Alias domenica de Il Manifesto N. 1 / 8 gennaio 2012

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di GRAZIELLA PULCE ●●●Dopo un passato di aspirante pittrice e scultrice, da cui si è ritratta nel segno del falli- mento, Julie Otsuka, stregata da Henry James, si è dedicata alla scrittura, facendosi conosce- re nel 2002 con When the Emperor Was Divi- ne, centrato su un particolare momento della storia statunitense, quando dopo l’attacco di Pearl Harbor gli americani di origine giappone- se residenti sulla costa atlantica furono inter- nati nei campi di prigionia di Utah, Arkansas, Arizona, Colorado. Anche se erano i loro fiori- sti, i loro fruttivendoli, i loro barbieri di fidu- cia, per gli americani quegli uomini divennero presenze sgradite o inquietanti, da cui era be- ne tenersi a distanza. Qualche mese fa Julie Ot- suka ha pubblicato, con il medesimo editore newyorkese Knopf, The Buddha in the Attic, tradotto con il titolo più esplicito di Venivamo tutte per mare (in uscita il 12 gennaio per Bolla- ti Boringhieri, trad. di Silvia Pareschi, pp. 132, 13,00), affidando a queste pagine il compito di tracciare le storie delle promesse spose, gio- vani o addirittura bambine, che lasciarono i lo- ro villaggi nel cuore del Giappone e si imbarca- rono per l’America in cerca di una nuova vita. Erano gli anni del primo dopoguerra e i giap- ponesi guardavano oltreoceano come a un mon- do ricco di opportunità. Nell’America delle Ford T, dei supermercati, delle fabbriche che lavorava- no senza sosta, c’era bisogno di contadini, came- riere, bambinaie, stiratrici. Durante la traversata, le ragazze stipate in cuccette maleodoranti e in preda al mal di mare immaginavano un futuro da favola al fianco dei connazionali cui erano sta- te promesse e dei quali ammiravano giorno e notte le fotografie. Quelle fotografie – credevano – sarebbero state il passaporto per la felicità. Come in ogni storia di emigrati, anche tra le pagine di Venivamo tutte per mare disperazio- ne e speranza hanno pesi equivalenti sulla stra- da della vita. Qui le aspettative si tingono di ro- sa e quei mariti belli e ricchi ritratti nelle foto rappresentano un compenso adeguato rispet- to alla perdita di madri, sorelle e sicurezza del luogo natio. Come in ogni storia di emigrati, la disillusione è brutale. Nulla di quanto era stato promesso viene mantenuto. I mariti sono più vecchi, più brutti e più poveri e le donne sono destinate a fornire manodopera gratuita nei campi, nei negozi e negli opifici. L’orgoglio nip- ponico e la severa etichetta familiare precludo- no, naturalmente, l’ipotesi del ritorno. Il testo diluisce i dati storici del fenomeno e i dati psicologici delle testimonianze (in appen- dice una nutrita bibliografia) in una scrittura impersonale e priva di qualsiasi istanza sogget- tiva o sentimentale. Il «noi» che ricorre dalla pri- ma all’ultima pagina di questo memoriale col- lettivo è un agglomerato che coagula verbaliz- zazioni multiple, anche contrastanti l’una con l’altra. «Quella notte i nostri nuovi mariti ci pre- sero in fretta. Ci presero con calma. Ci presero dolcemente ma con decisione, e senza dire una parola … Ci presero con bramosia... Ci pre- sero con violenza, usando i pugni quando cer- cavamo di resistere». La forza del «noi» sostiene la cadenza della narrazione e guida i destini diversi, eppure co- muni, delle protagoniste. Com’è noto, la cultu- ra giapponese privilegia il punto di vista colletti- vo, quello del dover essere in riferimento a una prospettiva sociale che rende inammissibili le istanze della pura individualità. A maggior ra- gione, in un contesto così estremizzato, le ra- gazze, lontane dalle famiglie d’origine e dalle compagne di viaggio, affidate a degli estranei con cui devono condividere dall’oggi al doma- ni l’intimità, totalmente inesperte del mondo, possono fare affidamento soltanto su ciò che hanno portato con loro: una cultura, una digni- tà e un kimono. Spalle diritte e mento alto, fan- no ciò che ci si aspetta da loro e non c’è tempo per recriminare o lamentarsi, meno ancora per prendere riposo, c’è solo da lavorare: cavare ca- rote, raccogliere fragole, lavare abiti altrui, servi- re nelle case dei ricchi americani, cristiani che mangiano carne, dove le signore dormono fino a tardi e si fanno portare la colazione a letto. C’è anche chi, compiuto il primo salto, ne az- zarda un altro e si ribella sperimentandosi su strade di malsicura novità. La lista delle storie comprende anche adulteri, vendette, prostitu- zione, suicidi. Il «noi» governa con ferma mano monarchica il ritmo sincopato di tutte le vicen- de attraversate da queste donne cedevoli e resi- stenti, sempre esauste e senza mai un filo di rossetto sulle labbra, donne che non parlano in- glese, madri di figli che invece si sentono total- mente americani. Il libro è costruito per sottrazione e allinea so- lo i fatti registrati e legittimati dalla memoria collettiva. La sua struttura tematica è circolare: si apre con il viaggio per mare e si chiude con l’abbandono delle case, dei negozi e dei campi, una deportazione inaspettata che strappa le ra- dici fatte crescere da queste famiglie in più di un ventennio. Ma sarebbe un errore limitarsi a leggere il libro come un racconto di emigrazio- ne femminile. Venivamo tutte per mare è un piccolo gioiello in cui si incastonano mille sto- rie miniaturizzate in poche righe, tutte dal pro- filo fiabesco: non ci sono personaggi e ogni in- dividuo rappresenta la declinazione di un ruo- lo. Se leggiamo questo libro come un deposito di storie, un campionario di vicende unificate dal motivo della perdita e dell’abbandono in vi- sta dell’ignoto, le vicende di queste donne assu- mono un valore naturale e paradigmatico: di es- seri umani che condividono il destino delle ca- rote o delle erbacce da estirpare. Non c’è alcun senso unificatore, nessun cie- lo che riscatti le delusioni e le difficoltà degli in- dividui: il senso è leggibile solo traendolo dal- l’insieme, dal pulviscolo costituito da queste storie, puntiformi e minuscole particelle che viaggiano dentro un grande organismo. SEGUE A PAGINA 2

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il "domenicale" del manifesto: novità librarie, recensioni, suggerimenti, percorsi e mostre d'arte...Fate prendere Alias al cervello, ovvero come sopravvivere al consumismo senza perdere senso dell'umorismo.

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di GRAZIELLA PULCE

●●●Dopo un passato di aspirante pittrice escultrice, da cui si è ritratta nel segno del falli-mento, Julie Otsuka, stregata da Henry James,si è dedicata alla scrittura, facendosi conosce-re nel 2002 con When the Emperor Was Divi-ne, centrato su un particolare momento dellastoria statunitense, quando dopo l’attacco diPearl Harbor gli americani di origine giappone-se residenti sulla costa atlantica furono inter-nati nei campi di prigionia di Utah, Arkansas,Arizona, Colorado. Anche se erano i loro fiori-sti, i loro fruttivendoli, i loro barbieri di fidu-cia, per gli americani quegli uomini divenneropresenze sgradite o inquietanti, da cui era be-ne tenersi a distanza. Qualche mese fa Julie Ot-suka ha pubblicato, con il medesimo editorenewyorkese Knopf, The Buddha in the Attic,tradotto con il titolo più esplicito di Venivamotutte per mare (in uscita il 12 gennaio per Bolla-ti Boringhieri, trad. di Silvia Pareschi, pp. 132,€ 13,00), affidando a queste pagine il compitodi tracciare le storie delle promesse spose, gio-vani o addirittura bambine, che lasciarono i lo-ro villaggi nel cuore del Giappone e si imbarca-

rono per l’America in cerca di una nuova vita.Erano gli anni del primo dopoguerra e i giap-

ponesi guardavano oltreoceano come a un mon-do ricco di opportunità. Nell’America delle FordT, dei supermercati, delle fabbriche che lavorava-no senza sosta, c’era bisogno di contadini, came-riere, bambinaie, stiratrici. Durante la traversata,le ragazze stipate in cuccette maleodoranti e inpreda al mal di mare immaginavano un futuroda favola al fianco dei connazionali cui erano sta-te promesse e dei quali ammiravano giorno enotte le fotografie. Quelle fotografie – credevano– sarebbero state il passaporto per la felicità.

Come in ogni storia di emigrati, anche tra lepagine di Venivamo tutte per mare disperazio-ne e speranza hanno pesi equivalenti sulla stra-da della vita. Qui le aspettative si tingono di ro-sa e quei mariti belli e ricchi ritratti nelle fotorappresentano un compenso adeguato rispet-to alla perdita di madri, sorelle e sicurezza delluogo natio. Come in ogni storia di emigrati, ladisillusione è brutale. Nulla di quanto era statopromesso viene mantenuto. I mariti sono piùvecchi, più brutti e più poveri e le donne sonodestinate a fornire manodopera gratuita neicampi, nei negozi e negli opifici. L’orgoglio nip-

ponico e la severa etichetta familiare precludo-no, naturalmente, l’ipotesi del ritorno.

Il testo diluisce i dati storici del fenomeno e idati psicologici delle testimonianze (in appen-dice una nutrita bibliografia) in una scritturaimpersonale e priva di qualsiasi istanza sogget-tiva o sentimentale. Il «noi» che ricorre dalla pri-ma all’ultima pagina di questo memoriale col-lettivo è un agglomerato che coagula verbaliz-zazioni multiple, anche contrastanti l’una conl’altra. «Quella notte i nostri nuovi mariti ci pre-sero in fretta. Ci presero con calma. Ci preserodolcemente ma con decisione, e senza direuna parola … Ci presero con bramosia... Ci pre-sero con violenza, usando i pugni quando cer-cavamo di resistere».

La forza del «noi» sostiene la cadenza dellanarrazione e guida i destini diversi, eppure co-muni, delle protagoniste. Com’è noto, la cultu-ra giapponese privilegia il punto di vista colletti-vo, quello del dover essere in riferimento a unaprospettiva sociale che rende inammissibili leistanze della pura individualità. A maggior ra-gione, in un contesto così estremizzato, le ra-gazze, lontane dalle famiglie d’origine e dallecompagne di viaggio, affidate a degli estranei

con cui devono condividere dall’oggi al doma-ni l’intimità, totalmente inesperte del mondo,possono fare affidamento soltanto su ciò chehanno portato con loro: una cultura, una digni-tà e un kimono. Spalle diritte e mento alto, fan-no ciò che ci si aspetta da loro e non c’è tempoper recriminare o lamentarsi, meno ancora perprendere riposo, c’è solo da lavorare: cavare ca-rote, raccogliere fragole, lavare abiti altrui, servi-re nelle case dei ricchi americani, cristiani chemangiano carne, dove le signore dormono finoa tardi e si fanno portare la colazione a letto.

C’è anche chi, compiuto il primo salto, ne az-zarda un altro e si ribella sperimentandosi sustrade di malsicura novità. La lista delle storiecomprende anche adulteri, vendette, prostitu-zione, suicidi. Il «noi» governa con ferma manomonarchica il ritmo sincopato di tutte le vicen-de attraversate da queste donne cedevoli e resi-stenti, sempre esauste e senza mai un filo dirossetto sulle labbra, donne che non parlano in-glese, madri di figli che invece si sentono total-mente americani.

Il libro è costruito per sottrazione e allinea so-lo i fatti registrati e legittimati dalla memoriacollettiva. La sua struttura tematica è circolare:

si apre con il viaggio per mare e si chiude conl’abbandono delle case, dei negozi e dei campi,una deportazione inaspettata che strappa le ra-dici fatte crescere da queste famiglie in più diun ventennio. Ma sarebbe un errore limitarsi aleggere il libro come un racconto di emigrazio-ne femminile. Venivamo tutte per mare è unpiccolo gioiello in cui si incastonano mille sto-rie miniaturizzate in poche righe, tutte dal pro-filo fiabesco: non ci sono personaggi e ogni in-dividuo rappresenta la declinazione di un ruo-lo. Se leggiamo questo libro come un depositodi storie, un campionario di vicende unificatedal motivo della perdita e dell’abbandono in vi-sta dell’ignoto, le vicende di queste donne assu-mono un valore naturale e paradigmatico: di es-seri umani che condividono il destino delle ca-rote o delle erbacce da estirpare.

Non c’è alcun senso unificatore, nessun cie-lo che riscatti le delusioni e le difficoltà degli in-dividui: il senso è leggibile solo traendolo dal-l’insieme, dal pulviscolo costituito da questestorie, puntiformi e minuscole particelle cheviaggiano dentro un grande organismo.

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(2) ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

di EMANUELE TREVI

●●●Franco Cordelli lo sa benissimo, e lodice apertamente al termine di questosuosorprendente e pungente librettointi-tolato L’ombra di Piovene (Le Lettere, pp.90,€ 12,00). Guido Piovene è «uno scritto-re che nessuno più legge – se non qualchemio amico». Ma allora, se le cose stannocosì, perché insistere, con quella che hatutta l’aria di una predilezione che si tra-muta in ossessione ? Tanto per fare unesmpio, Piovene piaceva anche a Goffre-do Parise (che Cordelli detesta), ma nontanto da farne una malattia. La figura del-lo scrittore vicentino, vissuto tra il 1907 eil 1974, autore di libri memorabili comeLettere di una novizia e Le stelle fredde, è ri-evocata anche nell’ultimo romanzo diCordelli, La marea umana. Per Cordelli,Piovene è «uno degli eroi intellettuali delXX secolo».

L’ombra di Piovene è un discorso uni-co, ma scandito nel tempo, da gennaio2007 a giugno 2011. Tra il penultimo el’ultimo capitolo Cordelli ha inserito untesto abbastanza lungo di Piovene, intito-lato Contro Roma. Dal punto di vista for-male, è una bella trovata, il monologo èsospeso, si sente per un po’ un’altra voce,la voce del vecchio Piovene (è pratica-mente un testamento), poi il monologo ri-

comincia e si avvia alla conclusione. Ladifficile e controversa arte del saggio criti-co ha tutto da guadagnare nel contami-narsi col monologo teatrale. È un model-lo molto più utile e sorprendente di quel-lo offerto dal romanzo, dal racconto. Inogni critico c’è una specie di Prospero, ilcritico aspira a chiudere la scena, quandotutte le magie sono finite. Ma questo tipodi argomentazione non è roba da medio-cri, bisogna saperci fare. Mentre ci parla,noi cominciamo a percepire l’interpretecome un personaggio su una scena, contutta la forza di persuasione che questocomporta. I saggi di Giacomo Debenedet-ti sono stati un esempio molto brillanteed efficace di questo ricorso del saggismoa espedienti di tipo teatrale, come fossepossibile recitare di fronte a un pubblicoimmaginario il proprio stesso atto di lettu-ra. Cordelli è degno del paragone, però ilsuo tono teatrale è molto più quello delgran misantropo, che non è più dispostoa tacere i fastidi per pura cortesia. Il cen-tro del discorso tra l’altro è oltremodo gra-ve, tutt’altro che un’ennesima e oziosa ri-costruzione del cànone: riguarda la vitadi Piovene intesa come la vita di un colpe-vole, di qualcuno che ha commesso unacolpa incancellabile.

Questa colpa si rende visibile attraver-so delle coordinate storiche, e si parla inmodo legittimo di adesione al fascismo,di antisemitismo. Il più grave corpo del re-ato è una recensione molto postiva scrittada Piovene su un orrido libello antisemitadi Telesio Interlandi. Se si consulta la vo-ce, molto striminzita, dedicata a Piovenesu wikipedia, vale a dire la più diffusa fon-te enciclopedica contemporanea – la pri-ma cosa che si guarda per informarsi –,tante cose sono omesse, ma la recensionea Interlandi c’è, come uno degli innume-revoli e ormai incomprensibili panni spor-chi che si agitano sotto il naso dei posteri.

Ma la colpa di Piovene, in questo l’acu-tezza di Cordelli va lodata, non è di naturaesclusivamente ideologica. A funestare lavita di Piovene rimane sempre il fanta-sma di Eugenio Colorni, l’amico antifasci-sta, assassinato a Roma dai sicari dellabanda Koch nel maggio del 1944. Esistetradimento peggiore del tradimento del-

l’amicizia ? Cordelli intravede in questavecchia e penosa storia una partita mora-le straordinariamente interessante – nonsolo dal punto di vista storico ed esisten-ziale, ma propriamente letterario. Il colpe-vole Piovene, prima che colpevole della fa-mosa recensione razzista, è colpevole del-la fragilità, della corruttibilità tipiche delletterato italiano. Come tutti i letterati ita-liani, aspira a scrivere sui giornali, più diogni altra cosa al mondo. Conviene soffer-

marsi su questo punto. È il fascismo la col-pa fondamentale di questo letterato vene-to di sangue aristocratico? O il fascismo èla conseguenza di un’altra faccenda, que-sta sì dura da redimere, una specie di istin-to insopprimibile a dire ciò che gli altri sivogliono sentire dire, e scrivere quello chegli altri (i lettori, gli editori, i critici, i diret-tori dei giornali, i preti, i laici...) voglionoleggere? La piaga verminosa è questo pat-to scellerato. Cordelli lo sa fin troppo be-

ne: questa vecchia storia del giovane Pio-vene è la storia di sempre, è la storia diadesso, se non fosse così non ci sarebbeda farne un’ossessione. In fin dei conti, lecolpe degli altri non ci riguardano, le no-stre dovrebbero essere più che sufficienti,e la cosa più sciocca è puntare il dito, fortidel fatto di non essere stati lì.

Ma questa materia molle e limacciosaè tale da restarti appiccicata alle dita: parlidi Piovene, uno che non legge più nessu-no, e stai parlando di tutti, stai parlandodi te. Piovene è una «parte per il tutto».Inoltre anche se la colpa in sé non valenulla, e non è né molto originale né moltosignificativa, nella colpa l’individuo realiz-za pienamente il proprio essere uomo.Piovene ha rinunciato al privilegio mora-le, la sua storia politica e il suo stile lettera-rio vanno in direzione opposta, sonoun’anatomia dell’infamia, non guardanoil mondo da qualche altezza di principio.Questo è il punto: non sentirsi superiore anessuno: il contrario esatto della stragran-de maggioranza degli scrittori di oggi, conla loro aria di martiri di chissà che, di resi-stenti a chissà che. La colpa, oltre che ungrande motivo morale, è anche, nonostan-te tutto, il terreno dell’esperimento.

«Sempre Piovene», osserva Cordelli, «èdalla parte del male; dalla parte di unasperimentazione abnorme, che lui per pri-mo definirebbe contro natura». Ecco unaperfetta sintesi di ciò che sempre dovreb-be essere un vero scrittore, e che proprioper questo fa di Piovene un «simbolo», enon, una volta tanto, una metafora. Que-sto dovrebbe corrispondere sempre allacritica, o diciamo pure al pensiero: tirarefuori qualcosa dal passato, perché è anco-ra fin troppo vivo e urgente, non è un’ulte-riore conoscenza che non serve a nessu-no, ma un «simbolo», appunto, l’infamiae la grandezza del singolo come specchiodell’infamia e della grandezza del tutto.

SCRITTI D’ARTE

Roberto Longhicome lezioneinteriore:Attilio Bertoluccilegge l’anticoe il presente

di RAFFAELE MANICA

●●●Il magistero di Roberto Longhiha notoriamente generato discepoliche ne hanno variamente letto lalezione. Illustri storici dell’arte, maanche scrittori e poeti che hannopraticato lo scrivere d’arte comepratica non secondaria. AttilioBertolucci è stato uno dei nomi piùeminenti della covata portata a

maturità soprattutto negli annibolognesi di Longhi, e poi dai saggiconsegnati alla palestra di«Paragone», prima che cominciasseroa raccogliersi i volumi delle operecomplete, dove fu possibile leggeredel maestro i capitoli più antichi. C’èda dire che essere longhiano, perBertolucci come per Bassani, fudecisamente non imitare lo stile (o glistili) del maestro: scrittori veri,possedevano lo stile in proprio, e lalezione fu per loro interiore,concentrata nel saper leggere l’arte,rimettendola in movimento, proprioal modo in cui a un altro discepolo,Pasolini, le lezioni di Longhisembravano essere l’invenzione delcinema o qualcosa di simile.

Due volumi raccolgono adesso unabella porzione degli scritti d’arte diBertolucci: Lezioni d’arte(introduzione di Gabriella PalliBaroni, Rizzoli, pp. 287, € 35,00) e Laconsolazione della pittura Scrittisull’arte (a cura di Silvia Trasi,introduzione di Paolo Lagazzi,Aragno, pp. XVI-325, € 17,00). Ilprimo volume, sontuosamente edito,accompagna con belle riproduzionila ristampa degli articoli pubblicatida Bertolucci sulle controcopertine

del «Gatto selvatico» tra il 1956 e il1964, praticamente per quella che ful’intera durata della rivista dell’Eni (il1956 è l’anno di esordio di un’altracreatura di Enrico Mattei, Il Giorno).Come intitola la sua ampiaintroduzione la Palli Baroni, ci sitrova di fronte a un «Racconto diStoria dell’arte a puntate» (oltre amolto altro, dell’introduzione andràtrattenuta l’osservazione che l’artelonghiana del conoscitore si innestòin Bertolucci come su una pianta diper sé, nativamente, attratta più dallapoesia che dalla tecnica dell’arte). Equesto racconto, consono all’intentodivulgativo o se si vuole didatticodell’autore, intreccia suggestioniletterarie e di varia cultura ai fattipittorici, lasciandone intuire i diversicontesti con rapidi, essenziali tratti.

Il secondo volume raccoglie scrittipubblicati in varie sedi (tra le altre«La Fiera Letteraria», «L’Illustrazioneitaliana», «Palatina» e lo stesso «GattoSelvatico», per gli articoli non incontrocopertina) dal 1939 al 1991,tolti quelli già antologizzati daBertolucci per i suoi libri di prosa.Sono gli articoli nei quali piùBertolucci si apre al suo tempo,visitando mostre di pittori ancora in

attività: testimonianze preziose per ilclima degli anni (peccato chemanchino sussidi fotografici, chesarebbero stati assai utili almeno peri nomi oggi più remoti). Così, seentrambi i volumi sono di grandeutilità per la ricostruzione del fervoreintellettuale di Bertolucci, e seentrambi sono di lettura fruttuosa,interesserà tuttavia gli storici dell’artenovecentesca particolarmente ilsecondo, per il quale Lagazzisottolinea come curiosità ocommittenza non davano nelloscrivere di Bertolucci diverso effettodi interesse. Nell’apertura allacontemporaneità, e nei modi diquesta apertura, si affianca aBertolucci il nome di un altrolonghiano suo amico bolognese,Francesco Arcangeli (all’ora dellalezione del comune maestro èdedicato uno degli articoli quiraccolti). Il nome di Arcangeli èsubito affacciato da Silvia Trasi,all’inizio del saggio «PinacotecaBertolucci» che congeda Laconsolazione della pittura (titolo asuo modo cecchiano).

Nella parte finale di Consolazionesono alcuni articoli della distillatacollaborazione di Bertolucci a

Repubblica, e se ne ritrova uno del1978 (quando, dopo decenni, l’Adonedel Marino riapparve in due diverseedizioni), titolato con allusione – sicrede dal responsabile della pagina –«Adone e Venere in camera da letto».Bertolucci, a proposito di due versidel canto ottavo dell’Adone, «Tutteincrostate, e qual diamante terse,v’han di fino cristallo e mura e travi»,dà rapida prova di quello che era ilsuo «metodo» – una proustiana eparmense «intermittenza» – e vedeMarino «in perfetta sintonia colparmigiano manierista Bertoia»: «IlBertoia non ha dipinto colonne dicristallo attraverso cui amanti sibaciano, o credono, perché divisi dallucido vetro implacabilmente?».Un’intermittenza è come un oggettoche si trova e si reinventa: inBertolucci è un affinamento dellaconnessione, sempre presente, e che– siccome non si può che connettere– si allerta anche in chi legge, se vienein mente una pagina degli Amori(titolo mariniano) di Dossi, dove leanime si toccano ma le labbra no,separate da un cristallo (lasciamostare, nell’occasione, i cristalli cheseparano dalla vita in tanti luoghi diBassani).

CRITICA ■ UN «MONOLOGO» DI FRANCO CORDELLI

Fare i conticon l’infamiadi un simbolo

PULCE DALLA PRIMA

Orchestrazionedi una disfattasotto l’occhio vigiledel Buddha

PIOVENEDunque il libro risulta orchestratoin modo da lasciare nelle mani dellettore alcune chiavi con le qualipuò leggere, e perciò aprire, altrestorie, sue e altrui, come se tuttofosse già accaduto e ogni volta tor-nasse ad accadere. Il viaggio permare in fuga dalla povertà, la diffi-coltà di essere donna in un paesestraniero, la sudditanza totale ri-spetto ai mariti o l’orgoglio di co-struirsi una posizione.

Impressionante il capitolo cheracconta l’internamento dei giap-ponesi nei campi di prigionia, cheper più di un dettaglio rievoca lacontemporanea vicenda ebraica.Anche se i tasti vengono sfioraticon ancora maggiore levità, ciò chesi intravede è sufficientemente terri-ficante. Costretti a partire, e a ven-dere tutto rapidamente in cambiodi pochi dollari o di assegni scoper-ti, molti di questi uomini non faran-no ritorno. Di case, campi e negozisi approprieranno americani scaltriche sfonderanno porte, raccoglie-ranno frutti che non avevano semi-nato e continueranno le attivitàcommerciali che erano state deglioperosi e discreti giapponesi, di cuiben presto saranno dimenticati no-mi e volti. Il Buddha che continua asorridere nel buio di una soffitta di-venta il simbolo più eloquente(quello da cui viene, appunto, il tito-lo originale del testo) dell’orizzonteall’interno del quale incorniciarequeste storie: nulla di quanto acca-de dovrebbe turbare troppo la men-te giacché tutto fluisce, niente si fer-ma e niente ha più consistenza del-l’immagine riflessa nell’acqua.

WALTER PEDULLÀ E L’«IPOCRISIA» DI SAVINIONon deve essere stato facile lottare per inserire Alberto Savinio nel canone dellaletteratura italiana. Che l’intento abbia avuto o meno i suoi effetti (ma ne dubitiamo),resta la viva testimonianza di quello sforzo critico in Alberto Savinio scrittore ipocrita eprivo di scopo, del maggior esegeta del poligrafo greco, Walter Pedullà, e uscito per Lericinel 1979: oggi viene riproposto, con in più due testimonianze del figlio di Alberto,Ruggero (edizioni Anordest, pp. 239, € 18,00). Ipocrita e privo di scopo perché? Èproprio nella gratuità «dilettantesca» del suo dettato, nel continuo depistaggio delleaspettative del lettore attraverso il funambulismo verbale e di immagine, che Pedullàindica la grandezza, anche morale, di questo colorato interprete del Novecento.

Negli ultimi anniCordelli ha presodi petto lo scrittorevicentino(che nessuno leggepiù), sviscerandoi risvolti letteraridella sua colpa:fascista e traditore

UNA CONTROVERSIA DEL NOVECENTO ITALIANO

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(3)ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

ZARMANDILIGERENZA

di GIULIO FERRONI

●●●Da tempo ormai tante nuovepossibilità letterarie sono suscitatedall’uso della lingua italiana da par-te di stranieri immigrati, che in mo-di diversi si sono impadroniti dellanostra lingua: essi mettono in sce-na il rapporto, il conflitto, lo scon-tro o l’integrazione tra la loro espe-rienza, quella del loro paese di origi-ne, della loro cultura, della loro lin-gua, e la condizione dell’essere inItalia, con tutto ciò che questa nuo-va collocazione comporta. Nellanarrativa questo incontro con la lin-gua italiana per chi viene da altrovesi dà peraltro in molti modi diversi,con esiti linguistici ed espressivi va-ri e contrastanti, come vari e contra-stanti sono i modi in cui questi scrit-tori «stranieri» percepiscono il rap-porto con l’Italia e con la sua cultu-ra, le prospettive con cui si rivolgo-no alla loro cultura di origine, neriaffermano l’identità o ne verifica-no la distanza. E certo molto parti-colare è la posizione di chi ha lascia-to da tanti anni un paese di granditradizioni culturali come l’Iran e neè rimasto fuori (tanto più di fronteal regime teocratico e fondamentali-sta che lo domina), continuando aoccuparsene da lontano, interro-gandosi sulle sue vicende politichee sociali, sulla difficile e durissimasituazione presente.

In Italia fin dal 1960, Bijan Zar-mandili ha continuato a guardarevariamente alla patria lontana, co-me esponente della sinistra e oppo-sitore dello scià, esperto di politica,giornalista, scrittore: e ha continua-to a farlo con i suoi romanzi, comecon questo ultimo I demoni del de-serto (Nottetempo, pp. 262, €

16,00). Tra quella degli «stranieri»,la sua è in realtà una voce moltoparticolare: la voce pienamente ma-tura di chi, penetrato a pieno titolodentro la lingua e la cultura italia-na, se ne è lasciato accogliere, sa-pendola usare per proiettarvi l’im-magine della realtà del proprio pae-se, della sua difficile situazione, deiconflitti e delle passioni che lo agita-no. Alla lingua italiana egli acquisi-sce così uno sguardo non esteriore,non esotico, non pittoresco, noncondiscendente, verso un mondoche per tanti versi (e tanto più nellacongiuntura presente) appare cosìlontano, ma che al suo interno è le-gato al nostro da tanti profondi fili,da antichi rapporti, da essenzialitracce culturali e umane. Iraniano eitaliano, Zarmandili dà vita a unasingolare solidarietà tra i due uni-versi linguistici e culturali, senzanessun compiacimento sentimen-tale, agli antipodi di quegli stucche-voli atteggiamenti di sguardo buoni-sta sul diverso di cui danno provacerti nostri narratori di successo.

Qui Zarmandili prende avvio daun evento catastrofico che si è ab-battuto non molto tempo fa sul suopaese: il terremoto che nel dicem-bre 2003 ha distrutto la città storicadi Bam, nell’Iran sud orientale, aimargini del deserto del Kavir: un

luogo che non dovrebbe esserecompletamente sconosciuto in Ita-lia, anche perché qualche decen-nio prima aveva costituito il set delfilm di Valerio Zurlini tratto dal ro-manzo di Buzzati, Il deserto dei Tar-tari (1975). Agha Soltani, professo-re di lettere in pensione, sopravvi-ve al terremoto proprio perché du-rante la scossa più terribile e di-struttiva si trova al limite del deser-to, dove suole recarsi a meditare,fantasticare, a studiare la realtà; del-la famiglia distrutta sopravvive solouna nipote, con la quale si allonta-na a piedi da Bam, diretto verso ilGolfo. Lei si chiama Hakimè, ed èuna bambina di singolare bellezza,ma immersa in un inquietante si-lenzio e ossessionata dal sangue eda misteriosi richiami di qualcosadi inafferrabile, che in parte si iden-tifica con le favolose risate dei jinn,i demoni del deserto. Procedendocon Hakimè, il vecchio sente inizial-mente un certo disagio, avverte ladifficoltà di istituire un vero contat-to con lei, dovuta all’abituale di-stanza tra universo maschile e uni-verso femminile: in fondo in passa-

to non aveva mai voluto «vedere»quella nipote, al cui carattere oraman mano si avvicina con nuovaapertura umana e culturale. Duran-te il viaggio però la bellezza della ra-gazza viene notata da un negozian-te collegato a una banda di traffi-canti (i veri demoni del deserto)che rapiscono fanciulle vergini peroffrirle a ricchi notabili: e la vicen-da del rapimento di Hakimè apre

vari squarci sugli intrecci tra crimi-nalità e pasdaran, sulla corruzioneviolenta e sulla facciata di unzionereligiosa che prospera sotto il regi-me fondamentalista. Ora Agha Sol-tani sente un legame sempre piùforte con la bimba che gli è statasottratta: cercandone le tracce pro-cede verso il grande porto di Ban-dar Abbas, sul Golfo Persico, luogodi traffici di ogni sorta, dove trove-

rà l’aiuto di un pescatore pressocui viene alloggiato.

Il racconto procede con un ritmonarrativo continuo, gestito congrande rigore e non senza momen-ti di suspense, sostenuti da un equi-librato uso del tempo presente. Sialternano situazioni e punti di vistadiversi, mentre la voce narrante sisposta dalla prima persona del vec-chio, che segue il farsi stesso deipropri movimenti, tra sguardi almondo circostante, considerazioni,ricordi, e una narrazione in terzapersona che registra gli eventi a cuiegli non assiste direttamente. Nelrapporto tra il vecchio e la nipote sidanno momenti di grande delica-tezza: in una resistente volontà di vi-ta, il vecchio è sostenuto da una cul-tura che sa confrontarsi col mondo,che tende a integrare la saggezzaantica della Persia, la religiosità isla-mica più aperta e tollerante, loscambio con la più viva cultura oc-cidentale, nella coscienza di una co-mune umanità. Del resto Zarmandi-li inserisce anche segni di quel lega-me tra cultura italiana e cultura ira-niana che lo costituiscono comescrittore: nei ricordi di Agha Soltanisi affaccia quello di una sua collabo-razione come consulente alla trou-pe del Deserto dei Tartari nel 1975;poi pensa al passaggio di Marco Po-lo sulla Via della seta, quando, nelporto di Bandar Abbas, si avvicinauna nave con una bandiera i cui co-lori sono: «rosso, bianco e verde, icolori della bandiera italiana, glistessi di quella dell’Iran».

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Alias Domenicaa cura diFederico De MelisRoberto Andreotti

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SCRITTORI ITALIANI CONTEMPORANEI

Fili e passioni d’Iran,un impasto italiano

In copertina di «Alias-D»:montaggio di una fotodi Yasuzo Nojimae di un aquilone d’artistafirmato Mitsuo Kano

CRITICA

Ma nella culturaitaliana post-’68cosa significa«moderno»?Una mappadi Afribo/Zinato

Ne «I demonidel deserto» la vocedi Bijan Zarmandili(in Italia dal 1960)dà vitaa una particolaresolidarietàlinguisticae sentimentale

Protagonistidel romanzo,un vecchioe una bambinasopravvissutial terremotoche distrussenel 2003 la storicacittà di Bam

Un dipinto da fotografia di ShiranaShahbazi. Nella pagina a fianco: in grande,Luxardo, «Il fuggiasco», 1938; in piccolo,la scrittrice nippo-americana Julie Otsuka

di NICCOLÒ SCAFFAI

●●●Modernità italiana Cultura, lingua eletteratura dagli anni settanta a oggi (a cura diAndrea Afribo e Emanuele Zinato, Carocci, pp.326, € 27,00) è un libro di cui vale la penadiscutere, perché invita a porsi domandeimportanti.

Che cosa significa ‘moderno’? Il volume siconcentra sul periodo dagli anni settanta (inrealtà dal ’68) a oggi: un’epoca, cioè, che è piùusuale definire ‘postmoderna’. Sennonché –lasciano intendere Afribo e Zinato nellaPremessa – la modernità o la tardiva«modernizzazione» italiana interagiscono con icaratteri del postmoderno. A meno che ilmoderno non fosse «già postmoderno findall’inizio». Se è così, c’è un problema difondo: come conciliare la consustanzialità dimoderno e postmoderno con l’idea di unacrisi, di una svolta collocata «a cavallo del1970»?

Da questa domanda ne discende un’altra:quando comincia il moderno in Italia? Oalmeno, quando si produce quella frattura tra

il ciclo delle «grandi speranze del ’45» e iltempo delle illusioni spezzate? Se sul pianosociale o su quello economico la faglia corretra la fine degli anni sessanta e l’inizio deisettanta, sul piano culturale e specificamenteletterario la coscienza della crisi matura moltoprima. Prendiamo Montale e Calvino, due‘campioni’ novecenteschi spesso evocati nelvolume. Dell’uno e dell’altro qui si citanosoprattutto gli scritti a partire dagli annisessanta; ma se si leggono le prose montalianedella fine dei quaranta e se si considerano, peresempio, il progetto e lo svolgimento deiRacconti calviniani nei cinquanta, ci si rendeconto che le contraddizioni del secondodopoguerra erano evidenti già all’alba oaddirittura prima del boom.

I sei saggi di cui Modernità italiana sicompone sono dedicati ai «Contesti» (Linguadi Giuseppe Antonelli, Filosofia di PaoloTamassia, Editoria e critica di EmanueleZinato) e ai «Testi» (Narrativa di Luigi Matt,Poesia di Andrea Afribo, Canzone di PaoloGiovannetti). Ogni saggio, per ricchezza edensità, è una monografia compendiaria e una

voce originale nella bibliografia delle rispettivematerie. Messi insieme, i capitoli nonpotevano né dovevano esaurire gli aspetti dellacultura italiana nell’ultimo quarantennio(anche se pesa, in particolare, l’assenza delcinema), ma raggiungono un risultato forseanche più importante: indurre a riflettere suun’idea di cultura. Cultura umanistica, inprimo luogo, com’era inevitabile vista laformazione linguistico-letteraria dei sei autori.Cultura alta, in secondo luogo; per quanto larestaurazione di soglie tra highbrow e low omiddlebrow non fosse evidentemente tra gliobiettivi dell’impresa, la centralità dell’oggettoletterario crea un’implicita gerarchia. E se ilsaggio di Antonelli, dedicato alla lingua d’uso(parlata, scritta, digitata), si sottrae a quellepolarità, quelli di Zinato e di Giovannetti vialludono e contrario. Il primo, eccellente nellasezione sulla critica letteraria, è meno efficacein quella dedicata all’editoria, in cui rientraanche un elemento, la televisione, che avrebberichiesto un capitolo a sé stante prima diessere liquidata come fenomeno deteriore. Leragioni di perplessità sono due: l’adesione un

po’ schematica al paradigma di Schiffrin(«editoria senza editori»: ma è davvero cosìsemplice?) e un riflesso condizionato cheriattiva qua e là il vecchio dualismostruttura/sovrastruttura. Il saggio diGiovannetti, d’altra parte, è una mappapreziosa in un campo importante, di per sé enei rapporti con il genere confinante dellapoesia, ma pecca a volte per difetto disprezzatura verso gli oggetti più provvisorinella rassegna.

Se il saggio di Tamassia, pregevole, restaforse un po’ ai margini di un contesto quasitutto letterario, i capitoli sulla narrativa e sullapoesia di Matt e Afribo sono invece centrali.Del primo, si apprezza la scelta di parlare distile più che di grammatica, anche se il puntodi vista linguistico prevale e sorvola su aspettinon meno decisivi, come le strutture e i generi.Del secondo, impressiona la sicurezza sempremotivata del giudizio (che fa rimpiangerel’esclusione dal panorama proprio dei poetinati tra la fine degli anni sessanta e i settanta,coetanei dei pochi ‘giovani’ critici che Afriboseleziona e accredita).

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(4) ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

L’aggressivafelicitàdi un apolide

di PIERO GELLI

●●●Non si scappa a Roman Vlad, al-la sua prorompente vitalità, alla sua vo-glia di sapere e far sapere, alla moltepli-cità dei suoi interessi, ieri come oggiche ha superato i novant’anni e affidaa due validissimi consulenti, VittorioBonilis e Silvia Cappellini, non tantoun racconto autobiografico, come indi-rizza il sottotitolo, o non soltanto que-sto, che apparirebbe distratto e fuga-ce, per l’accavallarsi di troppi avveni-menti in un’esistenza vorticosa, quan-to piuttosto la silloge di tutto quelloche egli vorrebbe che restasse, oltre lavita: i suoi ricordi, gli incarichi innume-revoli, le amicizie carissime, l’affettoper la moglie e i figli, e, soprattutto,l’attività più direttamente creativa (Vi-vere la musica, Einaudi Super ET, pp.VI-239, € 14,00).

Vlad è cosciente, e lo dichiara aper-tamente nell’ultima pagina, di quantola poliedricità del suo personaggio ab-bia in qualche modo relegato in secon-do piano la sua musica. Del resto, nonè successo solo a lui, si pensi a un pre-cedente illustre, Ferruccio Busoni, tral’altro da Vlad molto amato: indubbia-mente l’importanza del teorico e la fa-ma internazionale del pianista hannoosteggiato la diffusione della sua ope-ra; si potrebbe ricordare anche il filoso-fo e musicologo più quotato del secoloscorso, Theodor W. Adorno, se non sinutrisse più di un sospetto sull’effetti-vo valore delle sue scarne Kompositio-nen. Forse è proprio per effetto dellasua fama, per la sua presenza attivanelle manifestazioni musicali più im-portanti del secondo Novecento, cheVlad, giunto a un’età in cui i riti dellagiubilazione tendono talvolta a oscura-re alcuni aspetti della personalità, pre-diligendone altri, ha sentito la necessi-tà di ricordare, soprattutto nella terzaparte del volume, alcune sue composi-zioni di tante che ne ha scritto, nel cor-so degli anni. E si può partire da quellepiù occasionali, come numerose co-lonne sonore, davvero tantissime, dal-la prima per un dimenticato film diMario Soldati, Eugenie Grandet del1945, per finire con l’ultima per unfilm che è meglio dimenticare, Il giova-ne Toscanini di Zeffirelli del 1988, inmezzo composizioni bellissime, quali,per esempio, quelle legate ai docu-mentari d’arte di Emmer, e, direi, perLa bellezza del diavolo di René Clair. Aquesta attività su commissione si af-fianca fin dai primi anni una più «spe-rimentale» e nata da un’incessante ri-cerca e da una sempre reattivissimacuriosità verso ogni linguaggio nuovo,verso ogni anche commistione di for-me e generi, o pastiche per semplifica-re. Nasce da qui forse il suo amore e lasua fedeltà verso un genio del Nove-cento, Stravinskij (cui Vlad, tra l’altro,ha dedicato una delle prime monogra-fie (Einaudi, 1958). Va ricordato inol-tre che, in quel periodo, l’espressioni-smo musicale, i cultori della dodecafo-nia, l’universo di Darmstad, capitanatida Adorno, avevano decretato un fero-ce attacco al musicista russo, visto co-me l’emblema della reazione, di con-tro a Schönberg, personificazione del

progresso. Vlad fu uno dei pochi, insie-me con il caro amico Massimo Mila(Compagno Stravinskij, Einaudi,1959), a prendere le distanze da que-sta sorta di linciaggio critico.

Per tornare all’opera di Vlad, biso-gna per lo meno ricordare gli affasci-nanti Studi dodecafonici per pianofor-te (1943-’57), affidati a Carlo Grante, al-meno nell’edizione discografica (an-che se Vlad è un pianista straordina-rio), e il bellissimo Concerto per arpa eorchestra (sonetto a Orfeo). Personal-mente io rammento come indimenti-cabile e emozionante serata l’esecuzio-ne della Cantata III, Le ciel est vide, sutesto di Gérard de Nerval, col coro el’orchestra di Santa Cecilia, diretta daVittorio Sinopoli. Era l’inverno del1997, il giorno dopo incontrai a cola-zione Sinopoli per motivi editoriali. Miregalò un suo saggio, affascinante e di-vagante come la sua conversazione,Parsifal a Venezia, ma soprattutto miparlò della composizione dell’amicocarissimo, che trovava bellissima e in-trisa di una profonda ricerca di fede.Per inciso, quel concerto fu l’ultimoche tenne con l’orchestra di Santa Ce-cilia, di cui, per fortuna, a ricordarloesiste un’incisione discografica. Pochianni dopo, nella primavera del 2001,Sinopoli morì per un infarto, mentrestava dirigendo l’Aida a Berlino. Vladdedica all’amico, al quale era legato datanti interessi oltre quelli musicali, pa-role significativamente speculari: «Si-nopoli non era solo un grande artista,era anche un grande uomo. Aveva unacarica vitale inesauribile e, più cheun’energia ed una capacità di lavoro,una necessità, una sete di conoscenzainsaziabile. Non gli bastava l’intensaattività di direttore d’orchestra, non glibastavano diplomi e lauree musica-li...». Insomma, si direbbe, proprioun’anima gemella, se si aggiunge an-che l’interesse archeologico, che con-vergeva con la sfera delle competenzedella moglie di Vlad, Licia Borrelli, dalui sposata nel 1953 e da allora compa-gna ideale di vita, oltre che madre deifigli Alessio e Gregorio.

Cosmopolita e/o apolide fin dai pri-mi vagiti, nato, come gli altri suoi con-terranei e amici, Paul Celan e Gregorvon Rezzori, in quella per noi misterio-sofica e impronunciabile cittadina diCzernowitz, dal glorioso passato au-stro-ungarico, o Cernauti in rumeno,o Cernivci, oggi, in Ucraina, Vlad èl’esito felice di una vocazione europei-sta (molto prima dell’euro), a tal pun-to la contaminazione culturale è parteintegrante della sua vita, con l’aggressi-va felicità con cui affronta e conquistaambienti anche pieni di sospetto senon ostili. In queste pagine, ad esem-pio, racconta l’incontro e l’amicizia im-portante di Casella, i primi contatti ita-liani, da Pizzetti a Respighi, da Cilea aMascagni, e soprattutto a Goffredo Pe-trassi; e i primi incarichi, in un ambien-te che, nonostante il fascismo e la guer-ra – vissuta gli ultimi due anni da sud-dito tedesco, e quindi costretto a na-scondersi, per non essere richiamatoalle armi –, è vivace e internazional-mente animato, forse perché al regi-me la musica come la letteratura inte-

ressano poco: conosce quindi Proko-fiev, Bartòk, Hindemith, Benedetti Mi-chelangeli, assiste a Roma alla primaitaliana del Wozzeck di Berg, diretto daTullio Serafin (1942). Dopo la liberazio-ne, frequenta Firenze, dove vivono, tragli altri, intorno al Gabinetto Vieus-seux, Alessandro Bonsanti, EugenioMontale e Luigi Dallapiccola (stimato,ma forse non molto amato), incontracasualmente Benedetto Croce ma so-prattutto prende i primi contatti conl’orchestra del Maggio Musicale Fio-rentino, grazie a Igor Markevitch, concui suona, come pianista, Prokofiev eBach. È il primo incontro destinato adiventare un rapporto di lunghissimadurata.

Nel 1964, su proposta di RaffaelloRamat e del sindaco più celebre dellaFirenze del secondo Novecento, Gior-gio La Pira, Vlad ha l’incarico della di-rezione artistica del Teatro Comunale.Nasce il celebre Maggio Musicale Fio-rentino dedicato all’espressionismo:nel ricordo dei giovani fiorentini chefrequentavano allora quel teatroun’esperienza indimenticabile. Io erofra quelli, giovane studente della Facol-tà di Lettere, inseguivo Vlad dovunqueriuscissi a ottenere biglietti gratis perme e per gli amici. Quel festival ha avu-to una risonanza enorme dal punto divista critico, ma in realtà ricordo deso-late platee alla prima del Dottor Faustdi Busoni, e ancor più vuote con ledue «operine» di Schönberg, DieGlückliche Händ e Erwartung. Meglioandò invece con la Salomè di Strauss,ancora in odore di scandalo per il pub-blico fiorentino di quegli anni, mentreun grande successo arrise al magnifi-co Il Naso di Sostakovic, per la regia diEduardo De Filippo, le scene di Macca-ri e la direzione di un giovanissimo di-rettore di Sesto Fiorentino, Bruno Bar-toletti, che da qualche anno al Comu-nale dirigeva coraggiosamente osticiconcerti di musica contemporanea.Grazie a Vlad e a quello spettacolo,Bartoletti divenne una personalità in-ternazionale ed è tuttora una dei piùgrandi maestri italiani. Vlad ha ideatoa Firenze altri Festival tematici, comequello sul neoclassicismo nel 1970, ol’anno successivo quello dedicato alrapporto con le civiltà musicali extra-europee, con minore glamour. Ancoraoggi mi chiedo che cosa rese magical’atmosfera di quel Maggio espressioni-sta 1964, e indubbiamente era la suapresenza: Vlad era dappertutto, orga-nizzatore e didatta, diplomatico e bat-tagliero, con la sua instancabile eufo-ria nulla riusciva a farlo desistere. Cre-do che sia rimasto così. Ho avuto altreoccasioni, in un passato recente, di in-contrarlo, sempre immutabile di viva-cità e di umanità, come attestano que-ste recenti rievocazioni, dove tra tantiepisodi e cammei di amici scomparsi(bellissimo quello dedicato a LeylaGenger), non mancano anche le deci-se polemiche, le dure prese di posizio-ne. Tutto però è come avvolto nellagrazia esistenziale di Vlad, a cui si addi-ce mirabilmente una qualità di quelleche Calvino, prima di morire, descris-se nelle sue Lezioni americane (poi di-ventato un libro postumo, Garzanti,1986): la leggerezza. Una leggerezzaperò, quella di Roman Vlad, che pesa,che incide, che conta.

Roman Vlad fotografatoda Luca Fregoso nella suacasa di Roma, 1999

DUE LETTURE INNOVATIVE DI LISZTL’artista dell’arabesco, della digressione, della malattia romantica condotte finoall’estremo dell’estasi: così Baudelaire immaginava Franz Liszt, suggerendo al pubblicoeuropeo che idolatrava il suo virtuosismo di ricercarne la radice segreta. In questadirezione e come eredità dell’appena trascorso bicentenario, escono due innovativicontributi. Il libro di Michele Campanella: Il mio Liszt (Bompiani) è la testimonianza diun concertista internazionale che pone al centro i meriti del compositore e la necessitàdi approfondirne le opere meno note. Dalla Germania invece viene la meravigliosaricerca iconografica sui tanti anni che Liszt trascorse in Italia. L’autore è Ernst Burger el’opera Franz Liszt Die Jahre in Rom und Tivoli (Schott). (d. ma.)

di DANIELE MASTRANGELO

●●●Non potremo mai vivere, masoltanto immaginare l’emozioneche accese l’animo di FranzSchubert allorché nei primi giornidi maggio del 1824, scrivendo a unamico, riferiva come «ultimanotizia da Vienna» l’imminenteesecuzione di quella che sullelocandine, con solenne esattezza,veniva annunciata come GrandeSinfonia, con voci di Solisti e Coroche entrano nel Finale, sull’Ode diSchiller ‘Alla Gioia’. La NonaSinfonia di Beethoven sebbenecome si vede nacque già grandeera però ancora libera daquell’incessante teoria distrumentalizzazioni che si propagafino a oggi e minaccia di ridurre ilsuo messaggio a involucro daicontenuti più vari e vuoti. Acontrastare questa tendenza c’èl’antidoto della conoscenzastorica, come quella dispiegata nel

nuovo contributo di Harvey Sachs,che può essere assunto a modelloper ripetere l’esperienzadell’ascolto di questo capolavorousufruendo però di unaconsapevolezza nuova: La nona diBeethoven (Garzanti, pp. 286 , €22.00). Il libro non è unamonografia specialistica comepotrebbe far pensare il titolo dellaversione italiana e tantomeno unacronaca ragionata comesuggerisce la versione originale(The Ninth: Beethoven and theWorld in 1824), ma unaricostruzione storica diremmosenza aggettivi, che attraversadiversi saperi ‘speciali’ e diversimodi di fare storia senzaparteggiare aprioristicamente pernessuno. Se il nucleo ideale e ilcontenuto sempre attivo delsaggio è la conoscenza del ‘testo’attraverso l’analisi e la prassiesecutiva, da esso dipartonomolteplici orizzonti di

interpretazione: dalle condizionimateriali e psicologiche in cuiBeethoven trascorse gli ultimianni, alle ricadute sociali eculturali della Restaurazione; si fatesoro dei risultati del modellostoriografico del Leben und Werkecosì come di quelli dellaWirkungsgeschichte, si recupera ilvalore storico dell’evento (lagrande opera, il capolavoroappunto) senza però investirlo diun significato teleologico. Insiemea tutto questo e forse più di tutto ilsaggio di Sachs rappresenta inmaniera esemplare l’aporiafondamentale entro la quale sidibatte il lavoro dello storico dellamusica: descrivere l’indescrivibile,trasmettere attraverso parole econcetti un mondo di suoni. Daquesto paradosso si genera lospazio lasciato alla sensibilitàindividuale dello storico,all’arbitrio delle sue inclinazioni edelle sue scelte e, fra queste,

soprattutto a quelle dallaletteratura. Così raccontare l’annodella prima della Nona attraversole opere che allora andavanoscrivendo Byron, Heine, Puškin è,se preso alla lettera, un trickromanzesco; nella sostanza inveceè la convinzione che in questecreazioni dello spirito e non nelladimensione dell’evenemenziale cisia il senso stesso dell’epoca che èstato poi quello del passaggio dauna visione idilliaca della vita auna drammatica, all’idea chevivere è un continuo lottare senzauna vittoria ultima. L’ultimasinfonia di Beethoven è per Sachspartecipe di tutto questo, ma perandare oltre di esso. L’ultimomovimento della sinfonia infattirealizza l’abbandono definitivo diogni retorica dell’eroismoindividuale, consapevole chel’ideale per esser tale è possibilitàdi tutti proprio come un motivoche chiunque potrà fischiettare.

VLAD

MUSICA E STORIA

Harvey Sachs:la Nonadi Beethovennell’orizzonteculturaleeuropeo

Nato a Czernowitz(come gli amiciCelan e Rezzori),Roman Vladridà vita,nell’autobiografia,a un mondo«contaminato»,non solo musicale

UN PROTAGONISTA DELLA MUSICA DEL NOVECENTO

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(5)ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

Luce degli orecchiin questo Atlante

●●●Rielaborazione di una serie di conferenze tenute nel1956 presso la New York University, La scultura funerariadall’antico Egitto a Bernini di Erwin Panofsky (Einaudi «PiccolaBiblioteca», a cura di Pietro Conte, pp. XXXV-199, € 40,00)vide la luce nel ’64, quattro anni prima della morte dell’autore,che era espatriato in America nel 1933 in seguito allepersecuzioni razziali. Spaziando attraverso una parabolasecolare, come è intrinseco all’approccio morfologico dellatradizione warburghiana (è di lì che Panofsky partiva, per poidivenire il maggior sistematore teorico del metodoiconologico), il saggio si propone di isolare nella storia dellascultura, in base all’analisi comparativa di un consistentemateriale figurativo, e al confronto discreto con diversediscipline di riferimento (dall’archeologia classica e orientalealla storia delle religioni alla filologia), due diversi atteggiamentidelle civiltà nei confronti del morto: da una parte quello«retrospettivo», teso a eternarne la memoria, a scolpirne imeriti per chi rimane e chi verrà; dall’altra quello«prospettivo», che vuole invece accompagnare il mortotramite una sorta di configurazione ambientale dei suoi bisognie dei suoi desideri nell’al di là. Perché gli egizi, si chiedePanofsky, spalancavano ai cadaveri la bocca e gli occhi? C’è inquesta modalità una filosofia della morte di tipo «prospettivo»che spiega anche i termini delle espressioni artisticheconnesse, così come il rigor mortis della scultura barocca agiscecome memoria «postuma». (f.d.m.)

●●●Per noi la conoscenza della statuaria greca è basata quasiesclusivamente sulle copie in marmo che ne trassero i romani:pochissimi i pezzi originali che ci sono rimasti. Di questo già eraavvertito, nella seconda metà del Settecento, il pittore teoricodel Neoclassicismo Anton Raphael Mengs, mentreWinckelmann, che del nuovo stile fu teorico a tutto tondo,sostanzialmente e curiosamente lo negò. Nel filologicoOttocento, poi, le copie romane furono utilizzate al solo scopodi riconfigurare i prototipi greci: dal che la loro ancillarità, esfortuna come valore estetico. Contro questa connotazionenegativa, protrattasi in realtà fino a oggi, si leva uno svelto eferrato saggio di Marcello Barbanera, Originale e copianell’arte antica (Tre Lune, pp. 144, € 18,00), che facendotesoro degli avanzamenti di cognizione in materia dicommittenza nella Roma antica (una prospettiva di studiomaturata negli anni sessanta-settanta) ricolloca le copie deicapolavori greci nel loro contesto sociale, riguadagnandole così auno statuto espressivo. Statuto riconsiderato anche a partire dauna serie di esempi tratti dalla musica e dall’arte moderne econtemporanee che implicano un cambiamento di paradigmanella valutazione del rapporto tra «originale» e «copia». Inquesto senso, e storico e concettuale, l’arte romana non è piùsoltanto quella isolata come autoctona da Ranuccio BianchiBandinelli, la cui costruzione espunge radicalmente come inertile dipendenze dall’arte greca, ma anche quella fibrillante in bianconelle innumerevoli officine dei copisti. (f.d.m.)

di CARLO SINI

●●●La comprensione delle coseda parte degli antichi e il loro mododi farle erano sensibilmente diversidal modo che caratterizza noi e lanostra modernità. Questo è vero inmodo particolare per la musica:uno dei fenomeni più pervasivi eprofondi di ogni cultura. Apprende-re che i Greci consideravano la mu-sica come il tratto fondamentale del-l’educazione ci sconcerta. Ma la lo-ro mousiké non coincide con lo stu-dio della musica nei conservatorii,ci spiegano; per musica si deve in-tendere l’unità delle arti dinamiche,cioè danza, musica e poesia. Eccoperò che ci stupiamo di nuovo, per-ché da noi un ballerino non è un po-eta e un musicista non è un lettera-to. Queste strane commistioni incampo estetico si complicano ulte-riormente, quando apprendiamoche i medievali, articolando tutte lescienze nelle corporazioni e nelle ar-ti liberali del trivio e del quadrivio,collocavano la musica assieme al-l’aritmetica, alla geometria e al-l’astronomia. Che un astronomodebba essere anche musicista è pernoi qualcosa di bizzarro, anche sequi si parla della musica in un sen-so «pitagorico», cioè teorico e astrat-to, ovvero in relazione al rapportotra le vibrazioni acustiche dei suonie la successione dei medesimi nellascala musicale.

L’acustica delle cattedraliLa verità è che il punto di vista in ba-se al quale articoliamo l’enciclopediadei saperi in senso moderno è total-mente disomogeneo rispetto al mon-do antico. Noi siamo caratterizzatisempre più dalla specializzazione eda un’indubbia efficienza nell’eserci-zio di ambiti particolari; il mondo an-tico aveva invece di mira la sintesi e ilsenso complessivo. Anche per questaragione la musica, sebbene sia «pro-fondamente radicata nelle matricidell’Occidente», scrive Vera Minazzi,«trova ancora a fatica una adeguatacollocazione nella storia dell’arte, del-l’architettura, della società e della cul-tura medievali. Sul versante musico-logico, gli specialisti integrano condifficoltà il fenomeno sonoro con lealtre espressioni artistiche e con la vi-ta medievale in generale».

Con queste parole si apre l’Atlantestorico della musica nel Medioevo(Jaca Book, pp. 290, € 85,00):un’opera straordinaria e unica nelsuo genere, che raccoglie contributidi numerosissimi studiosi interna-zionali e della quale Vera Minazziha steso il progetto editoriale e con-dotto la curatela assieme a Cesari-no Ruini. «Questa opera, essa scri-ve, si pone l’obiettivo ambizioso dicontrastare l’impoverimento para-dossale conseguente alla dispersio-ne delle discipline». Paradossale,perché più si arricchiscono i nostrisaperi nei particolari e nelle tecni-che di ricerca, più sembra sfuggirciil loro senso originario e la loro qua-lità umana complessiva. Ecco peresempio che scopriamo come sia in-dispensabile ricollocare il modo dicostruire le cattedrali del medio evoin base alla loro frequentazione daparte di grandi masse di fedeli e dipellegrini anche in relazione all’acu-stica, cioè al suono che le riempiva,alle parole del culto e alla loro into-nazione musicale; intonazione chea sua volta modificava le sue formeespressive in uno con l’evolvere deldato architettonico-spaziale, conl’ufficio che vi esercitavano le colon-ne, con i rimbalzi sonori delle voltee così via. Comprendiamo allorache inserire la musica nella geome-trica costruzione degli spazi e nei lo-ro orientamenti (per esempio versoOriente per simboleggiare la rinasci-ta dell’uomo con l’avvento del Cri-sto) era un’esigenza ben concreta enon una stravaganza. Di qui lo sco-po dell’Atlante: «quello di fornire allettore, anche non specialista in mu-sicologia, una immagine articolata,piana, godibile, e tuttavia scientifi-camente rigorosa, della musica nelcontesto della vita medievale», dal-

le origini tardo-antiche alla fine delTrecento. Di qui il suo impegnomultidisciplinare e l’ampissimo spa-zio dedicato agli splendidi materialiiconografici, il cui fine non è solo or-namentale; le innumerevoli figure,le riproduzioni plastiche, le cartine,le schede, i codici fanno da guida,da orientamento e da spiegazionepuntuale del contenuto stesso deltesto. Il lettore, non importa se mu-sicista o amante più o meno coltodella musica (ma se lo è, il suo godi-mento sarà raddoppiato), sfoglia,legge, osserva, confronta, analizza,via via con un piacere al tempo stes-so sociale e storico, estetico e filolo-gico, scientifico e morale, psicologi-co e cosmico.

Nel consultare il grosso volumesi rianima, quasi per magia, una ve-rità antichissima che tutti abbiamoper lo più dimenticato: che esisteda sempre una fusione primordialetra vista e udito, suono e visione;quella «luce degli orecchi» e «suo-no degli occhi», ha scritto il grandemusicologo Marius Schneider,«che per le culture superiori orien-tali e per la mistica medievale euro-pea era una fusione per niente inso-lita; ma l’uomo moderno avverte or-mai appena la grande imperscruta-bilità del mondo acustico, la poli-cromia, la poliritmia e la forza linea-re del suono, da cui le antiche leg-gende cosmogoniche facevano pro-cedere il mondo visibile e tangibi-le». Schneider scriveva queste paro-le nella presentazione di Pietre checantano, libro famoso di molti annifa che illustrava una straordinariascoperta: il senso «musicale» dei ca-pitelli dei chiostri nelle chiese ro-maniche della Catalogna. Ogni figu-ra «ornamentale» delle colonne delchiostro rappresentava in realtà unsuono e l’insieme del cammino cir-colare dispiegava al monaco, comein una partitura di figure di pietra,l’inno del suo monastero, dedicatoper esempio al santo patrono. Lepietre «cantavano» allo sguardo sa-piente di chi sapeva leggerle e ilsuono si materializzava per l’orec-

chio nella pietra e si orientava nellospazio, specificando il senso delcammino mortale in unità con i fe-nomeni celesti del cielo e con i sim-boli della salvezza terrena. Com-mentando quest’opera straordina-ria e unica, Elémire Zolla scriveva:«Rari sono i libri che possono cam-biare la vita di chi li legge: questo èuno di essi. Chi sappia cavarne tut-te le deduzioni, vede in modo nuo-vo la storia, ascolta altrimenti i suo-ni della natura e la musica, guardadiversamente le cose (…); ci si ac-corge che vacilla il nostro mondoculturale di tutti i giorni, che la sto-ria e i valori comunemente accetta-ti tremano come figure di un velodipinto. Una lama di luce rade le te-nebre della storiografia medievale,una storia ignota emerge, si ha laprova che si trasmettevano nel Me-dioevo conoscenze metafisiche si-mili a quelle che avevano generatola teoria musicale indù; esistevauna conoscenza metafisica non tra-scritta su pergamene, ma urlata daicapitelli». E riprendendo a sua vol-ta l’esempio delle cattedrali goti-che, aggiungeva: «Bisognava visitar-li sotto la pioggia battente i duomigotici: si destavano allora in vita iloro doccioni a forma di draghi, nebrillavano allora gli smalti coloratie, intasandosi, i loro condotti mug-givano: ululavano le fauci di pietra,barrivano sputando i getti dell’ac-qua di vita. Bisognava udirle le cat-tedrali».

Nessi con l’arte campanariaL’Atlante storico della musica nel

Medioevo mi sembra che riprendala via aperta dal grande Schneider,moltiplicandone però le applicazio-ni. Non solo architettura e musica,ma la struttura e l’evolvere della pra-tica e della teoria musicale in rela-zione alla filosofia scolastica; il nes-so profondo tra i melismi del cantodi giubilo e la capacità della musicadi esprimere l’ineffabile, ciò che laparola non può dire; la reciprocaispirazione di musica, pittura e mi-niatura; musicoterapia e medicina(nesso che di recente è tornato alcentro del nostro interesse); l’unio-ne di elementi sacri e profani, tecni-ci e ideali nella produzione di cam-pane (luogo simbolico per eccellen-za, che nei millenni ha segnato iconfini delle comunità umane); larelazione della musica con la naturae con il canto degli uccelli; l’evolu-zione della scrittura musicale e l’ori-gine della musica «moderna» e dellasua grande complessità tecnico-ese-cutiva. Solo qualche esempio tra imoltissimi, a segnare un camminoche è anche un potente invito a ri-pensare il senso ultimo delle nostrespecializzazioni e conseguenti scis-sioni: siamo potentissimi ed efficien-tissimi rispetto al passato, non c’èdubbio; ne paghiamo anche unprezzo. Questo libro, splendido emodesto, è un invito a prenderci cu-ra dei nostri limiti e a ripensarel’unità materiale e spirituale del sen-so delle arti e del lavoro umano.

STORIA DELL’ARTE

Scultureper l’ultimoviaggio: tradottele lezioni 1956di ErwinPanofsky

SCULTURA ANTICA

Modelli greci,copie romane:una storicaquerellerivisitatada Barbanera

STORIA DELLA MUSICA TRA ORIENTE E OCCIDENTE

MEDIOEVOÈ nel segno di una concezione totalizzante,

la stessa evidenziata da Marius Schneider,la musica medi0evale che riprende corpoe figura in un libro di storia quasi magico

Veit Stoss, dettaglio delle sculturedell’altar maggiore in Santa Mariaa Cracovia, 1477-’89

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(6) ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

Un allestimento«de-differenziato»che di MaurizioCattelan esaltal’ambivalenza:fingersi impostoriper meglio inserirsiin un certo sistemadi riferimenti

di GABRIELE GUERCIONEW YORK

●●●La retrospettiva di Maurizio Cat-telan al Guggenheim di New York (si-no al 22 gennaio) presenta un insie-me caotico eppure stranamente com-patto. Le circa 130 opere (sculture, fo-to, dipinti ecc.) non sono cronologica-mente disposte nei vani laterali allagrande spirale del museo bensì appe-se al soffitto, ad altezze diverse, graziea un’impalcatura di cavi, corde e piat-taforme sospesa nello spazio centralecircondato dalla rampa su cui i visita-tori si affacciano dai vari piani. Il pub-blico, salendo e scendendo la rampa,può incontrare le opere in più mo-menti e da più punti di vista (alto, bas-so, frontale ecc.). Una presentazionecosì sfaccettata spinge a chiedersi sele opere «reggano» in termini vuoi diinstallazione e ingegneria vuoi di du-rata nella carriera dell’artista e nel si-stema dell’arte.

Di certo l’impalcatura fa sì che leopere «reggano» stagliandosi e bilan-ciandosi nell’aria. Ma il senso della «te-nuta» è specialmente visivo. Impeden-do di coglierle nella loro specificità,l’impalcatura le rivela componenti diun insieme che si contrae e si dilata,mostra pieni e vuoti, sia perché dotatodi mobilità interna sia perché muta laposizione di chi guarda. La visione diquesto insieme è più avvincente diquella ottenuta da un montaggio filmi-co. Enuncia una verità da tempo notaai conoscitori d’arte: la produzione diun autore è immaginabile come un’oe-uvre o organismo vivente dove gli ele-menti – formali e/o tematici – valgonoper sé ma anche nel dinamico intrec-cio con gli altri elementi. Sfruttando ereinventando l’idea di oeuvre, la retro-spettiva di Cattelan vorrebbe garanti-re alle opere dell’artista una tenutamultiprospettica. Nel suo disordine or-dinato, la cascata di opere dal soffittooffre loro un invisibile involucro pro-tettivo. La visione dell’insieme superaquella delle parti. Preserva le opere daindagini volte ad appurare se le loroqualità «artistiche» siano davvero di-stinguibili dalla retorica della pubblici-tà e dalle puntuali provocazioni chedagli anni novanta caratterizzano ilmodus operandi di Cattelan.

Al Guggenheim la conquista dell’im-munità delle opere va di pari passocon un processo di de-differenziazio-ne nel quale le opere sacrificano la lo-ro unicità per ritrovarsi assieme nellospazio circondato dalla rampa. Non acaso forse All è il titolo sia della retro-spettiva sia di un’opera realizzata daCattelan nel 2007: nove figure di mar-mo che giacciono supine a terra, ano-nime e indifferenziate nel loro velatoessere cadaveri. Poco importa di cosasiano vittime. L’opera restituisce il sen-so della morte che è di tutti e rendetutti uguali. Un’analoga scoperta del-l’uguaglianza connota la presentazio-ne collettiva del Guggenheim. Il titolodella retrospettiva è interpretabile co-me un’allusione alla richiesta totaliz-zante di siffatte mostre (che pretendo-no di offrire una rassegna esaustivadella produzione di un artista) e al fat-to che Cattelan abbia cercato di soddi-sfare la richiesta inventandosi una for-ma di presentazione che proteggessele sue opere. Così facendo, le ha sì re-se un «tutto» dimostrando la loro «te-nuta», ma ne ha anche attutito le sin-

golarità accentuandone la genericità.Sembrerebbe, cioè, che tenuta e

successo dipendano non tanto dal-l’originalità quanto dalla flessibilità ecapacità di adattamento. Al Guggenhe-im l’arte nasconde l’arte in un sugge-stivo allestimento che mira a esorciz-zare il timore del fallimento – un timo-re che Cattelan ha reso un tema ricor-rente della sua oeuvre. L’esorcismo èspinto al punto che reinvenzione esvalutazione di quanto finora realizza-to dall’artista tendono a coincidere.Come spesso accade con Cattelan,l’ambivalenza è padrona. La creativitàsi estrinseca a patto che l’opera esibi-sca il sigillo dell’incertezza. Nella mo-dernità non esistono condizioni prede-

finite per legittimare il lavoro creativo.Esso poggia sull’incertezza. Cattelanradicalizza questo destino di precarie-tà. Molte delle sue trovate «artistiche»hanno goduto di ampia risonanza me-diatica ma sono così ambivalenti cheviene il sospetto si tratti di un’impostu-ra. Tuttavia il sospetto va bene. Proba-bilmente è previsto dall’artista che si«finge» impostore per meglio inserirsiin un sistema di riferimenti – museo,storia dell’arte, mercato, ecc. – anchecon mezzi che si direbbe stravolgonoquel sistema.

Fingendo l’impostura, Cattelan hagioco facile a rappresentare sofferen-ze e atrocità o a inscenare una ribellio-ne, un disadattamento. Apparendo

inestricabile dalla finzione, il suo lavo-ro ottiene un duplice effetto. Per unverso, sminuisce ogni fiducia nella cre-azione di opere la cui unicità e singola-rità sarebbe tale da rivoluzionare ilmondo in cui emergono. Per un altroverso, conferisce all’arte intesa nellasua genericità il potere di espandersisenza limiti producendo scarti e meta-morfosi comprensibili all’interno delsistema che la definisce. Di questo mi-sto di scetticismo e sistemica sopravvi-venza è una prova la massa di operecascanti dal soffitto del Guggenheimcon la sua domanda di immunità e co-eva intensificazione del generico aidanni dello specifico.

Le considerazioni precedenti valgo-

no pure per il volume-catalogo All cheaccompagna la retrospettiva. Pubbli-cato dal Guggenheim (in Italia è tra-dotto per Skira) e firmato da NancySpector, curatrice del museo, merite-rebbe la stessa attenzione qui dedica-ta alla mostra. Rilegato in similpellerosso scura con sovraimpressi in oro ti-toli e figure (riproducenti due operedell’artista), il libro ricorda la tipologiadei classici venduti a poco prezzo. Imi-ta di quei volumi la simulazione dellusso, il loro rivolgersi alle classi socia-li più modeste e rassegnate ai surroga-ti e alle repliche. Il testo di Spectorsembra adeguarsi a questa atmosfera.Ricalca la popolare tradizione dellamonografia – narra di Cattelan giova-ne, suggerisce affinità tra vita e opera– anche se evolve mediante capitoli te-matici che discutono dall’«estetica delfallimento» alla politica alla societàdello spettacolo. Privo di gerghi specia-listici, il testo armonizza ricostruzionidi eventi con commenti perspicaci ecalibrati. Dichiarando che l’esegesidelle opere di Cattelan è relativa – c’èsempre la chance di trovare altri signi-ficati –, Spector mette i lettori a pro-prio agio, li incoraggia a sentirsi dei po-

tenziali critici.Così come la presentazione delle

opere cascanti dal soffitto le uniscede-differenziandole, il volume-catalo-go propone un’identità d’autore asso-ciabile a quelle di altri autori, innume-revoli e indifferenziati, cui sono statidedicati analoghi libri in similpelle. Inentrambi i casi l’inatteso e l’irriveren-te sposano l’impersonale e l’indiffe-renziato. Coltivando l’ambivalenza,fingendo l’impostura, Cattelan rispon-de all’imperativo di «marcare una di-stinzione». L’imperativo, secondo Nik-las Luhmann, è chiave per il manteni-mento del sistema moderno dell’arte.Permette alle opere di dispiegare il pa-radosso dell’arte che, passando di di-stinzione in distinzione, è libera di fa-re quel che vuole a patto di produrreconnettività autoreferenziale. All, il li-bro e la mostra, sono emblematici diquesta libertà irrealizzabile senza l’as-sunzione di un «tutto» che può signifi-care l’oeuvre di un artista e il sistemadell’arte, come pure lo stato delle cosee la genericità della morte. Da qualchetempo i media riportano che Cattelanavrebbe smesso di produrre opere. Do-po All, la decisione suona come un’en-nesima distinzione: una morte o sacri-ficio che è finale solo e precisamenteperché al servizio di una connettivitàsenza fine e senza vie di uscita.

MODERNISMO

Da Kandinskya Kupka: a Luccala passionesu cartadi PeggyGuggenheim

Botany, Empire and the Birth of anObsession recita nell’originale ilsottotitolo de La confraternita deigiardinieri (Ponte alle Grazie, pp.426, € 22,50) dove Andrea Wulfracconta il montare, appunto, dellavera e propria ossessione giardinierache nel volgere di nemmeno unsecolo, il Settecento, si accese nelcorpo della società inglese finendoper permearne tratti fondamentalidella fisionomia. Se all’inizio delsecolo i giardinieri inglesi imitavanolo stile continentale in giardini«smorti e desolanti… per almenocinque mesi l’anno», mentre laconfusione regnava nellanomenclatura delle poche pianteautoctone prima della diffusionedelle esotiche, già nell’annosuccessivo alla pubblicazione del suoSystema Naturae (1735), Linneodoveva recarsi a Londra perperorare l’accoglienza del suosistema di classificazione proprio nel«paese che stava diventando il piùimportante mercato d’Europa nelcampo della floricoltura». Era lì chePhilip Miller, capo giardiniere delPhysic Garden, aveva da poco (1731)dato alle stampe il suo GardenersDictionary, manuale sistematico digrande successo dove, rivolgendosiin un inglese piano a un pubblico di làdalla cerchia dei collezionistifacoltosi, finalmente si analizzavanocon approccio scientifico aspettipratici del giardinaggio. Era daLondra che il collezionista di piantePeter Collison intratteneva con ilsuo fornitore di semi e piante dalNord America John Bartram quellafitta corrispondenza che per decenniavrebbe reso disponibili per sé e altricollezionisti sottoscrittori quegliarbusti e alberi che in grandequantità avrebbero modificato ilpanorama inglese. E proprio ildiffondersi di quelle specie«resistenti» sarà alla base delsuccesso di Thorndon, il giardino diRobert James Petre, dove forme emotivi del verde erano ora ricreatiutilizzando le caratteristiche stessedegli elementi naturali: portamento estruttura degli alberi, texture dicortecce, toni del fogliame... «Conl’aiuto di Miller e Collinson, Petresmantellò gradatamente le regolesulle quali si basavano i giardinibarocchi». E con ciò, oltre Kent eCapability Brown, la Wulf restituiscei termini della vera e propriarivoluzione colturale e botanica chesi pone a fondamento dell’affermarsidel giardino all’inglese (prestoesportato oltremanica) e ripercorrele tappe del diffondersi in tutti glistrati sociali della passione nazionaleper il giardinaggio. Ossessionepervasiva, con la sempre maggioredisponibilità di piante e con oltre 200vivai nella sola Londra di fine secolo,testimoniata dall’organizzazione diescursioni botaniche nei parchi, dallapubblicazione di opuscoli ealmanacchi botanici da tasca a buonmercato come pure del primoperiodico divulgativo dedicato allabotanica e al giardinaggio (dal 1787,«The Botanical Magazine»), nonchédal successo di pubblico fin tra gliappassionati di romanzi popolari delpoemetto ispirato al sistema diclassificazione sessuale linneiana eintitolato a Gli amori delle piante daErasmus Darwin, nonno di Charles.

ANDREA WULF,OSSESSIONE INGLESE

L’esteticadell’impostore

di CLAUDIO GULLILUCCA

●●●A pochi passi da PiazzaAnfiteatro, da più di due anni emezzo, Palazzo Boccella ospita ilLu.C.C.A. (che sta per LuccaCenter for Contemporary Art),sede espositiva da tener d’occhio,perché sta smuovendoefficacemente l’atmosferamedievale di una delle più bellecittadine toscane. Dopo le mostrededicate al Gruppo Origine edintorni, a Juliet fotografata daMan Ray, a otto minimalisti dellacollezione Panza, alla ricezione diDubuffet in Italia, adesso Carterivelatrici I tesori nascosti dellaCollezione Peggy Guggenheim (a

cura di Maurizio Vanni, fino al 15gennaio, catalogo Silvanaeditorale) dà l’opportunità dirileggere, con taglio intelligente,l’arte fra Stati Uniti e Europa dalleavanguardie agli anni cinquanta.La collezione di Peggy fu uncanone: ragionare su quelmomento della storia significasempre tornare ai suoi gusti e allesue scelte. È quello che accadevisitando questa mostra, dove ilfilo conduttore sono venti dellesue opere su carta (in tutto unasettantina), alcune delle qualifurono esposte alla Biennale«liberata» del 1948, e comunquevisibili solo in rare occasioni. Iconfronti – vedi Kandinskyinsieme a De Kooning o Picasso

con Tanguy – consentono dicapire come si istituissero, nellegallerie, nei padiglioni e poi neimusei di marca Guggenheim,ponti fra le due spondedell’oceano e fra le generazionidell’ante e del dopoguerra.

Nelle pareti di Peggy,l’astrattismo anni dieci andava apreconizzare i colori graffianti deiCoBrA o dei Pollock, il surrealismosi liberava dalla cappa di Breton,gli italiani – Tancredi o Vedova –sgattaiolando dalle censure delPci, trovavano radici in padriamericani o americanizzati. Si faanche luce su personaggi minori,che potrebbero esser ugualmentericoperti di alloro: un nome sututti, quello del ceco Kupka.

CATTELAN AL GUGGENHEIM

DA NEW YORK

Maurizio Cattelan, «Senza titolo», 2003, Colonia, Museum Ludwig. In basso, Peggy Guggenheim

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(7)ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

«L’ULTIMO ATTO» ■ A CURA DI F. MALCOVATI

Mejerhol’d,misteriosa finedi un teatrodi GIANCARLO MANCINI

●●●Nel suo libro linguisticamen-te più fervido e immaginoso Ange-lo Maria Ripellino, nonostante dimolti e geniali e fondamentali ma-estri del teatro russo primo-nove-centesco raccontasse le gesta, auno tributava l’onore di poterlo si-glare con il suo segno epocale, in-scritto nell’Ottobre. Il trucco e l’ani-ma (Einaudi, 1965) derivava infattida un pugno di versi di Boris Pa-sternak dedicati ai Mejerhol’d, Vla-dimir Emil’evic e Zinajda Raich:«Quasi respirando odor di tinta, /vi siete cancellato per il trucco. / Ilnome di questo trucco è anima».

E proprio con la fine della cop-pia praticamente si chiudeva que-st’opera di ineguagliata riviviscen-za, Ripellino smetteva i panni delgioioso trovarobiere per lanciareun funebre lamento concluso con:«Sia dunque maledetta l’intolleran-za con tutti i suoi piccoli schiavi,che fanno della Non-legge supre-ma con la sua giungla di borghe-succi spietati, sempre pronti ad ur-lar “crucifige”, a proteggere la ti-rannia, ad impancarsi a salutisti, atutori di “virtù” conculcate».

Zinajda Raich fu trovata sgozza-ta in casa sua dopo l’arresto diMejerhol’d, avvenuto il 20 giugno1939. Poco però era riuscito a sape-re Ripellino all’epoca della scrittu-ra del libro sui suoi ultimi mesi, dicui anche la data di morte era anco-ra incerta («febbraio 1940?»). Giun-ge dunque necessario L’ultimo at-to. Interventi, processo e fucilazio-ne (La Casa Usher, pp. 233, €

22,00), a cura di Fausto Malcovati.Per illuminare finalmente l’ultimopezzo di strada compiuto dal multi-forme «Dottor Dappertutto», l’anti-naturalista, l’inesausto, il sovverti-tore, allenatore di corpi plasmatidall’impeto dell’evoluzione e poidello sberleffo, della burla verso iburocrati e gli uomini in divisa An-cien régime. «Un secondo di pausa– scriveva Ehrenburg – è la morte.Tutto di fuori. Non più movimentidell’intimo. Zio Vanja e sorelle, re-state a casa! Piuttosto gli acrobati!Il salto è estasi, il salto è tragedia.Le “riviviscenze”, putredine».

La rivoluzione lo contagia di un

ardore fanatico, negli anni dellaguerra civile fa lanciare in aria i di-spacci dell’Armata rossa nella lottacontro i bianchi mentre gli spetta-tori scattano in piedi per intonarel’Internazionale alla notizia dellapresa dell’ultima roccaforte diVrangel’ in Crimea. Eppure nel pie-no dei tremendi processi di MoscaMejerhol’d viene risucchiato pro-prio con l’accusa di disinteresseverso la costruzione dello Stato so-cialista.

Il primo passo verso la fine, tra-mite un articolo pubblicato da Pla-ton Mihaijlovic Kerzencev sullaPravda il 17 febbraio 1937, e intito-lato Un teatro estraneo. Nel venten-nale dell’Ottobre, si scriveva,Mejerhol’d non aveva allestito nes-sun testo generato dalla nuova si-tuazione, in ciò mostrando una sfi-ducia nella capacità di produzioneculturale del proletariato.Mejerhol’d, sentendo la stretta av-vicinarsi, aveva tentato di inseriredue testi «nuovi» sui quali peròugualmente si era scagliato il Co-mitato per gli affari artistici vietan-done, dopo la prova generale, lamessa in scena pubblica. La suaesperienza era alla prova dei fatti,secondo Kerzencev, una «banca-rotta», artistica e ideologica. Serveancora alla causa sovietica un tea-tro così, chiedeva retoricamenteKerzencev?

Si riunisce il collettivo del GO-STIM, Mejerhol’d prende la parolaper primo, cerca di giocare d’astu-zia, dando ragione a Kerzencev,parla al plurale, però nessuno ac-cetta più di far parte assieme a lui.Che parli per sé. La macchina delterrore individua i suoi obiettivi liisola e poi colpisce in modo da ren-dere il colpo inesorabile. Solo un fa-legname interviene in sua difesa,Kanyskin. «Se al Maestro non saràofferta la possibilità di mostrarequel che aveva in mente, e non glidaranno il palcoscenico che vole-va, l’arte teatrale non conosceràmai quel segreto». Mejerhol’d ri-prende la parola per un’ultima vol-ta, ripercorre per ore tutta la suapratica artistica, Blok, Majakovskij,il simbolismo, la biomeccanica,Staniskavskij. Non serve a nulla.

Il vecchio maestro è l’unico adaccoglierlo dopo la caduta in di-sgrazia, con il GOSTIM chiuso perdecreto si riprende «l’unico allie-vo che abbia mai avuto». Pochimesi dopo Stanislavskij muore.Mejerhol’d è solo per sempre. Il20 giugno 1939, alle 7 di mattina èarrestato, viene portato alla Lu-bjanka. Picchiato, firma una di-chiarazione di colpevolezza: era alservizio dei nemici del popolotrozkisti. Ne firmerà altre di dichia-razioni «spontanee». Accusato an-che di essere spia al servizio digiapponesi e inglesi. Giusto pochesettimane prima era stato som-merso dagli applausi al Congressodei registi sovietici. Lui aveva cer-cato di mettersi dietro Višinski, ilterribile orchestratore di quella gi-gantesca ghigliottina che furono iprocessi di Mosca, così da farlisembrare diretti a lui. E invece no,erano solo per Vladimir Emil’evicMejerhol’d. Della cui morte peranni nessuno riuscì a sapere nulladi preciso.

FENOMENOLOGIE LETTERARIE

PLAGIO

Darriussecq, onoreai ladri di parole

Antinaturalistae rivoluzionario,nel 1939finì risucchiatonella macchinasovieticadel terrore. Orasul suo processoc’è un po’ di luce

Dietro l’accusa di plagio si cela la lacaniana«paranoia di autopunizione»: una idioziache, quando va al potere (per esempio col regimesovietico), diviene strumento di annientamento...

di TOMMASO PINCIO

●●●«Il plagio è una nozione idiota,la cui frequentazione rende idioti»:chiunque viva di letteratura, non im-porta in quale veste, se di critico,scrittore o semplice lettore, presto otardi si trova a fare i conti con questaverità crudamente espressa da MarieDarrieussecq nel saggio Rapporto dipolizia (Guanda, «Biblioteca della Fe-nice», traduzione di Luisa Cortese,pp. 331, € 20,00). Può darsi che la ve-rità del problema, la sua idiota natu-ra cioè, non venga colta né presto nétardi, ma è pressoché impossibilenon venire carezzati almeno una vol-ta dal suo venticello calunnioso.

A me è capitato guardando unfilm. Dopo poche sequenze, quandola trama muoveva ancora i primi pas-si, mi è sorto il sospetto che il registaavesse costruito il tutto attingendo inmaniera cospicua e spudorata a unmio romanzo. Non ebbi bisogno diattendere la fine perché il sospetto sitramutasse in certezza. Giunti i titolidi coda, avevo raccolto elementi asufficienza per fugare ogni dubbio.L’idea di protestare le mie ragioni da-vanti a un giudice neppure mi sfiorò,e non tanto per la difficoltà di dimo-strare un fatto pur evidente, quantoperché l’accusa di plagio è incompati-bile con i miei principî.

Originalità, invenzione nocivaHo sempre considerato l’originali-

tà un’invenzione nociva, oltre che ipo-crita. I racconti nascono da altri rac-conti, le parole da altre parole. Scrive-re storie non è che un continuo rima-sticare. Lo scrittore che teme di ruba-re o di essere derubato non è dunqueun vero scrittore. Malgrado questamia convinzione, volli tuttavia confi-dare a qualcuno il furto legittimo dicui mi sentivo vittima. Fu a questopunto che si manifestò l’idiozia di cuiparla Darrieussecq.

Per cominciare, scelsi un giudicenon esattamente immune da conflit-ti d’interessi: mio fratello. Inoltre,quando il giudice mi sentenziò chenon ravvisava somiglianze di sorta,restai di avviso immutato. Conclusiche mio fratello non aveva prestatola dovuta attenzione ai dettagli. Ciònon mi impedì però di conservarequel minimo di lucidità necessario

per sentirmi uno sciocco. Più chiara-mente: mi resi conto che non mi in-teressava affatto appurare la verità;ciò che davvero mi premeva era al-tro.

È convinzione di Marie Darrieusse-cq che dietro l’accusa di attingere ol-tre il lecito all’opera altrui si nascon-da il desiderio folle di essere derubatidelle proprie parole. Questo deside-rio perverso sarebbe a sua voltaespressione del bisogno di sapersi let-ti e amati, un bisogno simile a ciòche Gatian de Clérambault definì ero-tomania, «l’illusione delirante di esse-re amati», concetto sviluppato ancheda Lacan nei termini di una «parano-ia di autopunizione». Darrieussecq,nota per romanzi quali Troismi eTom è morto, ha deciso di inoltrarsiin un simile ginepraio perché in piùdi una circostanza si è vista accusatadi plagio.

Ma non solo. Mentre lavorava alsuo unico libro autobiografico, Unabuona madre, fu ossessionata dal-l’idea che altri, dopo di lei, osasseroscrivere del tema affrontato in quellepagine: la maternità procrastinata.Ulteriore stimolo, nonché motivo diconforto, fu la scoperta che persinoPaul Celan, la cui voce di poeta è or-mai all’unanimità considerata unicae inimitabile, dovette subire l’ontadella plagiunnia. Claire Goll, vedovadel poeta Yvan, lanciò infatti ben trecampagne di diffamazione da cui Ce-lan uscì devastato. Che lo si accusas-se di avere copiato equivaleva per luia un tentativo di eliminazione fisica.Le parole erano la sola cosa che glirestava o, perlomeno, quella che rite-neva più sua: essere bollato come la-dro di parole era peggio di un’infa-mia, significava spossessarlo dellasua identità, annientarlo. Cercare didifendersi, confutare le prove porta-te a suo carico sarebbe stato inutileoltre che umiliante. Un esempio: Ce-

lan avrebbe copiato il frammento diverso «sangue di luna» perché in unacomposizione di Goll si legge: «unagoccia del sangue lunare». Il buonsenso imporrebbe che simili coinci-denze fossero pesate senza perderedi vista l’insieme, ma l’idiozia insitanella nozione di plagio prevede inve-ce l’esatto contrario: una spasmodi-ca attenzione al dettaglio, non im-porta quanto irrilevante nell’econo-mia dell’opera. Quasi mai perciò l’ac-cusa di plagio risponde a criteri di ra-gionevolezza; è piuttosto e perlopiù«un tentativo di far impazzire l’al-tro».

Plagiunnia contro MajakovskijÈ nella Russia dei primi anni della

Rivoluzione che la plagiunnia comin-cia a essere usata sistematicamentequale efficacissimo strumento di an-nientamento. Caso emblematicoquello di Majakovskij, che nel 1927ebbe l’idea, non proprio brillante, diinsultare un protetto di Stalin. Fuchiesto che venisse «rimesso al suoposto» e quale miglior modo dellaplagiunnia? Lo si accusò dunque dicustodire i manoscritti del defuntoChlebnikov e di pubblicarli a poco apoco a suo nome. Tre anni dopo, nelcorso di una serata letteraria, Majako-vskij esclamò: «Mi si accusa di cosìtanti peccati, che ho o che non hocommesso, che a volte mi capita didirmi che dovrei andare da qualcheparte e restarci per un anno o due, senon altro per non ascoltare più le ac-cuse». Ci andò davvero da qualcheparte, e non per un giorno o due. Ilsuo sfogo precedette infatti di pochigiorni il gesto estremo che l’accomu-na a Celan, il suicidio.

Del resto, non c’è scampo. La tesidi fondo di Darrieussecq è che «duelibri, quali che siano, letti in paralleloin un’ottica malevola o paranoica,potranno sempre passare per plagi

l’uno dell’altro», quando invece biso-gnerebbe dare per scontato il «plagioper anticipazione», come lo chiamaPerec alludendo al fatto che, in quan-to creature appartenenti a una mede-sima specie e mosse pertanto da biso-gni e stimoli analoghi, gli scrittori in-corrono fatalmente nella sconvenien-za (se mai è una sconvenienza) diproporre temi, racconti e accosta-menti di parole già scritti.

Se il buon senso finisce per averela peggio è perché cozza con un’ideamolto in voga, sebbene vecchissima.All’origine di tutto ci sarebbe Plato-ne. Fu lui, affermando che l’invenzio-ne poetica parla al «posto di coloroche hanno fatto la guerra» ossia dichi ha sofferto in prima persona, aporre le basi del sentimento diffusoin base al quale leggere narrativa èuna perdita di tempo. Ai raccontid’invenzione andrebbero preferiti lavera Storia e i documenti di vita vissu-ta, perché, ci dice Platone, «l’imitazio-ne non conosce nulla di essenzialesul conto di ciò che imita: la sua imi-tazione è uno scherzo più che un’atti-vità seria».

Accusare di plagio e lamentare unaqualche forma di inautenticità sonoin fondo la stessa cosa. Ne consegueche, in teoria, qualunque sforzo di im-maginazione, o anche di sempliceempatia, reca la macchia dell’appro-priazione indebita. Calarsi nei pannidel prossimo, immedesimarsi, signifi-ca in fondo appropriarsi di cose d’al-tri, di esperienze che non ci apparten-gono e pertanto, nella più indulgentedelle ipotesi, dovrebbe essere stigma-tizzato come un atto di usurpazione.Che nella sostanza non sia così pareevidente a tutti, ringraziando il cielo.Ciò non basta però a riscattare la no-zione di plagio, a renderla estranea al-la pericolosa e censoria idiozia cheMarie Darrieussecq ha inteso sma-scherare.

Georgij Petrusov, «Caricatura di AlexandrRodcenko», 1933-’34, Colonia, GalleriaAlex Lachmann

Page 8: Alias domenica de Il Manifesto N. 1 / 8 gennaio 2012

(8) ALIAS DOMENICA8 GENNAIO 2012

JOSEF KOUDELKA

Riemerge da Contrastoil libro-fantasma degli zingari

●●●Teoricamente sovraesposto, il saggio che MichelPoivert dedica a La fotografia contemporanea(Einaudi, pp. 237, € 45,00, illustratissimo) intende dareuna sistemazione per categorie concettuali allaproduzione fotografica dall’alba degli anni ottanta a oggi.L’assunto di fondo è che si stia uscendo da una fase, gliultimi due decenni del Novecento, caratterizzata da unatetragona identificazione fotografia-arte, fotografia, cioè,come luogo privilegiato dell’espressione, comeprovocazione, ma tutta interna al ‘sistema dell’arte’,delle pratiche tradizionali. Poivert sembra piùinteressato a cogliere l’ambiguità di status di un mezzoin bilico tra i generi e gli utilizzi, e a derivare proprio daquesta incertezza una possibile – sua l’espressione –«etica del moderno». Se non esiste una separazionenetta tra «immagini culturali» e «immagini artistiche», seun reportage può ambire al riconoscimento intellettualequanto un’icona di Cindy Sherman, se la teatralità di unafoto da set (Crewdson) confina con quella di ‘pose’tratte dal quotidiano (Sultan), il critico della fotografia sifa sensore di una serie ben più abbondante e variegatadi voci del contemporaneo, trascegliendole non piùsoltanto in base al coefficiente formale ma al grado dicritica del presente e di avventura utopica chemostrano di saper offrire. (f.d.m.)

MICHEL POIVERT

Fotografia contemporanea,non più solo Arte

●●●Nell’Europa anni sessanta tagliata dalla cortina di ferroi rom si chiamavano ancora zingari (gitans, gypsies), e il cecoJoseph Koudelka li pedinava nei loro villaggi di baracche conle tendine ai vetri nei campi gelati della Slovacchia, dellaBoemia, della Moravia, della Romania, con puntate in Franciae Ungheria. Da quelle campagne fotografichedall’attrezzatura leggera con obiettivo grandangolare, piùidoneo a catturare elementi di centrifuga, sarebbe nato illibro più conosciuto e forse più bello di Koudelka, uscito nel1975 in Francia col titolo Gitans, la fin du voyage. Ma non eraesattamente quello che il fotografo aveva pensato e montatoa Praga (Cikáni), che non vide mai la luce a causa dell’esiliopolitico nel ’70. Ora, sulla base del menabò originario edefinitivo, quel libro fantasma vede la luce, con l’aggiunta diulteriori scatti effettuati sino al 1971: da noi lo pubblicaimpeccabilmente Contrasto (Koudelka Zingari, € 59,00),e il libro non è certo per palati patinati ma piuttosto varicodificato al cuore di un dibattito umano e politico sepossibile ancora più ultimativo per i rom d’Europa e d’Italia –come si evince dall’excursus storico di Will Guy. L’impattodi Koudelka con gli zingari è sempre teatrale, con una messain scena dei primi piani e dei contrasti di luce chedrammatizzano i soggetti, donne, bambini, vecchi. Un teatrodi posa naturalistico che li vede attori per un momento:come emersi dal raggio di luce di un Dante che passa. (r.a.)

di ROBERTO ANDREOTTI

●●●Riuniti sotto il titolo un po’ a chia-ve Milton Gendel: una vita surreale, so-vrapposto nel libro-catalogo all’autori-tratto sull’Appia antica con la silhouet-te dell’autore in azione che entra nel-l’inquadratura (1950), due recentiomaggi romani – uno all’AmericanAcademy in Rome (i ritratti); l’altro alMuseo Carlo Bilotti a Villa Borghese(chiude giusto oggi), decisamente piùpanoramico comprendendo accantoalle fotografie gli inchiostri ‘surrealisti’su carta degli anni quaranta à la (e di)Motherwell, amico di gioventù, docu-menti e taccuini, fascicoli di «ArtNews» con le corrispondenze dall’Ita-lia (Burri, Scialoja, Guttuso), una cam-pionatura della collezione (Afro, LucioManisco, Rotella, Colla, de Kooning,Calder, Tancredi, John Rudge) – han-no riproposto i materiali, come si sa-rebbe detto negli anni settanta, di unaavventura intellettuale spesa soprattut-to con la Rolleiflex al collo: ma una Rol-lei ‘senza pose’, priva cioè di aura pro-fessionale e dei parafernalia da artistain stile Cecil Beaton – infilzato peraltroda Gendel in un’inquadratura ferialedavvero, con la caraffa in mano «e in te-sta un buffo copricapo», nella casa dicampagna della principessa Margaret,1965.

A una definizione del newyorkeseMilton Gendel (1918) ma per tutti«americano di Roma» – città in cui vivesenza interruzioni dal ’50 quando arri-vò con una borsa Fulbright –, occorre-rebbe più di una mezza dozzina di vo-ci, quasi tutte in lizza per una suprema-zia interiore, se non disciplinare: scien-ziato, critico d’arte (e giovane assisten-te di Meyer Shapiro), giornalista (stori-co corrispondente dall’Italia per gli Sta-ti Uniti), scrittore, fotoreporter e ritrat-tista, collezionista furioso di oggetti mi-stilingui alti e bassi, un po’ di tutto se-condo la matrice bretoniana del-l’objet... Probabilmente di nessuno diquesti lemmi egli si riconoscerebbe de-gno sino in fondo, tenendo fede aun’ironia tra gli amici proverbiale. Ra-ra avis. Giornalistiche etichette rivivo-no (tollerate?) nel sito ufficiale e nellerade pubblicazioni: «il surrealista in tu-ta mimetica», ad esempio. Redattorecon Motherwell della rivista «VVV», de-cide di arruolarsi nell’esercito america-no (’42), una mossa indigeribile per ilcapo Breton e gli artisti del GreenwichVillage – in fuga da Parigi occupata –,che Milton ventenne frequentava e as-sorbiva entrando nelle riunioni pro-grammatiche, nelle gallerie, nelle tipo-grafie, negli scatti di gruppo che ce litramandano. Nelle loro file anchel’amico David Hare: una cui scultura ir-radia come d’oro l’autoritratto in dis-solvenza (’48) di Gendel, seduto sul pia-nerottolo della scala anti-incendio aWashington Square, con la sovrappo-

sta skyline di Manhattan e un tetto (ar-desia?) che ricorda i verdi del Congdontardo rifugiatosi nella Bassa lombarda.A Hare (1917-’92) Milton ha dedicatopochi anni fa, in occasione della retro-spettiva ai Sassi di Matera, un bellissi-mo saggio – committente l’infaticabileGiuseppe Appella – che ricostruisce datestimone, come in un film di Scorse-se, gli anni surrealisti e la comune gio-ventù al Village.

Gendel, va detto, è stato soprattuttofotografo in nero, di ascendenza «strai-ght». Perciò nell’impossibilità di dareconto delle molte vite: artista – s’è ac-cennato –, sperimentatore di mimetiz-zazioni militari nella Compagnia inge-gneristica di Camouflage, inviato a For-mosa come membro dell’unità investi-gativa per i crimini di guerra, consulen-te di Adriano Olivetti ecc., potrà aiutar-ci a profilarne la personalità espressiva– del resto esaurientemente ricostruitanei saggi di Peter Benson Miller e Bar-bara Drudi (catalogo Hatje Cantz Ver-lag) – una simbolica campionatura deipiù celebri scatti testè esposti (sarebbe-ro oltre 70.000 i negativi in catalogazio-ne). Lasciamo però sullo sfondo i duetuttora sorprendenti album topografi-ci: la Sicilia del Piano Marshall effigiatacome un reporter Magnum al seguitodella fotografa americana Marjorie Col-lins, e la Cina 1945-’46. Viene più facilepuntare lo sguardo a Roma, una Romaancora intrisa di mondanità internazio-nale in corsa per l’ultimo Grand Tour,fino agli anni settanta, poi diluvio. Un

punto di sintesi interpretativa può es-sere l’understatement, esercitato condifferenti, calibrati dosaggi sia verso isoggetti a tiro – e spesso si tratta di‘amici’ inavvicinabili come la Reginad’Inghilterra –, sia verso la retorica del-la Fotografia in quanto arte che immor-tala. Anche quando sono impegnatesul piano compositivo: Piero Doraziocon alle spalle i campanili di Trinitàdei Monti (1950), Toti Scialoja col Cor-riere della Sera che squaderna lo slo-gan (allusivo?) della benzina: «Morden-te. Slancio. Rendimento del motore»,le foto di Gendel lasciano sempre circo-lare leggerezza. La principessa Marga-ret può scherzare sotto i suoi occhicon una maschera accanto a HaroldActon (Villa La Pietra, 1983); Iris Origorimanersene a letto nella penombraaustera della camera, senza dover assu-mere l’allure di Berenson, lui sì fattosiimmortalare a letto, con leggio, da Da-vid Lees ed Emil Schultness, sulla co-pertina di Tramonto e crepuscolo.

Cambiando scena, Mochetti scher-za di profilo con la sua Freccia in accia-io passata alla collezione Carandente(1978); Philip Johnson è còlto nella tra-sparente Glass House, Connecticut,mentre fasci di luce paralleli, interpre-tati da Gendel, arredano architettoni-camente l’inquadratura raddoppian-done il mood modernista; Elisabetta IIcome una colf dà da mangiare ai cani,oppure s’aggiusta il foulard nella tenu-ta di Balmoral (a margine si dovrà os-servare che nessuno aprirebbe la porta

al proprio assassino se non si fidassedi lui). Ancora, il magnate del petrolioPaul Getty dietro un bacile romano so-stenuto da un capitello corinzio, a PaloLaziale, dove «nei primi anni sessantaacquistò i ruderi di un casino di cacciarinascimentale» trasformato in museo«per la cianfrusaglie romane trovatedurante il restauro». Cianfrusaglie è unbuon termine sprezzato per svelare ilGendel collezionista ora ospite di Pa-lazzo Primoli, sopra il Museo Napoleo-nico. Nell’altro lato aleggia il fantasmadel professor Praz, coinquilino la cuinomea – che il passare degli anni e so-prattutto il wit dei romani non accen-nano a sgonfiare – non deve avere sfio-rato un uomo come Gendel che ha fat-to dello humour scudo e arma di stile.M.P. peraltro figura nella lista di perso-nalities frequentate che egli ha avutola cortesia di fornirmi, e ci resta l’alluci-nato ritratto che gli fece sul sofà, 1982:una maschera Kabuki.

Al genere carpe diem o, se si preferi-sce altra enciclopedia, ruit hora, si vor-rebbero assegnare certe riprese nellequali l’eternità degli interiors romani,e magari il rango dei ritratti, sono ipsofacto demoliti, in un soffio: come An-dré Leon Talley e Lord Snowdon trave-stiti in pellicce Fendi nel cinquecente-sco Palazzo Ruspoli, per una sfilata.Perfidamente il fotografo: «La pelle scu-ra di Talley contrasta con il biancoredella pelliccia di lince nella quale eraavvolto, mentre Snowdon ha assuntol’espressione altera di una mannequinche ancheggia sulla passerella». Picnica Villa Pamphilj allestito da GeorginaMasson, storica e biografa autrice del-la più anglosassone delle CompanionGuide to Rome: Gendel pesca unEvelyn Waugh seccato all’idea di seder-si per terra; e infatti scandalizzò gli au-

torevoli ospiti «esigendo tavoli e se-die».

Ma che ruolo giocano questi brevi te-sti – Milton, va ribadito, è fior di critico–, impaginati di solito accanto a quelliche egli chiama, abbassando, «incontrifortuiti»? L’esigenza didascalica di rico-struire l’occasione mondana o socialeche sta a monte degli scatti è intrisa diun umorismo, che, se possibile, sot-trae ulteriore aura, ammesso ne fosserimasta dopo l’emulsione: di sicuroquesta grazia autoironica abbatte il mi-to inscalfibile dei campioni, o mostri,dell’attimo. L’attimo che rese celebrel’insuperato Cartier-Bresson, si coglieal volo o si aspetta talmente a lungo dacostruirselo? Resta che Milton Gendelcominciò a riprendere per documenta-re visivamente i propri lavori, vuoi diprogettista, vuoi di giornalista, vuoi ditecnico ingegnere, e in fondo non hamai abbondonato questa concezioneausiliaria della fotografia, risparmian-dosi fra l’altro l’ossessione espressiva e‘identitaria’ dell’Autore. Anche perquesto l’esigenza di commentare leproprie stesse immagini è un interes-sante tema semiotico. Vengono inmente, è ovvio, gli esercizi parola/figu-ra di Max Ernst o Magritte, mentre percerti accostamenti iconici si è giusta-mente richiamata la tecnica dei «cada-veri eccellenti». Ma quando ci rivelasenza sussiego le banali occasioni (inrealtà spesso molto ‘esclusive’) chehanno consentito la precipitazione for-male che stiamo visualizzando, o l’ori-gine casuale di certi paradossi tipo laRolls Royce affrontata a un’oca, lo scrit-tore umorista Milton Gendel conden-sa in un gustoso apologo esistenzialecome uccidere il miracolo della foto-grafia. Come se dicesse «ma sì, vi spie-go perché io mi trovavo là».

Il fotografoche ha giocatocon l’aura

Milton Gendel a New York,1948, in un autoscattodavanti a una sculturadi David Hare.In alto, in piccolo, i ritrattidegli amici artisti: Burri,Dorazio, Mochetti

Vip passati al setaccio dell’understatement,in attimi magici della Roma anni cinquantae sessanta; artisti amici da Burri a Scialoja,e situazioni mondane uccise con «wit» surrealista

GENDELRITRATTO D’ARTISTA DAL VILLAGE A PALAZZO PRIMOLI