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1 XXIX CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI UNA DIMENSIONE EFFICACE PER I SISTEMI LOCALI TERRITORIALI Salvatore DI BARI 1 , Giulia ANGELELLI 2 1 Università degli Studi di Bologna, Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale, Viale Risorgimento, 2 – 40100 Bologna (BO) 2 Regione Emilia Romagna, Via dei Mille, 21 – 40100 Bologna (BO) SOMMARIO Nel corso degli anni si è fatto ricorso, nell’ambito della pianificazione territoriale di area vasta, all’utilizzo di unità intermedie di programmazione al fine di analizzare e definire le politiche di governo e sviluppo del territorio. L’esigenza ancora attuale di far coincidere tale dimensione intermedia con la dimensione reale di ambiti territoriali funzionali, trova conferma nei recenti progetti europei (Espon, 2006) e nella volontà degli enti di programmazione di offrire modelli di assetto del territorio efficaci e facilmente governabili, cercando nel contempo di individuare empiricamente un metodo per determinare aree territoriali contraddistinte da omogeneità in termini di dinamiche e polarizzazioni urbane. Il presupposto di tale scelta, nel caso dell’Emilia Romagna, è contemplato anche nella vigente legge urbanistica regionale (LR 20/2000) che invita Province e Comuni a ridefinire le loro funzioni fondamentali per ridurre costi ed evitare sovrapposizione di competenze (sussidiarietà e semplificazione amministrativa). .

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XXIX CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI UNA DIMENSIONE EFFICACE PER I SISTEMI LOCALI TERRITORIALI Salvatore DI BARI1, Giulia ANGELELLI2 1 Università degli Studi di Bologna, Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale, Viale Risorgimento, 2 – 40100 Bologna (BO) 2 Regione Emilia Romagna, Via dei Mille, 21 – 40100 Bologna (BO)

SOMMARIO

Nel corso degli anni si è fatto ricorso, nell’ambito della pianificazione territoriale di area vasta, all’utilizzo di unità intermedie di programmazione al fine di analizzare e definire le politiche di governo e sviluppo del territorio. L’esigenza ancora attuale di far coincidere tale dimensione intermedia con la dimensione reale di ambiti territoriali funzionali, trova conferma nei recenti progetti europei (Espon, 2006) e nella volontà degli enti di programmazione di offrire modelli di assetto del territorio efficaci e facilmente governabili, cercando nel contempo di individuare empiricamente un metodo per determinare aree territoriali contraddistinte da omogeneità in termini di dinamiche e polarizzazioni urbane. Il presupposto di tale scelta, nel caso dell’Emilia Romagna, è contemplato anche nella vigente legge urbanistica regionale (LR 20/2000) che invita Province e Comuni a ridefinire le loro funzioni fondamentali per ridurre costi ed evitare sovrapposizione di competenze (sussidiarietà e semplificazione amministrativa). .

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1 I RIFERIMENTI EUROPEI PER LA AREE URBANE FUNZIONALI

Nell’Europa dei ‘ventisette’ il primo problema delle regioni periferiche è quello di conseguire gli obiettivi di integrazione fissate nel 1999 dallo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE) che richiede che per garantire uno sviluppo regionale equilibrato, occorre perseguire un modello di sviluppo policentrico finalizzato ad impedire un’ulteriore ed eccessiva concentrazione della forza economica e della popolazione nei territori centrali dell’Unione europea. Solo sviluppando ulteriormente la struttura, relativamente decentrata, degli insediamenti è possibile sfruttare il potenziale economico di tutte le regioni europee. Il problema che si pone è dunque inserito nella più generale tematica di consolidare una struttura policentrica integrata, alla quale riferire regioni urbane geograficamente dissimili, ma economicamente strutturate in modo analogo, al fine di migliorare la competitività dell’Unione europea ed aumentare la coesione territoriale. Se la struttura policentrica europea è fondamentalmente orientata ad un assetto territoriale volto a migliorare la competitività di sistema, tuttavia a livello nazionale/transfrontaliero/interregionale da tempo è stata ricercata dai singoli paesi una politica di sviluppo del territorio policentrica e spesso anche gerarchizzata. Negli stati più piccoli ma non soli in essi (si pensi al ruolo di Parigi in Francia, di Vienna in Austria, o Budapest in Ungheria), la riorganizzazione delle città è stata condizionata dalla volontà politica di ammorbidire il ‘potere’ della capitale attraverso la riqualificazione degli aggregati urbani impreditorialmente più vivaci, ai quali affidare un ruolo di riequilibrio (ad esempio la designazione di Lione, Lille e Bordeaux nell’assetto metropolitano francese; Vienna, Linz, Graz in Austria; Madrid, Barcellona, Valenzia, Bilbao in Spagna). In tutti i casi, qualunque sia la dimensione dello stato associato, la sfida da vincere consiste nel passare dal dominio di una città (spesso la capitale) a una rete più equilibrata di città, migliorando i risultati economici ed i servizi mediante gruppi/reti di città vicine e attraverso il coordinamento delle politiche nazionali. Ciò richiede la disponibilità nelle polarizzazione prescelte, di aggregati di servizi di livelli medio-alti comprendenti infrastrutture territoriali moderne ed efficienti, attrezzature di supporto qualificate anche in vista di specifici bisogni sociali, ecc. Accanto a questi obiettivi di natura e gestione prevalentemente pubblica, un decentramento efficace, non può ignorare la necessità di predisporre i supporti economici e finanziari di sostegno alle attività che la comunità locale organizza per stimolare la competitività economica e migliorare la coesione territoriale. A questo proposito, i centri urbani svolgono un ruolo importante in quanto in essi si svolge gran parte delle attività economiche (SSSE, 1999). Le politiche dovrebbero riguardare, pertanto, il miglioramento della competitività di città vicine e di aree urbane funzionali (mediante il raggruppamento, la creazione di reti, ecc.) e il riequilibrio fra le regioni economicamente più forti e il resto della struttura urbana.

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Nelle regioni presenti all’interno degli stati nazionali, il programma di riassetto comporta l’integrazione degli uno o due centri regionali storicamente dominanti con un numero variato di centri piccoli e medi ai quali conferire servizi di livello regionale. Una politica territoriale in tal senso richiede la formazione di alleanze strategiche stabili fra città, tanto più ampie quanto più ridotta è la dimensione della popolazione dei centri dei quali si richiede l’integrazione. Occorre notare che, laddove manca una struttura di città sufficientemente configurata, si dovrà ricorrere a forme di parternariato rurale-urbano fondati su progetti di sviluppo congiunti. Una politica di questa natura fa proprio l’intendimento governativo emerso nella gestione delle grandi aree metropolitane degli Stati Uniti e oggi presente anche nei più grandi Paesi emergenti asiatici come Cina e India. La diversa situazione storica europea, nella quale la formazione di città dominanti ha proceduto in parallelo con la presenza di stati di piccola e media dimensione, potrebbe creare perplessità nell’adozione di criteri che hanno trovato origine e motivazione in una realtà territoriale storicamente e geograficamente tanto dissimile. Tuttavia la necessità di individuare nuclei urbani di addensamento funzionale di attività terziarie e di servizio (quelle che formano la maggior domanda di occupazione nell’Occidente europeo), giustifica la scelta delle città capitali come primo raggruppamento di centri ai quali affidare il ruolo di nodi propulsori di gran parte delle strategie che tendono ad un coinvolgimento globale e progressivo dei territori. La motivazione va ricercata nel fatto che le metropoli sono le uniche ad offrire grandi economie di scala e di conoscenza e sono perciò adatte a concentrare scienza e tecnologia, nodi organizzatori della logistica mondiale, finanza internazionale e, più recentemente, produzione e servizi della new economy. Il processo che le scelte europee stanno perseguendo, visivamente riassunte nella Figura 1, pare prefigurare un modello di sviluppo centro-periferia che potrebbe avere ancora nel pentagono centrale europeo la sua matrice originaria. Probabilmente passare dal pentagono ad archi che richiamano la banana blu di Les Corbusier nei suoi vari cromatismi, risponde all’ansia di coinvolgimento delle varie regioni interPaese dell’Europa unitaria. Al classico asse padano-renano dell’architetto franco-svizzero si aggiungono quella gialla del mediterraneo occidentale fra Catalogna, Provenza e Campania, la rossa fra le città anseatiche ed asburgiche, la nera adriatica-russo meridionale, e la verde fra Scozia, Danimarca Svezia Finlandia (Figura 2).

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Figura 1 – Il pentagono europeo. Fonte: Espon, 2006.

Queste forme che sottendono la presenza di strutture di comunicazione privilegiate da un’ampia frequentazione di popoli coinvolti, dovrebbero innescare uno sviluppo regionale equilibrato dell’intera nuova Europa. Ne risulterebbe un modello policentrico al quale è affidato il compito prioritario di impedire quell’eccessiva concentrazione della forza economica e della popolazione nei territori centrali dell’U.E., che traspariva dal pentagono Londra, Parigi, Milano, Monaco, Amburgo. Negli ultimi lustri, con l’apertura dell’Europa verso nuove frontiere, si è modificata la marginalità dei territori periferici, producendo l’inevitabile riordino nelle gerarchie territoriali ed offrendo nuove prospettive a quelli che prima erano territori marginali. Questi ultimi, divenuti semicentrali, sono tuttora caratterizzati dalla presenza di diffusi squilibri territoriali vari nella natura e nella intensità: dai più ovvi squilibri demografici a quelli nella dotazione di infrastrutture di trasporto/accessibilità, a quelli relativi alla cosiddetta società della conoscenza, al potenziale di ricerca e sviluppo, alle tecnologie di telecomunicazione, alla struttura dei sistemi e delle aree urbane, alle forme di interazione fra zone urbane e rurali, ecc. Giunti quasi al termine del primo decennio del nuovo secolo, il territorio europeo appare

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disseminato da un eccessivo numero di città scarsamente integrate nella dinamica europea pur appartenenti alle regioni centrali. Nello stesso tempo, le antiche capitali situate nelle regioni periferiche dell’UE, pur mantenendo l’attrattività nei confronti del proprio stato, appaiono operare in un contesto geografico ancora isolato, mentre la collettività dei loro imprenditori locali vorrebbe già interagire direttamente con i principali centri decisionali europei e globali. Il coinvolgimento progressivo delle nuove periferie, che necessariamente coinvolge contemporaneamente la riqualificazione delle nuove centralità, potrebbe trovare nella costruzione di sistemi urbani policentrici internazionali fra stati membri, lo strumento sostenibile ed equo rispetto a quello monocentrico o dei piccoli insediamenti isolati (SSSE).

Figura 2 – Nuvolati G. Le città nella rete. Scenari di sviluppo dei sistemi urbani. Integrazione SSSE, 1999.

1.1 Il territorio come spazio dinamico di integrazione

Secondo questa ottica sembra ancor più necessaria la creazione di zone dinamiche di integrazione costituite da sistemi regionali di facile accesso internazionale, capaci di mettere in rete città e zone rurali di varie dimensioni ad esse collegate, agganciate ai grandi nodi della logistica europea e mondiale (porti, aeroporti, alta velocità ferroviaria, cablaggio, ecc.). I punti di accesso alle reti globali possono essere pochi ma ben definiti, perchè si deve mirare alla creazione di sistemi secondari di adduzione per rafforzare i sistemi regionali dell’accessibilità. Il vero nodo è che il posizionamento competitivo dei territori regionali passa attraverso il rafforzamento delle coerenze locali e regionali di azione. Un sistema regionale può

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contribuire allo sviluppo economico e sociale dello spazio europeo attraverso la valorizzazione delle specificità locali, diventando un nodo della rete primaria delle aree dell’UE. Il territorio diventa spazio relazionale: insieme di relazioni funzionali, sociali e gerarchiche (di potere) che si svolgono nello spazio fisico, ove conta non solo la geografia, ma anche la storia, la cultura, le caratteristiche identitarie delle popolazioni, le competenze e le vocazioni presenti, il sistema di relazioni interne e di rapporti con l’esterno (Dematteis, 1994). In un contesto evolutivo in cui i territori competono sulla base di un “vantaggio assoluto” smithiano, i territori devono valorizzare e sfruttare al massimo il “capitale territoriale” esistente. Quest’ultimo si coniuga secondo quattro modalità: capitale produttivo, capitale fisso sociale (infrastrutture), capitale umano, capitale sociale (che può essere definito nel potenziale di sviluppo di un’area, fatto di competenze specifiche, di capacità e saperi diversificati, di creatività particolari, di offerte variegate di fattori di localizzazione, nonché di servizi connessi alle specificità paesistiche, geografiche e culturali). La coesione territoriale dunque diventa ingrediente necessario a garantire lo sviluppo territoriale. Per raggiungere tale obiettivo, tuttavia è necessario migliorare il coordinamento delle politiche settoriali e di sviluppo aventi impatto territoriale ed integrare maggiormente i territori europei rafforzando la cooperazione e la creazione di reti fra di essi (Fabbro, 2004). I riferimenti politici e teorici della coesione territoriale si ritrovano già nel citato documento sullo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo approvato dal Consiglio dei Ministri responsabili dell’Assetto del Territorio di Potsdam, nel quale vengono definiti gli obiettivi prioritari dell’UE (SSSE, 1999): a) la definizione di politiche orientate alla programmazione territoriale; b) uno sviluppo territoriale policentrico e un nuovo rapporto città – campagne; c) parità di accesso alle infrastrutture e alle conoscenze; d) gestione prudente del patrimonio naturale e culturale. Da tali riferimenti è evidente che un piano di sviluppo territoriale deve porre al centro azioni principali (Camagni, 2003) al fine di: - sfruttare la varietà della struttura produttivi e dei territori innovandoli e valorizzandoli nelle nuove scale di competizione; - rafforzare la coesione interna delle regioni ed allacciare rapporti diretti con altre regioni europee per creare un equilibrio dinamico con l’Europa delle capitali. - mappare gli ambiti ottimali e reali di esercizio per garantire il raggiungimento delle dimensioni minime di capacità organizzativa ed economicità degli enti territoriali.

1.2 Il progetto European Spatial Observatory Network (Espon)

A porre particolare attenzione alle identità regionali, alla dimensione territoriale e agli

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obiettivi di Lisbona e Goteborg ci ha pensato il progetto europeo dei centri di ricerca European Spatial Observatory Network (Espon) che, lanciato nel quadro dell’iniziativa comunitaria Interreg, mira ad uno sviluppo sostenibile ed equilibrato dello spazio europeo, creando un sistema permanente di monitoraggio del territorio per redigere una diagnosi delle principali linee di sviluppo territoriale alla scala dell’Unione e, allo stesso tempo, un quadro completo delle difficoltà e delle potenzialità inespresse proprie dell’intero spazio europeo. Le analisi e le ricerche condotte in questi anni hanno avuto una duplice funzione di valutazione del perseguimento degli obiettivi di coesione economica, sociale e territoriale, e di (re)indirizzo delle politiche sia a livello continentale, che nazionale e regionale (Governa, 1997). In questi ultimi anni si è perciò cercato di individuare empiricamente un metodo per individuare aree territoriali contraddistinte da una certa omogeneità in termini di dinamiche e polarizzazioni urbane, esso si fonda sull’analisi statistica e spaziale geografica di indicatori territoriali di ‘base’ significativi, per la caratterizzazione dinamica del territorio regionale nei suoi aspetti più rilevanti (dinamiche demografiche, urbanizzazione del territorio, flussi e spostamenti per studio e lavoro, dinamiche occupazionali e produttive, dinamiche immobiliari, dinamiche dell’immigrazione e del mercato del lavoro). Il risultato comune a tutte le ricerche è la necessità di disporre di informazioni statistiche dotate di un riferimento geografico o, come si dice comunemente, georeferenziate, per rendere l’analisi dei fenomeni socio-economici sempre più orientata al territorio. Da parte dell’Europa è ampiamente giustificata l’esigenza, tipica di ogni processo di unificazione, di definire con criteri di efficienza-efficacia statistica le prestazioni-tipo di ogni livello funzionale, ma questo processo si deve confrontare per un periodo di incubazione (tanto più lungo quanto più radicata è la tradizione), con la realtà locale e ciò impone diverse velocità evolutive. Se l’intervento è esemplare perché attuato in luoghi simbolici come le città capitali, il criterio può essere ragionevolmente unico, se invece l’intervento coinvolge livelli intermedi e comunque le zone del margine l’intervento, deve avere un periodo di decantazione per gli adeguamenti al contesto sociale. Nasce così la nozione fondamentale su cui si basa il Progetto Espon di Functional Urban Areas (FUA). Il concetto di FUA cattura la nozione di ‘regione funzionale’ e non quella di regione ‘amministrativa’, quindi sembra essere la più recente elaborazione per l'individuazione di una dimensione efficace di pianificazione. Sin dall’inizio del 2000 il Servizio Sviluppo Territoriale dell’OCSE ha condotto un’indagine per capire come i diversi paesi identificavano empiricamente le regioni funzionali. La stragrande maggioranza dei paesi adotta una definizione di regione funzionale basata sul pendolarismo. I confini delle regioni funzionali sono stati definiti infatti sulla base di “contorni” determinati dai mercati locali del lavoro, a loro volta identificati sulla base di indicatori relativi alla mobilità del lavoro. I sistemi territoriali sono, in sostanza, definiti come territori integrati nel senso che racchiudono al

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proprio interno i maggiori flussi di mobilità per ragioni di lavoro; l’unica vera differenza tra le diverse definizioni riguarda la presenza o meno di un centro urbano. La definizioni di aree urbane funzionali per la maggior parte dei paesi europei si basa sulle statistiche nazionali e si utilizzano ad esempio i concetti di bacini di occupazione, bacini di pendolarismo, zone di pendolarismo o, appunto, regioni urbane funzionali. Altri paesi come la Germania, il Lussemburgo, il Belgio, la Repubblica ceca, la Bulgaria e in parte la Spagna e il Portogallo non hanno una definizione ufficiale. In tali casi, l’identificazione di FUA si è basata soltanto su giudizi di esperti nazionali. In Italia, invece, la definizione di area urbana funzionale viene a coincidere di fatto con quella di Sistema Locale del Lavoro (SLL).

Il fatto di scegliere dati statistici legati a caratteristiche demografiche è un elemento fondamentale che determina l’ubicazione di alcuni servizi ed attrezzature e una mappa per gli investimenti nel settore sia pubblico che privato. In Espon non vengono presi in esame tutti gli SLL/FUA di tutti i paesi con una popolazione superiore ai 10 milioni di abitanti, ma soltanto quelli che soddisfano due precisi requisiti (Espon, 2006): – popolazione della FUA di oltre 50.000 abitanti (si escludono cioè le zone urbane artificialmente grandi con nucleo urbano piccolo); – popolazione della FUA oltre lo 0,5% della popolazione nazionale e nucleo urbano (agglomerato) con oltre 15.000 abitanti (cioè, nei paesi meno popolati si è tenuto conto di FUA più piccole); - le FUA più piccole sono state incluse quando avevano almeno un’importanza locale in materia di trasporti, conoscenze o funzioni decisionali o un’importanza regionale in materia amministrativa, di turismo o funzioni industriali. La metodologia seguita dal Progetto Espon si può sintetizzare in due passaggi essenziali: 1) individuazione di sette differenti parametri statistici come base per calcolare e stabilire le tipologie di FUA ossia, la popolazione, i trasporti, il turismo, l’industria manifatturiera, la conoscenza, i processi decisionali e infine, le funzioni amministrative svolte; 2) individuazione delle aree isocrone, corrispondenti a zone per cui il tempo massimo di spostamento casa-lavoro è di 45 minuti, calcolato dal centro di ogni FUA. Combinando i due approcci si ottiene una rappresentazione degli scenari di possibile integrazione policentrica del territorio europeo. In base alla loro importanza funzionale i FUA possono essere classificati in: - aree europee di crescita metropolitana (Metropolitan European Growth Area - MEGA, quando l'indicatore composito finale, frutto della media aritmetica degli indicatori ha un valore maggiore di 2,5), - FUA transnazionali/nazionali (quando l'indicatore composito finale, frutto della media aritmetica degli indicatori ha un valore tra 1,5 e 2,5); - FUA regionali/locali (quando l'indicatore composito finale, frutto della media aritmetica

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degli indicatori ha un valore inferiore a 1,5). I MEGA di fatto coincidono con i FUA, anche se sono caratterizzate da punteggi medi più elevati. Di seguito si riportano gli indicatori utilizzati per rappresentare ciascuna delle sette dimensioni nelle quali si articola la specializzazione funzionale dei diversi FUA (Espon, 2006; Regione Emilia-Romagna, 2007):

Funzioni del FUA Indicatori Popolazione (size del FUA) Popolazione residente

Funzione dei trasporti Aeroporti (numero di passeggeri), porti (traffico containers)

Funzione turistica Numero di posti letto in strutture alberghiere

Funzione industriale Valore aggiunto nell’industria manifatturiera

Funzione di conoscenza Localizzazione di università (numero di studenti)

Centri di decision-making Localizzazione delle imprese principali (top)

Funzioni amministrative Status amministrativo del FUA

Tabella 1 - Indicatori utilizzati per la specializzazione dei FUA. Fonti Espon, 2006; Regione Emilia-Romagna,

2007.

Sulla base di tali indicatori vengono costruiti i ranking dei diversi FUA e quelli che presentano punteggi (medi) elevati vengono classificati come MEGA. In questo senso, i MEGA sono FUA/SLL particolarmente performanti. In Italia ve ne sono complessivamente sei, di cui uno nella regione Emilia-Romagna (Bologna). Le FUA sono spazialmente interconnesse ed è possibile sovrapporre le loro aree di influenza. Tuttavia, occorre considerare il fatto che la prossimità spaziale è solo uno degli aspetti di interazione tra le citt, l’altro aspetto importante è quello delle reti. In base alla definizione classica, la regione policentrica è costituita da due o più città indipendenti storicamente e politicamente, vicine tra loro aventi relazioni funzionali e complementarietà l’un l’altra, ma è anche vero che all’interno di ciascuna regione possono essere identificati differenti sistemi policentrici a seconda che si analizzino i punti di vista politico, economico o funzionale. Per capire quanto siano policentrici o monocentrici i paesi europei, il Progetto Espon ha esaminato per ogni FUA tre differenti parametri: la grandezza, la posizione ed i collegamenti. Tali parametri sono descritti rispettivamente da tre indici (Espon, 2006; Regione Emilia Romagna 2007): - Size index: è il primo e il più chiaro requisito per il policentrismo e consiste nella presenza uniforme sul territorio di città di grande e piccola taglia; - Location index: il secondo requisito per il policentrismo di un sistema urbano è quello che i suoi centri siano equidistanti l’uno dall’altro. Una distribuzione uniforme delle città sul

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territorio quindi è più appropriata al sistema urbano policentrico rispetto ad uno distribuzione altamente polarizzata in cui tutte le maggiori città sono concentrate in una porzione di territorio; - Connectivity index: una terza caratteristica dei sistemi urbani policentrici è quella di godere di un’efficace divisione del lavoro sul territorio ed, in particolare, sia tra centri di più alto e di più basso livello nella gerarchia di riferimento, sia tra centri che si trovino allo stesso livello. Ciò implica che i canali di interazione tra città della stessa dimensione e dello stesso rango, (ed in particolare tra centri di diverse dimensioni e rango) devono essere veloci ed efficienti. Da ciò ne consegue la conflittualità tra l’esigenza di sussidiarietà (connectivity) e l’esigenza di equidistanza tra i centri che abbiano la stessa dimensione ed importanza paragonabile (location). Dall’analisi di tali indici per il territorio europeo emerge chiaramente la natura policentrica del sistema urbano: sia per la popolazione che per le attività economiche si registra una grande diffusione di centri urbani di media dimensione che non sovrastano le capitali europee. Il problema principale consiste nel fatto che il policentrismo non risulta equamente distribuito sul territorio. Dallo studio condotto nel Progetto Espon delle 1.595 aree urbane funzionali europee risulta che vi è: � una densa struttura urbana nella parte centrale dell’Europa che si estende dal Regno Unito

attraverso i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania occidentale e la Francia settentrionale e continua sia a ovest della Alpi, comprendendo l’Italia, che ad est verso la Repubblica Ceca, la Polonia meridionale, la Slovacchia e l’Ungheria.

� nella parte più a nord e più a sud presenta paesi meno popolati e con sistemi urbani molto densi. Questo vale soprattutto per l’Irlanda, le zone settentrionali del Regno Unito, la Norvegia, la Svezia, la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania, ma anche per alcune regioni della Spagna, della Grecia, della Bulgaria e della Romania.

Richiamando l’obiettivo principale del presente documento e cioè quello di approfondire il tema della dimensione minima della pianificazione per raggiungere livelli ottimali di governance, si ritiene che una rappresentazione di questo tipo non possa essere ottenuta senza il raggiungimento dell’obiettivo del policentrismo e quindi senza la promozione di uno sviluppo equilibrato e di un’equa competizione produttiva. Un limite del modello Espon è costituito dalle differenze che le singole nazioni danno alla definizione di FUA, quando, invece è lo stesso Progetto che cerca di omogeneizzare le differenze esistenti tra i diversi paesi. Un secondo limite è la dimensione dei comuni, molto diversa nei vari paesi dell'UE: si passa dalla limitata dimensione delle municipalità francesi, che tiene conto della distinzione tra la aree urbane ed il resto del territorio, a quelle finlandesi, svedesi e norvegesi, in cui si trovano FUA con una delimitazione spaziale molto estesa e popolazioni concentrate in un singolo centro urbano. Ciò porta alla definizione di aree urbane

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funzionali con una densità inferiore a 10 ab/km². In questi casi estremi è opportuno operare correttivi nell’ambito della delimitazione delle FUA al fine di venire incontro alla struttura demografica ed economica. A fronte di questi limiti vi sono tuttavia nuove prospettive per la loro analisi statistica. In particolare attraverso l’uso dei dataGIS si può esaminare lo schema del network dell’infrastruttura di ogni FUA per conoscere elementi e sistemi che caratterizzano le aree urbane funzionali..

1.3 Le regioni funzionali in Italia

In Italia il dibattito sulla definizione delle aree funzionali è stato contraddistinto da forti ambiguità e ciò per due ordini di motivi. In primo luogo poiché nel nostro paese il numero delle città di grande dimensione è assai modesto. Il territorio italiano è infatti caratterizzato da un sistema policentrico di città di piccola e media dimensione che, basandosi su una forte integrazione funzionale tra centro urbano e hinterland (soprattutto nelle regioni del settentrione), marcano senza soluzione di continuità lo spazio fisico. La seconda ragione fa invece riferimento alle caratteristiche peculiari dell’impianto produttivo italiano che sia in termini dimensionali che di specializzazione produttiva è generalmente localizzato in spazi densamente agglomerati. Questi due aspetti fortemente integrati tra loro in un rapporto di mutua dipendenza sono da tenere conto in sede di definizione e di implementazione di unità territoriali alternative a quelle esistenti che ha alimentato, a partire dagli anni Ottanta, un ampio dibattito scientifico il cui risultato è stato un proliferare di termini e metodi volti alla definizione dei sistemi locali. Un esempio di unità amministrativa finalizzata all’analisi e alla definizione di politiche territoriali per lo sviluppo locale, che ha fatto parte di questo dibattito, è rappresentato dai comprensori. Un altro esempio è rappresentato dai distretti industriali definibile come quella forma organizzativa non semplicemente rapportata al processo produttivo di certe categorie di beni, ma anche all’ambiente sociale in cui le relazioni dentro e fuori i luoghi della produzione, presentano un loro peculiare carattere (Dallari, 2002). A questi due esempi si aggiunge la procedura Istat-Sforzi nata per rispondere all’esigenza di individuare sistemi locali di lavoro (SLL). Essi rappresentano unità territoriali costituite da più comuni contigui fra loro, geograficamente e statisticamente comparabili che racchiudono i luoghi della vita quotidiana della popolazione che vi risiede e lavora. I 741 SLL nazionali sono basati sull'ausilio di tre criteri: l'autocontenimento, la contiguità e la relazione spazio-tempo. Il primo criterio vuole indicare la capacità di un territorio di comprendere al proprio interno la maggiore quantità possibile di relazioni umane che intervengono tra le sedi dove si svolgono le attività di produzione, intese come località di lavoro, e quelle dove si svolgono le attività legate alla riproduzione sociale, cioè le località di

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residenza, concorrendo in questo modo al riconoscimento dei loro confini. Il secondo criterio, usato per il processo di regionalizzazione, rappresenta il vincolo della continuità spaziale. Il terzo criterio fa riferimento al carattere spazio-temporale dello spostamento: lo spostamento viene analizzato nella sua componente di periodicità e motivazione. La periodicità può essere ricorrente, non ricorrente di tipo occasionale e permanente (Istat, 2001). I SLL sono uno strumento di analisi appropriato per indagare la struttura socio-economica dell’Italia secondo una prospettiva territoriale, in quanto tengono conto di sistemi locali territoriali frutto della combinazione di milieu locale e reti di attori che si comportano come un attore collettivo.

1.4 Il progetto Espon per l'Emilia Romagna

Il Progetto Espon riferendosi all’Emilia Romagna prende in esame 20 SLL/FUA, definiti dall’Istat sulla base dei dati censuari del 1991. In Emilia Romagna è presente anche il FUA di Bologna che è uno dei sei MEGA presenti in Italia, insieme a Milano, Torino, Genova, Roma, Napoli. Nel corso del 2006, la Regione Emilia-Romagna, con il supporto tecnico di Ervet, ha aggiornato la classificazione dei FUA per l’intero territorio nazionale sulla base dei nuovi Sistemi Locali del Lavoro risultati dai dati del censimento della popolazione del 2001. L’aggiornamento ha riguardato due aspetti fondamentali (Regione Emilia Romagna, 2007): - la ricerca di indicatori il più possibile aggiornati e uniformi per tutto il territorio nazionale, seguendo le indicazioni della classificazione fatta da Espon; - l’aggiornamento da parte dell’Istat del Sistemi Locali del Lavoro. Tra gli aggiornamenti si rileva che a livello nazionale il numero di MEGA risulta essere aumentato: oltre a Milano, Roma, Torino, Genova, Napoli, i FUA di Firenze, Verona, Venezia ora hanno i requisiti per essere potenzialmente aree europee di crescita metropolitana. In Emilia Romagna, il FUA di Bologna conferma le caratteristiche di MEGA. Altri cinque FUA possono essere classificati come FUA transnazionali/nazionale, mentre le restanti sono FUA regionali/locali.

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Figura 3 - Tipologie di FUA in Italia. Fonte: Eurostat Istat, 2006.

A partire dalla classificazione Espon sono stati utilizzati i seguenti indicatori di base (Regione Emilia Romagna, 2007): a) Popolazione: la fonte dati più attendibile ed uniforme per il territorio nazionale è rappresentata dai censimenti Istat, per l’aggiornamento della classificazione dei FUA sono stati presi in considerazione i dati del 14° Censimento generale della popolazione del 2001. b) Funzioni amministrative: la classificazione è stata realizzata in base alla struttura amministrativa italiana, assegnando la classe 4 alla capitale nazionale, la classe 2 ai capoluoghi di provincia e regione, la classe 1 ai restanti FUA in cui non vi è alcuna funzione amministrativa particolare e la classe 3 non assegnata in quanto non presente per l’Italia. c) Funzione di conoscenza: è stato considerato il numero e l’importanza di Università e Istituti di educazione superiore, in particolare si è utilizzato come indicatore il numero di studenti universitari e di altri istituti iscritti all’anno accademico 2004-2005. La fonte dei dati è il Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR). d) Centri di decision-making: per la classificazione è stato utilizzato il numero delle principali imprese (headquarters) localizzate nei FUA. Per la definizione degli intervalli le imprese sono state classificate in base al fatturato (anno 2004) e sono state selezionate le prime 500 imprese italiane e le prime 1500 imprese europee, infine sono state definite le classi in base alla percentuale di aziende presenti nei FUA. La fonte dei dati è la banca dati Amadeus di Bureau Van Dijk. d) Funzione del turismo: è stato utilizzato il numero di posti letto disponibili in hotel o in stabilimenti turistici assimilabili ed il numero di letti disponibili per abitante riferito all’anno

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2003. La fonte del dato è l’Istituto Tagliacarne su dati Istat. e) Funzione industriale (manifatturiera): l’indicatore è il valore aggiunto nell’industria manifatturiera all’anno 2003 su fonte Istat – Valore aggiunto dell’industria ai prezzi di base al lordo SIFIM per Sistema Locale del Lavoro. Valori a prezzi correnti (milioni di euro). f) Funzione dei trasporti: prende in considerazione la presenza di aeroporti con più di 50.000 passeggeri per anno oppure porti con un traffico di container di più di 20.000 TEU per anno. La presenza contemporanea di entrambe le strutture è stata considerata nell’attribuzione delle classi valutando caso per caso, di solito ha portato al passaggio alla classe superiore. Si evidenzia che il problema si è posto in soli due casi, per il FUA di Napoli e per quello di Palermo. La fonte dei dati è il MIT - Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, l’ENAC - Ente Nazionale per l’aviazione Civile e Eurostat Transport. Anno 2003.

2 L’ESPERIENZA DI PIANIFICAZIONE DI AREA VASTA IN EMILIA ROMAGNA

La risposta alla domanda di una livello efficace governance del territorio oltre ad arrivare dall'Europa e dai suoi attuali mezzi di indagine e strutturazione del territorio, giunge dagli organi istituzionali di pianificazione regionale che, lungi dall'essere miopi nei confronti della dicotomia tra territorio reale e territorio istituzionale, hanno cercato coi propri strumenti di pianificazione di offrire nel corso del tempo organismi intermedi per la gestione coerente ai bisogni espressi dal territorio. A supporto e riprova di queste considerazioni, e come esempio emblematico si intende ricordare attraverso un excursus storico, la successione di piani, studi e strumenti di pianificazione che l'Emilia Romagna ha offerto nel tempo la programmazione e la gestione del territorio. L’esigenza di individuare un livello di pianificazione territoriale superiore a quello comunale ma inferiore a quello regionale nasce già sul finire degli anni Cinquanta. Nella regione Emilia Romagna vennero elaborati progetti di area vasta che prefiguravano l’assetto del territorio emiliano sulla base delle sue reali vocazioni e tendevano a presentare una previsione globale atemporale per il raggiungimento di precisi obiettivi di sviluppo. Le prime esperienze si attivarono come studi territoriali e ipotesi di assetto con lo scopo di costituire una base per la redazione del Piano Territoriale Regionale proponendo modelli di sviluppo basati ancora su enunciazioni astratte e lontane da una reale soluzione di assetto del territorio. I primi studi tuttavia non avevano come obiettivo quello di ricercare quale fosse la dimensione idonea per affrontare i temi della pianificazione territoriale, né di valutare l’efficacia dei livelli di pianificazione presenti che stavano lentamente diffondendosi. In questa logica nella elaborazione dei primi studi e progetti di sviluppo territoriale, venne

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esclusa la collaborazione degli Enti Locali e del tutto ignorati i Prg, i Peep e i piani settoriali delle Province e dei Comuni. La prima proposta di assetto territoriale fu quella relativa alla stesura del Piano Territoriale di Coordinamento dell’Emilia Romagna (1963), che fu preceduta da un lavoro di indagine sui diversi aspetti economici, sociali e territoriali presenti nella Regione. Essa si conformò ad un modello a prevalente carattere territoriale secondo le prescrizioni della legge urbanistica vigente n. 1150/1942. Il Piano partiva dal sistema di localizzazioni e di utilizzazioni territoriali esistente e dalle caratteristiche naturali permanenti, per conseguire un razionale e coordinato sviluppo del territorio regionale. Pur in assenza di una pianificazione nazionale, il Piano affrontava i problemi della Regione, individuando prospettive di sviluppo non come semplice espansione del triangolo industriale, ma come potenzialità di crescita in rapporto con l’intero sistema economico europeo e mediterraneo. Nel 1966 il Comitato Regionale della Programmazione Economica emiliana rielaborò ed approfondì il Piano Territoriale di Coordinamento del 1963, di cui recepì non solo le analisi, ma anche il metodo e le basi culturali. Due erano le grandi linee di forza per l’assetto territoriale della Regione: la via Emilia da un alto ed il Po dall’altro. Nei punti in cui si intersecano queste linee con le grandi vie di comunicazione Nord-Sud erano individuati i primi “comprensori di urbanizzazione”. Nella Bozza persiste la ricerca di un nuovo equilibrio territoriale agganciato alla realtà geografica e alle preesistenze urbane e permane altresì ragionatamente la netta separazione tra il comprensorio portuale industriale di Ravenna e quello turistico di Rimini, Riccione, Cattolica, Cervia, Cesenatico. L’elaborato prende le mosse da un elenco di vocazioni allo sviluppo economico settoriale ed intersettoriale della Regione e individua nel territorio le localizzazioni utili con un procedimento empirico di lettura e di assunzioni ammissibili senza però giungere ad una loro sufficiente correlazione. La soluzione del Centro Studi Piani Economici (1967) si basava su alcune considerazioni di carattere urbanistico territoriale ed in particolare si richiamava alle indicazioni della CEE, specificatamente alle raccomandazioni dei VI Stati Generali dei Comuni e dei Poteri Locali: “... in luogo di favorire concentrazioni di popolazioni in zona ristretta, si assicuri una vasta rianimazione dei comuni esistenti e, all’occorrenza, si cerchi un largo decentramento sui territori disponibili; si raccomanda inoltre di contrapporre la teoria delle ‘reti articolate’, che comporta una modernizzazione simultanea della piccola città e del loro entroterra, alla teoria dei ‘poli di sviluppo’”. Il piano ebbe un carattere preminentemente infrastrutturale, essendo tutti i sistemi maggiori e minori impostati secondo schemi univoci di diverse dimensioni: tuttavia si affrontarono i problemi delle relazioni e delle comunicazioni Nord-Sud (Bologna-Ferrara-Venezia-Trieste, Modena-Verona-Brennero, La Spezia-Cremona-Brescia), mentre nella rete della viabilità primaria conservano un ruolo preminente la Cispadana e la Pedemontana.

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Il successivo Schema di Sviluppo del Comitato Regionale Programmazione Economica (1968) si basava, invece per la prima volta su un’accurata analisi della funzione di pianificazione dell’Emilia Romagna in rapporto a quella nazionale e a quella degli Enti Locali. L’essersi posti di fronte al problema regionale, con la consapevolezza che si stava studiando innanzitutto quale contributo la Regione era in grado di portare alla soluzione dei problemi nazionali, consentì, da un lato di dare all’impostazione del problema il respiro e la potenzialità che sono impliciti nella pianura padana, dall’altro, in rapporto ai problemi di riequilibrio nazionale, di porre come limite allo sviluppo regionale: “La costruzione di un sistema economico Emiliano, che tende a dar vita ad una grande città regionale di oltre quattro milioni di abitanti, da cui si potranno esprimere energie potenti in ogni senso e su ogni piano, è destinata a riequilibrare l’intera valle padana, spostando ad oriente il suo baricentro e innestando la Regione nelle grandi vie di comunicazione con il Nord e l’oriente europeo e con le economie del Mediterraneo e dell’Africa; si propone sostanzialmente una analoga finalità di riequilibrio per l’intero sistema italiano” (CRPE, 1968). In questo Schema non si trovavano mai disgiunti l’esame dei fenomeni economico e sociali dall’esame del territorio, così come non si trovavano disgiunte prospettive di sviluppo e indicazioni di intervento dall’esame di fenomeni di fatto esistenti. In un discorso di sintesi “il ruolo dell’Emilia Romagna nel quadro di una programmazione generale che tende all’inserimento dell’intera economia nazionale nell’economia europea e mediterranea, al superamento degli squilibri nazionali ed in particolare in quelli inerenti a sistema padano” (CRPE, 1968). Si parlava innanzitutto del Po come risorsa economica e fisica di grande rilievo e del sistema portuale marittimo e fluviale, si tendeva a concentrare lo sviluppo economico e urbano lungo il solo sistema insediativo o tradizionale Est-Ovest disteso sulla via Emilia, attraverso due iniziative di pari priorità e di pari rilievo strategico: l’istituzione e la definizione del ruolo delle direttrici di sviluppo in senso Nord-Sud e la creazione di una struttura attrezzata cispadana. L’Ipotesi di assetto territoriale dell’Emilia Romagna del Provveditorato alle Opere Pubbliche elaborato negli anni 1967-69 era finalizzato alla realizzazione degli interventi secondo obiettivi meditatamente convenuti e prefissati. L’Ipotesi di assetto si esprimeva sulla base di previsioni globali e atemporali non per ragioni metodologiche, ma solo per consentire margini ristretti di consapevolezza. Il progetto non era altro che la continuazione dell’elaborazione del Ptc del 1963 di cui costituiva un aggiornamento per sviluppare un criterio ecologico e uno strutturale applicato al territorio, entrambi visti come integrativi di quello geografico e meramente distributivo del Ptc. Le previsioni globali erano atemporali, sistematiche e di grande respiro; ad esse venivano riferite le soluzioni a breve termine di più sicura attuazione e quelle integrativela la cui scelta andava affidata ad un processo sperimentale di verifica non casuale ma programmatico.

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L’area di diffusione urbana non era indifferenziata ma era concepita come un’areale strutturale di equilibrate gravitazioni su punti e linee di confluenza armonicamente ordinate in sottosistemi strutturali, gerarchicamente decrescenti fino alle articolazioni di diretto rapporto dei servizi essenziali ai livelli delle unità residenziali minori. Le ulteriori esperienze significative che si susseguirono furono quelle del Progetto 80 (1968) che doveva costituire la base per la promulgazione delle operazioni territoriali da inserire nel secondo programma economico nazionale per gli anni 1971-1975; del Primo schema di viabilità regionale nell’Emilia Romagna dell’Unione Regionale delle Province (1970) come ipotesi per eliminare gli squilibri interni alla Regione con una maglia infrastrutturale calata in modo indifferenziato sul territorio collegandone tutte le sue parti per concorrere ad uno sviluppo unitario ed omogeneo; del Progetto di programmazione degli interventi in Emilia Romagna della Giunta Regionale (1973) che fu uno strumento concreto per poter individuare ed affrontare le reali problematiche regionali con cui superare la concezione tecnicistica sia della programmazione che della pianificazione territoriale. Quest’ultimo nell’uniformarsi sostanzialmente alla pianificazione degli Enti Locali sino ad allora condotta aveva come obiettivo quello di fare dell’Emilia Romagna una fondamentale area d’interscambio per tutta l’economia nazionale, permettendo a questi territori di porsi come tramite tra le economie dell’Europa e dell’Italia del Nord e quelle del Mezzogiorno e dell’area mediterranea. Per tale finalità il “comprensorio” e il suo strumento dell’ufficio di piano, fungevano da strumenti di programmazione a livello intersettoriale, permettendo di unificare in uno stesso ambito territoriale le istanze che scaturivano dai diversi settori d’intervento ed avevano come campo operativo l’intero territorio della Regione. Dopo alcuni anni la discussione circa il ridisegno del territorio dell’Emilia Romagna venne attenuandosi ed emerse la consapevolezza che l’obiettivo del riequilibrio territoriale fosse da perseguirsi non solo attraverso un disegno di assetto generale, ma soprattutto tramite un processo organico di governo. In tale senso l’Emilia Romagna, come avvenne per la maggioranza delle regioni italiane, scelse la proposta che in quegli anni sembrava la più praticabile e, ipotizzando la soppressione delle Province, costituì un livello intermedio di mediazione tra Piani Regolatori Comunale e Piano Territoriale Regionale, avviando ‘dal basso’ una nuova fase di riequilibrio e di assetto territoriale. Non potendo modificare la legislazione nazionale, i comprensori vennero istituiti come “organismi regionali”. Con la loro istituzione il dibattito politico si fece in Emilia Romagna più preciso e cogente si passò alla ricerca del comprensorio per ogni funzione, della ‘zona omogenea’ che garantisse una dimensione ottimale per ogni tipo di servizio, alla ricerca di un’omogeneità funzionale dove la dimensione territoriale fungesse da elemento unificante. La necessità era quella appunto di trovare una dimensione intermedia tra regione e comune nella quale realizzare una programmazione globale e democratica delle diverse attività socio-

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economiche e con la quale dare risposta alla gestione dei servizi a livello sovracomunale. Solo nel 1975 si arrivò alla legge istitutiva dei Comitati comprensoriali, mentre, nel frattempo, per la necessità di adempiere a funzioni di programmazione e gestione di servizi specifici, erano stati costituiti organismi ed enti di settore ad ambito sovracomunale, quali le Comunità montane, i Consorzi socio-sanitari, i Distretti scolastici, che si erano calati sul territorio regionale con diverse delimitazioni che avrebbero posto successivamente problemi di raccordo e di unificazione. Il comprensorio venne definito dalla legge come organo di cooperazione tra comuni, province e regione e unità base della programmazione economica superando, quindi, l’ipotesi iniziale di un comprensorio solo urbanistico a favore di un ambito idoneo alla programmazione, al coordinamento delle funzioni amministrative delegate ai Comuni e alle Province e all’esercizio delle funzioni amministrative regionali (Regione Emilia Romagna, 1975). Al Comitato comprensoriale furono attribuiti sostanzialmente due ordini di competenze: il primo riguardava la programmazione economica e l’assetto del territorio con la predisposizione di una serie di piani (tra cui il piano territoriale di coordinamento comprensoriale, che era visto come snodo tra pianificazione regionale e comunale); il secondo riguardava l’approvazione degli strumenti urbanistici e, più in generale, l’esercizio di tutte le funzioni regionali in materia urbanistica. Tuttavia ciò che in primo momento sembrò un elemento di forza, la legittimazione di un organismo volontario, si dimostrò in breve un elemento di debolezza: l’insufficienza dei poteri attribuiti ai comprensori ridusse l’esecutività del piano e una autonomia programmatoria economica e sociale. L’esperienza comprensoriale ebbe il merito di confermare l’esigenza di un forte organismo intermedio di programmazione e pianificazione e chiarì i contenuti da attribuire ad un piano sovracomunale ponendo le basi per la creazione di un bilancio territoriale delle risorse disponibili per lo sviluppo economico e per la sua programmazione. In base alla legge che lo istitutiva, il comprensorio dell’Emilia Romagna era finalizzato alla “realizzazione di una politica di riequilibrio socio-economico e territoriale”, alla “formazione e attuazione del programma di sviluppo regionale”, “di specifici piani di coordinamento”, “di piani settoriali e di piani di intervento”. In sintesi, il comprensorio costituì “l’unità base della programmazione economica e territoriale” (LR 12/1975). L’istituzione dei Comitati comprensoriali si configurò come un passaggio obbligato tra due fasi distinte, quella volontaria e quella istituzionale del processo di adeguamento della struttura dell’amministrazione pubblica locale alle esigenze di un più efficiente, ma nello stesso tempo democratico, governo del territorio (Bellagamba, 1981). Tuttavia, la fase dei comprensori si chiuse in pochi anni in tutta l’Emilia Romagna e nel 1984 la legge regionale n. 6 “Norme in materia di riordino istituzionale”, li abolì ufficialmente, proponendo al loro posto le assemblee dei comuni ai fini della partecipazione alla

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programmazione e panificazione regionale. Da quel momento la Regione tornò a confrontarsi, quasi ricominciando da zero, con i problemi dell’architettura istituzionale dell’attività di pianificazione. Con questi riferimenti fu elaborata, con lo schema per il Piano Territoriale Regionale dell’1986, una strategia di riorganizzazione del territorio regionale come sistema integrato e specializzato, poggiato sulla valorizzazione delle potenzialità locali che possono avere un ruolo positivo nel processo di qualificazione del territorio regionale . Il Piano Territoriale Regionale definitivamente approvato nel febbraio 1990, a conclusione di un’impegnativa elaborazione consultazione con le forze economico-sociali e gli Enti sotto ordinati, non fu altro che il risultato di un percorso incominciato nella prima metà degli anni Ottanta.

Figura 4 – Piano territoriale regionale – Schema strutturale. Fonte: Regione Emilia Romagna, 1990.

Tra i criteri di fondo che furono alla base della formulazione del Ptr inteso come strumento di programmazione, vi fu anche la necessità di operare su sistemi maggiormente aperti sia territorialmente che come rapporti tra le forze economiche e sociali richiese il rafforzamento del sistema delle istituzioni. Il concetto di ‘riequilibrio’ presente nella fase fondativa dell’ente Regione si rivelò il più praticabile ai fini del raggiungimento di un equilibrio fra le politiche settoriali: fra gli interventi nei settori sociali e quelli economici, fra gli interventi nei settori economici-dinamici e quelli economici in ridimensionamento. Secondo questa strategia il Ptr si propose di identificare gli apporti di ciascuna area al sistema

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regionale ed il modo di strutturare l’assetto territoriale perché potesse realizzarsi al meglio questo processo di integrazione e di complessiva qualificazione dell’intera regione. Ciò implicò, quindi, sul versante della pianificazione di area vasta, che essa si esprimesse sui modi attraverso cui si realizza l’integrazione, la specializzazione e la qualificazione dell’area, cogliendo le connessioni fra obiettivi di sviluppo socio-economico e scelte strutturali di assetto territoriale, leggendo e valutando preventivamente le caratteristiche ambientali, non solo in termini di risorse che si offrono al processo di qualificazione, ma anche di condizioni rispetto al campo di scelte possibili. Il Ptr nell’incentrare il quadro della strumentazione di progettazione regionale e locale alla realizzazione del Sistema Metropolitano Policentrico (Figura 4), quale obiettivo di sviluppo, individuò aree relazionali, definite “aree e sub-aree programma”, come ambiti entro i quali sviluppare più stretti livelli d’integrazione, operare bilanci economici-sociali ed ambientali, articolare in forma non necessariamente polarizzata sul centro dominante le politiche di assegnazione delle funzioni.

2.1 Gli studi relativi agli ambiti ottimali di esercizio in Emilia Romagna

I modelli territoriali fin qui analizzati partono dall’esistenza di una gerarchia urbana che può essere misurata secondo diverse modalità (tramite la densità della popolazione residente, i prezzi delle abitazioni, le funzioni terziarie presenti, le reti e i costi di trasporto ecc.) e che assieme ad un sistema di indicatori demografici ed economici, costituiscono la premessa all’individuazione empirica di aree omogenee in termini di dinamiche e polarizzazioni urbane (Regione Emilia Romagna, 2007). Come già si è avuto modo di dire nell’ambito dello sviluppo della coesione territoriale a livello europeo, un importante ruolo ha giocato l’approvazione nel 1999 dello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo (SSSE – SDEC - ESDP) e gli studi sull’analisi spaziale comunitaria promossi dai centri di ricerca Espon. In Emilia Romagna con l’entrata in vigore della legge urbanistica regionale n. 20/00 si riapre il dibattito sull’opportunità di rivedere il Piano territoriale regionale conferendogli centralità e il ruolo di strumento fondamentale della programmazione regionale, con cui definire una visione strategica dello sviluppo del territorio regionale e delineare la coerenza fra le diverse programmazioni settoriali. Vi è sempre di più la consapevolezza che l’intervento della Regione nella pianificazione urbanistica e territoriale è quello rispondere efficacemente al tema della dimensione della pianificazione urbanistica e dei rapporti che intercorrono tra gli Enti territoriali. La questione quanto mai opportuna, diventa cogente da un lato, in quanto si ha sempre più la consapevolezza dell’insufficienza della dimensione locale nella pianificazione rispetto ai sistemi territoriali e ambientali di area vasta, dall’altro in quanto, la riforma degli Enti locali

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in atto, dovrà prefigurare una sostanziale ridefinizione delle funzioni fondamentali degli Enti per semplificare, ridurre costi ed evitare la sovrapposizione di competenze. La Regione anche attraverso gli studi preliminari per l’aggiornamento del Ptr (2003/2007) prefigura la necessità di garantire il raggiungimento di dimensioni minime necessarie per assicurare un’adeguata capacità organizzativa, efficienza ed economicità (ambiti ottimali di esercizio). La finalità è quella di affrontare organicamente il tema non solo sotto forma di direttive e leggi, ma anche prevedendo possibili misure di incentivazione finanziaria che concretizzino la crescente consapevolezza maturata a livello locale sul valore aggiunto della cooperazione intercomunale in termini di benessere collettivo di lungo periodo. La legge regionale n.20/2000 attribuisce anche alle Province il compito di “prevedere particolari forme di cooperazione tra Comuni che presentano una elevata continuità insediativa, ovvero nei casi in cui le scelte pianificatorie comunali comportano significativi effetti di rilievo sovracomunale” (LR20/00, art. 13, c. 3). Tale compito da valorizzare e incentivare può prevedere che Province in accordo con la Regione, concorrano ad assicurare la coerenza delle politiche pubbliche e i piani di settore individuando ambiti territoriali sub regionali flessibili in rapporto agli scenari abitativi prefigurati (costruzione progressiva di una progettualità che travalica i confini comunali/geometrie variabili) e regole condivise per la sostenibilità di lungo periodo. In tal senso tali aggregazioni sovracomunali si propongono di rafforzare la solidarietà tra le varie componenti di un agglomerato, controllare le conseguenze negative dello sprawl, migliorare la qualità della vita, elaborare e attuare strategie di sviluppo sostenibili sul piano economico (sviluppando i temi comuni della demografia, dello sviluppo economico, delle politiche della casa, dei trasporti, dell’università e della ricerca, del paesaggio, dell’ambiente, delle infrastrutture, dei servizi, e del patrimonio culturale e urbano). E’ proprio nel piano in forma associata, inoltre, che anche il livello analitico - valutativo del Quadro conoscitivo e della Valutazione di sostenibilità territoriale ed ambientale trova la migliore espressione in quanto consente di avvicinarsi di più alla reale scala dei fenomeni da analizzare e degli effetti delle trasformazioni da valutare. Lo scenario territoriale che viene presentato nei documenti preliminari del Piano (Regione Emilia Romagna, 2005) organizza le informazioni secondo tre prospettive principali:la struttura e le dinamiche dei sistemi insediativi (reti di città e territori), il potenziale dei sistemi cognitivi (economia della conoscenza), la struttura dei sistemi ecologici e le loro interazioni con l’urbanizzazione (reti ecologiche). Questi tre tematismi sono stati decisi alla luce delle tendenze del dibattito scientifico e programmatico europeo e internazionale oltre al fatto che sintetizzano due obiettivi propri della pianificazione territoriale: quello relativo al miglioramento della qualità della vita della popolazione e quello dello sviluppo dei processi di governance politico-istituzionale. L’applicazione delle categorie elaborate da Espon da parte della Regione Emilia Romagna mostra come i modelli di agglomerazione, possono essere così riassunte, in tre schemi tipici

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dell’economia urbana e territoriale: lo schema della città monocentrica e i suoi fenomeni di estensione spaziale; lo schema del ciclo di vita della città, di cui si è già precedentemente accennato, che, nella sua completa esplicazione prevede la successione di urbanizzazione, suburbanizzazione, disurbanizzazione, riurbanizzazione; lo schema delle regioni urbane, centrate su uno o più città, attorno alle quali si struttura una rete di centri di rango-funzioni via via decrescenti. A partire dall’esperienza dei comprensori e mettendo in fila le diverse forme aggregative presenti nella Regione (Distretti sanitari, Distretti scolastici, Unioni di comuni, Comunità montane, Associazioni sovracomunali per l’elaborazione e la gestione dei PSC forma associata, Aggregazioni comunali rientranti nei Programmi speciali d’area, territori dei bacini principali del reticolo idrografico, Aggregazione di centri operativi misti di Protezione civile, Ambiti territoriali ottimali per l'organizzazione del Servizio idrico integrato e del servizio di gestione dei rifiuti urbani, ecc. oltre alle aggregazioni Istat come i Sistemi locali del lavori), l'Emilia Romagna ha avviato, nelle elaborazioni preliminari alla stesura del Ptr, un’identificazione empirica dei sistemi territoriali utilizzando principalmente le aggregazioni in SLL e analisi delle dinamiche di lungo periodo. Con i SLL si considerano gli effetti insediativi dilatati sulla base dell’evoluzione dei mezzi di trasporto mentre, sulla base di una serie di indicatori demografici ed economici propri dei modelli teorici di città/sistemi urbani, si considerano le recenti dinamiche demografiche dei sistemi urbani.

Figura 5 – Individuazione degli SLoT In Emilia Romagna. Fonte: Regione Emilia Romagna, 2007.

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Il modello prodotto dalla Regione nel 2007 raggruppa i SLL in sei categorie di sistemi locali (sistemi territoriali ad alta polarizzazione urbana; sistemi urbani metropolitani; sistemi città – territorio; sistemi a media polarizzazione urbana; sistemi a bassa polarizzazione urbana; reti di centri urbani di piccole dimensioni) attraverso l’uso di indicatori utilizzati nella definizione empirica degli Slot e nella comprensione delle dinamiche urbane dei diversi territori emiliano-romagnoli. Gli indicatori presi in esame dalla Regione Emilia Romagna sono stati quelli della: densità della popolazione residente; variazione della densità di popolazione residente; densità degli addetti industria e servizi; variazione di densità degli addetti industria e servizi; rapporto addetti e residenti; variazione rapporto addetti industria e servizi e residenti; rapporto variazione addetti industria e servizi e variazione residenti; variazione di densità degli addetti nell’industria; variazione di densità degli addetti nei servizi; indice di dotazione di servizi alle imprese; variazione dell’indice di dotazione dei servizi alle imprese; prezzi delle abitazioni civili; densità di stranieri residenti; rapporto stranieri residenti su residenti; numero di residenti per località abitate; valore aggiunto pro-capite; gestioni associate comunali (Regione Emilia Romagna, 2007). Attraverso un’analisi multicriteria, basata sull’utilizzo di una base territoriale comunale, il modello fa esplicito riferimento alla nozione di rete di città e procede ad una caratterizzazione dei sistemi urbani e di territori funzionali a geometria variabile. Il banco di prova dell'efficienza degli Enti e del loro sistema di governance sarà dunque la gestione delle scala intermedia. In tal senso l’individuazione di sistemi locali coerenti non è circoscrivibile solo all’interno di classificazioni basate su parametri di riferimento meramente statistici, bensì sulla capacità di produrre, attraverso strumenti di pianificazione territoriale, un disegno strategico con cui coordinare le politiche di sviluppo locali. Per raggiungere tali obiettivi è percorribile una politica per centri che razionalizzi il contesto economico-sociale e concorra al raggiungimento della più generale coesione territoriale.

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ABSTRACT

In the past territorial planning proposed alternatives of territorial units, like industrial districts, finalized to have analysis and local development projects. These analysis had the merit to confirm the requirement of a strong planning intermediate organism. During the these planning experiences, it always has been attempted a method to characterize empirically the urban structures in order to define territorial areas characterises by homogeneous standards in terms of dynamic functions and city polarizations. This method is founded on different spatial and statistic analysis. The European urban system is a main territorial structure and the cities are key drivers in the development of regions and larger territories. The specific functionality and potentials of cities are being explored and a typology of the European urban reality developed. The European Spatial Development Planning (ESDP) highlighted the objective of a polycentric development in support of a balanced and harmonious European territory. The project display some options for territorial cooperation in terms of complementary and distance between urban functional regions that could support a polycentric pattern, in particular at European and transnational scale. In this respect the project addresses issues mentioned in the ESDP highlighting the special contribution that could be undertaken by cooperation on concepts of global integration zones, gateway cities and polycentric urban clusters as well as individual urban poles in support of territorial balance and cohesion. The concrete measurement of the concepts addressed above requires the definition of appropriate indicators and the collect the relevant data in order to evaluate the role of urban areas in the construction of polycentric networks. The following criteria and their corresponding indicators must be taken into account: geographical position, economic strength, social integration, spatial integration, land-use pressure, natural assets, cultural assets; 4 indicators of competitivity (see Second report on economic and social cohesion): economic structure, accessibility, innovation capacity, qualification demography, competitiveness, economic attractiveness, connectivity, territorial integration. The answer to the question of an effective governance is given also by the local institutions of regional planning (i.g. Emilia Romagna Region), that have tried with own planning instruments (Plans and Programs) to propose a functional dimension of Local Government to guarantee a coherent territorial growth and management.