamente frugato parec-chio e non vale la pena di tornarci.Lo stesso si può dire di Marlow. Cheegli non faccia le veci di Conrad è or-mai chiaro a chiunque, ma in qualemisura e in quali modi il pensierodell’uno rispecchi quello dell’altro èquestione sulla quale si può ancoradiscutere. Qualcosa d’oggettivo tut-tavia c’è. La presenza di Marlow co-stituisce un filtro, un velo che noi let-tori non possiamo squarciare. LordJim, Kurtz, come pure Flora de Bar-ral, non sono mai fisicamente pre-senti, il che significa che non li vedia-mo mai con gli occhi della nostra im-maginazione bensì attraverso il ricor-do e le opinioni del narratore. Ne sia-mo tenuti a distanza, sicché per noisono spesso poco più che fantasmi,trasfigurazioni di tipi umani e nonpersonaggi in senso stretto.

L’assente è un motivo che ricorrespesso in Conrad, assumendo formediverse. Il ricorso a un narratore dicomodo come Marlow è soltanto lapiù eclatante di esse. Sindrome delcompagno segreto: potremmo defi-nirla così. In fin dei conti la carenzadi personaggi femminili o la loro ca-ratterizzazione apparentemente ap-prossimativa non è che l’effettoestremo di questa sindrome. La don-na mancante è la massima manife-stazione di un’alterità impalbabile.Non se ne afferra la reale consisten-za, nondimeno incombe e condizio-na alla misteriosa maniera del caso.È un’alterità che prescinde e sovra-sta la mera differenza sessuale e nonva dunque ricondotta alle donne dicarne e ossa. Non per nulla, nellesue farneticanti disamine dell’ani-mo femminile, Marlow parla di uo-mini medi, naturale complementoalle donne smosse soltanto dall’Irri-levante; a questi uomini va la stessamisera considerazione riservata al-l’altro sesso. Si profila allora, implici-ta, l’esistenza di una creatura uma-na d’ordine trascendente, un uomoche è maschio soltanto in quanto fi-gura letteraria, ovvero una creaturache si nutre solo di estremi (o anchesolo d’amore come Flora), tutta tesaal sublime, alla comprensione del-l’incomprensibile. Ma un uomo (ouna donna) simile, se mai esistesse,non potrebbe mai raccontare. Daqui l’esigenza di ricorrere a un Mar-low, a un intermediario, una carica-tura di narratore che faccia quel cheun narratore non dovrebbe mai fare:spiegare, dire l’indicibile, dare un or-dine al caso, come in Chance, chiaved’accesso fondamentale all’universodi Conrad, malgrado i limiti e le for-zature.

ALBINIA•CIRCE•DIAZ•ANDRIC•THOREAU•LONDON• LANCHESTER • WHARTON • ITALIA: SCRITTORIPER LA CRISI • MOSTRE: RINASCIMENTO A FIRENZE

NEL 1913, CON IL ROMANZO«IL CASO», JOSEPH CONRADOTTENNE IL SUO SOLO VEROSUCCESSO COMMERCIALE.PER LA PRIMA VOLTAASSEGNAVA IL RUOLODI PROTAGONISTAA UNA FIGURA FEMMINILE.POI PERÒ, SECONDOALCUNI,SI AVVIÒ AL DECLINO

LA DONNAMANCANTE

(2) ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

di ELENA SPANDRI

●●●«In una terra in cui piove di ra-do, un fiume è prezioso come l’oro.L’acqua è qualcosa di potente: pene-tra nei sogni degli uomini, ne per-mea le vite, governa l’agricoltura, lareligione, la Guerra». Dall’intrecciodi geografica fisica, geografia politi-ca e geografia del desiderio, muoveImperi dell’Indo, opera prima pluri-premiata della giornalista londineseAlice Albinia, pubblicata da JohnMurray (Empires of the Indus. TheStory of a River, London, 2008) e ap-pena uscita presso Adelphi nella bel-la traduzione di Laura Noulian (pp.493, € 30.00).

È insieme un racconto d’avventu-ra, la celebrazione di un rito di pas-saggio e un dotto trattato storico-culturale, che non scivola mai nellapedanteria. Soprattutto, è una inte-ressante operazione editoriale che,con ironica disinvoltura, rianima ilgenere del travelogue per il piacere,sottilmente antiquario, di un pubbli-co più avvezzo a immaginare l’areaindo-pakistana attraverso i virtuosi-smi postmodernisti di Salman Ru-shdie, o gli scorci intimistici di Arun-dhati Roy e di Anita Desai.

Commistione di resoconto etno-antropologico, paesaggismo e me-moir, il travelogue anglo-indianopoggia, per tradizione, su un pattonarrativo dal tratto inequivocabil-mente imperialista: il diritto-doveredel viaggiatore di tradurre l’alteritàculturale in orizzonti di senso fami-liari ai lettori metropolitani, garan-tendo all’Inghilterra un senso di con-tinuità col passato precoloniale del-l’India e una illusione di permanen-za. E dell’antico linguaggio dei colo-nizzatori, cui spetta la prerogativadi mappare il territorio e riscriverela storia dei popoli sottomessi, Impe-ri dell’Indo conserva la gustosa mi-scela di supponenza, erudizione,meraviglia e empatia, che rappre-senta la quintessenza del genere.

Al generale di Rawalpindi, che de-ve autorizzarla a valicare la frontieraa passo Nawa, Albinia spiega chevorrebbe «seguire, a piedi, l’itinera-rio di Alessandro Magno dall’Afgha-nistan, lungo l’Indo, fino al Pirsar».«Sconcertata», seppur non dissuasa,dal parallelo con Alexander Burnes(suggerito dal «baffuto ufficiale»), ilquale «con arroganza si paragonò aAlessandro Magno (ma il paragonein fondo era calzante, giacché en-trambi erano impegnati in missioniimperialistiche)», la storica ventino-venne entra in Afghanistan in corri-spondenza con l’«annuale ondatadi terrorismo transnazionale», rifiu-tandosi categoricamente di percor-rere in jeep i quattrocento chilome-tri percorsi da Alessandro nel 327a.C. Dell’antico conquistatore nonle basta rievocare le gesta, storiogra-ficamente assai contestate, come leistessa sottolinea: intende calcare fi-sicamente le orme.

Tuttavia, dal momento che il tra-velogue vanta anche un pedigreefemminile di tutto rispetto, nel sol-co di illustri antesignane sensibili aidanni del colonialsmo e interessate

alle prospettive marginali (FannyParks, Maria Graham, HarrietTaylor, Emma Robertson, per citaresoltanto le più note), Albinia selezio-na l’itinerario a ritroso nel tempo enello spazio secondo una logica soli-daristica che suona, insieme, pre epostcoloniale: «nessuno amava ilPakistan a quei tempi e penso chequesta sia una delle ragioni per cuisono voluta venire qui». Nel 1999, incoda a un decennio caratterizzatodalla recrudescenza di violenza etni-ca e dal riduzionismo teorico del«clash of civilizations», l’imperativo

della viaggiatrice, in marcia sui sen-tieri del Grande Gioco che irretì ilKim di Kipling, non può essere altrose non un pellegrinaggio alla ricercadella ricchezza geoculturale e delpluralismo religioso antecedenti al-le innumerevoli partizioni subitedalle civiltà cresciute intorno allesponde dell’Indo.

«Fu l’Indo a dare coerenza allemie esplorazioni; il fiume è al cen-tro di questo libro perché scorre at-traverso le vite delle sue genti comeun incantesimo». La metafora esoti-ca dell’incantesimo – che avrebbe

senz’altro insospettito Edward Said– non è buttata lì a caso. Se il mitodel «Padre del fiumi», alveo di coesi-stenze pacifiche tra civiltà assetate,comincia a scricchiolare ben primadell’arrivo degli inglesi, oggi, dopoche alla semplificazione autoritariadel colonialismo si è sovrappostaquella ancora più brutale della Parti-zione, nonché quella indotta dallaglobalizzazione e dalla lotta per ilcontrollo delle rotte del narcotraffi-co, la sua conservazione esige nuovisacrifici. Beffardamente, il rilanciodovrà iniziare dalle fogne, per in-

frangersi, con karmica fatalità, con-tro il muro di una diga. Ecco allora,a mo’ di incipit, dalla buca di unastrada di Karachi «da cui è spuntatoun mulinello di acqua putrida e scu-ra», affiorare la «testa gocciolante»di un bhangi, un fognaiolo rigorosa-mente non musulmano, giacché inPakistan – Terra dei Puri – solo i cri-stiani o gli indù di bassa casta sonoautorizzati a toccare i liquami.

A riscontro, nelle ultime pagine,l’apocalittica visione della diga «gi-gantesca, nuova di zecca», che i cine-si hanno costruito nelle vicinanzedella cittadina tibetana di Senge-Ali:«Il suo massiccio arco di cemento sileva dal letto del fiume come un’on-da enorme pietrificata a mezz’aria.La fisso incredula, cercando di ricac-ciare indietro le lacrime. La struttu-ra in sé è completa, gli operai stan-no installando gli elementi idroelet-trici nell’alveo. Da questo lato delladiga, c’è qualche pozzanghera, manessun flusso d’acqua. L’Indo è sta-to fermato».

Tra l’abiezione del bhangi, prote-si umana di un delta impoverito emelmoso, e la depressione del-l’esploratrice romantica, prostratadall’inattingibilità della sorgente e

dalla dissoluzione del mito dell’origi-ne, Imperi dell’Indo accompagna ilettori attraverso scenari degni del-l’enciclopedismo panottico dei viag-giatori sette e ottocenteschi. In unvillaggio vicino Thatta, nel Sindhme-ridionale, una festa nuziale sheeda,nella quale «gli uomini ballano intor-no a un tamburo di legno alto finoal petto, i piedi nudi pestano il terre-no, mentre le mani del percussioni-sta si muovono sempre più veloci»,evoca antiche connivenze afroasiati-che sopravvissute nella «più nume-rosa comunità di origini africaneche si possa incontrare nell’Asia delsud».

Nel Punjab occidentale «le vesti-gia dell’epoca sikh ancora costella-no il paesaggio», e nelle città di Pe-shawar e Quetta, benché i santuarisi sgretolino, il sikhismo violente-mente sradicato all’atto della Parti-zione persiste come religione difrontiera. Nella valle dello Swat (tri-butario dell’Indo), considerata «laSvizzera del Pakistan» e abbandona-ta dal turismo straniero dopo l’11settembre, il paesaggio pittoresco,l’isolamento e «le profonde venatu-re lasciate da un passato buddhi-sta», concorrono a alimentare tra isuoi abitanti «una plateale indiffe-renza». Dinanzi a un panorama «bu-colico», che sembra resuscitare ob-solete teorie climatologiche sull’in-flusso dell’ambiente sul tempera-mento, l’esploratrice alla ricerca ditracce antropiche non divisive va-gheggia l’idea che «la tanto denigra-ta istituzione musulmana della ma-drasa potrebbe avere le sue origininel monastero buddhista».

Infinite sono le testimonianze sto-riche, religiose, artistiche, archeologi-che che questo libro offre, attraver-sando luoghi e tempi dallo spessoreculturale analogo a quello degli eonicosmici, il cui calcolo sgomentò i pri-mi indologi. Storia congetturale?Contro-orientalismo autodiscolpan-te? Forse: Albinia sa bene che un resi-duo di etnocentrismo rimane anchenel bagaglio della viaggiatrice più sor-vegliata. Residuo che filtra nell’im-maginazione del lettore non britanni-co come parte del gioco, da accettar-si senza eccessivi sensi di colpa.

Pellegrinaggio indianosulle ormedi Alessandro Magno

di PAOLO LAGO

●●●«Ci sono due isole almeno, non si escludono avicenda», così afferma la Circe di Margaret Atwood(Circe / Fango, in You are happy, 1974), liberandosidegli stereotipi nati e cresciuti intorno a un mito: senell’isola ‘canonica’ di Circe consacratadall’Odissea, Aiaie, tutto continuerà ad avvenire‘regolarmente’, secondo i dettami della tradizione,in un’altra (o in altre isole) la vicenda si svolgerà inmodo diverso e la protagonista si libererà delle suemaschere di «bella dama senza pietà» o di«femmina domata dalla forza eroica». Quella cheattua Atwood nella sua riproposizione del mito èuna lettura in chiave femminista che lascia spazio auna sorta di palingenesi nel rapporto uomo-donna,una nuova interrelazione basata su condivisione,reciprocità e scoperta; come ha scritto AdrienneRich, «abbiamo bisogno di conoscere la scrittura delpassato, e di conoscerla in modo diverso da comel’abbiamo conosciuta finora; e non per tramandareuna tradizione ma per spezzare la sua presa su dinoi». La Circe di Atwood è il punto di arrivo del belvolume curato da Cristiana Franco (che lo correda

di un ampio e rigoroso saggio iniziale) Circe.Variazioni sul mito Omero, Ovidio, Plutarco,Machiavelli, Webster, Atwood (Marsilio, pp. 209, €9,00). Già autrice, insieme a Maurizio Bettini, delsaggio Il mito di Circe, la studiosa ci offre lapossibilità di osservare, appunto, le «variazioni» suCirce operate dai testi che ne attuano le riproposteprincipali. L’episodio ‘archetipale’ dell’Odissea cipresenta, se leggiamo più attentamente e cilasciamo catturare dal fascino narrativodell’episodio, una Circe più «complessa» di quantopossiamo credere: ingannatrice, premurosa,distaccata; tale complessità, probabilmente, è ilfrutto di un sostrato folclorico – che si allarga ancheal Vicino Oriente – intorno al quale si innestanomolteplici storie basate sulla figura di una maga ostrega che accoglie gli incauti viaggiatori. NelleMetamorfosi di Ovidio la vicenda viene rifocalizzata:non è più Odisseo a raccontare la storia ma uno deisuoi uomini finiti nel porcile e ci mostra una Circeinnamorata vanamente del bellissimo Pico e da leitrasformato in uccello (picus, il picchio). Plutarcoracconta, nel suo Le virtù degli animali (altrimentinoto come Gryllus), un interessante rovesciamento

prospettico: Gryllos, un uomo trasformato in porcoda Circe, controbatte con forza retorica e persuasivaa Odisseo affermando che la condizione animale èpreferibile a quella umana. Tesi, quest’ultima,sostenuta anche da Machiavelli nel suo poemetto interza rima intitolato L’Asino, nel quale si possonoudire echi parodistici della Commedia dantesca. Ilprotagonista, smarritosi all’imbrunire in un «luogoaspro quanto mai si vide», incontra una delleancelle di Circe (che non compare direttamente)che gli fa da guida nel mondo magico della suapadrona; anche qui, un porco, esaltando lacondizione animale, dice al protagonista: «Noi anatura siam maggiori amici». Da Machiavelli, conuno scarto di secoli, incontriamo il monologodrammatico della poetessa inglese Julia AugustaWebster (1870); Circe, adesso, parla in primapersona: «il centro dell’attenzione non è più laseduzione del maschio, ma il punto di vistafemminile di Circe come soggetto desiderante». Unavvicinamento progressivo alla rilettura in chiavefemminista di Atwood: una Circe che prende laparola per liberarsi – e liberarci – dai codici impostida una tradizione mitica.

Andrea Pistolesi, «Kashmir», 1998, fototratta da: A. P., «NAG, Non ancora global»,Touring Editore, 2007

IL VIAGGIO SOLITARIO DI UNA GIORNALISTA INGLESE LUNGO IL «FIUME DEI FIUMI»

ALBINIA

IL MITO DI CIRCE

Da Omeroalla femministaAtwood:così cadonogli stereotipidella maga

Alla ricerca degli «Imperi dell’Indo»,fra testimonianze di antiche civiltàe religioni antecedenti la «partizione»:i tremila chilometri di Alice Albinia

(3)ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

GERENZA

di SILVIA ALBERTAZZI

●●●Soprattutto nel mondo anglosasso-ne sta conoscendo un notevole ritorno difortuna il novel in stories, in altre parole ilromanzo fatto di racconti, uniti da un co-mune denominatore, che può essere to-pografico, oppure legato alla presenza diuno o più personaggi ricorrenti di storiain storia, ma più spesso nasce da un in-treccio di tutti e due gli elementi. Gene-ralmente, il romanzo fatto di raccontisembra essere una evoluzione della clas-sica narrazione a cornice, in cui quest’ul-tima diventa lo scenario unificante e lesingole storie sono legate tra loro attra-verso il recupero di caratteri e situazioni,fino a confezionare una sorta di canovac-cio, più che una trama vera e propria.

Spesso mascherati da romanzo permotivi di mercato (il pregiudizio dell’in-vendibilità dei racconti è duro a morire) inovel in stories – che contano tra gli illu-stri precedenti opere come Winnesburg,Ohio di Sherwood Anderson e I raccontidi Nick Adams di Ernest Hemingway – so-no stati riscoperti anche grazie a due re-centi vincitori del Pulitzer: ElizabethStrout, che con Olive Kitteridge ha vintonel 2009 e Jennifer Egan che grazie a Iltempo è un bastardo si è aggiudicata ilpremio nel 2011: due libri che, proprio invirtù della loro differenza, mostranol’estrema flessibilità di questa strutturanarrativa. Del resto, che il genere si possaprestare alla sperimentazione anche piùaudace l’ha dimostrato qualche anno fal’indiano Aravinder Adiga con Fra dueomicidi, romanzo di racconti inserito nel-la cornice della fittizia guida turistica diuna insignificante città indiana, Kittur, lacui unica attrattiva sembra essere una en-demica e onnipresente corruzione. Me-no politico e polemico, ma sicuramentenon meno ironico, seppure di un’ironianon altrettanto tragica, anche Julian Bar-nes ha utilizzato la stessa formula narrati-va più di una ventina d’anni or sono nel-la sua Storia del mondo in dieci capitoli emezzo, compendio sarcastico di storiauniversale dall’arca di Noè ai giorni no-stri – e oltre.

Ultimo in ordine di tempo a cimentar-si con un romanzo di racconti è ora, Ju-not Diaz, lo scrittore dominicano la cuifama è dovuta al romanzo La breve favo-losa vita di Oscar Wao, anch’egli vincito-re di un Pulitzer nel 2008, esempio para-digmatico dell’ibridismo tematico e lin-guistico che caratterizza la contempora-nea World Literature. Il narratore di quelromanzo, il giovane Yunior, torna ora nelnovel in stories appena uscito da Monda-dori con il titolo È così che la perdi (tradu-zione di Silvia Pareschi, pp. 280, €16,00) ,a raccontare, stavolta, la sua storia – o,meglio, le sue storie. Nella Breve vita Yu-nior, coinquilino playboy del protagoni-sta, era impegnato nel disperato tentati-vo di aiutarlo a uscire dal suo stato irrecu-

perabile di nerd goffo e sovrappeso.Atletico, sportivo e pieno di ragazze,

Yunior non solo era l’esatto opposto delpovero Oscar, obeso, impacciato e vergi-ne, ma rappresentava il tipico maschiodominicano, sessuomane e fedifrago.Sempre a caccia di avventure fugaci, si in-namorava tuttavia a tal punto della sorel-la di Oscar, da dover affrontare dieci annidi autodistruzione prima di metabolizza-re la fine della loro relazione.

È così che la perdi sembra nascere da ein quel periodo di buio e trasgressionesuccessivo alla morte di Oscar e all’ab-

bandono di Lola: chi racconta, in una sor-ta di Spanglish tradotto ottimamente daSilvia Pareschi, è uno Yunior che, giuntoal quinto anno di depressione per la per-dita della fidanzata – il cui abbandono èdovuto alla scoperta nella sua posta elet-tronica dei messaggi di ben cinquanta ra-gazze con cui è stata tradita – comincia ascrivere una Guida all’amore per infedeli:si direbbe dunque che Yunior si stia final-mente riprendendo dalla storia con Lola,pur non essendo ancora pronto per laquieta esistenza di Perth Amboy, nelNew Jersey.

I racconti che strutturano il romanzosono nove, come nella miglior tradizioneamericana, da Salinger in poi, e mentreraccontano i rapporti di Yunior con ledonne al tempo stesso tracciano un ritrat-to del «tipico uomo dominicano», infede-le, maschilista e inaffidabile, e della nonmeno tipica famiglia dominicana immi-grata negli Stati Uniti, alle prese con ilfreddo, duro lavoro, una lingua ostile e lacronica assenza – o la mancata presa diresponsabilità – delle figure maschili. In-contriamo così le tante «fidanzate» – dal-le studentesse universitarie alle «parassi-

te del permesso di soggiorno», dalle ra-gazze facili di pelle scura (la «spazzaturamarrone») a quelle di pelle chiara (la«spazzatura bianca»), dalle compagne discuola alle «single di mezza età, supersti-ti di catastrofi e naufragi». E tra le presen-ze femminili, la madre di Yunior, «la don-na che pregava Dio con orari da Mecca»,magnifica figura di matriarca, cui il mari-to ha impedito di imparare l’inglese, per-ché «è una lingua difficile ... e poi di soli-to le donne non (lo) imparano».

Se nel racconto «Invierno» la figura del-la madre, appena arrivata nel gelo delNew Jersey dalla sua calda isola, si stagliacontro il panorama di neve e ghiaccio inun finale epifanico indimenticabile, in«Otravida, Otravez» (l’unica storia nonraccontata da Yunior e, certo non per ca-so, anche l’unico altro racconto dal titoloispanico) a fornire un controcanto fem-minile all’atteggiamento impunito dei«maschi dominicani» è un’altra donna,addetta alla lavanderia di un ospedale.Nelle sue parole, accanto al ricordo diquei suoi primi tempi negli States in cui,dice, «mi sentivo così sola che ogni gior-no mi sembrava di mangiarmi il cuore»,c’è la consapevolezza della fragilità e, altempo stesso, della forza del rapportoche la lega a un compatriota sposato, cheha lasciato moglie e figli nella Repubbli-ca Dominicana. A chi le chiede del suoamore per questo uomo, Yasmin rispon-de ripensando alle luci tremolanti nellasua vecchia casa, sull’isola, che sembra-vano sempre sul punto di spegnersi:«Mettevi giù le cose e aspettavi, e non po-tevi fare niente finché le luci non decide-vano. Ecco, mi sento così».

Mentre il ricordo di quel paese «al qua-le non pensi mai finché non lo hai perdu-to, che non riesci ad amare finché non lohai abbandonato», di quel mare «comeargento sminuzzato» messo a confrontocon un New Jersey «così freddo che lamente cambia direzione insieme al ven-to», unifica le storie di Yunior, l’architet-tura a mosaico del romanzo di raccontiaiuta a creare un effetto contrappuntisti-co tra la sfrontatezza maschile e la passio-ne e la tenerezza femminili, che difficil-mente si sarebbe potuto raggiungere nel-la forma-romanzo, mettendo in scenauna molteplicità di voci narranti, unaframmentarietà spazio-temporale e l’as-senza di un preciso ordine cronologiconegli eventi. Se, da un lato è il tempo delricordo, incompleto e frammentato, astrutturare la narrazione, dall’altro il coa-gularsi di ogni racconto suggerisce il sen-so di continuità dell’esistenza meglio delromanzo, com’è proprio delle narrazionibrevi, attorno a uno o più dettagli rivela-tori, per arrivare a uno scioglimento chenon è mai conclusivo, quanto piuttostorivelatore, e proteso verso ulteriori possi-bilità. Non è certo un caso se il personag-gio di Yunior – che in La breve favolosa vi-ta di Oscar Wao chiudeva il suo raccontocon le parole «niente finisce mai» – è orariproposto in un romanzo di racconti, ge-nere «aperto» per eccellenza, dove la con-tinuità della narrazione, anche quandonon è garantita, come in questo caso, dal-la forma circolare, è comunque suggeritadalla chiusura non definitiva delle storiee dalla possibilità di riassestare l’impian-to della vicenda secondo l’ordine emoti-vo di chi legge.

Di racconto in racconto, Yunior (cheDiaz ammette essere una sorta di suo al-ter ego), a differenza di quanto accadevanel romanzo, passa dall’io al tu, dalla con-fessione in prima persona al dialogo oracon se stesso ora con una delle sue tantefidanzate, per arrivare a concludere ilsuo/i suoi racconti con un inizio, ovvero,metanarrativamente, a chiudere i raccon-ti per iniziare la scrittura. Dimostrandoprima di tutto a se stesso che comunque«Il mondo … non finirà mai». E dimo-strando, come recita l’ultima frase di È co-sì che la perdi, che «a volte un inizio è tut-to ciò che abbiamo».

A volte un inizioè ciò che ci resta

DIAZ

In copertina di «Alias-D»:Suzanne Valadon, «Nudosu asciugamano», 1908,Parigi, Centre Pompidou;nella foto, Joseph Conrad

Wolfgang Tillmans, «Corinne», 1993, da: W.T., Taschen, 2002

Costruitosu un mosaicodi racconti,«È così che la perdi»gioca sull’effettocontrappuntisticofra sfrontatezzamaschilee tenerezza femminile

L’ULTIMO ROMANZO DEL DOMINICANO JUNOT DIAZ

RACCONTI

Bambinie adeloscentidi Ivo Andric:la scopertadel mondocome trauma

di LUCA SCARLINI

●●●Una nuova silloge di racconti di IvoAndric dal titolo accattivante di Litigando conil mondo (traduzione di Alice Parmeggiani,cura e postfazione di Božidar Stanišic, pp.148, € 15,00) è proposta da Zandonai dopo laprecedente La donna di pietra (2010). Il filorosso di queste pagine composte tra annitrenta e anni sessanta è quello della crescitacome trauma, della scoperta del mondocome ferita, ferita inferta dalla lama di unarealtà che non risparmia nessuno. Bambini eadolescenti, spaesati in un mondo adulto chenon rivela loro le parole-chiave per potercomprendere la loro posizione nel mondo,cercando disperatamente di trovare il sensodi azioni sfuggenti.

Nella prosa che dà il titolo al libro, ilprotagonista viene attratto dai raccontiall’osteria che indicano in un concittadino,dal nome di Nikola, un «sospetto», unapersona non grata, da tenere lontana perquanto possibile dalla collettività. In lui, che

pure quando compare alla sua vista è unapersona mite e comune, egli vede incarnato ilproprio desiderio di rivolta, che trova ilcoraggio di verbalizzare con una frasepronunciata in pubblico senza alcun effettodi sorta, però, sul mondo circostante. In Sullariva la bella Roza Kalina, figlia irregolare di unsoldato sgradito ai superiori, turba gli sguardidi bambini che stanno per giungere allapubertà, ma chi tra loro avrà il coraggio dialzare la gonna, avrà in cambio un colpo dispada nel ventre. Ne Il libro la partita di unragazzo di provincia spaesato in un severoginnasio di stile austroungarico, si giocaintorno alla possibilità di restituzione di unvolume preso in prestito in biblioteca. Unadisattenzione, e la costola di una raccolta diavventure di viaggio a lungo desiderata sidisfa. All’incidente seguono ansie, incubi,patemi, fino a un finale in cui l’eccesso dipathos si scioglie nel disinteresse dellagestione burocratica. In Il panorama unragazzo torna ossessivamente ogni domenicaa vedere fugaci visioni di paesi lontani. Forte

è l’impatto della rapida prosa de La torre: inun rudere della dominazione turca ungruppo di bambini gioca alla guerra. Assumeposizioni, disegna strategie, si contrapponeverbalmente, finché non arrivano le botte, laviolenza, il dolore, condiviso come tappa diuna educazione. Quando la piccola zingaraSmiljka entra in questo recinto maschile,sembra che stia per scattare una aggressione,un attacco, ma poi la madre di lei dissolve inun attimo il branco.

Il titolo del libro è efficace nel definirepagine assai acute che si incentrano sullapresa di coscienza di identità turbate. Gliostacoli sono quelli che nel quotidiano sisvelano sotto l’aspetto di una difficoltà dipadroneggiare «l’uso del mondo», il cui sensoultimo sfugge. Andric magistralmente entranel tessuto vischioso delle aspirazioni e deidesideri di identità che si cercanoaffannosamente. La scoperta del prisma delreale passa da una presa di coscienza difficilefino a un momento di finale in cui la sconfittaprende l’aspetto di una epifania.

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(4) ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

Laghi, insetti,alci, corteccia,e un pellerossa

di MASSIMO BACIGALUPO

●●●Fa piacere viaggiare per i luo-ghi (tuttora) selvaggi del nordestUsa con Henry David Thoreau, gra-zie all’edizione bilingue di I boschidel Maine (traduzione di Anna Ban-fi, La vita felice, pp. 362, € 14,50).Molti non hanno mai sentito il no-me di questo grande eccentrico deidintorni di Boston (1817-’62), i me-glio informati sono al corrente dellasua rilevanza politica per via del sag-gio Disobbedienza civile che fu lettoe praticato nel Novecento dai padridella non violenza, gli happy fewsanno persino del suo libro princi-pe Walden, spesso tradotto in italia-no, cronaca di un soggiorno in unacasupola sull’omonimo laghettopresso Concord: «Sono andato neiboschi perché volevo vivere delibe-ratamente, confrontandomi solocon i fatti essenziali della vita e vede-re se potevo imparare ciò che essaaveva da insegnare e evitare di sco-prire, morendo, di non aver vissuto.Non volevo vivere quella che nonera vita, il vivere essendo così caro;né volevo praticare la rassegnazio-ne a meno che non fosse proprio ne-cessario». C’è una filosofia, un entu-siasmo asciutto, in questo romanti-co yankee, che guarda la natura confreddezza ma ne vive ogni palpito,laconicamente. Walden è un brevia-rio filosofico-naturalistico, soprat-tutto letterario, che tutti i ragazziamericani trovano (a brani) nelle lo-ro antologie, e che ha qualcosa del-la straordinaria originalità dei coeviMoby-Dick e Foglie d’erba. Un po’di romanticismo, un po’ di secenti-smo, un po’ di filosofia indiana(Thoreau, a differenza di Melville e

Whitman, aveva studiato: a Har-vard), ma soprattutto l’esperienzapersonale del nuovo mondo, uncontinuo dialogo di interno e ester-no. Un libro da portarsi in viaggio,dall’inglese non facile, intricato,adatto a palati fini quanto ai sacco-

pelisti.I boschi del Maine è invece una

cronaca fattuale di una spedizionecompiuta dal poeta-naturalista conun amico dal 20 luglio al 3 agosto1857. Il gusto del libro sta nel fattoche è assai meno letterario e pro-

grammatico di Walden e saggi co-me Camminare. Si accontenta di de-scrivere minuziosamente gli eventi:un mondo di laghi, temporali, inset-ti (innumerevoli e fastidiosissimi),isolotti, uccelli, alci, scoiattoli, rapi-de, canoa, tenda, corteccia, tisanedi erbe e tabacco improvvisato,qualche incontro con altri solitari.Si respira la libertà dalla necessitàdi intrattenere e fantasticare. Tuttoè netto, da quando si parte in dili-genza con il cane di un passeggeroche vi corre accanto, al primo incon-tro con l’indiano che farà da guidaai due, Joe Polis. Lo trovano intentoa trattare una pelle di daino e glichiedono se conosce qualcuno di-sposto ad accompagnarli. «Ci rispo-se, parlando da quella strana distan-za in cui l’indiano sempre abita peril bianco: ‘Me piace venire io; volereprendere alce’, e continuò a raschia-re la pelle». Purtroppo la volentero-sa traduttrice qui come altrove noncomprende il senso dell’originale escrive «Ci rispose senza quel curio-so distacco con cui gli indiani sonosoliti rivolgersi ai bianchi». Per fortu-na la presenza del testo inglese inquesto comodo libretto permetteràal lettore di sorvegliare la traduzio-ne dove necessario, e di scoprire adesempio che i pini di cui si parla apagina 250 non hanno «un diame-tro difficilmente inferiore a ottantao novanta piedi». Un pino con undiametro di trenta metri sarebbedavvero eccezionale. Peccato che latraduzione sia manchevole, perquanto meritoria nell’affrontare ledifficoltà di un resoconto in fondonaturalistico, dunque pieno di no-mi scientifici e comuni di piante eanimali. Ma sono incidenti non rarinella nostra editoria, e bisogna esse-re grati dell’occasione di leggerequeste pagine così fresche di unoscrittore-osservatore che non lascianulla nel vago.

Joe Polis l’indiano è al centro del-la narrazione, che ne fornisce un ri-tratto cumulativo. «Hanno denti for-ti, e notai che usava spesso i suoi do-ve noi useremmo una mano». «Do-po aver ripreso i posti nella nostracanoa, sentii che l’indiano asciuga-va la mia schiena, su cui aveva acci-dentalmente sputato. Disse che si-gnificava che mi sarei sposato» (co-sa che invece T. non fece mai). Tho-reau si accorda con Joe che si inse-gneranno a vicenda tutto quel chesanno; in lui in effetti c’è qualcosadel pellerossa nella sua laconicità diautore di migliaia di pagine. E Joe ri-vela una certa ammirazione per idue escursionisti che condividonocon lui le lunghe fatiche. La dimo-stra lesinando le parole: «Agli india-ni piace sbrigarsi col minimo possi-bile di comunicazione e trambusto.Ci stava in realtà facendo un grandecomplimento, pensando che prefe-rissimo un cenno a un calcio».Thinking that we preferred a hint toa kick – il testo è ricco di queste fra-si memorabili e chi lo frequenteràlo troverà salutare nella sua assolu-ta nettezza.

JOHN LANCHESTER

Pepys Road,un microcosmolondineseal tempo della crisi

di STEFANO GALLERANI

●●●Avrebbe ben potuto essere decli-nato al plurale il sostantivo Biographyche compare nel titolo originale delvolume che Daniel Dyer ha dedicatoa Jack London, tali e tante sono statele esperienze accumulate dall’autoredel Popolo dell’abisso in un arco ditempo relativamente contenuto (natoa San Francisco nel 1876, London mo-rì il 22 novembre del 1916 nel suo Be-auty Ranch di Glen Ellen). Jack Lon-don Vita, opere e avventura recita, in-vece, la copertina dell’edizione italia-na del lavoro di Dyer, appena pubbli-cata da Mattioli 1885 (pp. 173, €

19,90), per le cure di Franca Brea econ uno scritto dello stesso London(Cos’è la vita per me) tratto dalla rac-colta Rivoluzione (per i medesimi tipinel 2007 e a cura di Davide Sapienza):con disperato ottimismo, nel 1905London attende «con ansia il tempoin cui l’uomo saprà conquistare unprogresso che non sia solo materiale,il tempo in cui l’uomo agirà guidatoda un incentivo più alto di quelloodierno, che è appunto lo stomaco.Continuo a creder nella nobiltà e nel-l’eccellenza dell’uomo». Opportuna-mente, Dyer (già autore di una edizio-ne annotata di The Call of the Wild)adotta un registro rapido e svelto – co-me rapidi e svelti furono gli anni di vi-ta dello scrittore statunitense – perraccontare in undici capitoli gli snodiprincipali del breve apprendistatoche nel giro di una manciata di lustrifece di John Griffith Chaney London(questo il vero nome) il narratore for-se più popolare del pianeta (dal 1903Il Richiamo della foresta viene stampa-to ininterrottamente); pure, fin quan-do Maxwell Geismar non gli dedicò,nel 1953, il terzo capitolo della sua ri-costruzione del romanzo americanodal 1890 al 1915 (Ribelli e antenati),London ha faticato a imporsi oltre i li-miti del proprio successo commercia-le; a lungo, la sovrapposizione del suopersonaggio all’opera ha suscitatosentimenti di diffidenza, quando nondi vera e propria ostilità (memorabile,nella bibliografia italiana, l’impietosogiudizio che, vent’anni prima di Gei-smar, gli riserva Emilio Cecchi), e pe-rò, come testimoniano le pagine diDyer, è illegittimo, prima ancora cheinutile, separare l’uno dall’altra: la vi-ta sulla strada, gli stenti, le letture, ilmare e la corsa all’oro, ogni singoloepisodio risponde, in London, a un’ir-resistibile forza interiore che non s’ar-resta sulla carta, ma da questa si river-sa in nuove sfide, nuovi eccessi di cuiil romanziere è il primo testimone, im-pietoso biografo di se stesso, come la-sciano intendere Martin Eden e JohnBarleycorne: letture imprescindibiliper chi s’accosti a London e, soprat-tutto, per chiunque voglia perpetrar-ne la memoria. A questi testi, infatti,nonché alla ponderosa biografia diCharmian London e agli epistolari ori-ginali, Dyer si rifà puntualmente, trat-teggiando il profilo di uomo che fu tut-t’uno con la vita che si scelse (gli è for-se pari, in questo, e con le debite diffe-renze, solo Oscar Wilde) in un modoche, oggi, appare irrealistico e inge-nuo come un grandioso, anacronisti-co romanzo d’avventura.

Questa cronaca dettagliatadi una spedizione nel selvaggioNord-Est Usa colpisce per la suanettezza descrittiva, e la figuradell’indiano che guidò l’autore

«I BOSCHI DEL MAINE», UN REPORTAGE 1857 DEL POETA-NATURALISTA HENRY DAVID THOREAU

THOREAUIL FOTOGRAFO ALLA THOREAUL’immagine pubblicata a fianco è tratta dalcelebre libro di John Gossage «The Pond»,racconto in bianco e nero al cui centro c’è unlaghetto senza nome tra Washington, DC, eQueenstown, Maryland. Gossage lo fotografòtra il 1981 e il 1985, in omaggio a «Walden»di Henry David Thoreau (sotto, nel ritratto)

di LUCA BRIASCO

●●●Cinquant’anni, narratore, giornalista esaggista, collaboratore di riviste di fama, daGranta alla London Review of Books (di cuiè stato anche caporedattore), al New Yorker,John Lanchester si è affermato da annicome uno degli scrittori inglesi di maggiortalento per la finezza della lingua, l’eleganzae l’acume con cui padroneggia i toni dellacommedia sociale, l’originalità delle trame.I suoi primi tre romanzi, tutti tradotti epubblicati in Italia, avevano dimostratoun’estrema varietà di registri e di temi,spaziando dal lucido viaggio nella mentedistorta quanto fascinosa di un «mostro»(Gola) a un ritratto delle ossessionipiccolo-borghesi e maschili attraverso gliocchi di un «esodato» che trascorre unagiornata a passeggio per Londra (L’uomoche sognava altre donne, forse il suo libromigliore), alle tre storie di immigrazionenella Hong Kong multietnica degli anniOttanta nel Porto degli aromi. Il saggioDalla bolla al crack, tradotto nel 2008,aveva aggiunto al quadro dei suoi talenti la

capacità di leggere i moti e gli effettidell’economia globale e della crisifinanziaria con una lucidità e un’eleganzaespositiva da fare invidia ai migliorisociologi e economisti. Ora, con Pepys Road(Mondadori, pp. 495 pagine, € 20, 00,traduzione meravigliosa di NormanGobetti), Lanchester ha scritto la sua operapiù ambiziosa, sintesi del suo percorso dinarratore e saggista, ritratto di una città e diun momento storico vicino a noi e alcontempo lontanissimo; romanzo sulla edella crisi, commedia sociale carica diempatia per l’umanità che la popola. Ilprologo del libro è fulminante: è l’alba di unmattino di fine estate, e un uomo con felpae cappuccio si aggira per un’anonima via diLondra, riprendendo una dopo l’altra, conuna minuscola videocamera, le case che lafiancheggiano. La via è Pepys Road, e innon più di sei pagine – che varrebbero dasole un romanzo – Lanchester ce neracconta la storia a partire proprio dallecase: costruite a fine ottocento e mirate aun mercato ben preciso («famigliepiccolo-borghesi disposte a abitare in una

zona poco prestigiosa in cambio di unacasa a schiera abbastanza grande da poteralloggiare i domestici»), ma poi divenuteimmobili di pregio a partire dagli anni delthatcherismo. È questo il periodo nel qualePepys Road emerge «dalla scialba crisalidedei tardi anni settanta per trasformarsi inuna farfalla dai colori squillanti»: cambianoi proprietari delle case e cambiano le casestesse, sottoposte a un intenso lavorìo diristrutturazioni per essere all’altezza delnuovo status sociale che chi vi abita intendeperseguire. Oscillando tra il saggio e ilracconto disteso, tra la finezza del datosociale e l’originalità di uno sguardo che,anziché soffermarsi sulle persone, si dedicaa animare le cose immote, conferendo lorovita e personalità, Lanchester scrive, più cheun prologo, un prodigioso micro romanzo,che però si chiude su una nota diversa eapre su un altro libro, lungo, quest’ultimo,non sei, ma quattrocentonovanta pagine.Questo, infatti, il paragrafo conclusivo delprologo: «Avere una casa di proprietà inPepys Road era come essere in un casinòdove la vittoria è assicurata. Se già ci abitavi,

JACK LONDON VITE

Daniel Dyerpedinalo scrittoreche aderìalla propriabiografia

(5)ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

di CATERINA RICCIARDI

●●●«Nella decorazione degli interni,se non nell’architettura esterna delleloro residenze, gli inglesi sono supre-mi. Al di là di marmi e colori, gli italia-ni hanno poca sensibilità. In Francia,meliora probant, deteriora sequun-tur»: così decretava il ‘gotico’ Edgar Al-lan Poe nella Filosofia dell’arredamen-to, un saggio pionieristico nell’Ameri-ca del primo Ottocento, alla quale egliattribuiva non un’«aristocrazia del san-gue» ma – meno ovvio – «un’aristocra-zia del dollaro, il display della ricchez-za». Una verità sonante se proiettatanel corso dei decenni, perché fu pro-prio un’americana della danarosa bor-ghesia della fine di quel secolo – untempo in cui il collezionismo e le son-tuose dimore riplasmavano l’anima diManhattan – a rilanciare il culto del-l’arredamento, distanziando i radicatistili Chippendale e «coloniale» (o «ge-orgiano»). Edith Wharton aveva densacultura artistica, acquisita anche conla frequentazione dei palazzi nobiliarieuropei, una competenza che ella met-te al servizio pubblico in vari interven-ti sul pittoresco architettonico, le villee i giardini italiani, le espressioni del«gusto» francese e, appunto, la curadegli interni, oggetto di La decorazionedella casa (traduzione di Anna MariaPaci, Elliot, pp. 335, € 30,00), operascritta e illustrata (cinquantasei foto-grafie un po’ usurate) in collaborazio-ne con l’architetto Ogden Codman Jr.e pubblicata nel 1897.

Scrupolosamente documentato (bi-bliografia in francese, inglese, tedescoe italiano), corredato di un dettagliatoindice analitico (alari, arazzi, armadi,bergère, camini, carta da parati, conte-nitore per la legna, e così via), con que-sto «alfabeto» organizzato per ambien-ti Wharton si propone di indirizzare ilgusto verso un contenimento di quel«display» (l’«accozzaglia di ornamentieterogenei») notato da Poe sessant’an-ni prima (sul «gusto» speciale di E.A.P.si rilegga, invece, per esempio, Ligeia)e la conciliazione di tradizione e nuo-ve esigenze della modernità. La mo-dernità incombente (si pensi solo ainuovi sistemi di riscaldamento) è unadelle ragioni che muovono l’intelligen-za e la penna della futura autrice del-l’Età dell’innocenza – il bel romanzo‘decorato’ su una New York in via disparizione – alla ricerca del conforte-vole e del «solo necessario», confer-mando lo spirito pragmatico america-

no anche nella progettazione e nel-l’uso della casa, o delle case se si distin-guono la casa di città e quella di cam-pagna.

Altrettanto pragmatico era, tuttavia,lo scopo architettonico-decorativo neisecoli passati: la predilezione perl’arazzo, per esempio, è più diffusa alNord perché nasceva dall’esigenza diuna maggiore protezione dal freddo;così pure il legno per pareti e soffitti as-sicurava più calore dello stucco. In Ita-lia si inizia a perdere l’uso del soffitto

a cassettoni a partire dal tardo Quat-trocento quando si va affermando lavolta affrescata, come nella Camera de-gli Sposi del Mantegna con quell’effet-to aereo curiosamente ‘balconato’. Os-servazioni simili valgono per le porte:nelle dimore nordiche dovevano esse-re più piccole per ragioni di sicurezza,un fattore da cui erano esenti i portonimonumentali dei palazzi italiani pro-tetti dalla cinta della città-stato.

Un’altra curiosità riguarda i «mobi-li». Nel lessico medievale essi rimanda-

no a qualcosa che, ancora per ragionidi sicurezza, i signori feudali potevanospostare da una dimora a un’altra:«Meubles sont apelez qu’on peut tran-sporter». Di qui la scarsa varietà di mo-bilia fino al XVII secolo «e la sua inade-guatezza rispetto ai canoni della vitamoderna». Sedie e armadi venivanocaricati a dorso di mulo, per cui la for-ma si adeguava a uno stile rigido:«Non è esagerato affermare – notaWharton – che prima della poltronaLuigi XIV non vi sia mai stata una se-

dia confortevole nel senso modernodel termine, e la bergère imbottita, an-tenata della nostra sedia a braccioli ri-vestita di tappezzeria, non può esserefatta risalire oltre la Reggenza».

Con l’invito al comfort e al funziona-le quali principî di rigore nei tempinuovi, Wharton non trascura la con-servazione, mettendo in guardia dallatendenza, soprattutto femminile, «avoler cose perché gli altri le hanno» e,all’estremo opposto, dalla rinuncia «al-le cose perché sono fuori moda». Il«superfluo» («la stanza moderna haperso il suo equilibrio a causa dellaconfusione tra ciò che è essenziale eciò che è secondario nella decorazio-ne») è il frangente che Wharton mag-giormente teme in un’America che vacambiando e si mostra presa da«un’ateniese sete di novità non sem-pre temperata da un ateniese sensodella misura», cedendo al richiamodei mobili in serie in «finto stile», o «inprincisbecco», pari agli esemplari che«inondano i nostri negozi sino a strari-pare sui marciapiedi».

A differenza di quello di Poe, il gu-sto di Wharton si ispira per lo più al-l’Italia rinascimentale (modelli preferi-ti sono i Palazzi Ducali di Mantova eUrbino e Palazzo Te), o settecentesca(Genova soprattutto: il Palazzo Reale eil Parodi) e alla Francia dei Luigi XV eXVI. In Inghilterra l’occhio si volge in-vece al revival palladiano, introdottoda Inigo Jones e proseguito da Chri-stopher Wren e – in Francia – da An-ge-Jacques Gabriel, destinato a cam-biare «il gusto nordico», e ad attecchi-re nell’America neoclassica di Jeffer-son, sostituendo lo stile Tudor. In effet-ti, quella moda fu così diffusa da pro-durre un molto seguito Vitruvius Bri-tannicus (1725), compilato da ColenCampbell, il fondatore, a sua volta, del-lo stile «georgiano». Poca simpatia ellamostra per il Neogotico di Viollet-le-Duc (e di Ruskin) e, tutto sommato, ilsuo cuore resta vincolato al calore ita-liano: «Nella concezione anglosasso-ne – scrive – la bellezza non scaturisceistintivamente dai desideri materialicome accade per i popoli latini. Noidobbiamo rendere belle le cose: essenon sono tali in se stesse». A illustra-zione della fusione di funzionalità ebellezza, persino in pezzi apparente-mente banali, cita i cassoni nuziali di-pinti da Botticelli: non c’è dubbio cheavesse conoscenze raffinate.

Quanto serve questo dotto excursusalla casa moderna? Molto, se si prestaattenzione al rapporto coltivato nelpassato fra «decorazione e arredamen-to», risponderebbe Wharton, e fra

«proporzione e decorazione», che èanalogo a «quello fra anatomia e scul-tura: le leggi universali sono sotterra-nee». Di qui nasce l’elogio del ‘non-su-perfluo’, una scelta difficile da impor-re all’ambizione moderna e spendac-ciona: «la suprema eccellenza è la sem-plicità». A tale fine tende il percorsovirtuale da lei tracciato nella Decora-zione della casa, opera e dimora enci-clopediche in cui entriamo seguendola strada che dall’esterno conduce viavia verso gli interni: porte; finestre; ca-mini; soffitti e pavimenti; ingresso e ve-stibolo; hall e scale; salotto, boudoir emorning-room; sale delle feste: salo-ne, salone da ballo, sala da musica, gal-leria; biblioteca, fumoir e ‘tana’; salada pranzo; stanze da letto; e, quindi,sala da studio e stanze dei bambini; in-fine: bric-à-brac.

E la stanza da bagno? Anche quinon manca un buon consiglio: «Ilprincipale difetto della stanza da ba-gno americana è che, per quantosplendidi siano i materiali impiegati,la decorazione non è mai architetto-nica. Uno sguardo alla bellissimastanza da bagno di Palazzo Pitti a Fi-renze (decorata da Cacialli, fine Sette-cento, n.d.r.) rivelerà quale effettopossa essere prodotto da una compo-sizione accurata in un piccolo spazio.Un semplice stanzino è qui trasfor-mato in una stanza sontuosa grazie aquel rispetto dell’armonia degli ele-menti che distingue l’architetturad’interni dalla semplice decorazio-ne». Proviamo a imitarla?

di C. R.

●●●La «great generalissima» a cavallo di un mulo (o alla guida di una macchi-na), così Henry James definì Edith Wharton, ardita volontaria sul fronte francesedella Grande Guerra. L’opera di assistenza le fu riconosciuta con la Légiond’honneur, ma l’esperienza le diede spunto per lasciare diverse testimonianzeletterarie, fra cui Il ritorno a casa (traduzione di Nicola Manuppelli, Mattioli, pp.77, € 10,90), un racconto lungo originariamente pubblicato negli Stati Uniti nel1915 e finora inedito in Italia. Il recupero va ad aggiungersi ad altre narrazioniamericane, per lo più maschili, su quella guerra (di Hemingway, Dos Passos,Cummings).

La forma adottata non è nuova. Wharton usa l’espediente del racconto nelracconto, una visione di prima manofornita al narratore da un americanodel Corpo di Soccorso sulle Argonne,dove le prime offensive tedesche era-no state violente con ricadute deva-stanti sulla popolazione civile, e ledonne in particolare.

È proprio qui il punto su cui si av-volge la suspense della storia che se-gue i passi di un giovane francese edell’amico americano (il testimoneche racconta) alla ricerca del destinotoccato alla propria famiglia e alla fi-danzata in una zona oltre le linee. Lafunesta ripetizione del nome di unbrutale ufficiale – «von Scharlach» –sulla strada verso il castello di Ré-champ sembra bastare a concentrarein quel nome uno ‘slogan’ anti-tede-sco e a tradire un possibile intentopropagandistico di Wharton (nel 1915gli USA erano ancora temporeggiato-ri, con grande disappunto di Henry Ja-mes). Due segreti danno vampata allavicenda: il secondo viene tacitamentesvelato ma il primo, il più piccante, re-sta intrecciato nei silenzi della trama enelle «ossa rotte della Storia».

WHARTONContro l’Americadel Chippendale

WHARTON UN RACCONTO DAL FRONTE

La Grande Guerradell’ardita volontaria

«LA DECORAZIONE DELLA CASA» (1897) DELLA FUTURA AUTRICE DELL’«ETÀ DELL’INNOCENZA»

eri ricco. Se ti ci volevi trasferire, eri ricco.Era la prima volta nella storia in cui siverificava una cosa del genere. La GranBretagna era diventata una nazione divincitori e perdenti, e tutti coloro cheabitavano in quella via, per il solo fatto diabitarci, avevano vinto. E in quel mattinod’estate il giovane si aggirava per la via,filmando quella strada piena di vincenti».Dai filmati, e dall’attività sospetta eincomprensibile del giovane incappucciato,prende le mosse la trama del romanzo.Molti dei residenti di Pepys Road trovanosopra lo zerbino o nella cassetta della postauna foto delle rispettive case con unmessaggio scritto a macchina nel quale sidice: «Vogliamo Quello Che Avete Voi». Èl’inizio di una campagna di minacce eprovocazioni, che culmina indanneggiamenti alle auto parcheggiate difronte alle case, rimanendo sempre sulconfine sottile tra provocazione artistica eodio sociale. Ben presto, però, Lanchesterabbandona questo spunto di partenza,preferendo trasformarlo in una sorta dirumore di fondo, e si immerge nelle storie,

variamente incrociate, dei residenti diPepys Road o delle persone che vi lavorano.Ci sfila così davanti una galleria dipersonaggi spesso memorabili e raccontaticon un gusto, un affetto e una ricchezza dinotazioni da grande romanzo ottocentesco:l’anziana Petunia Howe, ultimasopravvissuta della «vecchia» Pepys Road,vedova, affezionatissima al nipote Smitty,artista concettuale e agent provocateur;Roger Yount, finanziere e speculatore, unufficio ai piani alti della City, in attesa di unbonus da un milione di sterline per meritisul lavoro che dovrebbe consentirgli dimantenere il tenore di vitadispendiosissimo imposto da una moglieannoiata e viziata; la famiglia Kamal,palestinese, che gestisce un negozioall’angolo della strada, divisa tra adesione aimodelli inglesi e rigore islamico; l’ausiliariadel traffico Quentina, che multainesorabilmente i residenti per riscattarsidal suo incerto status di aspirante rifugiata;l’immigrato polacco Zbigniew, che restaurale case di Pepys Road; il senegalese FreddyKamo, nuova promessa diciassettenne del

calcio mondiale, appena acquistato da unodei grandi club londinesi. Si tratta di unelenco incompleto, perché non c’è un solopersonaggio che compaia in scena senzache Lanchester gli dedichi un ritrattodettagliato e ricco di intuizioni. Basta aprireil romanzo su una pagina a caso perimbattersi in osservazioni cariche di acumee umorismo come questa, riservata allasignora Kamal, appena giunta dal Pakistanin visita di famiglia: «Era quello il problemapiù grosso con la signora Kamal. Leidedicava una tale straordinaria quantità dienergia mentale a sentirsi irritata che eraimpossibile non sentirsi irritati a propriavolta». Attraverso le vicende quotidiane diquesta pletora di personaggi che sialternano nei centosette capitoli delromanzo, seguiti da uno sguardo autorialeal contempo onnisciente e amorevole,Lanchester ci racconta Londra, di cui PepysRoad è microcosmo e corrispettivometonimico, e l’Inghilterra intera negli annidella crisi. Il libro si apre, non a caso, neldicembre del 2007 per chiudersi nelnovembre dell’anno successivo, quando la

coperta delle speculazioni finanziarie si èormai rivelata troppo corta, e l’economiacomincia a annaspare. La padronanza concui viene gestito l’andirivieni delle voci edegli sguardi, la capacità di penetrazionenelle psicologie, la cura estrema neipassaggi narrativi, fanno di Pepys Roadun’opera godibile, moderna anche nel suoessere deliberatamente antica e nelreclamare per il romanziere un ruolo dadeus ex machina che la lunga derivapostmoderna sembrava aver cancellato persempre. Rimane un solo dubbio, alla finedella lettura: le mille delizie di cui ilromanzo è cosparso non riescono acancellare dalla mente quello straordinarioprologo, nel quale davvero erano le case aparlare, a raccontare la vita di una classesociale e forse di una nazione interaattraverso le loro stesse trasformazioni eristrutturazioni. E viene da chiedersi sedentro quelle sei pagine, oltre al libro cheabbiamo tra le mani, non ve ne fosse innuce anche un altro, forse più complesso earduo, ma carico del fascino che solo legrandi invenzioni letterarie possono avere.

Un’enciclopediatutta da leggeredivisa per ambienti:così Edith Whartonindirizzava il gustoconciliandola tradizione(Italia, Francia,Inghilterra...)con la modernità

Ricostruzione di un salotto Luigi XVI, Parigi,Musée Nissim de Camondo

(6) ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

di GABRIELE FICHERA

●●●«Questa è la storia di un uomo che si chiamava come me ed era nato nelgiorno in cui io sono nato, eppure non sono io». Prescindendo dalla densa ouver-ture è con questa sibillina sentenza che ha inizio Amianto di Alberto Prunetti(prefazione di Valerio Evangelisti, Agenzia X, pp. 141, € 13). La «storia operaia» –così il sottotitolo del libro – si mostra dunque fin da subito in tellurica contiguitàcol tema perturbante del doppio; tra un’identità «negata» e un’alterità perigliosatutta da verificare. Ancora un padre scomparso; e ancora un figlio che con coc-ciuta pietà si mette sulle sue tracce, simile al Telemaco «archetipico» recente-mente ripreso da Massimo Recalcati. L’Ulisse in questione è Renato, tubista esaldatore, operaio «sradicato e specializzato», costretto, e non da un’umanisticacuriositas, ma piuttosto dalle miopi esigenze del capitale, al duro «nomadismoindustriale» del trasfertista. Nelle sue peregrinazioni lungo l’Italia, al posto dei lo-tofagi e delle sirene, l’eroe operaio incrocerà i nomi, altrettanto temibili e mo-struosi, delle acciaierie in cui presta lavoro. E intanto la Circe industriale nonsmette di ammannire, a lui come a altri operai, devastanti cibi di polvere, farcitial veleno. Renato si ammalerà di tumore per esposizione prolungata all’amian-to. E morirà nel 2004, a soli cinquantanove anni, martoriato dal dolore e inebeti-to dalla morfina.

L’autore ricostruisce controvoglia questa storia; ma non può e non vuole sot-trarsi – e questo è uno dei suoi primi meriti – a quella che gli si para innanzi co-me una necessità oggettiva. Sono troppo eloquenti i segni che si affacciano allasua coscienza. Prima riemerge dall’oblio, in un quotidiano locale, una foto delpadre da giovane, mentre posa a fianco della cantante Nada. Poco dopo arrivaun avviso del patronato: stanno per scadere i termini per la domanda di ricono-scimento dell’esposizione all’amianto. Infine è il padre in persona a visitare il fi-glio in sogno, raccomandandogli la manutenzione dell’Audi 80 che gli ha lascia-to in eredità. Il fulmineo montaggio metaforico di questi eventi si impone conforza, e indica a Alberto la strada obbligata del racconto: probabilmente l’unicomodo di ereditare davvero le verità del padre. Amianto non si limita a ricostruirela storia di un omicidio bianco, ma ha il pregio di far riassaporare la centralitàdel mondo operaio nella storia italiana del secondo Novecento. Insieme al per-sonaggio di Renato si disegna uno spaccato sociale molto ampio, in cui domina-no i tratti di una cultura popolare ancora genuina, colta un attimo prima che ilpasoliniano genocidio venisse consumato. Sulla pagina di Prunetti si affaccianoi più disparati personaggi, ricchi di un’umanità commovente e stramba. E inquesta rutilante Macondo, tirrenica e proletaria, trovano posto le storie di unmondo ancora rurale, benché già alle prese con i primi assaggi di modernizza-zione. Ne scaturisce un andamento narrativo rigorosamente divagante e sternia-no, con movenze da racconto orale, che vive nell’interruzione continua e gioio-sa della trama principale. Questo tena-ce ghirigoro di ricordi, racconti e pro-verbi si arresta dinanzi alla terribilemorte di Renato. E a una agnizione im-provvisa e spaventosa. Al lutto per lascomparsa del padre si aggiunge infat-ti un inquietante coup de théâtre, chespingerà il narratore a riconoscersi co-me figlio dell’amianto. È questo forseil momento in cui il concetto di «eredi-tà», centrale nel libro, accede a una zo-na di significati più profonda, e piùscabrosa. I confini che passano fra bio-grafia e autobiografia si sfaldano. Il gio-vane Alberto, asservito ai moderni rap-porti di forza della società post-fordi-sta, non conduce affatto una vita mi-gliore di quella, seppur faticosa e diffi-cile, del padre. Ma il suo racconto è unprezioso guadagno di coscienza collet-tiva. Si può «vivere in terza persona»?Si può traguardare la propria esisten-za da un punto di vista «oggettivo» edunque «comportarsi storicamente»?Per Brecht si trattava di imprescindibi-li doveri morali.

Amianto, nel fare agire la delicatadialettica dei rapporti tra padre e figlioin un tracciato storico esattamente de-lineato, ci dimostra che sì, è ancorapossibile. Ma ugualmente ci ricordache ricevere in eredità dal padre, co-me accade all’autore, i tre volumi del-la Storia del Partito Comunista diSpriano, insieme a due pipe magrittia-namente simili e diverse – e due pipe,è il caso di ribadirlo, non sono in al-cun modo una pipa – non è davverofacile per nessuno.

di CLOTILDE BERTONI

●●●Il precariato – lo ha notato ultimamenteWalter Siti nel Realismo è l’impossibile – è fra idrammi che più alimentano la narrativa con-temporanea. E si potrebbe aggiungere che ispi-ra riprese di un filone di lungo corso, il roman-zo d’apprendistato; beninteso aggiornate aitempi: vicende non più di giovinezze dramma-tiche e confronti con il mondo decisivi, ma digiovinezze troppo protratte, di confronti tardi-vi o titubanti.

Ne offre un interessante esempio Pronti atutte le partenze di Marco Balzano (Sellerio,pp. 216, € 15,00), storia del trentaduenne Giu-seppe (l’io narrante), che, dottorando in lette-ratura italiana e supplente in un liceo di Saler-no, vive ancora con i genitori in un paesettodella zona. E proprio mentre inizia a consolida-

re la sua vita, se la ritrova di colpo sconvolta: lafidanzata lo lascia mentre stanno mettendo sucasa, i tagli ministeriali gli sottraggono l’incari-co annuale. Colpi che lo spingono a un’impre-vista serie di esperienze: prima un trasferi-mento a Milano, dove passa da una supplenzain un istituto tecnico a una nel carcere di Ope-ra, dalla coabitazione con una zia ottuagena-ria a quella con alcuni coetanei, da una rela-zione effimera a un altrettanto effimero riav-vio di quella precedente; poi, grazie a un asse-gno di ricerca, si avvia a un soggiorno a Lisbo-na, che si rivelerà deludente, ma che, in virtùdi un altro incontro sentimentale, segna ilprincipio di una ripartenza; infine, il ritorno aMilano, tra nuove certezze affettive e incertez-ze pratiche costanti.

Il romanzo ha il pregio di non enfatizzareuna sola dimensione (geografica o generazio-nale) della crisi ma di inseguirne differenti vol-ti: dall’atmosfera asfittica del paesino (in cui ilpadre di Giuseppe per non pagare il pizzo è co-stretto a vendere il suo autolavaggio) a quellamalinconica di una Lisbona attanagliata daiproblemi economici (diversissima dal mitizza-to estero paradiso dei cervelli in fuga), a quellacupa di una Milano gremita di pensionati solicome la zia di Giuseppe, di immigrati vulnera-bili come i suoi coinquilini (un insegnante pro-veniente dall’Aquila terremotata, un maghrebi-no sfruttato in un ristorante, un ingegnere in-formatico cinese trasferito da Londra suo mal-grado), di disoccupati cronici come un suo ma-turo condomino, rassegnato a barcamenarsitra mille lavoretti, ma unico a intraprendereuna sia pur fugace azione di protesta. Il testo

sottolinea che peculiarità dei nostri giorni ènon l’ingiustizia in sé, ma l’incapacità di fron-teggiarla, il diffuso senso di impotenza.

E i giovani messi in scena appaiono privi, ol-tre che di vocazione alla lotta (come si sentonorimproverare dai più anziani), di qualsiasi veroslancio: disponibili sì alle partenze, come an-nunzia il titolo ricavato da Ungaretti, ma solo

Una vicendadi precariatoin epoca di crisi

Nomadismodi un figliodell’acciaio

CINQUE TITOLI ITALIANI SOTTO IL SEGNO DELLA CRISI ECONOMICA E ESISTENZIALE

DALL’ITALIAIn «Amianto» Alberto Prunetti

ha ricostruito un omicidio bianco,proiettandolo sullo sfondo della nostracultura popolare: o di ciò che ne resta

In grande, «Moderni operai», fotografiadi Carmelo Bongiorno tratta da «Bagliori»,Federico Motta Editore, 2001; qui a destra,performance artistica, foto Reuters

(7)ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

di DONATELLA DI CESARE

●●●Muove dalle piazze italiane, attraversatedal movimento 5 Stelle, la riflessione che Rober-ta De Monticelli ha consegnato al suo nuovo li-bro, Sull’idea di rinnovamento (Cortina, pp. 97, €9.00). Non è peraltro il primo contributo, criticoe tuttavia partecipe, all’indagine di quell’esigen-za che, per quanto profondamente italiana, hamire globali: trasformare la democrazia rappre-sentativa in democrazia diretta. Occorre ricorda-re infatti il volume di Roberto Caracci, Il ruggitodel Grillo. Cronaca semiseria del comico tributo,pubblicato di recente da Moretti e Vitali, e quellodi Edoardo Glebro, La filosofia di Beppe Grillo. IlMovimento 5 Stelle, uscito per Mimesis nel 2011.Né antipolitica, né populismo. Né tanto meno ri-schi totalitari. De Monticelli punta il dito controchi ha evocato Hitler e quel suo movimento chevoleva eliminare i partiti. «Non indulgiamo – am-monisce – a infondate analogie fra l’urlo del co-mico e quello dell’imbianchino». L’urlo può esse-re anche l’ultimo mezzo per spezzare l’atrofiadella sensibilità che rende scettici e condanna al-l’indifferenza.

Che poi il bisogno di catarsi sia stato affidato aun comico non deve sorprendere. La comicità faculturalmente parte già della tradizione latina. Eda Guicciardini a Leopardi sono in molti a sottoli-neare come gli italiani ridano della vanità dellavita con quel distacco e quella freddezza rari al-trove. Dunque nulla di male se, nell’ultimo ven-tennio, sono stati i comici a articolare la residuacoscienza morale del paese. Purché si ricordi, pe-rò, che la speranza comica è il risvolto del para-dosso tragico. Il crinale è sottile e dietro l’attesadel nuovo si nasconde, in agguato, quel disincan-to in cui De Monticelli vede il vero male che acco-muna gli estremi dell’italianità, anzi «la malattiacresciuta in luogo della maturità morale». Comepensare allora il rinnovamento? Che valore puòavere oggi una parola così abusata e così indefini-ta? «L’individuo non può essere giusto in una so-cietà ingiusta, la società non può essere giusta segli individui non sono giusti». Da questo giudiziodi Nicola Chiaromonte – tratto da una recenteriedizione degli scritti filosofici e politici – DeMonticelli muove per avvertire che occorre asse-condare virtuosamente il circolo do-ve un segmento non può essere da-to senza l’altro: non ci può essererinnovamento civile di una societàsenza il rinnovamento morale diciascuno. In questo senso il suo ulti-mo saggio vuole essere insieme unpunto di raccordo dei due testi sul-la questione morale e sulla questio-ne civile pubblicati da Cortina nel2010 e nel 2011.

In una prospettiva liberale, legataalla stagione illuministica e alla fidu-cia rinnovata nella ragione, DeMonticelli sviluppa una fenomeno-logia della banalità, una analisi diquella dispersione, incoerenza, di-scontinuità, a cui sembra condan-nata la vita di ciascuno che «noncresce in consapevolezza» e non tro-va perciò la via e la legge della pro-pria libertà. Il «noi» collettivo, su cuisi basa il consenso, appare minatodallo spazio asfittico concesso agli«io». E la scomparsa dei volti, nelcollettivo, porta con sé la scompar-sa dei fatti e della ricerca della veri-tà. Il rapporto che dovrebbe legareogni singolo individuo alla comuni-tà non è quello dell’appartenenza,bensì quello umano del faccia a fac-cia. Che si delinei nelle piazze o nel-la rete, è in questo rapporto che DeMonticelli scorge il rinnovamentodella democrazia che dovrebbe sca-turire dalla reciprocità dei rapportipersonali. Solo a partire dal vincolodella reciprocità può darsi un con-senso politico saldo e consapevole.Non si può però fare a meno di os-servare che, se il rinnovamento de-ve essere personale, prima ancorache politico, a meno di non caderein un volontarismo interiore, si po-ne la questione del margine effetti-vo di cui ciascuno dispone in unaforma di vita frammentata e in untessuto sociale sconnesso.

per necessità, e in realtà desiderosi di nonmuoversi, di assicurarsi una durevole stabilitàlavorativa e familiare. Un effetto forse non deltutto voluto, legato anche all’orchestrazionedella trama, che chiama in causa passioni eideali più elevati ma senza dare loro gran rilie-vo: il trasporto per l’insegnamento dichiaratodal narratore anima solo qualche scena circo-scritta, e il suo investimento nella ricerca, ben-ché indirizzato a traguardi ambiziosissimi (latesi di dottorato sul Paradiso dantesco), restaancora più in ombra.

Inoltre, la narrazione si impiglia ogni tantonei cliché spesso in agguato negli attuali ritor-ni al realismo: a volte figure e casi stereotipaticome il docente universitario, barone ma nontroppo, che rimpiange l’amore mai vissuto, ol’umiliazione riservata alla fidanzata fedifraga;a volte espressioni da feuilleton a forti tinte(«sentii il sangue ghiacciarsi») o dialoghi pocoverosimili (che due ragazzi parlino di donne inmodo allegramente sessista è plausibilissimo,che usino termini come «viso d’angelo e curvespericolate» lo è molto meno).

Debolezze che però non spengono la vervedel libro, la sua capacità tanto di restituire ladrammaticità dell’emergenza in corso quan-to di sdrammatizzarla con l’umorismo e la va-rietà delle trovate. Secondo romanzo di Balza-no, questa vicenda di apprendistato reca letracce di un apprendistato letterario ancorain fieri: ma di quelli decisamente benvenutiin un panorama di debutti gonfiati e pseudo-capolavori fabbricati a tavolino, di quelli chefanno venir voglia di scoprire cosa l’autore ciriserverà in futuro.

di GRAZIELLA PULCE

●●●Con Quello che ti dice il fuoco (Mondadori «Li-bellule», pp. 171, € 10,00), Luigi Trucillo raccontauna storia ambientata ai giorni nostri tra l’Italia e laGrecia, ovvero tra Napoli e l’isola di Samos. Il libroè costruito secondo un progetto messo a punto conpazienza e accortezza, che centra una serie di bersa-gli racchiusi uno nell’altro. Raccontare una storiad’amore e esplorare lo spazio della gelosia: lo scopoultimo è quello di ricostruire la topografia di un’os-sessione, che come il fuoco trova modo di alimen-tarsi e impadronirsi di ogni sorta di materiale per ri-durlo alla forma desiderata, quella del vuoto nulla.

La trama presenta un protagonista senza nomealle prese con un amore molto coinvolgente peruna giovane sinologa e con i turbamenti che vengo-no a originarsi a causa di questo amore. La tramafunziona da schermo per un’avventura vissuta al-l’interno del sé, in una prova della passione amoro-sa che Trucillo con ogni evidenza intende perlustra-re e circoscrivere. Quello che ti dice il fuoco dà voceallo sciame dei pensieri di un uomo colto e beneeducato, separato e padre di una bambina tenera-mente amata; quest’uomo precipita da un momen-to all’altro in uno stato di cupa volontà distruttiva.Del personaggio il lettore non viene a conoscere tut-to ma certamente conosce tutto l’essenziale, cioè ildiagramma tracciato nella metamorfosi che portaun individuo a percorrere rispettivamente la stradadella lucidità, quella dell’allucinazione, per appro-dare infine a uno stato di equilibrio più consapevo-

le e maturo. In altre parole dalla passione più incon-trollata alla relazione responsabile. Le fasi di talemetamorfosi sono rappresentate con un linguaggiodenso e altamente simbolico, che costeggia il senti-mento d’amore fino ai suoi recessi più devastanti.

Il protagonista scruta attentamente la donnaamata, ne studia i gesti, le prime rughe, i trasalimen-ti; ne aspira i profumi, sempre ricondotti a elementinaturali. Lei sa di salvia, di bacche, di caprifoglio.Tutto quello che è l’incanto amoroso nel suo statoiniziale si infrange istantaneamente di fronte a unsospetto, il sospetto che la donna possa avergli rego-larmente mentito, che lo tradisca, che abbia una vi-ta segreta di fatto inattingibile al protagonista. Tut-to questo scaturisce da una foto che qualcuno mo-stra all’uomo. A partire da quel momento l’amantecede il posto all’investigante. E quando l’amante la-scia cadere l’energia dinamica della passione e delsentimento e si ferma nella contemplazione di unoscatto fotografico, allora la storia di un amore diven-ta la storia di un’ossessione. Nella figura dell’osses-sione è contenuta la figura dell’assedio, del nemicoasserragliato in un luogo progettato per resistere inarmi a un’offensiva. Anche se non più che per cen-ni, il narratore lascia intravedere quali potrebberoesserne gli esiti estremi: la prigione doppia nellaquale vengono a trovarsi tanto il geloso quanto l’og-getto di forme d’amore così distorto può diventarel’antro di un assassinio.

Trucillo è poeta e ha una consolidata confidenzacon le parole. Il suo linguaggio conosce la potenzadell’aforisma, stringa verbale in cui l’azione narrati-

va sosta nell’intensità della rivelazio-ne: «scopri a tue spese che anche unarottura può essere un legame». Trucil-lo sa che sono le parole a dare consi-stenza alle cose, illuminandole, cioètraendole fuori dal buio, ma sa altret-tanto bene che ogni fascio di luce get-tato dal linguaggio sull’indistinto chesi offre allo sguardo, genera una zonad’ombra tanto più consistente quan-to più potente è l’energia luminosamessa in campo. Le cose si portanodietro uno strascico di buio potenzial-mente infinito e quella stessa luceche rende percepibile e dunque cono-scibile la passione, ritaglia all’internodell’indistinto una corposa porzionedi ignoto.

Il motivo saffico del fuoco viene quipiegato a rappresentare la fenomeno-logia della devastazione dell’amorequando, voltate le spalle all’amore, cisi arrende alla pulsione incontrollata.Il divampare del fuoco allegorizza co-sì l’azione zelante, risolutiva e distrut-trice della ragione. Gli incendi scop-piano prima a Samos, alimentati dal-l’arsura della terra, poi a Napoli tra icumuli d’immondizia che assedianola città, e il romanzo è disseminato ditracce di fuoco covante. Il fuoco diven-ta pertanto l’elemento rivelatore, desi-gnato a dare corpo all’abbandono aun impeto, l’egoismo, che si fa scudodella sincerità e riduce in cenere ciòsu cui si posa.

Se il geloso è colui che vuole unasola cosa, capire chi è veramente l’al-tro, questo romanzo traccia il percor-so paradigmatico di un individuoche ha il coraggio di rinunciare allapretesa di dominare e controllare l’es-sere amato e di accettare una nuovacondizione, quella di chi si ferma sul-la soglia e si pone in ascolto. Due vo-ci femminili, una adulta e una bambi-na, gli raccontano storie dalle quali silascia incantare.

I confini della gelosianell’incendiodi Luigi Trucillo

di SONIA GENTILI

●●●In Olimpia, ultimo lavoro diLuigia Sorrentino (Intelinea edizio-ni, pp. 105, € 14), la voce poetica sisottrae alla contingenza per risuo-nare con la forza testamentaria del-l’oracolo classico. Ma non c’è inquesta voce nessun invasamento,nessun eccesso visionario; al con-trario, la lingua è asciugata, quasipurificata in una direzione di sem-plicità e misura. La lingua serve in-fatti, in questo libro, a esprimere ilsegno misteriosamente doppio sot-to cui si snoda la vita umana: la per-dita di quanto è trascorso e il persi-stere, pur in assenza, di ciò che èstato nella fibra dell’Io. Questa per-dita si dispiega nel tempo prima co-me assenza e poi come ritorno diforma: si struttura così il libro, dal-la prima sezione, quella della nasci-ta dell’Io e della dispersione, signifi-cativamente intitolata L’antro, finoa quelle successive della grande ri-velazione del sé come radicato invite genitoriali e esistenze prece-

denti. Nel ricongiungersi al vissuto,l’Io scopre la labilità dei suoi confi-ni individuali e ridisegna la propriafisionomia: nelle sezioni successi-ve spiccano titoli iniziatici e pitago-rici (L’atrio, L’ingresso alla monta-gna, La città nuova), immagini dinuovi ingressi, porte e elevazioni.L’agnizione della morte e il cammi-no di definizione e coscienza che aessa conduce è acquisizione di pie-nezza, ridisegnarsi dei confini indi-viduali nell’acquisizione di un nuo-vo volto: «il volto si profila?/ il voltoche siamo stati è istintivo / incarna-to nel rito che si consuma qui / nel-la consolazione siamo venuti».Una intuizione già annunciata nel-la prima sezione, dove il disegnarsiprogressivo del nostro volto comericongiungimento e ritorno dopola perdita è anche funzione vocalee poetica: «ora come un tronco lavoce? infilza i nostri cuori?e li accre-sce, in tutto ciò che siamo / in mez-zo alle querce e agli ulivi / in tuttociò che siamo stati / nel vento, datralci di rose incarnate / chiama asé i suoi figli / si posa sulle foglied’acanto / venendo a noi nel suo ri-torno».

La voce poetica è misura e equili-brio, è tono piano e come liberatodalla tempesta delle passioni pro-prio perché il percorso verso lamorte e il ricongiungimento all’al-tro – all’altro che eravamo e agli al-tri che ci hanno generato – è il dise-gnarsi via via più esatto di una for-ma. Il volto della pienezza e dellamorte è anche forma finalmente li-berata dalla lotta con la materiache la imprigionava; è, pur nel mi-stero iniziatico dell’Atrio, un dise-gno. Per la sua fiducia nella formaesatta che alla fine di noi ci atten-de, e che la poesia ci restituisce co-me voce, questo è anche un libroradicalmente ottimista: la radicali-tà salvifica del nostro ricomporci informa e voce conoscibile e perfettaè l’unico tratto smisurato, forse ec-cessivamente pacificato e rassicu-rante, di questo inno all’equilibrioformale che è la Olimpia di LuigiaSorrentino.

DE MONTICELLI SU GRILLO

Speranze comicheche agisconocome risvoltodi paradossi tragici

LUIGIA SORRENTINO

Nel nomedi «Olimpia»un innoall’equilibrio

L’ultimo pamphlet di Roberta De Monticelli,una fenomenologia della banalità in chiavepolitica. Sul versante narrativo, la topografiadi una ossessione in «Quello che ti dice il fuoco»

INTERNI GADDIANI, FINO ALL’ULTIMO GIORNO●●● Nato dalla frequentazione con l’autore della Cognizione, cui avrebbe dedicato unatrasmissione televisva, il librino di Ludovica Ripa di Meana, La morte di Gadda penetra neicelebri interni di via Blumensthil, la casa di Monte Mario a Roma dove Gadda stava perlopiùrintanato e coglie lo scrittore, ormai stanco della vita, al limite estremo delle forze, poifinalmente nel giorno della morte. La prima visita documentata è in data 5 febbraio 1973,ma era stata preceduta da altri incontri, l’ultima è del gennaio del ’74; in mezzo osservazionicommosse e mano felice nelle descrizioni, che portano il segno della scrittrice: nelconcentrarsi sugli occhi di Gadda li definisce, per esempio, «annacquati da lacrime noncadute», e descrive la «nobile fronte» come «non coinvolta nel processo di mortificazione».

(8) ALIAS DOMENICA26 MAGGIO 2013

di CLAUDIO GULLIFIRENZE

●●● Fino a poco tempo fa, a Firenze po-tevi formarti un gusto cinematografico: an-davi alle retrospettive integrali del Gambri-nus, su Malle o su Noiret, o all’Alfieri Ate-lier, coi suoi prezzi popolari pomeridiani.Al posto del primo ora c’è un Hard RockCafé, il secondo attende da anni la riaper-tura. Il disfacimento del Maggio, da febbra-io commissariato per gli sperperi, rappre-senta una sconfitta di portata nazionaleed epocale. Abbiamo seguito saltuaria-mente Fabbrica Europa, il festival di teatrointernazionale che un tempo sprovincializ-zava la scena, portando compagnie dallaSocietas Raffaello Sanzio in giù. Ora cisembra che al di là di maestri di generazio-ni passate, come Ronconi o Brooks, non sisia andati. Certo, vessilli a cui aggrapparsi,in giro ancora se ne vedono: rispondonoai nomi di Sandro Lombardi, di VirgilioSieni o di Elisa Biagini. Ma questa città è diun altro avviso, ha l’aria di giocare a di-menticarsi di sé. Palazzo Strozzi è unbuon esempio di quanto andiamo dicen-do. Un luogo che ha tutti i numeri per esse-re un Pompidou italiano patisce invece ilsovraffollamento di istituzioni tutte di ca-ratura, se prese singolarmente. Nel cortile,il Gabinetto Vieusseux, con la sua bibliote-ca ricchissima penalizzata da orari d’aper-tura improponibili – e un’altra biblioteca,quella dell’Istituto Nazionale di Studi sulRinascimento, con altri orari, ha sede nelpalazzo… Alla Strozzina, aperta nel 2007 eparte della Fondazione, non è mai appro-data una mostra in grado di imporsi allanostra distratta attenzione – non è un’al-tra scommessa perduta, quella di Firenzecon l’arte contemporanea? Basterebbe co-ordinare sotto un’unica egida tutto quelche vive nel palazzo per ottenere qualcosadi culturalmente più vitale.

Almeno l’Odeon, l’unico barlume di ci-nema d’essai rimasto in città, programmaun ciclo di proiezioni in relazione alle mo-stre del secondo piano del palazzo miche-lozziano, e qui troviamo La primavera delRinascimento La scultura e le arti a Firenze1400-1460 (fino al 18 agosto, a cura di Bea-trice Paolozzi Strozzi e Marc Bormand, ca-talogo Mandragora, pp. 347, € 39,00). Mo-stra che andrà al Louvre dal 26 settembre,

e forse per i parigini avrà un senso vedereopere normalmente lontane, nonostantela taglia monumentale sconsiglierebbe iltrasporto di molti pezzi. A un fiorentinoche volesse vedere un po’ di Quattrocen-to, consiglieremmo invece di tornare alCarmine, o all’Opera del Duomo per laPorta del Paradiso restaurata.

La prima sala ha una struttura tropposchematica: due pareti dovrebbero spiega-re lo svolgimento del gotico e del classici-smo trecentesco, e il culmine visivo sonole formelle del concorso del 1401. Cosìsembra che il nuovo si produca con lasommatoria dei fatti stilistici del passato.L’effetto spettacolare della seconda sala èinvece garantito dalle opere esposte: sullaparete di fondo spiccano, coi loro quasitre metri di altezza, il San Matteo del Ghi-berti (1419-’22), da Orsanmichele, e il SanLudovico di Tolosa di Donatello

(1422-’25), da Santa Croce. Que-st’impassibile scultura si giova oradi un restauro accurato e leggero,ed è l’epicentro di una mostra chedopotutto presenta ben diciasset-te interventi conservativi – si ac-cennerà solo di un altro. Funzio-na in sala il contrasto materico trail bronzo nudo (ma ci sono traccedi doratura e ageminatura) del-l’evangelista e il luccicare spentodel bestione francescano. Di fron-te a lui troviamo il pisano Busto diSan Rossore (1424-’27), e il con-fronto, qui fra due bronzi dorati,riesce a mostrare bene quanto ner-vosamente naturalista sia stato dagiovane Donatello.

Ma i nostri sono anni in cui èpiù lecito innamorarsi di persona-lità di transizione, come il Ghiber-ti. Quell’interpretazione del classi-co tra il filologico e il favolisticoche propone lui nell’Arca dei San-ti Proto, Giacinto e Nemesio(1425-’28), ben disposta accanto aun sarcofago romano, ci attrae dipiù della vicinanza fra la donatel-liana Testa di profeta e uno Pseu-do-Seneca (da Napoli, del I secoloa. C.). Lungo tutta la mostra si vor-rebbe raccontare il rapporto della

scultura del Rinascimento fiorentino conle antichità classiche. Un tema tanto infla-zionato quanto difficile da trattare, se nonsi verifica puntualmente chi conosceva co-sa. Il discorso ha un senso, per esempio,quando si parla di monumenti equestri,genere impensabile senza l’eccitazioneche tanti provavano davanti al Marco Aure-lio o leggendo le fonti. La Protome Carafa,unico resto di un monumento funebre perAlfonso d’Aragona, è forse la sorpresa piùgradita della mostra: in libera uscita dalMuseo Archeologico di Napoli, questo bo-lide donatelliano a forma di testa di caval-lo nitrisce gonfiando ogni sua vena. A farlecompagnia è venuto (dal museo dell’uni-versità di Padova) il Modello in gesso dellatesta del Gattamelata.

Nelle sale a seguire si fatica molto a tro-vare una coerenza, titoli generici – Pitturascolpita, La storia in prospettiva, La diffu-sione della bellezza… – sembrano suggeri-re che si è accorpato il materiale senza vo-ler riflettere sui nodi critici che pongono leopere e anche l’appeal didattico sfuma.Nella Madonna Trivulzio di Filippo Lippi(1430-’32), dallo Sforzesco, le integrazionidel nuovo restauro non si distinguono piùdalla superficie pittorica. L’opera è di im-portanza capitale, il suo stato di conserva-zione è davvero critico, e un intervento delgenere, troppo svelto e insistito, non ci vo-leva. Del tutto superfluo è ammucchiareun Paolo Uccello, un Masaccio e gli affre-schi di Andrea del Castagno con le Madon-ne di Nanni di Bartolo e Donatello sempli-cemente per asserire che la scultura haprecorso la pittura nell’impostazione pla-stica della figura umana. Altrettanto dicasidella predella di Orsanmichele con SanGiorgio e il drago che dovrebbe accendereuna sala che non fa altro che accogliereopere dove la trattazione prospettica è par-ticolarmente curata. Siamo contenti di ve-dere il Banchetto di Erode di Donatello(1435) o il San Girolamo nel deserto di De-siderio da Settignano (1461), ma solo per-ché saremmo dovuti andare a Lille o aWashington per vederli, giacché la loropresenza non basta a far quadrare il cer-chio. Sono opere in cui il marmo si incre-spa a dare sensazioni acquatiche, e tuttala chiarezza del geometra sembra dichia-

rarsi sommersa. Altre imprese donatellia-ne valgono da sole il prezzo del biglietto:la Madonna Pazzi (1420-’25, da Berlino),con la sua delicatezza orientale, il TondoChellini (dal Victoria and Albert, 1450 cir-ca) – che esporre e illuminare peggio non

si poteva – nonché la robotica Madonnadel Louvre (1445). Sono salti nella cronolo-gia di un artista che ha parlato prima il lin-guaggio degli affetti e poi quello del tor-mento. Una costola di Rinascimento potéanche dargli credito, ma edulcorando chipiù chi meno una poetica che praticava ladisgregazione come unica fine possibile. Ildialogo fra lui, Nanni di Bartolo, Luca del-la Robbia e Filippo Lippi, in scena nel salo-ne che avvia la mostra al suo epilogo, è de-clinato secondo le dinamiche industriali,che spingevano i popolani a addobbare dimadonne ogni cantone di strada o taber-nacolo di casa.

Di un’aura tutta marmorea è l’ultima sa-la, devoluta alla ritrattistica. Vedere Mariet-ta Strozzi (Desiderio da Settignano, 1464,da Berlino) accanto a Giovanni di Cosimo(Mino da Fiesole, 1454 circa, dal Bargello)o a Giovanni Chellini (Antonio Rossellino,1456, dal V&A) è un’esperienza irripetibi-le. Ma basta recarsi ogni giorno al secon-do piano del Bargello, se lo si trova aperto,per avere emozioni comparabili.

«LA SCULTURA E LE ARTI» ■ FINO AL 18 AGOSTO, POI DA SETTEMBRE AL LOUVRE

Donatello e il Quattrocento:restauri e dialoghi,non sempre convincenti

«LA PRIMAVERA DEL RINASCIMENTO» A PALAZZO STROZZI

di ALESSANDRA SARCHI

●●● La storiografia artistica da Vasari inpoi e la letteratura di viaggio, specie quelladel Grand Tour, hanno abituato nei secoli ilettori a una prosa ricca di dettagli che vannomolto oltre la descrizione scientifica delleopere o le informazioni sui loro autori. Aaneddoti, riflessioni di carattere estetico efilosofico, storie che riguardano il modo incui chi narra ha avuto modo di conoscere itesori d’arte custoditi in collezioni private emusei costituiscono, da sempre, il sale ditesti che altrimenti rischierebbero di esseremeri elenchi, dove ci si perderebbe o sifinirebbe a sbadigliare anche davanti al piùpirotecnico sforzo verbale di restituire uncapolavoro. D’altra parte, i modernicataloghi dei musei quando disponibili eattendibili sotto il profilo filologico – e dimolti musei italiani si lamenta l’assenza dicataloghi aggiornati o l’assenza tout-court –sono strumenti preziosi di conoscenza insenso positivista, ma difficilmentecontengono il tipo di narrazione che legamemoria personale e memoria storica nellosforzo di presentarsi davanti alle opere condelle domande, più che con delleinformazioni. In questo senso è, invece,molto riuscito l’agile libro che FrancescoCataluccio dedica a uno dei musei piùvisitati al mondo, nonché principale museodi Firenze, dove l’autore è nato e cresciuto.Non una guida, non un memoriale, ma l’unoe l’altro insieme. Memoria degli Uffizi,(Sellerio, pp. 192, € 14, 00), pur attenendosicon cura storica e ricchezza di riferimentibibliografici alla progressione delle sale delmuseo, è un intreccio di percorsi conoscitiviscalati nel tempo della vita dell’autore eattraverso le intersezioni che la Storia haavuto con la celebre raccolta. La primapagina del libro si apre con la rievocazionedella visita in età infantile al museo, insiemeai genitori. Era il rito laico della domenica alquale l’autore si sottometteva volentieriinsieme al fratello; il prolungamento di quellessico famigliare fatto di giochi, indovinelli,osservazioni e ragionamenti verso i quali

erano stimolati in una forma di educazionepermanente, solo che a fornirne la materiaqui erano opere sontuose nei colori e nelledimensioni, misteriose per il tipo di figure,capaci di sollecitare l’immaginazione benoltre il tempo della visita. L’inquietudine perla mancanza di ombre nelle figure delletavole del Duecento e del Trecento – chi nonha ombra non ha materia, non esiste – siprolungava nella testa dell’autore bambinofino allo stadio dove andava per le partitenotturne: anche i calciatori sotto le luciincrociate dei riflettori non proiettavanoombre, ma svolazzavano immateriali sulcampo, come gli angeli e i santi dei dipintimedievali. E da adulto questa fantasia sulleombre avrebbe incontrato il celebre libro diGombrich dedicato al tema. Nelle sale delTre e Quattrocento l’autore,accompagnando il regista Andrej Tarkovskij,avrebbe voluto fargli osservare come laraffigurazione, sullo stesso dipinto, diepisodi avvenuti in tempi diversi li rendevastraordinariamente simultanei allospettatore, mentre il regista russo notavapiuttosto l’affievolirsi dello splendore delleaureole, prodromo di decadenza della fede.La perplessità di giudizio del padre sulTondo Doni di Michelangelo – «movimentiinnaturali, figure ambigue» – diventa perl’autore adulto campo di prova per unapossibile lettura psicoanalitica dell’arte, maanche la variante di una iconografia cherisale a Luca Signorelli e alla sua Madonnacon bambino tra gli Ignudi, pure agli Uffizi. Illibro è anche ricco di notazioni sulle vicendemateriali dell’edificio, sul valore simbolico esu quel valore di costume di cui oggi si parlacosì poco, proprio perché numerosi luoghiurbani hanno perso la capacità di produrrerituali aggreganti. Dell’ingresso da dietro, daPiazza del Grano, apprendiamo ad esempioche ospitava, un tempo, un chiosco dove sivendevano panini al lampredotto caldo, eche lì dovrebbe sorgere la nuova entrata,progettata fin dal 1998 dall’architettogiapponese Arata Isozaki, e mai costruita framille polemiche. Del corridoio vasarianodefinito dal padre dell’autore «il cordoneombelicale che ci ha aiutato a liberare lacittà», essendo l’unico collegamentorimasto fra nord e sud, dopo ilbombardamento dei ponti nella secondaguerra mondiale, ritroviamo un’efficacequanto spaesante descrizione, nelle paroledi un membro della delegazione giovaniledel partito comunista di Leningrado allaquale Cataluccio, slavista, fece da interpretee da guida: «sembra di stare dentro lacarlinga di un aereo». Agli Uffizi, come intutti i musei, il visitatore deve fare la fatica,ma anche gustare la ricchezza, di costruireun proprio percorso: Francesco Cataluccioci ha proposto, esemplarmente, il suo.

Nella sala più spettacolareil «San Ludovico di Tolosa»contrasta il «San Matteo»del Ghiberti; la sorpresaè la «Protome Carafa»: bolidea forma di testa di cavallo

MUSEI INTERIORI

Il lessico famigliaredi Catalucciotrasferito agli Uffizi

Sotto, Lorenzo Ghiberti, «San Matteo», 1419-1422, Firenze,Orsanmichele, foto Lorenzo Mennonna

FIRENZE

Donatello , «Protome Carafa», 1455 ca., Napoli, Museo Archeologico Nazionale, foto Luciano Pedicini