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1 L’urlo Liceo Vittorio Emanuele II Napoli, via San Sebastiano, 51 Editoriale (Eleonora Battinelli III F) Mi si chiederà l’importanza di un giornale d’istituto per giunta cartaceo al tempo dei social network, dei giornali online, della comunicazione telematica in tempo reale. Mi si potrà accusare di anacronismo e perché no? di sentimen- talismo. Mi si dirà che questo progetto è soltanto l’ennesimo fallimentare tentativo di far ri- vivere dei rituali “superati”e inadeguati alle dinamiche attuali. A tutto ciò obietterò con te- nacia. (continua a pag. 2) Periodico studentesco Anno 2014-2015 N. I Art.21 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il pro- prio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” Politica“...quando dicono ‘valutazione’ e ‘merito’ inten- dono qualcosa di incompatibile con la funzione attribuita alla Scuola dalla nostra Costituzione e dalla buona pedagogia, riferendosi, rispettivamente, a una selezione brutale e bana- lizzante su base presuntamente oggettiva e aspettative di un sistema produttivo che controlla ordina, prescrive e punisce allo scopo di evitare ‘spreco’ di risorse e di investimenti …” Napoli-incontro vertice BCE Libia Assemblea permanente Hong Kong AttualitàTrentesimo anniversario della morte di Eduardo de Filippo, come la città si prepara all’evento Il ruolo dei social network nella diffusione di movimenti rivoltosi Bar letterario Bellini: nuovo polo sociale e culturale nel centro del- la città Antidemocratica gestione dei fondi scolastici per le attività extra- curricolari Fenomeno immigrazione Otium et negotium Intervista impossibile :Pasolini Recesione de “Le città invisibili” Recensione di “Una storia semplice” Work in progress nuovo album dei The Who Recensione “Quasi amici” Recensione “Apocalypse now” Recensione “Ib”, quando il gaming incontra l’arte I manga Sport Una farsa chiamata Fair Play finanziario Direttori: Eleonora Battinelli IIIF Vincenzo Fusco IIB Grafica: Alessandra Centore IVA Disegni: Costanza Marsico IIA Elisabetta Esrcizio IVA Giancarlo Cascino IIIF

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Il primo numero dell'Urlo dopo un lungo periodo di inattività.

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L’urlo Liceo Vittorio Emanuele II

Napoli, via San Sebastiano, 51

Editoriale (Eleonora Battinelli III F) — Mi si chiederà l’importanza di un giornale d’istituto – per giunta cartaceo – al tempo dei social network, dei giornali online, della comunicazione telematica in tempo reale. Mi si potrà accusare di anacronismo e – perché no? – di sentimen-talismo. Mi si dirà che questo progetto è soltanto l’ennesimo fallimentare tentativo di far ri-vivere dei rituali “superati”e inadeguati alle dinamiche attuali. A tutto ciò obietterò con te-nacia. (continua a pag. 2)

Periodico studentesco

Anno 2014-2015

N. I

Art.21 “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il pro-prio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”

Politica— “...quando dicono ‘valutazione’ e ‘merito’ inten-dono qualcosa di incompatibile con la funzione attribuita alla Scuola dalla nostra Costituzione e dalla buona pedagogia, riferendosi, rispettivamente, a una selezione brutale e bana-lizzante su base presuntamente oggettiva e aspettative di un sistema produttivo che controlla ordina, prescrive e punisce allo scopo di evitare ‘spreco’ di risorse e di investimenti …”

Napoli-incontro vertice BCE

Libia

Assemblea permanente

Hong Kong

Attualità— Trentesimo anniversario della morte di Eduardo de Filippo, come la città si prepara all’evento

Il ruolo dei social network nella diffusione di movimenti rivoltosi Bar letterario Bellini: nuovo polo sociale e culturale nel centro del-la città

Antidemocratica gestione dei fondi scolastici per le attività extra-curricolari Fenomeno immigrazione

Otium et negotium — Intervista impossibile :Pasolini Recesione de “Le città invisibili”

Recensione di “Una storia semplice”

Work in progress nuovo album dei The Who Recensione “Quasi amici”

Recensione “Apocalypse now”

Recensione “Ib”, quando il gaming incontra l’arte

I manga

Sport — Una farsa chiamata Fair Play finanziario

Direttori: Eleonora Battinelli IIIF Vincenzo Fusco IIB Grafica: Alessandra Centore IVA Disegni: Costanza Marsico IIA Elisabetta Esrcizio IVA Giancarlo Cascino IIIF

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Questo è l’ultimo anno che trascorro al Vittorio Emanuele, mi trovo alla fine di un percorso di crescita umana e intellettuale e oggi sento di poter affermare con certezza che la scuola è, sì, luogo di formazione ed “educazione”, ma principalmente un campo di battaglia in cui si impa-ra a conoscersi e a capire come si pensa grazie a un continuo rapporto dialettico con gli altri, coetanei e professori. La scuola è imparare a far parte di una società, è imparare a considerare l’individuo altro nelle sue scelte e nelle sue idee, da accogliere o rifiutare con senso critico. La scuola è questo e molto altro, ma lo ha dimenticato e lo ha fatto dimenticare anche a noi, che abbiamo smesso di pretenderlo, quasi sedati, ipnotizzati, addormentati. Anche al di là dei sogni nostalgici di chi nell’infanzia ha nutrito le proprie aspettative sul liceo col mito de “L’attimo fuggente” e dei racconti dei propri genitori sui ”meravigliosi anni Set-tanta”, ci si ritrova oggi in una realtà deludente. Quello del liceo è, infatti, un momento della vita unico in quanto caratterizzato dall’immaturità fiera e consapevole – o fieramente consa-pevole – propria solo di chi è tra i quindici e i vent’anni e scopre se stesso ed è sospeso peren-nemente tra la realtà e un brulicante mondo interiore confuso e affollato da un turbine di sen-timenti contrastanti, dalla voglia di contestare ciò che non va, dalla voglia di conoscere, dalla voglia ancora di farsi delle domande e cercare di trovare delle risposte. Se, però, mi volto in-dietro e do uno sguardo a me e agli amici con cui ho condiviso questo percorso, scorgo un paesaggio desolato. Ho visto quel meraviglioso serbatoio di energie dissiparsi e la vivacità in-tellettuale, la creatività e la voglia di mettersi in gioco consumarsi e spegnersi così come si erano accese. Ho visto giovani menti promettenti seppellire i propri sogni e le proprie passioni di fronte a una classe docente che non si è rivelata all’altezza del suo compito, decisamente incapace di stimolare l’interesse. Ho visto chi ha soffocato la propria fantasia nell’isolamento, demotivato da una didattica asettica, fine a se stessa e oramai ingranaggio fondamentale del processo di formazione di un popolo privo di pensiero, silenzioso, comodo. Ho visto chi, pri-vo di una guida, dimenticando la realtà, si è abbandonato ai propri miti letterari, da loro schiacciato, oppresso. Ho visto chi, stanco, ha desistito e si è conformato alla massa vuota che, nella noia, non può far altro che ostentare una blanda infarinatura di “coscienza politica”. Perché impugnare un megafono e gridare slogan è coscienza politica. E’ sociale. Ho visto chi, perdendo ogni giorno un po’ di se stesso, è sceso a compromessi con le proprie priorità. Ho visto chi ha mortificato la propria identità rinchiudendo il proprio pensiero in quindici righe, non più di due righe a periodo. Coeso. Conciso. Sintetico. E ti sintetizzi il cervello. Ci hanno apostrofati “giovani della crisi dei valori”, “nativi digitali”; ci hanno convinti che il futuro è altrove, ovunque ma non qui, eppure in tutti questi anni non hanno mai provato a chiedere il nostro parere. Francamente sono arrabbiata. D’altro canto il fatto che L’Urlo, l’eco delle voci, delle urla, appunto, della scuola, non sia stato pubblicato per due anni è la più grande manife-stazione di una componente studentesca che, intorpidita, ammaestrata a non pensare, giace nell’inerzia e si lascia attraversare inconsapevolmente dai provvedimenti altrui. Dunque, at-tenzione: quest’editoriale non nasce con l’idea di dipingere un’atmosfera demotivante e ango-sciante, né di delineare le manovre economiche che hanno originato questo raccapricciante modo di fare scuola, che sono sicura molti potrebbero spiegare meglio di me e di cui, tra l’al-tro, parleremo esaurientemente nelle pagine successive. Quest’editoriale è piuttosto un’invocazione a quelle menti pensanti (che nonostante tutto so-no sicura essere numerose), che non vogliono rinunciare alla loro vivacità e alle loro aspettati-ve, a farsi avanti, a reinventare quei portali di comunicazione e dibattito che sono un nostro diritto e che il meschino ossequio del “dovere” ha ostracizzato da molte aule. L’Urlo è uno di questi portali e rinasce quest’anno proprio per offrire la possibilità di far valere la propria vo-ce e le proprie idee o, laddove mancano, di crearle attraverso il confronto con un’altra parte. Ci si riunisce ogni settimana il mercoledì al termine delle lezioni e ogni nuova iniziativa, dalla rubrica “Scuola” alla lettera al preside, dalla cassetta della posta situata all’ingresso della

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scuola dove si potranno consegnare dei messaggi che verranno pubblicati, da sottoporre alla redazione del giornale, agli studenti, alla classe docenti o alla presidenza, sono mirate a favo-rire proprio quella partecipazione che ora appare tanto distante e che pure dovrebbe essere la norma, per utilizzare una parola che non ci piace tanto. Libertà è partecipazione, diceva Ga-ber. Rendiamolo attuale.

Intervista alla professoressa Raiola Ho intervistato la professoressa Marcella Raiola per avere la sua opinione riguardo al sistema educativo basato sulla “valutazione” e sulla “meritocrazia”, concetti che si stanno facendo strada man mano attraverso le diverse riforme della scuola, a partire dalla riforma Berlinguer e poi, più intensamente, dalla riforma Gelmini nel 2007. Marcella Raiola è una docente pre-caria napoletana (membro del “Coordinamento Precari Scuola Napoli” e dei COBAS) che si “preoccupa” appunto di queste due idee, partecipando attivamente al dibattito. È quindi senza dubbio tra le persone che meglio ci possono offrire una prospettiva critica su significato, fine, e mezzi attraverso i quali si viene valutati e “classificati” al servizio di questi concetti.

POLITICA

Eleonora Battinelli IIIF

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Professoressa Raiola, lei si occupa principalmente di valutazione e merito. Potrebbe spie-garci di che si tratta, esattamente? «A dire il vero, mi occupo principalmente di istruzione, di educazione. Mi si potrebbe obiettare che educare significa commisurare il comportamento e l’apprendimento dei ragazzi a un modello ideale, personale o socialmente accreditato, sia che questo modello sia dichiarato e notificato, sia che resti presupposto e implicito, ma questo vuol dire solo che una valutazione ‘oggettiva’ non può esistere, non che la valutazione esaurisca tutto lo spettro delle azioni e relazioni che possono intercorrere tra studenti e insegnanti. In realtà, il termine ‘valutazione’ è suscettibile di essere in-terpretato in diversi modi… Anche il docente che valuta gli apprendimenti viene valutato… per come ha valutato (mi si perdoni il gioco di parole!), sicché direi che la valu-tazione, a scuola, è un processo bilaterale, basato sulla fi-ducia, cioè sull’emotività e non sull’oggettività, e dinami-co, nel senso che serve non a stilare classifiche, ma a rica-librare metodi, mezzi e obiettivi dell’apprendimento, te-nendo presenti i contesti in cui esso si verifica e propone. Se, però, la domanda si riferisce alla valutazione e al me-rito come termini-chiave usati dagli ultimi governi per le riforme della Scuola, allora posso rispondere che effetti-vamente mi ‘occupo’ di valutazione e merito, anzi direi che più che altro mi preoccupo, dal 2008 circa - da quan-do, cioè, i tagli Gelmini hanno impoverito la scuola sot-traendole 8 miliardi di euro e 140.000 posti di lavoro - di convincere i colleghi, gli studenti e i genitori che i governi post-berlusconiani e, quindi, anche il governo Renzi, quando dicono ‘valutazione’ e ‘merito’ intendono qualco-sa di incompatibile con la funzione attribuita alla Scuola dalla nostra Costituzione e dalla buona pedagogia, riferen-dosi, rispettivamente, a una selezione brutale e banaliz-zante su base presuntamente oggettiva e aspettative di un sistema produttivo che controlla, ordina, prescrive e punisce allo scopo di evitare ‘spreco’ di ri-sorse e di investimenti su ciò che non ha un immediato ritorno economico, cioè le vite umane, specie quelle di chi parte svantaggiato e solo con la Scuola può prendere coscienza delle proprie potenzialità. »

Da quanto questi concetti sono entrati in modo così rilevante nel panorama scolastico ita-liano ed europeo? « Direi che la necessità di neutralizzare ideologicamente la Scuola libera, di metter la ‘sotto controllo’, cioè, e di valutare i saperi acquisiti non più per la loro incidenza sulle scelte personali, civiche ed etiche dei futuri cittadini, ma per la loro possibile traduzione in ‘competenze’ utili all’assunzione di un ruolo professionale di basso profilo, fungibile e flessibile, si possa far risalire ai primi anni ’90. La creazione di organismi europei finalizzati all’elaborazione di piani di orien-tamento dell’istruzione data al ’92, e fu promossa dall’ERT, un consorzio di direttori di multina-zionali americane ed europee. Sono dei potentati economici, quindi, e non delle istituzioni, gli organi che hanno dato il via al nuovo modello didattico e gestionale di cui parliamo, il che deve far riflettere non poco. In Italia, la legge 59/1997 sull’autonomia scolastica, con il suo decreto attuativo, la legge 275/1999, recepiva questa istanza, strettamente legata ai fenomeni di riconversione industriale verificatisi con l’avvento della rete e la crisi dei vecchi modelli di produzione. Nel 2004, poi, con l’istituzione dell’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzio-

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ne e di formazione), tramite decreto legislativo (D.Lvo numero 286 del 19/11/2004), il cerchio si è chiuso, e la Scuola è piombata nell’incubo dei test, della ‘rendicontazione’, dell’ ‘accattatavillo’ tradotto in ‘Offerta formativa’ e dei progetti inutili e dannosi. »

Secondo lei, quali sono le ragioni per cui, a partire dalla Riforma Berlinguer e in modo de-terminante poi dalla Riforma Gelmini, si sono posti in maniera così rilevante in ogni suc-cessiva riforma della Scuola? «Beh… Su Facebook circola una frase attribuita a Calvino: ‘Un Paese che distrugge la sua scuo-la non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.’ Non so se Calvino abbia veramente pronunciato queste frasi, perché non ho avuto mo-do di verificarne la paternità e il contesto; come docente, peraltro, metto spesso in guardia i ra-gazzi dal prendere per oro colato quel che circola sul web, perché la rete è un prezioso strumen-to, è vero, ma anche un mezzo che facilmente manipola i dati e crea ‘mostri’; tuttavia, condivido e sottoscrivo la riflessione riportata, perché l’accanimento con cui i governi Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno aggredito, depauperato, diffamato, screditato e cercato letteralmente di smantellare la Scuola Pubblica non si spiega solo con la necessità di liquidare un Bene Comune e di trasformare in un ‘servizio’, cioè in un nuovo mercato capace di surrogare quelli ormai satu-ri, quello che era un ‘diritto’ (gratuito). La Scuola pubblica e l’Università sono stati e sono ancora, anche se in misura molto minore, do-po gli attacchi subiti, delle fucine di pensiero critico e analitico e, quindi, di dissenso politico. Dalle Università è nato il ’68 (che il ministro Sacconi, della compagine di Berlusconi, indicò co-me il Male assoluto da azzerare, nel corso di un suo intervento); dalla Scuola della Costituzione, che era un riequilibratore sociale, sono emerse tante intelligenze altrimenti condannate a restare nella subalternità. Direi che il potere (non più tanto democratico, dal momento che gli ultimi go-verni non sono stati eletti ma ‘nominati’), a partire dall’imbarazzante ministra Gelmini in poi, ha usato demagogicamente valutazione e merito come alibi per escludere dalla fruizione e persino dalla rivendicazione dei diritti (se uno non conosce i suoi diritti, non li pretende neppure!) una vasta fascia di popolo, evidentemente perché c’è interesse a ridurla a ‘massa’ di abulici e sot-toacculturati consumatori. » Quali sono gli strumenti attraverso i quali gli studenti e i professori vengono valutati? Che cosa comporta una valutazione buona o cattiva? « In un’ottica ‘paneconomicistica’ (che riporta tutto, cioè, al guadagno economico e alla produ-zione concreta di beni come al solo obiettivo ‘utile’ degli individui, non a caso definiti ‘capitale umano’), il valore di una Scuola si misura in termini di qualità, come per il tonno. Ci sono le scuole di prima scelta e quelle di marca scadente, che il consumatore attento deve scartare, ovve-ro lasciare alla gente di serie B, quella che non può permettersi il meglio. Lo strumento principale attraverso cui stabilire la classifica delle scuole è l’Invalsi, un acronimo che indica sia l’Ente di valutazione cui si affida il Ministero, sia, per metonimia, le batterie di test che i suoi esperti preparano per stabilire quanto i ragazzi e i loro docenti sono bravi. I test, soprat-tutto per l’italiano, sono spesso risibili e asfittici; tra l’altro, non ‘testano’ la fondamentale capaci-tà di comporre uno scritto coerente e coeso, perché si limitano a proporre esercizi di comprensio-ne. Identici e standardizzati per tutti i territori, gli istituti e le realtà sociali, cosa già di per sé anti-didattica e inaccettabile, gli Invalsi espropriano i docenti delle loro prerogative e non sono per nulla imparziali (né tantomeno anonimi!); le batterie di test ‘somministrate’ (così dice l’Invalsi: somministrare, come se si trattasse di una purga!), da risolvere in un lasso di tempo perentoria-mente stabilito, sono avulse dalla programmazione scolastica, sicché costringono l’insegnante, dalla primaria alle superiori, ad ‘addestrare’ gli studenti a risolvere quizzetti, con gravi ricadute sulla relazione didattica e sulla costruzione critica dei significati. L’Invalsi giudica i ragazzi a partire dal loro grado di passività e obbedienza alla logica del quiz

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stesso, scartando e, anzi, condannando ogni osservazione critica che lo studente volesse avan-zare al di là dei paletti che gli mettono i quesiti. Nel 2006 sono stati introdotti come prova ob-bligatoria dell’esame di Terza Media e i loro esiti sono stati equiparati al punteggio attribuito a tutto il curriculum degli studenti, determinando un’oscillazione al ribasso dei voti che da allora continua a generare rabbia e frustrazione. Gli studenti sono dunque paradossalmente valutati in base alla capacità di non pensare, alla di-sponibilità a farsi plagiare e alla renitenza a interagire con i compagni (ognuno per sé, in com-petizione sfrenata!); i docenti sono valutati a partire dalla tabulazione degli esiti dei test, cui l’Ente si arroga il diritto di attribuire un tasso di invalidità per ‘cheating’ (suggerimento o in-tervento fraudolento del docente) le cui percentuali sono fissate in modo del tutto arbitrario. Molte scuole che avevano presentato quiz perfettamente eseguiti, infatti, sono state penalizza-te, negli anni, perché l’Invalsi ha ritenuto che l’aliquota delle soluzioni fosse troppo alta per risultare ‘farina del sacco’ degli studenti! Se i risultati dei test non sono soddisfacenti, la Scuola viene declassata, definanziata, sottopo-sta a ispezione e, infine, chiusa. A New Orleans, in America, già non esistono più scuole pub-bliche! I docenti somari (quelli, cioè, i cui alunni non mettono bene le crocette o quelli che si rifiutano di ‘purgare’ i loro alunni), secondo il decreto 124 della ministra-lampo Carrozza, avrebbero dovuto sottoporsi ad un aggiornamento obbligatorio, cioè sarebbero dovuti andare ‘a ripetizio-ne’ da formatori Invalsi che avrebbero insegnato loro come si insegna. Con il progetto di Ren-zi, la condizione dei docenti che rifiutano l’Invalsi rischia di diventare ancora più miserevole e umiliante, perché il fallimento degli Invalsi comporterà per i somari la necessità di cambiare scuola e di inserirsi in una realtà nella quale ci siano insegnanti capaci di indottrinarli e rimet-terli in quota! La cosa oscena è che questo criterio pretende di essere il solo valido e ‘produttivo’. Ancora più osceno è il fatto che i ministri lo abbiano praticamente trasformato in una prassi obbligatoria senza curarsi minimamente delle critiche e violando la deontologia e l’etica professionale degli operatori della Scuola. Non solo. Oltre all’Invalsi, i docenti rischiano di essere sottoposti al controllo diretto del preside, il quale potrà elargire premi in denaro ai più ‘ubbidienti’ e fedeli e licenziare quelli che non si conformeranno al suo volere, che è poi quello del governo. Insom-ma: stanno cercando di trasformare la Scuola, luogo in cui è assolutamente necessario che viga collaborazione, in una caserma, nella quale tutti sono contro tutti per avere qualche spicciolo in più, e in cui i ‘caporali’ vessano le matricole, mentre il generale decide della sorte di tutti. Un regresso pedagogico, etico e culturale tremendo e avvilente! Quando, dunque, il governo parla di ‘valutazione’, in filigrana intende dire che darà soldi solo alle scuole che risulteranno migliori secondo il fallace e capriccioso Invalsi; quando parla di ‘merito’ e di meritocrazia per i docenti, intende dire che, non potendo ricalibrare lo stipendio di tutti i docenti, bloccato da anni, darà un premio economico solo ai pochi che accetteranno le nuove regole, cioè che favoriranno la trasformazione della Scuola da ‘organo costituzionale’, che emancipa tutti i cittadini, in un’azienda che sforna ‘capitale umano’ per le aziende interes-sate ad assumere personale usa-e-getta. »

Secondo lei, l’utilizzo di uno strumento di valutazione puramente numerico come quello attuale, è un bene o un male per l’istruzione? Per quale ragione? «Il numero è il corr ispettivo, sintetico, di un giudizio espresso in relazione al lavoro svol-to, al livello di rielaborazione dei dati raggiunto dagli alunni. Il cuore del problema, quindi, non è il voto numerico, ma la valutazione, il modo in cui viene concepita dai docenti e perce-pita dagli studenti. Personalmente trovo poco funzionale il voto, perché, come si sa, non tutti i processi di apprendimento sono uguali e un voto può appiattire, nella lettura, due tipologie di approccio alla conoscenza completamente diverse, oppure può sovrapporre indebitamente due ordini di difficoltà differenti. Il fatto è che la valutazione è organica a un certo tipo di didattica,

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«Innanzitutto è una proposta inaccettabile nel metodo, perché è calata dall’alto senza pre-vio ascolto dei lavoratori del settore (docenti, studenti, dirigenti) e delle famiglie; è, inoltre, il-legittimamente avanzata, dal momento che per cambiare la scuola, la sua funzione e i suoi as-setti tanto radicalmente quanto postula il progetto scellerato di Renzi, appunto, occorre avere un mandato popolare che questo governo non ha, e occorrerebbe accendere un dibattito sociale e poi parlamentare che non è stato mai promosso e che non ci sarà, dal momento che, quale che sia l’esito della pseudoconsultazione avviata (in stile Invalsi), è già stato annunciato un decreto-legge immediatamente operativo e vincolante senza discussioni, che conterrà e imporrà tutto in piano! (il decreto-legge dovrebbe essere emanato solo per le urgenze e le emergenze, quali le catastrofi naturali etc.). Soprattutto, però, è irricevibile e pericoloso per i contenuti, perché si configura come un ricatto ai docenti precari da anni (l’assunzione viene concessa come una grazia e solo a patto che questi docenti, che da anni portano avanti la scuola, accettino condizioni di la-voro assurde, una selvaggia mobilità e l’utilizzo come ‘tappabuchi’ a vita!), e perché dissolve la funzione educa-tiva della Scuola, trasformandola in un’azienda al servi-zio dei privati, che entreranno coi loro interessi nella Scuola, mettendo il bavaglio ai docenti, facendo dell’In-valsi l’unico metodo di valutazione degli studenti e dei professori, creando un preside-sceriffo che, eliminata la collegialità delle decisioni, potrà sanzionare e censurare ogni dissenso e ogni critica, oltre che scegliersi i docenti come più gli piacerà e, infine, scagliando i docenti e gli studenti gli uni contro gli altri, i primi per raggranellare qualche soldo in più, visto che saranno aboliti gli scatti stipendiali, e gli altri per potersi mettere in mostra in mo-do da sperare in un lavoro futuro che sarà sempre praca-rio e a rischio costante… Insomma: se è vero che la Scuola è un organo costituzionale, come diceva Calamandrei, questo progetto è un vero e proprio ignobile colpo di Stato, e va scongiu-rato assolutamente. Ne va della tenuta della società, già ferita dalla negazione fattuale del dirit-to allo studio a migliaia di studenti provenienti da famiglie a basso reddito. »

Ha qualcos’altro da aggiungere a cui non ha avuto modo di rispondere nelle domande precedenti? « Dovrei par lare delle lotte condotte dai docenti, della reazione politica e professionale al-lo sfascio progressivo e programmato della Scuola pubblica, una reazione che, purtroppo, non è sempre stata all’altezza della gravità della minaccia, anche perché il governo è stato furbo a dividere le diverse categorie di docenti con promesse false… Ma è un discorso complesso, che prenderebbe molto spazio e tempo… »

Grazie mille ancora per averci dato un parere sul modello verso cui la Scuola si sta orien-tando. «Grazie a voi e complimenti per la sensibilità e l'impegno che mostrate»

Lorenzo Pica Ciamarra IVA

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Mors tua vita mea.

Il 2 ottobre si è riunito a Napoli il Governing Council della Banca Centrale Europea. Al vertice, tenutosi nella reggia del bosco di Capodimonte, hanno partecipato il presidente Mario Draghi con la sua èlite di banchieri parassiti, il presidente della Commissione Europea Manuel Barroso e il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Si sono riuniti per tracciare un nuovo grandissimo piano di distribuzione fondi per i paesi dell'Unione Europea, buona parte dei quali sarà inviata in Campania ed in particolare a Bagnoli. Potrebbe sembrare un punto di svolta nella rivalutazione di un territorio dissestato come quello dell'ex Italsider; eppure i circa 20 milioni di euro, stanziati come “fondi per la riqualificazione”, verranno amministrati dagli stessi che hanno causato la rovina di quel territorio, unicamente per i loro crudi interessi. Ancora una volta pochi membri elitari di un organo non eletto hanno tentato di decidere per milioni di persone. Eppure questa volta non hanno trovato nessun “red carpet” ad attenderli. Hanno trovato centinaia di stu-denti, operai, lavoratori, precari, professori, attivisti, militanti, membri dei centri sociali di tutt' Italia che con le maschere di pulcinella, simbolo non solo della napoletanità, ma anche dell'intero strato popolare vittima di queste politiche di austerità, uniti dallo slogan 'BLOCKBCE', hanno manifestato il loro dissenso bloccando Napoli con un corteo ai Colli Aminei di circa 5000 perso-ne. I manifestanti, giunti al limite della zona rossa, posta sul tondo di Capodimonte, hanno incon-trato l'abominevole repressione da parte delle forze dell'ordine, “lobotomizzate”, che riportando in auge la moda dell'idrante hanno fermato un compagno nell'atto di superare simbolicamente questo limite con l'esposizione di uno striscione. Nonostante questo, il corteo ha continuato il percorso attraverso i quartieri popolari ricevendo numerosi applausi, e dimostrando che migliaia di persone sono scese in piazza per dire basta a questo sistema eurocratico e tecnocratico. Infatti, l'UE è natacome unione economica e commerciale, e ciò che la tiene unita è esclusiva-mente la sua moneta, l'Euro, che è di proprietà della sola BCE. La BCE è un entità privata, che quindi ha la possibilità di stampare e prestare soldi alle banche nazionali ad essa subordinate, ad-debbitandole con conspicui interessi. Ma la BCE non è come le altre banche che fanno da sempli-ci tesoriere del denaro, difatti, essa ha il compito di dirigere la politica economica di tutti gli stati europei, seguendo, però, le esigenze del mercato. Ciò ha comportato, soprattutto nei paesi del sud europa (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia), politiche di austerità e tagli al welfare, quindi tagli al lavoro, all'istruzione, alla sanità, ai trasporti, alle infrastrutture, con il pretesto del pareggio del bilancio, stabilito per giunta dagli stessi tecnocrati della banca di Mario Draghi. Per politica eco-nomica si intende l'amministrazione del denaro pubblico, e in particolare secondo quale ideologia ed ad interesse di chi viene utilizzato questo denaro. Pertanto, l'UE non solo ha impedito al citta-dino di essere portatore della propria moneta, ma ha impedito anche agli stati di amministrare i soldi dei propri cittadini.. Infatti, un conto è entrare in crisi per scelte politiche autonome, sebbe-ne sbagliate, un altro è entrarci per mano di qualcun altro che ricava profitto dalla tua condizione di perenne povertà. È per questo che dagli ultimi 3 anni non andiamo a votare. È per questo che gli ultimi tre governi hanno difeso gli interessi di quei tecnici criminali in giacca e cravatta che con un paio di conti a tavolino si prendono la briga di decidere la vita di noi cittadini. È per questo che restiamo in una situazione di crisi economica perenne, dove la ripresa è sempre annunciata, ma mai prossima. I problemi nascono dal fatto che quest'unione europea è strutturata in modo tale da negare ogni po-tere decisionale ai singoli stati, poichè in quanto entità sovranazionale si erge sopra di essi, impo-nendo politiche economiche che non fanno altro che alimentare il sistema capitalistico e fare gli interessi della classe dominante, la borgesia, contro la classe dominata. E questo non è pensiero nazionalista, noi siamo per un unione politica ed economica tra i vari stati. Ma non con queste re-gole. Vogliamo un Unione Europea di persone, non di banche. Di pensieri e di coscienze, non di moneta. La paura del nazionalismo è proprio quella che l'Ue vuole infondere al popolo, oltre ad essere il pretesto per legittimare la nascita dell'unione stessa. Infatti i concetti di 'unione', 'pace', 'uguaglianza' vengono spesso strumentalizzati per accentrare il potere nelle mani di pochi. Non è affatto vero che restare popoli con la propria identità culturale porti ad uno stato di conflittualità

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perenne e di guerra: se queste persone nella loro diversità sono accomunate da un unico inten-to, non ci sarà alcun conflitto, anzi esso ci sarà proprio quando le cosiddette nazioni senza sta-to saranno costrette a far parte di unico sistema. Sinceramente io preferisco la colorata e vivace diversità del mondo che ci è sempre stata ed è necessaria che ci sia rispetto alla triste e grigia omologazione delle masse. Essa, infatti, non è altro che la conseguenza del graduale accentra-mento del potere, e l'Ue e le altre entità sovranazionali ne sono un primo passo, che potrebbe concludersi, chissà, con l'instaurazione di un ordine mondiale.

Marcello Di Francia IIG

La Libia sprofonda (e l’Italia ha paura)

Di Libia in Italia si parla poco. Siamo concentrati su altre tematiche. Eppure per chi, come l’I-talia, ha una dipendenza importante dalle forniture energetiche libiche è una situazione compli-cata. Sicuramente pochi sapranno che la Libia ora è controllata da milizie armate, che dopo l’uccisione dell’ambasciatore americano Chris Stevens hanno iniziato a farsi valere con atten-tati, uccisioni ed intimidazioni. Per farci un’idea, contro Gheddafi di queste milizie combatte-rono in diecimila, ora sono circa cinquantamila uomini. Adesso vi chiederete: cosa a che fare tutto ciò con l’Italia? In primo luogo le milizie che controllano il territorio bloccano la produ-zione e l’esportazione di gas e petrolio per farsi valere. La tattica è senza dubbio efficace, ma il risultato è che dal mezzo milione di barili al giorno prodotti nel 2012 si è scesi ad una quantità che oscilla tra i 170.000 e i 250.000 barili al giorno. Lo stesso vale per il gas, in termini di percentuale. Tutto ciò è un’arma a doppio taglio: i Paesi importatori ne risentono enormemente (l’Italia è passata dal 23% del suo fabbisogno soddisfatto con il greggio libico al 12% e il gas viene importato per il 40% in meno), allo stesso tempo le finanze della Libia vanno in crisi, abituate a guadagnare unicamente dall’esportazioni di energia. Pertanto si creano premesse per

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nuove proteste armate e nuove destabilizzazioni. Nonostante ciò, l’Eni ha mantenuto un margine di profitto alto se messo in relazione con quello di altre compagnie energetiche europee presenti nella nostra ex colonia. E, allora, come dobbiamo guardare alla crisi ucraina, ancora aperta a tutti gli sviluppi, ora che la Russia ha dichiarato un rallentamento delle sue forniture energetiche? E quanto possiamo fidarci dell’ Algeria, la più grande fornitrice di gas dell’Italia dopo la Russia, dal momento che Bouteflika è stato rieletto tra molte polemiche? La risposta risiede senza ombra di dubbio nella diversificazione delle fonti, si pensi allo shale gas degli USA, che tuttavia com-porta un aumento dei costi e delle difficoltà tecniche. Sembra, inoltre, che lo scoppio di un nuovo caos libico creerebbe un incremento dell’immigrazione dalle coste della Libia. Nel 2014 sono ar-rivati 25 mila “disperati” e sappiamo benissimo quanto il sistema di accoglienza sia al collasso (vedi CIE). Il 93% di questi proviene dalla Libia, da cui partono barconi con persone provenienti dall’ Africa nera, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia e dalla Siria sognando tutti l’Italia porta dell’Europa. Si pensa che ci siano addirittura altri diecimila richiedenti asilo. Ma se la Libia scop-piasse in un nuovo tumulto dovremmo aspettarci cifre di gran lunga superiori. E tutto ciò mentre l’ Europa non modifica le sue regole, anzi va sempre più verso l’estrema destra con la volontà di precludere la possibilità a queste persone di approdare in un luogo più sicuro del proprio paese. Se volessimo fare delle proposte per risolvere questo problema a chi dovremmo rivolgerci ? Ad un governo inesistente e privo di poteri effettivi ? O dovremmo andare a caccia dei capi di ogni milizia ? Dopo poco tempo dalle elezione europee non esistono risposte certe. Tutto questo acca-de mentre l’Italia si mobilita e prepara quattrocento militari libici addestrandoli a Cassino (ma qualcuno lo sa?) e l’Onu nomina un rappresentante di alto livello incaricato di lavorare sul campo in Libia, senza che le possano essere rivolte ovviamente accuse di partigianeria nazionale. Si do-vrà, dunque, concedere una qualche autonomia vera alla Cirenaica. Si dovrà trovare un modo per dividere tra le varie milizie i proventi dalla vendita del greggio in cambio della consegna delle armi. Si dovrà affrontare la questione dell’ immigrazione

Ottimismo ? Mi torna in mente quello dell’autunno 2011.

Vincenzo Antonio Fusco IIB

L’ Autogestione come mezzo di comunicazione

Torna l’autunno caldo, quello delle insoddisfazioni, quel periodo in cui desiderosi di farci sentire ci inventiamo mille diversi modi di urlare. E anche quest’anno, in preda al malcontento collettivo per la nuova riforma Renzi che va nuovamente ad intaccare e a svalutare la scuola degli studenti, si esprime il dissenso generale nella protesta. Una protesta sentita, che ha come fine quello di soccorerre la sempre più precaria scuola. E che senso ha una protesta se non lo scopo di comuni-care, far presente il disagio e l’incertezza di un futuro che in questo Paese sembra esserci negato? Aprirsi all’esterno, creare collettività attraverso la democrazia, informare e consapevolizzarsi, so-no questi i princìpi che incarna l’autogestione che è diventata ormai una tradizione del Vittorio

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Emanuele II. Si tratta di “ autogestire” la scuola per una settimana creando una didattica alterna-tiva che ha il coraggio di affrontare tematiche più immediate e creative: da corsi di musica, a corsi di attualità, da laboratori linguistici a quelli artistici. Una comunicazione efficace, che ve-de protagonista lo studente, che ha la possibilità di sperimentarsi nel tenere un corso o di speri-mentare nel seguirlo. Un anello di congiunzione tra studenti e corpo docenti , un vero e proprio “ appello al dialogo” per l’affermazione dei diritti dello studente. Una settimana coinvolgente che si rivolge al singolo in quanto garantisce la massima libertà d’espressione in ognuno, e alla collettività in quanto in essa trae il fondamento del suo messaggio: “sentirsi appartenenti alla comunità scolastica e parteciparvi attivamente” perché solo in questo modo riusciremo a difen-dere l’istituzione madre della società: la Scuola.

Alessandra Buonaiuto IF

Hong Kong: simbolo della lotta per la democrazia Da quasi un mese a Hong Kong migliaia di persone protestano pacificamente nei principali quar-tieri della città, raccogliendo nelle maggiori piazze studenti e lavoratori, che chiedono al governo cinese di mantenere una promessa fatta sedici anni fa: Democrazia. L’isola di Hong Kong da co-lonia britannica per più di un secolo, è ritornata alla Cina, nel 1997, dopo una trattativa durata mesi con il governo di Margaret Thatcher. Il governo cinese parlò di “un paese, due sistemi” ov-vero dell’instaurazione di una piena democrazia. Questo fu fatto per sottolineare anche come le cose sarebbero funzionate diversamente dal resto della Cina. Dittatura da una parte, sistema parti-tocratico dall’altro. E, anche dopo la restituzione, l’isola ha sempre mantenuto la propria vocazio-ne capitalistica. Infatti Hong Kong con i suoi otto milioni di abitanti è una delle metropoli cosmo-polite e uno dei centri finanziari più vivaci e importanti al mondo. Questa promessa di democra-

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zia e autonomia, tra l’altro sancita dalla costituzione dell’isola, però, non è stata mai mantenuta. Anzi, diminuendo progressivamente il governo centrale , dal ’97 ad oggi, le libertà istituzionali di Hong Kong. Le imposizioni da parte del governo cinese sono culminate nel settembre del 2014 con la decisione di limitare a due o tre i candidati alle elezioni che nel 2017 decideranno il nuovo governatore di Hong Kong. Candidati che saranno inevitabilmente di comodo, dal momento che dovranno essere approvati da una commissione elettorale nominata da Pechino. Questa decisione ha scatenato le proteste di migliaia di persone, soprattutto studenti, che si sono mobilitati, “barricando” le maggiori vie della città, principalmente nel quartiere centrale di Hong Kong, sede di edifici governativi. E’ l’inizio di “ Occupy Central”. La protesta, che si allarga a macchia d’o-lio in tutta l’isola, vede una dura repressione da parte sia della polizia che da malavitosi prezzola-ti, “camuffati” da cittadini al servizio della mafia cinese, che da anni fa affari con Pechino. Intan-to il governo centrale cerca di censurare le vicende dichiarando la situazione all’occidente come “questione di affari interni” e ,con la paura di una seconda Tienanmen, mobilita contingenti delle proprie forze armate, pronte nel caso la situazione sfuggisse di mano al governo locale. Intanto dopo vari ultimatum sia da parte del governatore dell’isola Chun-ying che da parte dei manife-stanti, il segretario generale Carrie Lam decide di incontrare una delegazione di manifestanti il 21 ottobre. Cambiano i toni ma non le posizioni, con il governatore che avverte: << la democrazia “non è possibile” perché porterebbe “i poveri al posto di comando”>>. In ogni caso, i due schie-ramenti dopo un mese di lotte, vedono questo incontro come un primo passo verso un dialogo che porterà ad un punto d’intesa, auspicando tutti ad un ritorno della pace nelle strade di Hong Kong il più presto possibile, ma soprattutto al ritorno della “Democrazia”.

Pietro Pelvi ID

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Napoli milionaria Sembra quasi di sentire la voce stridula dell’ingenuo Luca Cupiello che implora suo figlio di sve-gliarsi mentre, girovagando per le strade del centro storico, ci s’imbatte in un affresco raffiguran-te una scena de “Il sindaco del Rione Sanità” o il celeberrimo balcone di “Questi Fantasmi”. E ci sarebbero tanti altri esempi da fare, momenti e nomi da citare tra i protagonisti delle infinite ep-pur mai monotone commedie del grande autore, poeta ed attore partenopeo, baluardo di un patri-monio teatrale che si approssima all’autodistruzione. La Napoli Milionaria descritta nei monologhi intrisi di terrore e moralismo di Filumena Martura-no o di Antonio Barracano, i vicoli che custodiscono la tradizione dei pastori ed in cui si può re-spirare l’aria natalizia anche in pieno giugno sembrano essersi abban-donati alla frenesia dalle schedine della Domenica, alle discussioni intavolate davanti ad un caffè per designare il nuovo allenatore della squadra del cuore o per figurarsi, anche solo per poco, nella figura di coach in grado di conquistare il triplete, abbandonando quella che è la vera napoletanità, ossia la capacità di entusiasmarsi, di ridere nel dramma, musicandolo, ritessendone i contorni, riproponendo scene di vita quotidiana in chiave artistica ed inimitabile. Un segnale importante ci è giunto dalla nostra Università, la Federico II, la quale ha permesso agli studenti della facoltà di Lettere Moderne di seguire un convegno sulla poetica e sul Teatro del maggiore dei fratelli De Filippo, dimostrazione che, nonostante tutto, la città sem-bra essere ancora legata alla sua cultura ed alla sua storia, anche se questa viene raccontata attraverso i motti arguti o gli occhi folli e pes-simisti delle centinaia di figure che animano i fotogrammi eduardiani. Al pari di un monastero medievale, la Commedia di Eduardo, ora più che mai, rappresenta l’unica fonte di sopravvivenza dell’anima di una città forgiata dall’arte e dalla creatività. Basta guardarsi intorno per ritrovare le strade che hanno ispirato il Genio, le situazioni che osserviamo quotidianamente seppur in modo passivo e di cui ignoriamo la straordinaria importanza o drammaticità. In una località attanagliata dal terrore, schiava dell’ignoranza e della criminalità, il Teatro potrebbe rappresentare lo strumento giusto per indirizzare le generazioni future e rieducare quelle passate al rispetto del proprio territorio e della propria storia, non lasciandosi influenzare solo dai moderni pseudo-best sellers che raccon-tano di malviventi appetibili e camorristi magnanimi, al fine di far comprendere a tutti che una parte della città, forse, non è condannata a morte, ed è compito nostro salvarla, rivivendo ed elo-giando quella che è la sua bellezza e la sua poesia. Bisognerebbe lasciare più spazio all’arte, non limitandosi semplicemente ad una rappresentazione iconografica di quello che è stato, bensì incentivando gli spettacoli, rendendoli accessibili a tutti, rinfoltendo le stagioni teatrali, dando dimostrazione della vera arte di fare teatro. Soltanto in que-sto modo potremmo impedire che la flebile fiamma del sogno e dell’immaginazione, cui Eduardo ha dato vita in questa città, si affievolisca dentro ognuno di noi, rendendoci schiavi delle colonne di cronaca e dei programmi tv, impedendo a quella che è la nostra innata capacità di entusiasmar-ci, di prendere il sopravvento e guarirci dalla sofferenza.

ATTUALITÁ

Raffaelle Granata IF

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L’ondata di proteste che ha investito il mondo arabo nel 2011 non ha precedenti nella storia dell’area nordafricana e mediorientale. Molto si è discusso, soprattutto tra l’opinione pubblica occidentale, sul ruolo svolto nella diffusione delle rivolte dall’utilizzo, da parte dei manifestanti, dei Social Network. Questi, rivestendo una funzione determinante nelle comunicazioni di una società moderna e alterando il modo in cui i cittadini si relazionano e scambiano informazioni, idee e notizie fra di loro, sono stati infatti indicati come uno dei possibili fattori di novità che hanno portato le proteste popolari a rovesciare dei regimi pluridecennali. Grazie a tali mezzi di comunicazione, i cittadini di Paesi dove la libertà di espressione è stata per troppo tempo soffo-cata hanno trovato nuovi canali per poter mettersi in contatto e cercare, “travolgendo censura e repressione” (1) , di scardinare il sistema di potere.

Vedere scendere una considerevole massa di persone nelle piazze di Paesi accomunati da regi-mi autocratici, che hanno sempre lasciato poco spazio ai diritti civili dei cittadini, è stato un se-gnale importante per la Comunità Internazionale. L’esempio di ciò che è avvenuto prima in Tu-nisia, poi in Egitto, ha innescato, infatti, una sorta di effetto domino che, veicolato dalle TV sa-tellitari arabe e dai canali informatici di comunicazione, ha investito quasi tutti i Paesi della re-gione. Soprattutto il web è stato fin da subito indicato come il fattore più determinante nella dif-fusione delle proteste, tanto che si è arrivati a parlare di “Wikirivoluzione” (2) o “Rivoluzione dei Social Network”. Tuttavia, nonostante questi ultimi siano andati ad occupare una posizione di primo piano nella mobilitazione sociale in Paesi dove il controllo delle autorità sugli altri ca-nali di comunicazione era molto severo, non bisogna trascurare ulteriori elementi che hanno concorso allo sviluppo del movimento: in particolare, non si deve sottovalutare la potenza di-rompente che hanno avuto le televisioni panarabe nel riuscire a creare una vera e propria co-scienza collettiva, condizione decisiva per la propagazione a livello sovranazionale delle prote-ste. C’è da aggiungere, però, che mettendo in contatto un numero ingente di cittadini, e favoren-do la condivisione di contenuti che altrimenti sarebbero stati censurati, Facebook e Twitter han-no sicuramente accelerato la diffusione di notizie che avrebbero impiegato molto più tempo pri-ma di “approdare” sui media tradizionali, dal momento che, come si è detto, in tutti i regimi in questione il diritto di associazione e la libertà di pensiero erano in vario modo soffocati.

Malgrado questa rilevanza assunta dai Social Media durante la Primavera araba, voler chiamare le ribellioni arabe “Facebook revolutions” o “Twitter revolutions” appare, per diverse motiva-zioni, una sorta di azzardo: e questo innanzitutto perché in molti Paesi della regione, internet possiede una bassa penetrazione sociale. I Social Network, dunque, dato l’esiguo numero di utenti provenienti dai Paesi interessati nei movimenti, peccano di scarsa rappresentatività, per-ché i loro fruitori costituiscono, di fatto, una minoranza. Un’ulteriore debolezza dei Social è co-stituita dal loro potenziale mobilitante: nelle forme di attivismo “tradizionali”, ciò che veramen-te conta è il legame forte e diretto fra il singolo attivista e la causa. La forma di attivismo che viene invece veicolata dai Social Network è esattamente agli antipodi, in quanto è costruita at-torno a legami “deboli”: con i Social Network si possono letteralmente coinvolgere migliaia di persone in una causa, semplicemente perché aderire non costa nulla. A parte il click di un mou-se, divenire un “attivista” in questo modo non costringe a confrontarsi e a battersi contro norme politiche e comportamentali tradizionali e non vi è rischio di incappare in stigmi sociali. Al di

Le idee viaggiano più veloci del web Perché la rivoluzione non la fanno gli strumenti con cui essa viene portata avanti

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là, poi, della flebile natura dei legami che caratterizzano l’attivismo politico tramite Social Me-dia, un’altra rilevante differenza è rappresentata dalla assoluta assenza di una qualsivoglia forma di “organizzazione gerarchica” (3) – fattore che ha contraddistinto storicamente i movimenti rivo-luzionari più efficaci.

•da I gelsomini tunisini viaggiano in rete , in “Internazionale”, di Manuel Castells, 4/10 febbraio 2011

•da Twitter non fa la rivoluzione , in “Internazionale”, di Malcom Gladwell, 4/10 febbraio 2011

Facebook e Twitter sono strumenti che facilitano la creazione di “network”, o reti di contatti, che sono strutturalmente l’opposto di una gerarchia con le sue regole, procedure interne, e soprattutto sotto il controllo di una singola autorità: costituiscono dei “sistemi di organizzazione privi di cen-tro e di leader” (4). E questa struttura decentralizzata è fondata su di un processo decisionale basa-to sul consenso, cosa che se da una parte conferisce notevole flessibilità, dall’altra kimpedisce la formulazione di un’agenda strategica che esuli dall’immediato. In quest’ottica, laddove nella re-gione le proteste popolari sono riuscite nel comune obiettivo di cacciare il “ tiranno”, si assiste ora ad un processo caotico in cui la debolezza dei legami fra manifestanti e struttura decentraliz-zata del movimento minacciano di sfaldare l’unità popolare, generando così grande disorienta-mento politico. Insomma, è chiaro che “Twitter non fa la rivoluzione”(5), anche se la copertura mediatica assicu-rata dai Social Network si è rivelata estremamente efficace sia per la mobilitazione della società e per il supporto morale ai manifestanti, sia per il consolidamento del sostegno internazionale alle proteste. Comunque, il concetto che la tecnologia ed internet da soli possano essere portatori di cambiamento politico o di rivoluzioni sembra essere tramontato, anche perché il successo di una rivoluzione è dato dal suo contesto politico e dai rivoluzionari che la dirigono e non meramente dagli strumenti con cui viene portata avanti.

Raffaele Marrone IIIE

Terra di cultura Talora mi viene da pensare che il motivo per il quale vi è difficoltà a comunicare o a discutere tranquillamente di tutte le ricchezze,ma anche di tutti i problemi che ci circondano,sia semplice-mente perché non vi è un luogo tranquillo e neutrale dove potersi rilassare e dove poter dare spa-zio alla mente di riflettere. E allora quale posto migliore di quelli che oggi vengono chiamati “caffè letterari”? È un'idea innovativa,ma che fonda le proprie radici ben lontano dai nostri tempi. Nel 1700 gli intellettuali erano soliti riunirsi per discutere di argomenti di attualità politica, cultu-rale e sociale. In Italia il primo caffè letterario venne istituito a Milano nel 1764 da Pietro Verri, filosofo, storico e scrittore. La volontà di creare questi luoghi nacque dall'esigenza,sotto un regi-me di dispotismo illuminato, da parte degli intellettuali, di plasmare l'opinione pubblica e spinge-re la borghesia a formare una propria coscienza critica politica e sociale. Ciò scaturiva dal fatto che la cultura ufficiale non accettava le nuove istanze culturali. E’ questa la motivazione che in tutte le epoche successive ha contribuito alla formazione di questi salotti. Le assemblee si svolge-vano in salotti privati,dove spesso la padrona di casa era una donna. Le attività e le discussioni erano gestite da una figura intellettuale preminente femminile, che indirizzava le conversazioni verso nuovi argomenti politici, sociali e culturali. Attualmente come allora si è avuta l'esigenza di

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restaurare questi caffè. Oggi nascono come luoghi di aggregazione,in un momento nel quale non vi sono posti dove poter riunirsi, essere indirizzati e stimolati. Questa necessità di riappropriarsi di un territorio e della sua cultura è sentita in tutto il nostro paese e si realizza anche nel 1989 a Napoli nel cuore del centro storico, che noi tutti viviamo quotidianamente, con la nascita del caf-fè letterario “Intra Moenia”, il quale negli anni è divenuto punto di incontro per noi giovani. Le differenze con il Settecento sono notevoli, poiché attualmente questi luoghi permettono di essere frequentati da chiunque abbia voglia di trascorrere del tempo tra libri, buona musica e un buon caffè, anche con pochi soldi. La fame di cultura che sempre più si sente ha portato, dopo quindici anni dalla nascita di Intra Moenia, l'istituzione di un nuovo caffè letterario, al teatro Bellini, il quale espande il concetto di cultura anche all'attenzione verso il recupero delle nostre radici cul-turali e alimentari. Personalmente ritengo che questi luoghi, esattamente come nel Settecento, aiutino le persone più semplici ad interessarsi a ciò che non conoscono, proprio in un momento di depressione culturale come quello nel quale ci troviamo.

Lucrezia Pecorella IF

Come da anni a questa parte il comparto scuola a settembre deve far fronte a modifiche (spesse volte deleterie) delle vecchie riforme scolastiche. Quest’anno, il 3 settembre è stato pubblicato su internet il documento della “buona scuola” di Matteo- il toscano, quello che proprio la “c” non sa pronunciarla, o quello de’ “shish”, insomma Renzi The President! Il piano è principalmente basato su una meritocrazia spietata,non solo tra gli alunni,ma anche tra gli stessi docenti: i professori saranno formati, motivati grazie agli scatti di merito e controllati dalle nuove procedure di autovalutazione scolastiche. Come da copione, numerose manifestazioni hanno animato e continueranno ad animare quest’au-tunno proprio per bloccare questa farsa (N.d.R. DDL Aprea,2012) che di produttivo non ha pro-prio nulla. Sempre come da copione ci sono alunni disinteressati- e forse questo non è ancora un gran problema- e professori,che nonostante il loro bagaglio culturale che va dal latino e greco fi-no ad economia internazionale, si dimostrano non solo disinteressati ma addirittura strafottenti. Sta di fatto che alcuni Insegnanti (quelli con la I maiuscola) con queste pazzie dei governanti non vogliono proprio averci a che fare. Esempio emblematico nella nostra scuola è stata la ‘protesta’ di una professoressa di educazione fisica riguardo ai tagli dei corsi di atletica extracurricola-ri.Bisogna ricordare,in questo frangente,che i corsi extracurricolari di educazione fisica hanno da sempre finanziamenti diversi da quelli dei normali corsi pomeridiani. Fino a due anni fa arrivava-no cospicui finanziamenti,tanto che la scuola riusciva a retribuire tutte le ore dei corsi (corsa ora-mai assurda in Italia). Da un anno a questa parte la storia è cambiata: ai professori sono state re-tribuite poco più di 20 ore, a fronte di un numero ben maggiore. Quest’anno i corsi di atletica partiranno probabilmente solo da gennaio e raccoglieranno solo l’é-lite di corridori e maratoneti del nostro liceo, lasciando fuori almeno un centinaio di studenti fisi-camente mediocri.Ciò che lascia perplessi sono le parole dell’insegnante stessa, che avendo sem-pre auspicato ad una scuola aperta a tutti e in cui tutti gli alunni avessero pari opportunità d’ac-cesso a qualsiasi corso,s’è ritrovata a dover abbandonare i propri ideali per rispondere all’imposi-zione di coloro che gestiscono un’istituzione che lei non riconosce più.

Màs democrazia, por favor.

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Alla fine,come sempre, coloro che pagano le conseguenze di questi tagli scellerati sono gli alun-ni. Quegli alunni che magari non hanno possibilità di svolgere attività fisica e negli anni passati usufruivano del ‘servizio’ scolastico. Quegli alunni che invece di seguire - anche dopo scuola- regole ferree al coro, ai corsi di lingua, o al corso di greco all’Orientale, preferivano sfogare il proprio stress spingendo il proprio fisico al massimo dello sforzo. Da oggi, tutto ciò non sarà possibile perché, come è ben noto, questi piani/riforme/controriforme/manovre sono varati,durante un ‘after sbronza’, uno di questi after che però cambiamo le sorti di coloro che sono il futuro di un intero paese,che portano al vomito quella parte, ancora sana, di popolazione.

Mara Cavallo IC

Fenomeno immigrazione Lo scorso 18 ottobre a Milano si è tenuta a Milano la manifestazione “Stop invasione” , dove è scesa in piazza la Lega Nord, affiancata da Forza Nuova e CasaPound, contro i clandestini e l’o-perazione Mare Nostrum. I leghisti, e non solo, infatti sostengono che l’immigrazione è in realtà un’invasione di territorio e che la crisi economica è aggravata dall’operazione Mare Nostrum (che in realtà ha salvato oltre 150.000 persone da un anno a questa parte). I manifestanti intervi-stati sostengono tutti questa teoria e inoltre lasciano intravedere altri motivi nel cantare lo slogan “Stop invasione”, come possibili epidemie e contagi; “Italiani e immigrati non possono convi-vere” dicono, “Chi non salta musulmano è” “La Moschea a Milano non la vogliamo” cantano, “prima di essere leghista son fascista, con un dittatore non ci sarebbe tutto questo schifo” sostie-ne un ragazzo intervistato. Ma fortunatamente, in opposizione a questo folle corteo, c’è stata una contro-manifestazione antirazzista, sempre a Milano, in contemporanea a quella leghista, orga-nizzata dai centri sociali cui hanno partecipato numerosi migranti. Forte è stata anche la risposta da Castel Volturno dove gli immigrati, e non solo, hanno fatto sentire la propria voce sfilando in più di 8.000 per le strade della città sulle note di Bob Marley e intonando lo slogan “Stop razzi-smo”, per sostenere anche l’inizio di nuove politiche d’immigrazione e integrazione, che per-mettano loro di non essere più clandestini senza diritti ma pieni cittadini italiani. L’immigrazione, quindi, è un fenomeno che va affrontato senza approcci razzisti o xenofobi, perché un domani sa-remo anche noi migranti; basti pensare ai numerosi progetti che facciamo già da piccoli, a tutti quei “voglio trasferirmi a New York” o a Londra, Tokyo, Shangai o in qualsivoglia nazione o paese… Ma se una di queste città c’impedisse il trasferimento, l’opportunità di cambiare la nostra vita, e ci dipingesse come portatori di sciagure, cosa faremmo? Ma soprattutto, come ci sentirem-mo? Probabilmente ci sentiremmo come tutti quegli extracomunitari, che quotidianamente vengono a pulire le nostre case, fanno da braccianti nei nostri campi, vogliono venderci rose, fazzoletti, om-brelli o da cui compriamo il kebab, arrivati in Italia i più per problemi economici e che vedono la loro dignità calpestata solo perché stranieri diventando automaticamente capri espiatori dei mali del Bel Paese. Infatti è molto semplice e conveniente per chi governa attribuire le cause della cri-si economica e della conseguente mancanza di lavoro agli immigrati, facendo distrarre il popolo dalle vere cause delle problematiche odierne.

In Italia convivono 200 nazionalità diverse e secondo l’Istat sono presenti in modo regola-re 3.874.726 cittadini non appartenenti agli Stati membri dell’Unione Europea, ma non bisogna pensare che essi evadano il fisco o ci tolgano il lavoro, anzi, numerose indagini sostengono che sono oltre 2 milioni i contribuenti stranieri e aumentano coloro che pagano le tasse e diminuisco-no quelli che mandano risorse in patria. Il panorama ita-liano dell’immigrazione in quest’ultimo periodo non è semplice ed è facile che si crei confusione.

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Bisogna perciò distinguere gli immigrati che vivono regolarmente in Italia , clandestini e profu-ghi. Gli immigrati regolari sono coloro che vivono in Italia nel rispetto delle norme che regolano l’immigrazione, quindi coloro provvisti di passaporto e permesso di soggiorno; i clandestini in-vece sono gli stranieri che entrano in Italia non possedendo né passaporto né permesso di sog-giorno ed è più facile che cadano in mano alla criminalità organizzata poiché essa sfrutta la loro disperazione ed impossibilità di lavorare regolarmente. La parola profugo non ha alcun significa-to giuridico e indica chi si allontana dal proprio paese per motivi di guerra o perché perseguitato. Il profugo richiedente asilo diventa automaticamente rifugiato.

Il 2014 sarà ricordato come l'anno record per sbarchi e richieste d'asilo.

Dall'inizio dell'anno, il numero di migranti sbarcati sulle coste italiane ha raggiunto quota 118mi-la, quasi il triplo del 2013. I numerosi migranti che arrivano dall’Africa del Nord per sfuggire alle molteplici e sanguinolente guerre, non sono clandestini, bensì rifugiati, ed è facile cadere in erro-re. Infatti, ogni barcone avvistato è carico, si dice, di “clandestini”, senza contare che oltre il 90% di chi fugge dal proprio paese è un legittimo beneficiario di protezione internazionale e solo il 10% dei migranti irregolarmente soggiornanti entra in Italia attraversando il mediterraneo.

Dunque, vivendo noi nel terzo millennio, non dobbiamo avere mentalità chiuse e piene di pregiu-dizi, bensì dobbiamo vedere la diversità come un termine di paragone attraverso cui migliorare.

Claudia Imperatore IB

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L’intervista impossibile a PASOLINI. “Ogni anno il 2 novembre c’è l’usanza per i defunti andare al Cimitero” ed io, il 2 novembre, tro-vandomi a Casarsa, passai per il camposanto e mi avvicinai ad una tomba, dove s’era radunato un gruppo di persone. Con enorme meraviglia, notai che ad intrattenere la folla vi era Pier Paolo Pasolini. Quale coincidenza, il 2 novembre ritenevo fosse la data del suo omicidio ed invece era lì ad ac-centrare sulla sua conversazione l’attenzione di tutti. Naturalmente fui portata a porgli delle domande, ne avrei fatto un articolo per il giornalino de “L’Urlo”.

-Maestro, dato l’ambiente in cui siamo, cosa pensa lei della morte?

-

Mia cara, “Amo ferocemente, disperatamente la vita e credo che questa ferocia, questa dispera-zione mi porteranno alla fine...” e poi, continuando “… la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi.”. -Maestro, lei ha avuto modo di godere della vita al meglio?

-Il mondo è dei bravi ma i cojoni se lo godono.

Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale il maestro guardava i visi delle persone che lo circon-davano.

-Vedo che qui le cose non sono cambiate

-Cosa intende, maestro?

Otium et Negotium

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-Speravo che la situazione sarebbe andata a migliorare, ecco … eppure sono stato così chiaro, ru-de, severo … ha letto i miei Scritti Corsari? Se sì, potrà capire. Speravo che ci fosse stato un pro-

gresso – da non confondere con sviluppo, nella cultura, tra la gente, nelle menti della gente. “La parola sviluppo ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di de-

stra. Chi vuole infatti lo sviluppo ? Cioè, chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concre-to e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo sviluppo in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. I consumatori sono, da parte loro, irrazionalmente e incon-sapevolmente d’accordo nel volere lo sviluppo. Ci vuole, invece, il progresso. Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare attraverso lo stesso: gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è, dunque, sfruttato. Quando dico lo vuole in senso autentico e totale. Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è un fatto pragmatico ed economico”.

-Maestro, cosa pensa abbia portato a questa situazione?

-Che cosa ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghe-si, divorati, per di più, dall'ansia economica di esserlo? Che cos'è che ha trasformato le "masse" dei giovani in "masse" di criminaloidi? L'ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una "seconda" rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la "prima": il consumismo che ha distrutto cinica-mente un mondo "reale", trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c'è più scelta possibile tra male e bene. Donde l'ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall'as-soluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c'è stata in loro scelta tra male e be-ne, ma unicamente la scelta dell'impietrimento, della mancanza di ogni pietà.

Intanto, non mi ero resa conto che il cimitero stava chiudendo. Dopo questa risposta, accompagnandosi alla folla che lo circondava, si avviò verso una cappella funeraria al cui interno scomparve insieme agli altri. Suggestione, o avevo vissuto realmente l’esperienza di intervistare il grande Pasolini?

Le città invisibili "L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il pri-mo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.'' L'inferno di Calvino è fatto di 55 città, 55 modi di vedere il mondo e di relazionarcisi, 55 diffe-renti realtà, osservate dal punto di vista del viaggiatore per eccellenza, Marco Polo, e di conse-guenza dal lettore che finisce per perdersi fra i vicoli di luoghi inesistenti, confondendosi con il narratore stesso. Evidente esempio di letteratura combinatoria, il libro «Le città invisibili», scritto da Italo Calvino e pubblicato nel 1972, appare come il chiaro tentativo di dare un ordine al caos

Ottavia Cascella VE

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della quotidianità, attraverso giochi di metafore e analogie che rispondono, seppur implicitamen-te, alle domande del lettore. Ogni città diventa simbolo di un qualche dilemma esistenziale e della vita stessa dello scrittore, il quale si descrive come un vecchio seduto su di un muretto che osser-va i ragazzini passargli davanti: non a caso, Pier Paolo Pasolini, in «Saggi sulla letteratura e sull'arte» del 1999, definisce tale opera ''Il libro di un vecchio, per cui «i desideri sono ricordi»'' perciò ''di conseguenza anche la assoluta novità del conoscere la vita «come passata», non ha altri strumenti per esprimersi che questi vecchi ricordi''. Ricordi, dunque, che paiono protagonisti di un dialogo, quello fra Marco Polo e Kublai Kan, il quale fa da vera e propria cornice dell'intera opera. Anche la scelta degli stessi interlocutori, Polo e l'imperatore dei Tartari, pare mirata e fun-zionale: due facce della stessa medaglia, due «Calvino», che si somigliano e si contrastano, l'uno che risponde alle domande dell'altro, in un percorso che cerca di giustificare le scelte dell'uomo, senza mai veramente dare risposte esaurienti. Una struttura, quella dell'opera, molto complessa che vede il suo archetipo ne «Le mille e una notte» e che dà la possibilità al lettore di giocare con il testo, scegliendo da dove cominciare e come finire: lo stesso Calvino ha affermato, nel 1983, che non si ha una vera e propria fine perchè “questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli". Un testo, dunque, da leggere e da far leg-gere, un invito alla riflessione ed una delle opere più mature di Calvino.

Sara Napolitano IIIB

Recensione: "Una storia semplice" “Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. E’ con questa frase di Friedrich Dürrenmatt che l’autore sceglie di aprire il suo romanzo. Romanzo che è un po’ come il suo testamento visto che l’autore morirà poco dopo, nel-lo stesso anno, il 1989. Una frase impegnativa, forte, che calza benissimo con l’importanza e il messaggio che l’opera si propone di assegnare. Se andassi a riassumere la trama potrebbe vera-mente sembrare una “storia semplice’’: un omicidio mascherato da suicidio, indagini neanche troppo lunghe, mafia, droga, tutto qui. E invece no. La bravura dello scrittore, infatti, non si de-nota da cosa racconta, ma da come racconta. Non occorrono grandi eroi, criminali, personaggi enigmatici e invincibili, il lettore è affascinato dalle storie ordinarie, quelle che hanno come pro-tagonisti persone di tutti i giorni che affrontano la comune e estenuante routine. Nella nostra storia, in parti-colare, non ci sono veri e propri eroi, ma soltanto “mezzi uomini”. Mezzi commissari, mezzi magistrati, mezzi preti, mezzi carabinieri, mezzi testi-moni. L’unico che alla fine avrebbe potuto davvero fornire la chiave di volta a tutta la storia e diventare il “nostro eroe” decide per quieto vivere di lasciar stare e di “tirare a campare” come prima. Tanto a lui non è stato tolto nulla, o forse si. Cerca soltanto di ottenere un po’ di giustizia per sé stesso, quanto basta, senza esagerare. Ma la Giustizia, quella vera, non è di questo mondo, o almeno non lo è quasi mai e Sciascia lo sapeva bene. Insomma, in questa storia di mafia e droga ci sono due parole che non compaiono mai: mafia e droga. Eppure è tutto chiaro lo stesso. La telefonata arrivò al commissariato il 18 marzo alle 21.37, di sabato, giorno della vigilia di San Giuseppe quando ormai gli uffici, più delle altre volte, erano quasi deserti. Un certo Giorgio Roc-cella, ex diplomatico assente da molti anni da Monterosso, chiese di poter parlare urgentemente con il questore riguardo una “cosa” che aveva trovato. Il questore, come di consuetudine non c’era, quindi l’unico disposto a prestargli ascolto fu il brigadiere Antonio Lagandara, delegato da

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un commissario abbastanza scettico di recarsi l’indomani al villino del Roccella. La mattina se-guente quando il brigadiere con alcuni agenti entrarono nel villino, trovarono il corpo dell’uomo esanime sulla scrivania, ucciso da un colpo di pistola. A rendere quella scena ancora più surreale fu una scritta accanto al cadavere: “Ho trovato.” Quel “punto” alla fine della frase scatenò nella mente nel brigadiere molti interrogativi, nessuno dei quali però, faceva presagire a quello che do-po sia il commissario, sia i giornali gli avrebbero voluto far credere: un suicidio. Da qui incomin-ciano le indagini quasi “personali” del brigadiere, il quale è convinto che si tratti di un omicidio. Determinanti per la risoluzione del caso saranno personaggi come il professor Franzò, amico inti-mo della vittima e, a mio parere, il “punto di vista” vivente di Sciascia nel racconto, padre Cricco e l’ex moglie e figlio del Roccella. A seguito di alcuni fatti abbastanza singolari, come la morte in quei giorni di un capostazione e di alcuni macchinisti testimoniata da un uomo che guidava una Volvo, il colpo di scena della storia non tarderà ad arrivare. Le indagini scrupolose ed attente del brigadiere porteranno alla colpevolezza indiscussa di un’unica persona: il commissario stesso. Infatti il brigadiere scopre la colpevolezza di quest’ultimo soprattutto grazie ad un particolare: il commissario, pur dicendo di non essere mai stato in quella casa, sapeva benissimo dove si trova-va la luce del sottoscala del villino che il brigadiere non era riuscito a trovare. La morte del com-missario non si fece attendere: avvenne nel suo ufficio, dove, fingendo di pulire la sua arma, spa-rò al brigadiere senza colpirlo. Questo prese la sua pistola e lo ammazzò. A questo punto la nostra storia avrebbe potuto avere un risvolto significativo, ma non sarebbe la nostra storia. Infatti il ca-so fu archiviato, la morte del commissario fu fatta passare per un incidente e il nostro brigadiere rimase sempre un brigadiere. Padre Cricco, pur essendo uno dei complici del fatto, continuò a fa-re “il prete’’ e l’uomo della Volvo contribuì a rendere questa storia semplice non confessando che l’uomo che si finse capostazione quando quest’ultimo era morto, altri non era che lo stesso “padre” Cricco. Del resto, perché scomodarsi tanto? Sarebbe stata un’indagine a cambiare le co-se? Meglio non rischiare. Il Male non abita solo la Sicilia, il Male è globale. La Sicilia è solo uno scenario adatto per capire meglio le cose.

Sara Gemma IIA

The who Londa, 1964. Pete Townshend, Roger Harry Daltrey, John Alec Entwistle e Keith John Moon, ra-gazzi folli, scapestrati e con una gran voglia di dare una svolta alla musica di quegli anni. Nasco-no i “The Who”. Inizialmente si limitano a reinterpretare a modo loro canzoni famose, poi ecco arrivare il loro pri-mo singolo di successo “I can't explain”: la band è talmente affezionata a questo brano, che tutto-ra apre ogni loro concerto. Nel 1965 esce invece il primo album, che possiamo sicuramente ritenere il più famoso e conside-rato dai critici uno dei migliori album rock di tutti i tempi, stiamo parlando di “My Generation”. Il pezzo che da il nome all'album è entrato nella storia per diversi motivi: contiene uno dei versi

più ci-tati

della storia del rock (“I hope I die before I get old”/“Spero di morire prima di invecchiare”); per la musica aggressiva e selvaggia; e perché divenne l’inno del movimento Mod e, più in generale, di tutti i giovani inglesi arrabbiati perché convinti che gli adulti non potessero capire per il sem-

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plice fatto di essere adulti. Da qui in avanti la band ha sempre più successo, fino a quando nella notte tra il 7 e l’8 settembre del 1978, Keith Moon, batterista della band, si sveglia e va in cucina a prepararsi una bistecca, accompagnata da 32 pastiglie di clometiazolo (farmaco contro la tossicodipendenza), e muore. Dopo la morte di Moon, gli Who attraversano un periodo di buio totale. Ironia della sorte, nel momento più nero per la band arriva un improvviso successo. Nel maggio 1979 viene presentato, al Festival di Cannes, un documentario sulla vita degli Who: "The Kids Are Alright" che diviene uno dei migliori documentari rock mai creati. Tra tour, concerti, album in studio ed album dal vivo, gli Who raggiungono un successo planeta-rio fino alla loro ultima pubblicazione nel 2006 con “Endless Wire”. Oggi Pete Townshend e Roger Daltrey, seppur con le consuete riluttanze, sono impegnati a fe-steggiare i 50 anni degli Who. Arrivati alla soglia dei 70 anni, tocca a loro due celebrare i 50 anni di una leggenda. E' già pronto un nuovo tour americano, a darne l'annuncio, in un'intervista ripor-tata da Billboard, è stato il leader storico del gruppo, Pete: "Non è che sia proprio impazzito dalla voglia di tornare on the road - ha detto Townshend - ma sono in buona forma e non appena avrò cominciato a farlo (e sono ancora molto bravo) ritroverò il piacere di una volta". Mentre il 10 dicembre tornerà nelle sale solo per un giorno "Quadrophenia", il film che Frank Roddam 35 anni fa ha tratto da uno dei capolavori della band, l'opera rock che racconta l'epopea Mod. Inoltre in un'intervista pubblicata sul sito ufficiale della band, Roger Daltrey ha rivelato che è in corso la lavorazione in studio per alcuni nuovi pezzi per quello che sarà l'attesissimo nuovo album degli Who.

Kira Dell’Aquila IIE

Recensione ''Quasi Amici''

Il film ''Quasi Amici'', titolo originale: Intouchables, prodotto in Francia nel 2011, è ispirato ad una storia vera, che descrive la condizione di un tetraplegico, dopo aver assunto il suo nuovo ba-dante. Quest'ultimo, Driss, si presenta al colloquio solo per ottenere la firma per i benefici assistenziali e viene assunto in prova per un breve periodo. Con precedenti penali, proveniente dalla zona popolare della città e ''rozzo'' com'era, Driss scate-na costante inquietudine negli altri domestici; in opposizione, Philippe era entusiasta della purez-za del rapporto creato con il ragazzo. Il modo di porsi di Driss, senza un minimo di pietà o compassione nei confronti dell'uomo, si di-stanzia totalmente da quello degli altri, e perciò il legame lavorativo diventa ben presto vera e propria amicizia. Il modo delle persone di rapportarsi alle condizioni di partenza di entrambi è molto diverso: uno

emarginato e trattato con superficialità, come se meritasse a stento di stare al mondo, l'altro com-patito per la disabilità. Due comportamenti così radicalmente diversi arrecano ugualmente offesa nei due uomini, ma soprattutto in Philippe, ormai del tutto impotente e chiuso in se stesso. È proprio la schiettezza di Driss a risvegliarlo e a dargli la forza per ricominciare a vivere; nello stesso modo in cui Philippe con i suoi progressi rende l'altro consapevole del suo valore, di non essere solo il ragazzo in difficoltà, abbandonato povero e ''pericoloso'' che è stato fino a quel mo-mento. Fino a diventare...Quasi amici.

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Eleonora Lama

Recensione “Apocalypse now” “Apocalypse Now”, senz’altro conosciuto dalla maggior parte de-gli studenti, diretto da Francis Ford Coppola nel 1979, è una pel-licola frutto del movimentato decennio degli anni ’60. Questo periodo, caratterizzato dall’attivismo studentesco, dalla nascita della cultura hippie e dalla guerra in Vietnam, fu culla di un cinema di fortissimo impegno sociale. La guerra del Vietnam è, infatti, scenario della storia di un soldato incaricato di uccidere segretamente un ex colonnello ormai folle, proclamatosi capo di un villaggio in Cambogia. Sarà proprio il viaggio lungo il fiume verso questo villaggio a presentare agli oc-chi del soldato le più varie sfumature della mente umana, che, condizionata dalla guerra, perde ogni sorta di lucidità fino a cede-re nel delirio più totale. Spunto di grande riflessione è l’incontro tra il soldato e l’ex colonnello, ritratto di orrore e male, che non aspetta altro se non di essere ucciso per liberarsi dal peso di tutte le crudeltà commesse in vita. Nel viaggio di ritorno, compiuta la missione omicida, al soldato appare chiara la verità: tutto ciò che di più primitivo, disumano ed incivile c’è nell’uomo è, paradossalmente, frutto della civiltà stessa, dell’essere umano assetato di ricchezza e potere a tal punto da perdere il concetto di con-

divisione, rispetto e amore verso il prossimo. Andrea Chiara Cirigliano

Ib: il gaming incontra l'arte Sviluppato dalla casa produttrice giapponese Kouri e pubblicato per la prima volta nel febbraio 2012, Ib è un titolo videoludico con una trama ed un gameplay straordinari. Il gioco si svolge in una galleria d’arte del misterioso pittore portoghese Weiss Guertena; la protagonista è Ib, una bambina di 9 anni che con i suoi genitori visita la mostra dell’artista, nella grande sala con quadri che tappezzano le pareti scure (non esito ad aggiungere che i quadri e le sculture ridimensionate in stile pixel-art sono a dir poco mozzafiato). D’improvviso le luci si spengono e la protagonista si ritrova sola, nel buio più totale, una volta tornata la luce (e qui vi accorgerete della maestosità degli effetti di luci dinamiche) Ib è costretta a vagare attraverso l’immensa galleria, illuminata dall’ormai fioca luce dei grandi lampadari, i quadri diventano a mano a mano realistici, quasi vi-vi, e Ib sente rumori sospetti provenire da dietro ad un enorme quadro. Ib vaga per i corridoi de-

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solati e bui, finchè non si ritrova a fissare nuovamente il grande quadro, chiamato “Fabricated

World”, e rimane scioccata, il motivo del suo sconforto sono delle scritte rosse sul pavimento che invitano Ib a “venire a scoprire tanti luoghi segreti”, e così la bambina, tuffandosi in un grosso affresco raffigurante un mostro marino, presente nella stanza centrale della galleria, si ritrova in un misterioso corridoio, alla destra del quale trova una rosa rossa; non appena Ib la raccoglie, il fiore instaura un particolare legame con la sua anima… Il gioco inizia con questa stupefacente introduzione, seguita da un gameplay di un livello superiore alla media, pieno di colpi di scena. In termini di giocabilità il gioco è letteralmente un’esperienza extracorporea, che catapulta in un mondo principalmente co-stituito da opere d’arte di una rara bellezza, le ambientazioni sono varie e differenti tra di loro. Pur essendo stato program-mato con uno degli engine più semplici e poveri (RPG Maker 2003), Ib trasmette delle emozioni molto forti: paura, dramma e suspence si possono quasi toccare. Una delle caratteristiche a mio parere migliori, è la possibilità di interagire con tutti gli elementi dell’ambientazione e dei vari luoghi, infatti si avrà a disposizione un inventario ed una barra della salute, si potrà inoltre interagire con gli innumerevoli personaggi dei quadri “viventi” e si avrà la compagnìa di due personaggi (dei quali non rivelo l'identità).Inoltre molto particolare è la possibilità di fare delle scelte all’interno della storia, che può terminare con vari finali, lieti o commoventi, inquietanti o audaci (c’è da aggiungere che il finale è una storia a sé). Non c’è altro da di-re, vi consiglio di acquistare questo titolo indipendente per supportare dei capolavori dell’arte vi-deoludica come, appunto, Ib.

Ercole Leo

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Manga I manga, conosciuti da tutti come fumetti giapponesi, cosa sono veramente?

Essi (dal giapponese “fumetti di qualsiasi tematica e nazionalità”), nati in Giappone, hanno ini-ziato ad attirare anche lettori occidentali, infatti le loro caratteristiche grafiche hanno influenzato il mondo, proprio in quanto figure semplici, seppur con stili vari. Da fumetti e personaggi che es-si erano, vengono oramai spesso ritenuti “cose sciocche per bambini” o altrettanto spesso “porno”. Perché tutti questi pregiudizi? I manga non sono solo storielle, ma qualcosa di completamente di-verso, perché come i libri hanno generi vari, dai manga romantici ( chiamati “shoujo” in Giappo-ne) a quelli d’avventura (“shonen”) o persino molti tratti dalla letteratura classica come “Romeo e Giulietta” o “La divina commedia”. C’è anche da dire che tra ragazzi (non sempre) i manga sono abbastanza seguiti e per molti di-ventano un vero e proprio stile di disegno (o di cartoni animati per quanto riguarda gli anime). Oltre alla fascia di fan sfegatati, però, il genere ha spesso subito critiche nonostante la maggior parte dei ragazzi e degli adulti sia cresciuta con grandi classici di fattura giapponese: da Holly e Benji a Sailor Moon, da Dragon Ball o Naruto al Detective Conan, One Piece, Pokemon, Mew Mew, Yu Gi Oh,Pretty Cure, Lady Oscar, Heidi e tantissimi altri. Per questo consiglierei a tutti i ragazzi di aprire la mente verso nuovi genere abbattendo i muri nella nostra mente senza preconcetti e critiche infondate.

Giada Chen

Una farsa chiamata Fair Play Finanziario Sono ormai passati cinque anni dal lontano settembre 2009 , anno dell' introduzione nel mondo delcalcio dello spauracchio Fair Play Finanziario. Quella che doveva essere una regolamentazio-ne e un ridimensionamento per i club più blasonati e ricchi , in favore della crescita di società mi-nori e, cosa più importante, di un calcio più giovane, si è trasformata in una farsa , degna della tanto inneggiata '' spending rewiew '': proporre alle società di risparmiare per poi costatare co-stantemente che il debito cresce e non c'è modo di fermarlo. Certo porre un freno alle spese pazze di società, che ad ogni finestra di mercato spendono uno sproposito e non fanno che aumentare il gap con i club minori, non potrebbe che giovare al siste-ma calcio, ma come questa norma , che per ora è carta straccia , potrà davvero aiutare le società ''virtuose'' che rispettano i patti? Come possono diminuire i dati agghiaccianti di società che non riescono a pareggiare i bilanci ( il 75% ) , e di crescita annua del debito ( attualmente al 36% ) ?

L' UEFA sentenzia, afferma che monitorerà , fa la faccia cattiva e un po' di paternalismo spicciolo e poi butta tutto nel dimenticatoio; oppure fa anche peggio: minaccia sanzioni in grado di essere raggirate con una facilità disarmante dalle società più esperte . Ma facciamo degli esempi conceti: il Manchester City, nel 2011 ha concluso il bilancio con una perdita di oltre 225 mln di euro ( con un limite massimo previsto in 45 mln imposto dall' UEFA ). Scatta la sazione , che consite in tre punti , facilmente aggirabili. 1. Sanzione di 60 milioni 2. Restrizione della lista A di Champions League, da 25 a 21 giocatori. 3. Tetto salariale bloccato per la stagione seguente . Il primo punto è presto che risolto. In primis la multa può essere divisa in tre tranche da 20 milio-

SPORT

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ni annui , che è una cifra irrisoria per una società come quella di Mansour che spende di media più di 50 milioni a stagione, alla quale inoltre basterebbe vendere un solo giocatore per pagare due di queste tranche, ricavando soldi da cartellino ed ingaggio. Molto semplice, sebbene ci voglia maggiore preparazione, è anche la risoluzione al problema delle liste Champions. Con calciatori che esplodono sempre prima, basta acquistare calciatori in età ancora giovane in modo da arruolari nei vivai e/o nelle squandre ''b'' , in modo di inserire que-sti nelle liste Champions come giocatori prodotto del vivaio e aprire posti per altri giocatori. È quindi chiaro come il FFP risulti essere l'ennesima ricerca , mal riuscita di regolarizzare lo strapotere economico delle grandi squadre e la riconferma dei dazi che le piccole società pagano e pagheranno al calcio europeo.

Davide Limatola IIIB

“Nati così, in mezzo a tutto questo, tra facce di gesso che ghignano e la signora Morte che se la ride, mentre gli orizzonti politici si dissolvono, mentre i pesci sporchi di petrolio sputano la loro preda oleosa. Nati così, in mezzo a tutto questo, tra ospedali così costosi che convie-ne lasciarsi morire, tra avvocati talmente esosi che è meglio dichiararsi colpevoli, in un Paese dove le galere sono piene e i manicomi sono chiusi, in un posto dove le masse trasfor-mano i cretini in eroi di successo. In mezzo a tutto questo ci muoviamo e viviamo, a causa di tutto questo moriamo. Ca-strati Corrotti Diseredati Per tutto questo. Le dita vanno in cerca di un Dio insensibile. Le dita cercano la bottiglia, le pillole, qualcosa da sniffare. Siamo nati in mezzo a questa morte dolorosa che incombe. Ammazzarsi in pieno giorno per la strada non sarà più un crimine, resteranno solo pisto-le e folle di sbandati, la terra sarà inutile, il cibo diventerà un rendimento decrescente, l'energia nucleare sarà in mano alle masse, il pianeta sarà scosso da un'esplosione dopo l'altra, uomini radioattivi si nutriranno della carne di uomi-ni radioattivi, la puzza delle carcasse di uomini e animali si propagherà nel vento scuro e il più bel silenzio mai ascolta-to nascerà da tutto questo, il sole nascosto attenderà il capi-tolo successivo.” Charles Bukowski

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MARBLE ARCH

La rubrica nasce con l’intenzione di rendere l’Urlo veramente di tutti. E’ uno spazio di discussione e di confronto in cui ciascuno ha la possibilità di esprimere la propria opinione riguardo a un avvenimento, di sottoporre una problematica o un argo-mento di dibattito invitando gli altri lettori a rispondere e a farsi avanti. Il tema è a discrezione del singolo, così come il destinatario del proprio messaggio. Si invitano calorosamente tutti a usufruire di questa opportunità per estendere il proprio pensiero, che sia una critica o un’osserva-zione, alle altre componenti scolastiche, dalla collettività studentesca alla presidenza, dalla classe docenti alla direzione del giornale. Il mittente potrà decidere anche di non dichiarare la propria identità, dal momento che la modalità di partecipazione richiede unicamente l’inserimento del messaggio che si intende pubblicare nel numero successivo del giornale nella cassetta situata all’ingresso dell’edificio De Sanctis, proprio come avviene per la rubrica “Le perle di Guttalax”.

La Direzione

E proprio accanto alla cassetta dei messaggi per la rubrica “Marble Arch” ci sarà anche un’altra cassetta della posta in cui riporre le trascrizioni delle dichiarazioni e le gaffe dei professori da im-mortalare e pubblicare nella rubrica “Le perle di Guttalax”, di antica tradizione. Anche in questo caso ci aspettiamo grande partecipazione; il giornale è la voce della scuola e di essa in toto ha bi-sogna per crescere e continuare a vivere.

La Direzione

LE PERLE DI GUTTALAX

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“ Comincio a credere che tra me e il mio paese non ci sia più molto da dirci. Io a questa mediocrità non resisto, mi avvilisce, mi mozza il fiato! E' l'unica condanna che sarei felice di vedervi contestare, l'unico corteo nel quale marcerei. Che cos'è che contesto?! Ve lo dico con una frase di Ortega y Grasset: "L'animo volgare, riconoscendosi volgare, ha l'audacia i affer-

mare il diritto alla volgarità e lo impone dovunque". Giornalisti, televisivi, politici, questa non è la

vostra vita... Ma tu puoi venire fratello. Tu, tra i 20 e i 40, avres� voluto averli ai tempi di Kerouac

quando sulla strada il mondo ha abbandonato le sue ul�me idee. Tu, il cuore strozzato da un nodo

scorsoio, ca�vo perché non hai un altro mes�ere, tu puoi venire fratello. Ma i mediocri girano liberi,

i mediocri hanno invaso le strade, occupato tu"o, poli�ca, televisione, giornali, tu"o. I mediocri gira-

no liberi, ci hanno imposto che cosa comprare, cos'è bello cos'è bru"o, i film da vedere, le canzoni da

ascoltare, quando ridere e quando piangere. I mediocri girano liberi come polizio�, e se vedono pas-

sare un'idea la sba"ono dentro. I mediocri si alleano con altri mediocri e formano un esercito di fron-

� basse, milioni di fron� basse che gridano banalità, e piantano le loro bandiere nei nostri liberi sta�

mentali, finché un giorno tu"e le idee saranno chiuse ad Alcatraz. Spegnete la radio e accendete le

vostre tv mediocri, perché noi siamo quelli dei sogni brucia� in una no"e, quelli che si sdegnano an-

che se non hanno più fiato per gridare, quelli che ancora amano anche se sono sta� tradi� mille vol-

te... Ma i mediocri girano liberi, i mediocri hanno invaso le strade, i mediocri hanno occupato tu"o, e que-

sta è la tua ora d'aria..."

“And did they get you trade your heroes for ghosts?

Hot ashes for trees? Hot air for a cool breeze? Cold comfort for change?

Did you exchange A walk on part in a war

For a lead role in a cage?”