Pro.di.gio n°I febbraio 2014

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Aut. del Trib. di Trento n. 1054 del 5/6/2000 - Poste Italiane spa - Spedizione in abbonamento postale - 70%- DCB Trento . Contiene I.R. progetto di giornale BIMESTRALE DI INFORMAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE PRODIGIO ONLUS SUL MONDO DEL DISAGIO E DELL’HANDICAP NUMERO I - FEBBRAIO 2014 - ANNO XV - LXXXII NUMERO PUBBLICATO WWW.PRODIGIO.IT La vita è come un Rally Realizzare i miei sogni sempre! Anche da disabile pagina 2 Slot-machine e terremoti Come le compagnie dell’azzardo specularono sul sisma in Abruzzo pagina 5 Il mandato alla solidarietà La responsabilità di essere ciascuno custode dell’altro pagina 6 Libero scambio di semi Fiera a Feltre e dedicata alla all’agricoltura libera dai brevetti su piante e semi pagina 11 I mmaginiamo che in questo periodo tu sia più sulle piste che davanti al computer, quindi per prima cosa ti chiediamo come sta andando la stagione, gli allenamenti e quali sono le prossime gare che hai in pro- gramma. Ciao! La stagione è iniziata il 2 dicembre e sta andando molto bene, sono molto contenta dei progressi che stiamo ottenendo! Mi alleno sempre nel fantastico comprensorio di Folgaria, seguita dal team della scuola di Scie di Passio- ne con cui mi alleno tre volte a settimana, alternando tracciati di gigante, slalom e campo libero. Per quest’anno l’obiettivo è parteci- pare a tutte le gare della Snow 4 All in collaborazione con il circuito Autodri- ve Ski Cup, ed infine concludere con i Campionati Italiani. Tornando un po’ indietro, ci puoi rac- contare meglio la tua storia e come na- sce in te la passione per lo sci e la neve? Hai trovato difficoltà a praticare questo sport? Ho sempre avuto una grande passione per le emozioni forti, l’adrenalina, la po- tenza, la velocità, e lo sci alpino è il per- fetto connubio tra tutto ciò, unito a un grande equilibrio e una forte concentrazione. Quando scii e hai la pista davanti tutto il resto rimane fuori, esisti solo tu, la tua prestanza fisica e la grinta che devi mettere per andare addosso ai pali, e tutto ciò è splendido, lo sci riesce ad esaltare qualità mentali e fisiche che altrimenti rimarrebbero latenti. Per fortuna il mio primo approccio serio con la neve è stato con la scuola Scie di Passione, con sede in Folgaria, la quale oltre ad avere maestri professionali e preparati per insegnare le curve ad ogni tipo di sciatore ed essere do- tata di dualsci e monosci (le attrezzature che usano gli sciatori con disabilità motoria), si fa propugnatrice di un approccio soft, seguendoti passo-passo fino a quando si riesce a scendere autonomamente ed in sicurezza le piste. Anche per quanto riguarda gli impianti sciistici sono stata facilitata: FolgariaSki è un compren- sorio sciistico che presta particolare attenzione a tutti gli sciatori, grazie agli impiantisti che sono in grado di rallentare o fermare le seggiovie all’occorrenza, e dotando le baite di una carroz- zina in modo tale che uno sciatore, scendendo dal monosci, possa entrare senza problemi. Il tuo sguardo esprime un carattere forte e decisamente una spiccata voglia di superare i limiti che incontri: ti rispecchi in questo? Grazie mille, sono davvero contenta se attraverso lo sguardo riesco ad espri- mere queste bellissime qualità, e magari riuscire ad infonderle anche ad altri. Fin da piccola sono cresciuta molto si- cura di me stessa e a mio agio col mondo che mi cir- conda, forse per questo non posso dire di aver incontrato grandi limiti, a meno che per limite non si intenda una rampa di scale. Certo, le lotte per abbattere le barriere architettoniche le sto portando avanti da anni insieme alla mia famiglia, in modo tale che si arrivi al giorno in cui ogni cittadino non si senta in alcun modo discriminato nell’accessibilità a spazi comuni. Un’altra grande battaglia che porto avanti, nel senso positivo e propositivo del termine, è quella destinata a dare una nuova luce al significato di disabilità, facendo sì che la società la percepisca come una caratteristica dell’essere umano, eli- minando quell’aura obsoleta e negativa che fa ancora vedere la persona con disabilità come per forza a un malato, o uno sfortunato, un emar- ginato da trattare diversamente o associare a termini come “costretto” sulla sedia a rotelle. La sedia a rotelle è uno strumento tecnologico che permette di andare, correre, sfrecciare. È come il monosci: libera, non costringe! Le vicine olimpiadi invernali Sochi 2014 hanno mosso in te la voglia di partecipare un giorno a quel palcoscenico mondiale? Questo o altri tuoi obbiettivi sportivi come gli affronti giornalmente? Quale pensiero prima di affrontare una discesa? Il “sogno” di partecipare ai giochi olimpici di Sochi è stato sicuramente un grande stimolo che mi ha spronata a dare il massimo nella stagione passata: purtroppo i tempi erano molto limitati per classificarsi ma ciò mi ha permesso di cresce- re e di comprendere tutto il sacrificio, l’impegno e il lavoro che sottende ogni gara. Certamente la mia giornata tipo si distingue tra stagione invernale, dove dedico il mio tem- po a fare chilometri sulla neve, ed estiva, in cui il tempo invece lo suddivido tra preparazione atletica ed esami universitari. Prima di ogni discesa sono molto concentrata, e l’unica cosa a cui penso è dare il meglio di me stessa. Cosa ti sentiresti di dire a chi si ferma davanti a piccole e grandi difficoltà senza riuscire a mettere in gioco se stesso? Proverei a incitarlo facendogli tirare fuori i denti e tutta l’energia nascosta che permea ogni essere umano, ricordandogli che la vita è qui e ora e che è nostro dovere, nei confronti di noi stessi, godercela a pieno sfruttando tutti i talenti che ci sono stati dati. Ci piacerebbe tu ci lasciassi con un augurio o un pensiero personale ai nostri lettori! Vi auguro di essere felici e di brillare di luce, di far esplodere le vostre potenzialità e di fare della vostra vita un’opera d’arte, come scriveva il nostro Gabriele D’Annunzio. Lorenzo Pupi Intervista alla sciatrice Sofia Righetti Neve, neve e tanta passione ! L’evento raccontato nel reportage di una volontaria L’Universiade Trentino 2013 L a parola chiave dell’Universiade 2013 non è sport, non è gara, non è vincere. La parola che definisce lo spirito che ha animato questo evento è squadra. Parlo da volontaria: una persona che non ha particolari interessi sportivi né competitivi, una persona che voleva semplicemente essere parte di qualcosa di grande e unico. E ci è riuscita. La squadra era sì qualcosa di costruito -ad ognuno erano stati affidati un ruolo e dei compiti precisi- ma era so- prattutto qualcosa di sentito. Entrare ogni giorno in ufficio, organizzare il lavoro con i compagni e sentire che insieme si riesce a far funzionare la macchina (nel mio caso dell’ufficio stampa) dell’Universiade era qualcosa di entusiasmante. Lavorare a stretto contatto con i giornalisti, sia italiani che internazionali, aiutarli a stilare le classi- fiche giornaliere o ad intervistare gli atleti, era qualcosa che -almeno, per chi non è del mestiere- dava grande motivazione e soddisfazione. Il volontario è stato definito il “vero protagonista” dell’Universiade ed è stata ammessa l’enorme difficoltà della realizza- zione di eventi di questo tipo senza il suo contributo. In circa 2200 hanno risposto all’appello, spinti non solo dalla passione per lo sport ma anche dalla voglia di fare delle esperienze lavorative stimolanti, dalla possibilità di conoscere giovani atleti pro- venienti da tutto il mondo, dall’occasione unica di poter partecipare ad un evento di portata internazionale -e poter dire: “io c’ero!”. Nonostante il Trentino abbia accettato l’incarico solo a marzo del 2012, in sosti- tuzione della Slovenia, i risultati sono stati soddisfacenti. Il presidente del comitato organizzatore, Sergio Anesi, ha dichiarato che la buona riuscita dell’organizzazione dell’Universiade in così poco tempo si deve “a due caratteristiche che hanno fatto del Trentino la Provincia di Italia più vicina al mondo dello sport: l’ampia dotazione di impianti sportivi e soprattutto la grande capacità organizzativa assicurata dai tanti comitati locali e dalle migliaia di volontari”. Il continuo riconoscimento del ruolo fondamentale dei volontari è stato ripe- continua a pagina 2

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Bimestrale di informazione dell'Associazione Prodigio Onlus sul mondo del disagio e dell'handicap

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progetto di giornale

BIMESTRALE DI INFORMAZIONE DELL’ASSOCIAZIONE PRODIGIO ONLUS SUL MONDO DEL DISAGIO E DELL’HANDICAPNUMERO I - FEBBRAIO 2014 - ANNO XV - LXXXII NUMERO PUBBLICATO WWW.PRODIGIO.IT

La vita è come un RallyRealizzare i miei sogni sempre! Anche da disabile

pagina 2

Slot-machine e terremotiCome le compagnie dell’azzardo specularono sul sisma in Abruzzo

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Il mandato alla solidarietàLa responsabilità di essere ciascuno custode dell’altro

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Libero scambio di semiFiera a Feltre e dedicata alla all’agricoltura libera dai brevetti su piante e semi

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Immaginiamo che in questo periodo tu sia più sulle piste che davanti al computer, quindi per prima cosa ti chiediamo come

sta andando la stagione, gli allenamenti e quali sono le prossime gare che hai in pro-gramma.Ciao! La stagione è iniziata il 2 dicembre e sta andando molto bene, sono molto contenta dei progressi che stiamo ottenendo! Mi alleno sempre nel fantastico comprensorio di Folgaria, seguita dal team della scuola di Scie di Passio-ne con cui mi alleno tre volte a settimana, alternando tracciati di gigante, slalom e campo libero.

Per quest’anno l’obiettivo è parteci-pare a tutte le gare della Snow 4 All in collaborazione con il circuito Autodri-ve Ski Cup, ed infine concludere con i Campionati Italiani.Tornando un po’ indietro, ci puoi rac-contare meglio la tua storia e come na-sce in te la passione per lo sci e la neve?Hai trovato difficoltà a praticare questo sport?

Ho sempre avuto una grande passione per le emozioni forti, l’adrenalina, la po-tenza, la velocità, e lo sci alpino è il per-fetto connubio tra tutto ciò, unito a un grande equilibrio e una forte concentrazione. Quando scii e hai la pista davanti tutto il resto rimane fuori, esisti solo tu, la tua prestanza fisica e la grinta che devi mettere per andare addosso ai pali, e tutto ciò è splendido, lo sci riesce ad esaltare qualità mentali e fisiche che altrimenti rimarrebbero latenti.

Per fortuna il mio primo approccio serio con la neve è stato con la scuola Scie di Passione, con sede in Folgaria, la quale oltre ad avere maestri professionali e preparati per insegnare le curve ad ogni tipo di sciatore ed essere do-tata di dualsci e monosci (le attrezzature che usano gli sciatori con disabilità motoria), si fa propugnatrice di un approccio soft, seguendoti passo-passo fino a quando si riesce a scendere autonomamente ed in sicurezza le piste.

Anche per quanto riguarda gli impianti sciistici sono stata facilitata: FolgariaSki è un compren-sorio sciistico che presta particolare attenzione a tutti gli sciatori, grazie agli impiantisti che sono in grado di rallentare o fermare le seggiovie all’occorrenza, e dotando le baite di una carroz-zina in modo tale che uno sciatore, scendendo dal monosci, possa entrare senza problemi.Il tuo sguardo esprime un carattere forte e decisamente una spiccata voglia di superare i limiti che incontri: ti rispecchi in questo?

Grazie mille, sono davvero contenta se attraverso lo

sguardo riesco ad espri-mere queste bellissime qualità, e magari riuscire ad infonderle anche ad altri.

Fin da piccola sono cresciuta molto si-cura di me stessa e a mio agio col mondo che mi cir-

conda, forse per questo non posso dire di aver incontrato grandi limiti, a meno che per limite non si intenda una rampa di scale. Certo, le lotte per abbattere le barriere architettoniche le sto portando avanti da anni insieme alla mia famiglia, in modo tale che si arrivi al giorno in cui ogni cittadino non si senta in alcun modo discriminato nell’accessibilità a spazi comuni. Un’altra grande battaglia che porto avanti, nel senso positivo e propositivo del termine, è quella destinata a dare una nuova luce al significato di disabilità, facendo sì che la società la percepisca come una caratteristica dell’essere umano, eli-minando quell’aura obsoleta e negativa che fa ancora vedere la persona con disabilità come per forza a un malato, o uno sfortunato, un emar-ginato da trattare diversamente o associare a termini come “costretto” sulla sedia a rotelle. La sedia a rotelle è uno strumento tecnologico che permette di andare, correre, sfrecciare. È come il monosci: libera, non costringe!Le vicine olimpiadi invernali Sochi 2014 hanno mosso in te la voglia di partecipare un giorno a quel palcoscenico mondiale? Questo o altri tuoi obbiettivi sportivi come gli affronti giornalmente? Quale pensiero prima di affrontare una discesa?Il “sogno” di partecipare ai giochi olimpici di Sochi è stato sicuramente un grande stimolo che

mi ha spronata a dare il massimo nella stagione passata: purtroppo i tempi erano molto limitati per classificarsi ma ciò mi ha permesso di cresce-re e di comprendere tutto il sacrificio, l’impegno e il lavoro che sottende ogni gara.

Certamente la mia giornata tipo si distingue tra stagione invernale, dove dedico il mio tem-

po a fare chilometri sulla neve, ed estiva, in cui il tempo invece lo suddivido tra preparazione atletica ed esami universitari.

Prima di ogni discesa sono molto concentrata, e l’unica cosa a cui penso è dare il meglio di me stessa.Cosa ti sentiresti di dire a chi si ferma davanti a piccole e grandi difficoltà senza riuscire a mettere in gioco se stesso?Proverei a incitarlo facendogli tirare fuori i denti e tutta l’energia nascosta che permea ogni essere umano, ricordandogli che la vita è qui e ora e che è nostro dovere, nei confronti di noi stessi, godercela a pieno sfruttando tutti i talenti che ci sono stati dati.Ci piacerebbe tu ci lasciassi con un augurio o un pensiero personale ai nostri lettori!Vi auguro di essere felici e di brillare di luce, di far esplodere le vostre potenzialità e di fare della vostra vita un’opera d’arte, come scriveva il nostro Gabriele D’Annunzio.

Lorenzo Pupi

Intervista alla sciatrice Sofia Righetti

Neve, neve e tanta passione !

L’evento raccontato nel reportage di una volontaria

L’Universiade Trentino 2013

La parola chiave dell’Universiade 2013 non è sport, non è gara, non è vincere. La parola che definisce lo spirito che

ha animato questo evento è squadra. Parlo da volontaria: una persona che non ha particolari interessi sportivi né competitivi, una persona che voleva semplicemente essere parte di qualcosa di grande e unico. E ci è riuscita. La squadra era sì qualcosa di costruito -ad ognuno erano stati affidati un ruolo e dei compiti precisi- ma era so-prattutto qualcosa di sentito. Entrare ogni giorno in ufficio, organizzare il lavoro con i compagni e sentire che insieme si riesce a far funzionare la macchina (nel mio caso dell’ufficio stampa) dell’Universiade era qualcosa di entusiasmante. Lavorare a stretto contatto con i giornalisti, sia italiani che internazionali, aiutarli a stilare le classi-fiche giornaliere o ad intervistare gli atleti, era qualcosa che -almeno, per chi non è del mestiere- dava grande motivazione e soddisfazione.

Il volontario è stato definito il “vero protagonista” dell’Universiade ed è stata ammessa l’enorme difficoltà della realizza-

zione di eventi di questo tipo senza il suo contributo. In circa 2200 hanno risposto all’appello, spinti non solo dalla passione per lo sport ma anche dalla voglia di fare delle esperienze lavorative stimolanti, dalla possibilità di conoscere giovani atleti pro-venienti da tutto il mondo, dall’occasione unica di poter partecipare ad un evento di portata internazionale -e poter dire: “io c’ero!”.

Nonostante il Trentino abbia accettato l’incarico solo a marzo del 2012, in sosti-tuzione della Slovenia, i risultati sono stati soddisfacenti. Il presidente del comitato organizzatore, Sergio Anesi, ha dichiarato che la buona riuscita dell’organizzazione dell’Universiade in così poco tempo si deve “a due caratteristiche che hanno fatto del Trentino la Provincia di Italia più vicina al mondo dello sport: l’ampia dotazione di impianti sportivi e soprattutto la grande capacità organizzativa assicurata dai tanti comitati locali e dalle migliaia di volontari”.

Il continuo riconoscimento del ruolo fondamentale dei volontari è stato ripe-

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tuto in modo costante durante tutto il corso della manifestazione. Anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, Ugo Rossi, ha definito il “fattore umano, inteso come energia, competenza ed entusiasmo,” uno dei “punti di forza” della XXVI Universiade. Lo stesso motto inspired by U vuole trasmettere quest’idea: “voi

inteso come studenti, atleti, volon-tari, allenatori, giudici, spettatori” (Gallien, presidente FISU).

Se i volontari sono stati il motore dell’Universiade, gli atleti ne sono stati -ovviamente- il cuore: 3.600 giovani provenienti da 61 paesi dei 5 continenti si sono sfidati nel biathlon, nella combinata nor-dica e nel curling, nel freestyle e nell’hockey, nel pattinaggio

artistico, nel salto speciale, nello sci alpino e di fondo, nello short track, nello snowboard e nello speed skating. Hanno vinto 234 medaglie in dieci campi di gara sparsi per quasi tutto il Trentino: Alba di Canazei, Baselga di Pinè, Ca-valese, Monte Bondone, Passo San Pellegrino, Pergine Valsugana, Pozza di Fassa, Predazzo, Tesero e Trento.

È dal 1959, anno in cui Primo Nebiolo orga-nizzò la prima Universiade, che ogni due anni studenti universitari di tutto il mondo si incon-trano e gareggiano in quello che è il secondo evento internazionale più importante dopo le Olimpiadi. Lo stesso nome vuole esprimere, oltre che la provenienza universitaria degli atleti, l’universalità della manifestazione spor-tiva. Nebiolo, all’epoca vice presidente del CUSI (Centro Universitario Sportivo Italiano), prese l’idea dell’Universiade dagli eventi sportivi universitari; dopo aver partecipato alla setti-mana internazionale dello sport universitario a Parigi nel 1957, decise, infatti, di creare una manifestazione simile a quella olimpica.

Il Trentino ha certamente voluto distinguersi la sua edizione dell’Universiade per quanto riguarda l’innovazione. Di questo ne è un buon esempio la torcia: progettata da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Trento, ricorda la forma di una genziana, fiore raro ma tipico delle Alpi Trentine e presente, con differenti specie, in tutti e cinque i continenti. La sua simbologia si spinge però ben oltre questo. Innanzitutto questo lavoro vuole unire la tra-dizione con l’innovazione: l’interno della torcia è composto da una fiaccola in cera con fiamma libera e ben visibile da lontano, mentre il ma-teriale della struttura esterna è un innovativo acciaio inossidabile blu, colore dell’Europa,

denominato TSteel. Sull’impugnatura ci sono i cinque colori che rappresentano le cinque stelle FISU (e i cerchi CIO); ogni colore è un omaggio a un continente: il nero celebra l’Afri-ca, e il disegno richiama la montagna e lo sci; il verde è il colore dell’Oceania e simboleggia la roccia: l’immagine è quella del dorso di un libro -un richiamo al sapere e allo studio- con la

scritta Winter Universiade Italy - Trentino 2013; il giallo, colore dell’Asia, simboleggia il legno dei boschi trentini, materiale usato per le attrezzature spor-tive; il rosso, l’America, ricorda le attrezzature da curling; il blu simboleggia l’Europa. Papa Francesco ha acceso la torcia il 6 novembre 2013 a Roma, volendo forse così dichiarare la sua condivisione dei valori che rappresenta: amicizia, fratellanza e gioco di squa-dra, avanguardia nella ricerca

scientifica e fiducia nei giovani, oltre che, naturalmente, cultura dello sport.

Anche il braciere dell’Uni-versiade trentina si è voluto distinguere per livello di inno-vazione: è il primo che utilizza

una tecnologia LED. In linea con il progetto “Emissione Zero”, la “Genziana delle Dolomiti” è composta da cinque petali di legno dotati di una struttura in acciaio riempita di luci LED blu e da una fiamma composta da LED gialli e rossi a basso consumo energetico.

Il rispetto dell’ambiente infatti è stato uno dei principi guida dell’Universiade: il progetto “Universiade Zero Emission” si pone come obiettivo quello di realizzare l’evento senza incrementare l’emissione di gas climalteranti. Le azioni per realizzare il progetto sono state svariate e di diverso tipo: dall’utilizzo di carta riciclata negli uffici, al coinvolgimento di pro-getti provinciali per la sostenibilità ambientale, dall’utilizzo dei mezzi pubblici all’impiego di squadre di ricercatori per specifici progetti.

I valori dell’Universiade Trentino 2013 am-pliano e superano perciò quelli dello sport: come in una squadra tutte le persone coinvolte cooperano per raggiungere l’obiettivo. Insieme si festeggia non solo per la medaglia vinta, ma anche per le amicizie fatte durante il percorso e i valori che si è imparato a condividere, sapen-do che si è parte di qualcosa di grande, che va oltre i confini della lingua, della nazione, della religione. La gara sportiva è il pretesto per unire studenti e giovani di tutte le parti del mondo, la competizione sportiva è la scusa per trovare qualcosa da condividere e da scambiare. Pen-siero ben riassunto dalle parole del Presidente della Repubblica: “Come ci ha insegnato Nelson Mandela lo sport può abbattere barriere, unire popoli e cambiare il mondo. Sono convinto che i partecipanti alle Universiadi sapranno raccogliere questo messaggio e contribuire alla costruzione di un futuro di pace” (Giorgio Napolitano).

testo e foto di Elena Bazzanella

SPORT PER TUTTI

Proprietà: Associazione Prodigio OnlusIndirizzo: via A. Gramsci 46/A, 38121 TrentoTelefono: 0461.925161 Fax: 0461.1590437Sito Internet: www.prodigio.itE-mail: [email protected]. del Trib. di Trento n. 1054 del 5/6/2000 Spedizione in abbonamento postale Gruppo 70% p

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. Abbonamento annuale (6 numeri)Privati €15,00; enti, associazioni e sostenitori €25,00 con bonifico bancario sul conto corrente con coordinate IBAN IT 25 O 08013 01803 0000 6036 2000 intestato a “Asso-ciazione Prodigio Onlus” presso la Cassa Rurale di Aldeno e Cadine indicando la causale “Abbonamento a pro.di.gio.”.Pagamento con carta di credito su www.prodigio.it.

Direttore responsabile: Francesco Genitoni.Redazione: Lorenzo Pupi, Giulio Thiella, Carlo Nichelatti, Giuseppe Melchionna, Luciana Bertoldi. Hanno collaborato: Maurizio Menestrina, Maurizio Franchi, Sara Caon, Dorotea Maria Guida, Tommaso Moretti, Piergiorgio Gabrielli, Elena Bazzanella, Flavia Castelli, Luca Malesani.In stampa: lunedì 27 gennaio 2014.Stampa: Publistampa (Pergine Valsugana).

Ripartire a tutta velocità, dopo una “caduta banale”

Paraplegia? Una vita comunque normale.

Questa storia potrebbe essere comune a tante altre storie di paraplegia che spesso non vengono raccontane per

pudore, per privacy o semplicemente per tenere celata, agli sguardi, in questo caso, alle menti indiscrete una immensa ferita del corpo e dell’anima.

Si possono condividere o no queste con-siderazioni, ma noi con Marcello vogliamo approfondire.

Marcello Trentin, classe 1972 è nato a Torino; prima dell’incidente era studen-te d’Ingegneria al Politecnico di Torino, an-cora 5 esami e si sarebbe laureato e invece “Mi sono fatto male il giorno di Pasquetta di diciassette anni fa, era l’otto aprile ed io avevo 24 anni, per un evento banale - ci racconta Marcello e sorride con ironia - per portare a fare un giro in moto un ragazzo che mi aveva assillato per ore, siamo caduti con una moto da cross in mezzo ad un prato a bassa velocità. Esito dell’incidente: nemmeno un graffio ma schiena rotta... Che cosa fai dopo la diagnosi? Ti arrabbi con il mondo? Imprechi? Ti chiudi in casa?Dopo l’incidente, ho capito che l’unica cosa che potevo era provare a continuare la mia vita, esattamente la dove l’incidente l’aveva interrotta, anche se in modo diverso. Dopo tre mesi ero tornato nuovo all’università e mi sono laureato a pieni voti in ingegneria Mec-canica. E subito dopo la laurea già lavoravo come ingegnere in una azienda che progetta auto, ho poi lavorato al Centro Ricerca Fiat e attualmente in Iveco.”“Mi piaceva lo sport anche prima di... farmi male!” Farsi male, due parole così innocue che invece nascondono un cam-biamento abissale della vita, eppure lo si dice spesso in questi casi, forse per voler

ridimensionare un’immane “frattura” tra il prima e il dopo.“E dopo l’incidente ho provato quasi subito a fare sport non agonistico, prima ho provato il nuoto e poi ho aggiunto al nuoto, da circa 6 anni, l’Handbike, la bicicletta che si pedala con le mani. Il significato che lo sport ha per me è una sorta di completamento a una vita comunque impegnata anche da altre cose ed ha lo scopo principale di permettermi di mantenermi in forma. Il’agonismo, invece, per me ha un valore molto personale: non cerco la competizione o la vittoria, ma il confronto con i miei limiti, prima ancora che con gli altri. Tutto ciò fa dello sport un nuovo stimolo personale.

Ho potuto fare due distinzioni circa lo sport praticato prima dell’incidente. Prima pensavo fosse un ingrediente da non trascurare nella ricetta di una vita sana e serena. Nella vita di un paraplegico, fare sport è una gentile concessione, un regalo che ti è stato concesso e non va assolutamente sprecato. Diventa ancora più importante, ancor prima che per il fisico per la mente.”Qual è stato lo stimolo più importante che ti ha rimesso in pista, nella pista della vita?“Una persona. La persona più importante che da sempre ho al mio fianco, il mio angelo custode che si chiama Valentina. Era già la mia ragazza prima dell’incidente ed ora è mia moglie. È da venticinque anni che condivide con me la vita sia quando le cose vanno bene, sia quando ci sono da affrontare dei problemi. Sicuramente senza di lei avrei fatto molto meno cose. Soprattutto non avrei trovato la forza per rendere la mia vita da paraplegico, una vita comunque normale.”

Dorotea Maria Guida

Dall’alto: I volontari a lavoro per la messsa a punto delle piste.Speed-skating maschile a Baselga di Piné.Momenti di una partita di Curling femminile.

➽ segue dalla prima pagina

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SPORT PER TUTTI

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SOLIDARIETÀ

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PASSIONI

Il ruolo decisivo delle cooperative sociali per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani diversamente abili

Lavoro e disabilità

Secondo i dati Istat del 2012, riportati dal Sole 24 Ore, solo il 16% delle persone affette da disabilità con un’età com-

presa tra i 15 e i 74 anni ha una collocazione lavorativa dati preoccupanti che se associati al fatto che molto spesso una famiglia con una persona non autosufficiente deve af-frontare il problema della carenza di servizi con ricadute finanziarie inevitabili è indub-bio che il quadro che ne risulta non è roseo.

La tematica del lavoro riveste, infatti, particolare interesse per le persone con disabilità non solo per questioni economi-che ma anche perché si pone come la pre-condizione per una reale inclusione sociale.

La legge 68, del marzo 1999, impone l’assunzione di personale con disabilità prevedendo delle quote minime: il 7% del totale per le azienda con 50 o più dipenden-ti, due unità di lavoratori per quelle con un organico tra i 36 e i 50 e un lavoratore per le imprese con una “rosa” tra i 15 e i 35.

Purtroppo esiste la “scappatoia” e buona parte dei datori di lavoro ricorra all’esonero parziale, svincolandosi dall’obbligo di as-sunzione con il pagamento di una sanzione. Le ragioni sono evidentemente chiare se-condo la maggior parte degli imprenditori è “più comodo pagare la cifra prevista che attivare l’iter per l’assunzione di disabili”.

È chiaro quindi che nonostante gli indubbi progressi realizzati dalla nostra società nella percezione e nella tutela dei soggetti disabili, la realtà di queste persone è ancora piena di osta-coli ed è evidente la necessità di promuovere una vera e propria cultura dell’integrazione delle disabilità per aspirare realmente a ga-rantire le condizioni essenziali di uguaglianza per tutti i suoi cittadini ed in tutti gli ambiti socio - culturali.

Partendo da questi presupposti è importan-te far conoscere a tutti il lavoro delle associazio-

ni di promozione sociale presenti sul territorio italiano e regionale.

Queste associazioni di promozione sociale operano nell’ambito della disabilità con l’o-biettivo di stimolare la ricerca, fornire spazi di ascolto, sostegno e orientamento ai soggetti disabili, attivare corsi di formazione- istruzio-ne- avviamento al lavoro.

Tali attività, così importanti per il disabile ma anche per la società, devono essere integrate da azioni di sensibilizzazione e formazione rivolte ai soggetti normodotati, i quali devono essere opportunamente istruiti al confronto

e all’interazione con soggettività complesse come possono essere le persone diversamente abili.

Tutto questo assume particolare rilievo nei contesti lavorativi, nei quali s’innescano relazioni partico-lari che chiamano in causa anche e a volte soprattutto, conoscenze e competenze specifiche, spesso acquisibili solo attraverso training e corsi di formazione ad hoc.

Le cooperative sociali attuano quindi un lavoro molto importante e difficile quello di pianificare, attra-verso modalità sempre in divenire e flessibili, un percorso d’inserimento e integrazione di un disabile in un ambiente lavorativo dedicando attenzione alle sue esigenze, dando ascolto alla sua “voce”, prevedendo momenti frequenti e costanti di confronto.

Per ogni disabile mettono in atto un per-corso sempre “aperto” di concertazione tra più soggetti con diverse competenze, utili per affrontare tutte le problematiche che emergono; da quelle psicologiche e relazio-nali a quelle più pratiche come il rendimento nello svolgimento di un’attività.

La TV di stato, non molto tempo fa ha dato spazio ad una di queste associazioni la Cooperativa sociale il “Il Margine” nata a Torino nel 1979 che dal 1983 opera in ambito socio-sanitario, assistenziale, educativo e si occupa più in generale dei servizi rivolti alle persone. La cooperativa aderisce a diversi consorzi con cooperative, associazioni ed organismi di tutela e rappresentanza e lavora in stretta collaborazione con altre imprese sociali, or-ganizzazioni di volontariato, associazioni ed istituzioni pubbliche e private con l’obiettivo, fra l’altro, di rinforzare le competenze profes-sionali di persone portatrici di disagio sociale,

prevalentemente psichico, partendo dal presupposto che l’integrazione attraverso il lavoro è una forma di riabilitazione. All’interno della coo-perativa, infatti, dal 2002 c’è un’area dedicata ai laboratori chiamata Are-alab con due differenti laboratori di artigianato: quello di serigrafia e quello d’informatica.

In ambito territoriale una delle Cooperative sociali più attive è sicu-ramente l’Associazione Progetto 92 costituita nel 1992 ha iniziato la sua attività nel 1993 e tra l’altro gestisce anche 7 gruppi appartamento, alcuni centri diurni ed è attiva nel settore degli interventi di aiuto domiciliare.

Nel 1994 ha fondato, a Maso Pez, il servizio legato alla formazione, ai prerequisiti lavorativi, in particolare all’utilizzo del lavoro agricolo come strumento educativo per favorire l’in-tegrazione nel mondo lavorativo di soggetti con disabilità.

Il quadro nazionale e regionale è per fortuna, anche grazie ad una folta rete di volontariato, in fase di sviluppo e conforta l’interesse dimo-strato dal governo Letta nell’impegno a cercare di sostenere le associazione. Tutto il settore spera che la nuova Giunta, anche in forza della sua autonomia speciale, dia il meritato aiuto e sostengo alle cooperative e associazioni sociali del territorio.

È chiaro che un ringraziamento speciale deve andare, oltre a tutti quelli che operano con impegno e amore all’interno delle asso-ciazioni, a quelle imprese e a quegli enti che, senza i vincoli della legge 68, hanno assunto o assumeranno lavoratori con disabilità sman-tellando così le barriere, fisiche e culturali che da sempre frenano l’integrazione sociale della diversità.

Maurizio Franchi

Riscopriamo a trent’anni dalla sua nascita una cooperativa più forte che mai grazie a passione, impegno lavorativo e voglia di mettersi in gioco.

30 anni di Cooperativa FAI

Per questa evento, organizzato dalle sto-rica cooperativa sociale trentina

che dai primi anni ‘80 si occupa di assisten-za, ci siamo recati al centro diurno Filo Filò a Ravina. Non pote-vamo che accogliere con grande piacere l’occasione di festeg-giare insieme questa bella realtà.

Famiglia, Anziani, Infanzia, questa è la FAI un’esperienza che nasce nei primi anni ‘80 dalla determina-zione e passione di 14 donne che agli albori dell’imprendito-ria femminile realizzarono un sogno.

In una situazione di attuale crisi generale, realtà come que-sta cooperativa sanno come esprimere il meglio di sé, traendo dalle difficoltà maggior energia.

Ci hanno colpito oltre alla sala gremita di persone, le parole del presidente Massimo Occello quando ricorda ai presenti che quelle donne che da 14 sono diventate, oggi 119 su un totale di 134 dipendenti formano una vera famiglia. Una famiglia che sa essere unita e creativa anche quando si tratta di far fronte alle difficoltà. I luoghi dove lavorano queste -” splendide donne”, usando le parole del Presidente, sono le stesse case di persone anziane e sole, la Casa del Clero, l’infermeria dei Frati Francescani e non da ultimo il Centro diurno di Ravina Filo Filò, dove avvengono le attività più creative e manuali e non a caso

scelto come palcoscenico per i 30 anni dalla nascita della FAI.

“In Cooperativa si parla plurale”. È una realtà sempre pronta ad ascoltare i bisogni sia all’esterno che al

suo interno e tutti hanno un gioco fonda-mentale. Forse, è l’anima femminile di una cooperativa fondata da donne e gestita da donne, che rende l’impegno di ogni giorno così condiviso.

Negli occhi di coloro che prendono la paro-la sul palco, si intravede un enorme rispetto

per il valore della solidarietà. Nelle difficoltà, alla Cooperativa FAI si stringono i denti, non si conosce la paura, ma si costruisce un futuro su fondamenta di passione e sorriso.

Un piacevole senso di fratellanza avvolge operatrici, utenti, amministratori, famigliari e il bel clima di festa viene arricchito dal suono

di una chitarra, dal teatro e da tanti bei racconti.

Sono credo momenti, questi, in cui si tirano le som-me di un percorso sincero fatto di persone che vanno e persone che si aggiungono, ognuna delle quali por-ta energia e creatività. Un plusvalore che non rimane confinato all’interno di una struttura, ma si dirama sul territorio si distribuisce tra la collettività creando be-nessere e sostegno.

La FAI non si occupa solo di pura assistenza, ma or-ganizza laboratori e cen-tri diurni che stimolano la

creatività, la manualità e la condivisione di esperienze. Rappresenta un laboratorio sociale dedicato, sì ad anziani, ma in cui gravitano molte altre realtà. Qui un anziano impa-ra a recitare, riscopre la sua

manualità e la voglia di stare in compagnia di coetanei e operatrici amorevoli. Queste attività sono importanti per continuare a sperimentarsi, a non cedere troppo alla mo-notonia, ma anche semplicemente per stare insieme e costruire legami forti, ricordando il passato e contribuendo al presente.

Lorenzo Pupi

In senso orario:Il Presidente della Provincia Ugo Rossi con il Presidente della Cooperativa Fai Massimo Occello.L’intrattenimento teatrale presso il Centro Filo Filò.Le fondatrici della Coperativa Fai.

Video della festa Fai

Sito della Cooperativa Il Margine

Sito del Progetto 92

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SOLIDARIETÀ

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PASSIONI

Realizzare i miei sogni sempre! Anche da disabile. La storia di Lerenzo Bogi.

La vita è come un Rally

Curva dopo curva, ostacolo dopo ostacolo, la vita è come un Rally, nel quale per vin-cere è necessario avere una buona dose

di determinazione e caparbietà; è fondamen-tale credere in se stessi e nelle proprie capacità, ma soprattutto, quello che più conta è il non rinunciare mai ai propri sogni. Questa è la sin-tesi di Lorenzo Bogi, un uomo che è sempre stato un po’ particolare, fuori dagli schemi. Un pilota e un navigatore paraplegico da 8 anni che ha un mondo da rac-contare, un mondo fatto di corse, avversità, desideri, conquiste, sogni e di traguardi raggiunti.

Lui si definisce un “ragazzo di paese”, racconta che ha iniziato a trafficare con i trattori agricoli molto presto e già a 11 anni li guidava senza nessun aiuto. Poi a 16 anni tagliava da se un piccolo appezzamento di bosco per ricavarne i soldi per gli svaghi adolescenziali. Lorenzo, in quel periodo aveva un idolo e non era un cantante rock, era invece, Italo che a Valle Secondo (Alta Val di Cecina - Pisa) lavorava con un Caterpillar D9 in una cava. “Sognavo di poter esser li - racconta Lorenzo Bogi orgoglioso - che po-tessi esserci io al suo posto; questo primo sogno l’ho poi realizzato, infatti, dopo pochi anni ho avuto Italo come maestro e poi in seguito l’ho sostituito proprio in quella cava. Chi dice che i sogni non si realizzano?” Sorride beffardo Lorenzo

Quel sogno realizzato è stato il primo di una lunga serie.

“Sono nato a Volterra il 5 agosto del 1973. Manovravo Ruspe ed Escavatori per la Granchi Rodolfo s.r.l.” Citare quest’impresa non è pub-blicità come ci dirà in seguito Lorenzo.

Insieme alla passione per il lavoro, Bogi ha coltivato la passione per i Rally nei quali era impegnato come navigatore sin dal 1993. Ha partecipato tra il 1993 e il 1995 al trofeo Peugeot disputando tantissime gare tra la Toscana e l’Emilia.

“La passione per i Rally mi è venuta grazie a mia madre che con mio fratello e alcuni amici ci scarrozzava con il suo ‘126 verde’ a vederli tutti, di notte e di giorno. Era inevitabile che appena presa la patente iniziassi a disputarli, naturalmente sempre come “naviga”. Ho praticato l’attività sportiva rellistica fino al 1995 anno in cui ho dovuto abbandonare perché il lavoro non mi permetteva più di farlo. - ci racconta Lorenzo - Al tempo facevamo 20-25 passaggi a prova durante le ricognizioni e questo significava partire alle 22:00 e rientrare alle 6:00 ora di ripartire per lavoro. Così ho iniziato con le due ruote, che mi “rubava” meno tempo e dal 2001 ho iniziato a correre in moto.”

Poi il suo rovinoso incidente: “La mia caduta è avvenuta il 6 agosto 2006, giorno successivo al mio 33esimo compleanno, durante la penultima gara del Campionato italiano di Velocità in salita Sillano - Ospedaletto. Una caduta della quale non è mai stata chiara la dinamica, avvenuta quasi all’arrivo, alla penultima curva dopo un rettili-neo, ho tirato dritto non completando la curva e schiantandomi contro un terrapieno e un mu-retto di cemento. Spettatori e commissari hanno fornito descrizioni contrastanti, ma questo non cambia le cose. Le conseguenze sono state subito catastrofiche: doppio trauma cranico, 17 vertebre fratturate di cui D3 esplosa che ha procurato una lesione midollare completa oltre a 5 costole rotte, un polmone perforato e bacino fratturato. Non avevo nessun movimento, nessuna ripresa, solo alle 3° fiala di adrenalina il mio cuore ha ripreso a battere. Nessuno parlava della paralisi perché in gioco c’era ben altro, ovvero la vita.

Sono stato trasportato con l’Elisoccorso presso l’ospedale di Pisa, ma la situazione era disperata; il chirurgo, parlando con i miei genitori disse che avevo circa 3 giorni di vita se non fossi stato operato, ma operarmi era molto rischioso perché le emorragie interne erano copiose e avrebbero potuto uccidermi.

I miei genitori firmarono per l’intervento. Mi sono svegliato dal coma farmacologico dopo dodici giorni e sono stato trasferito presso la

terapia intensiva del Montecatone Reabilitation Istitute. Da lì ho inizio la mia nuova vita.

Tornare alla normalità è stato più facile del previsto, - continua sorridendo Lorenzo - il mio è stato un percorso lungo e graduale e questo mi ha aiutato. Passando dalla terapia intensiva a quella sub intensiva ancora non mi rendevo conto di ciò che avevo realmente, capivo solo che non muovevo niente e non riuscivo a muovere

nemmeno le braccia per alimentarmi, non respiravo autonomamente e avevo la Tracheotomia.”

Ciò che faceva ben spe-rare medici e familiari era il fatto che il giovane rallista aveva molta fame, e anche se costretto a farsi

imboccare, era un ottimo segnale di ripresa.Dopo alcune settimane è stato poi trasferito

nel reparto di riabilitazione. “In corsia iniziano le nuove amicizie, e le sfide; ci si sfida a chi riesce per prima a mettersi in piedi, perché noi siamo convinti che torneremo a camminare, anche se i dottori ci dicono subito che questo non avverrà mai, ma noi mica ci crediamo! Poi ho iniziato a praticare gli sport in carrozzina e credo di averli provati tutti: Tennis, Basket, Nuoto, Handbike e Sci Paralimpico. Quando si è dimessi dall’U-nita Spinale, si è quasi preparati alla nuova condizione, perché si è già affrontato il mondo esterno, grazie all’attività sportiva.”.

“Soltanto che preparati non lo si è mai del tutto”. Riflette Lorenzo. Il primo scoglio da affrontare è il reinserimento nel mondo del lavoro. Il motociclista di Cecina non avrebbe più potuto arrampicare sugli escavatori o sulle macchine operatrici.

“Non sono stato lasciato solo in quel periodo e i titolari dell’azienda Granchi si sono attivati affinchè potessi continuare ad avere una collocazione all’interno della loro ditta. Sono riusciti a trovare una soluzione mediante un inserimento U.S.L. (inserimento socio terapeu-tico). Il mio nuovo lavoro è diventato quello di gestire le manutenzioni di tutte le macchine operatrici e stradali, oltre a seguire l’acquisto dei nuovi macchinari; un lavoro stupendo che mi realizza e che faccio tutt’oggi con grande passione. In 13 anni di lavoro nel settore credo di non aver mai detto: domani non ho voglia di andare a lavoro, per me era un piacere farlo, tanto da essermi guadagnato la stima di molti ed in particolare del mio datore di lavoro che dopo la caduta mi è stato molto vicino e mi ha fatto sempre sentire importante anche dopo l’incidente e credetemi, questo non ha prezzo”.

Lorenzo Bogi continua nel suo racconto appassionato. “Sistemata la questione lavoro, ho provato subito a praticare gli sport che ave-vo imparato a Montecatone, ma vivendo in un piccolo paesino sperduto, tutto è stato molto difficile, così incontrando delle vecchie cono-scenze mi si è riaccesa la passione per il Rally. Le gare, le corse mi hanno sempre stimolato, l’adrenalina che provavo sotto la pioggia, tra il fango dei percorsi accidentati l’avrei voluta riprovare anche con la nuova condizione e la conseguente limitazione; Avrei voluto tornare a fare il navigatore, ma...”

Tornare a “navigare” non è stato facile per Lorenzo. È vero ci sono tanti ragazzi paraplegici che corrono in pista, primo fra tutti il pilota Luca Donateo, ma nei Rally nessuno, tantomeno come navigatore, un ruolo dove dalla macchina bisogna scendere e salire in continuazione per timbrare al controllo orario.

Il primo passo è stato conseguire la licenza

“h disabile”. L’iter è impegnativo: è necessaria una visita medica che attesti le possibilità fisiche e neurologiche. Poi il Corso FISAPS (Federazione Italiana Sportiva Automobilismo Patenti Speciali) l’organismo che permette di correre paraplegici tra i normodotati. Il quel

periodo i corsi si tenevano solo in provin-cia di Bari, dove Lorenzo si è trasferito per

un breve periodo con il fratello. Un corso che consiste in esami teorici e la prova di guida in pista con la macchina adattata alla guida per paraplegici. Bogi, campione di determinazione ha superato tutte queste prove.

Tornare a fare il navigatore da paraplegico è molto complicato però, è necessario sostenere anche un’altra prova ovvero la simulazione d’uscita dall’auto in caso d’incendio, seduti e con casco e cinture allacciate, è indispensabile uscire in 14 secondi. Lorenzo centra anche questa sfida.

“Non è stato sufficiente! Ho dovuto con-frontarmi con il CSAI (Commissione Sportiva Automobilistica Italiana) che è l’organismo che si occupa del settore Rally, e lottare per far comprendere che io non potevo uscire

ai posti di controllo, per timbrare la tabella di marcia durante una gara. Era necessario, invece, una volta arrivati in prossimità del ta-volo dei commissari che raggiungessero loro la mia auto per la timbratura. Questa forse è stata l’ultima resistenza: cambiare una piccola

regola per ottenere un grande risultato, ossia l’integrazione di un navigatore disabile. Risolto anche questo detta-glio, si è potuto partire con le gare. Ho ottenuto un numero rosso sulle fiancate della macchina per essere identificato meglio e via, sono tornato a “navigare”. Ho ottenuto una importante modifica al regolamento che adesso può servire a qualsiasi navigatore abile e non, per la timbratura dalla propria auto”.

Lorenzo ha realizzato tutti i sogni della sua vita anche grazie a tante persone che hanno creduto in lui. La sua fami-glia, i datori di lavoro e gli organismi competenti in merito di corse sportive: la FISAPS, principalmente, l’organo

competente che permette di far gareggiare le persone disabili con i così detti i normodotati, permettendo un’integrazione perfetta.

“Oggi penso di vivere una vita normale - con-clude Lorenzo - essere paraplegico è solo non poter stare in piedi e non poter fare la scale in autonomia, per tutto il resto c’è quasi sempre una soluzione. Per quel che mi riguarda il problema più grande sono i dolori, neurologici e non, che spesso sono molto forti e una vera e propria soluzione non si riesce a trovare.”

Ci può essere un antidoto a questo? “Non è sempre facile superare i giorni “no” ma io cerco di uscire, lavorare, distrarmi e sperare che domani siano passati”.

Speranze per il futuro?“Spero di riuscire a realizzare sempre i miei

sogni, abbattendo muro dopo muro!”Dorotea Maria Guida

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PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO - PAGINA A CURA DELL’UFFICIO STAMPA - PIAZZA DANTE, 15 - 38122 TRENTOSOCIETÀ

UNA

OPPO

RTUN

ITÀ

Obiettivo PULMINO!C’è una new entry in casa Prodigio: è

finalmente arrivato il pulmino attrezzato dell’Associazione!

Di cosa si tratta? Di un’iniziativa che vuole creare opportunità per ampliare e migliorare la vita relazionale di persone disabili e sole, permettendo loro di parte-cipare a svaghi ed eventi culturali nella ma-niera più agibile ed immediata possibile.

La principale f inalità per cui verrà utilizzato questo strumento è, quindi, la creazione di occasioni di socializzazione.

È pensato per essere un mezzo che aiuti ad in-staurare nuove relazioni, a differenza dei trasporti già esistenti che soddisfano le esigenze dettate dalle incombenze quotidiane (come possono essere gli spostamenti in strutture ospedaliere, scuola, centri diurni, l’accompagnamento sul luogo di lavoro o movimenti obbligati sul territorio locale...).

Il progetto vuole offrire divertimenti, secondo il significato etimologico DI(S)-VERTERE ovvero pren-dere un’altra direzione, creare cioè alternative che esulino dalla quotidianità e che offrano proposte che comprendano visite alle città d’arte, partecipazioni a concerti, mostre, pizzate, visioni cinematografiche ed eventi culturali. Per quanto possano sembrare

svaghi ordinari (la loro proposta periodica e la loro organizzazione con un mezzo istituto proprio a tale scopo) possono incidere positivamente sul benesse-re psicofisico dei partecipanti più solitari, magari non per scelta, perché vengono direttamente coinvolti in attività propositive e collettive.

Non è quindi un progetto che vuole beneficiare singoli, ma compagnie formate da individui disposti a confrontarsi e che verranno incoraggiati ad in-staurare nuove relazioni personali e nuove amicizie.

L’organizzazione di tali attività verrà svolta dai volontari dell’associazione adeguatamente formati.

Monica Miori

La responsabilità di essere ciascuno custode dell’altro

Il mandato alla solidarietà

Possiamo essere credenti, fedeli per convinzione o per conve-nienza, oppure non professare

alcun credo religioso ma sempli-cemente essere innamorati della vita autentica e faticare, di giorno in giorno, per essere coerenti con il valore di un’umanità coesa e solidale, testimoni, nella quotidianità, delle pari dignità ed opportunità di ogni essere umano, quale origine e fine della convivenza civile.

Possiamo essere persone a cui la vita ha elargito molte buone oc-casioni e opportunità di successo, personaggi potenti, compiacentisi per le opere compiute; oppure possiamo essere semplicemente cittadini, umili e diligenti tessitori del bene quotidiano, piccole e per-severanti componenti del comune tessuto sociale, particelle dell’aria individualmente invisibili.

Comunque sia, a ciascuno di noi il Natale appena passato ha lasciato, come impegnativa eredità individuale, una seria responsabilità, chiedendoci di essere cittadini del mondo, attenti osservatori di ciò che ci accade attorno ed autentici interpreti dei bisogni altrui, personali o collettivi, capaci di reagire intelli-gentemente e quotidianamente per rendere un po’ più bello e più giusto il mondo.

Ai credenti e ai non credenti, il Natale ha lasciato un neonato, incarnazione della condizione di fragilità umana, dell’essere aperto al futuro ma, nello stesso tempo, indifeso e bisognoso di cure. Ma chi è oggi quel bambino privo di mezzi e di scaltrezza? Quel bimbo oggi è più vicino a noi di quanto si pensi; forse è proprio mio padre anziano, umiliato dall’ostentazione tecnologi-ca che lui non riesce a capire, o mio figlio disoccupato oppure è quella ragazza alla quale mani violente d’uomo hanno strappato, insieme a due denti, anche il piacere di sor-ridere o quell’uomo che, povero, ripone tutte le sue aspirazioni in un’improbabile vincita miliardaria al gioco d’azzardo. Chi ci assicura che il gelo della grotta di Betlemme non sia qui, appena dietro l’uscio del nostro vicino, che entra ed esce frettolosamente di casa, forse nella forma degli stenti materiali e dei

bisogni economici o forse sotto le vesti discrete del disagio personale e sociale, della solitudine o comunque dell’emarginazione? A quante perso-ne dobbiamo la nostra attenzione e la nostra solidarietà e quante di loro non vediamo neppure, vivendo frettolosamente, nella convinzione che tocchi sempre a qualcun altro accorgersi e prendersi cura delle

situazioni di difficoltà individuale o collettiva altrui.

Sicuramente la condizione della fragilità personale è nell’esperienza della malattia e, se messa a confron-to con l’arroganza e l’indifferenza altrui, è capace di distruggere ogni prospettiva di vita serena, indivi-duale e collettiva. Probabilmente, quell’essere fragile di cui stiamo parlando sta anche nell’apparta-mento del giovane che vive da solo, ammazzando nel web e nella birra il suo tempo, la delusione per la mancanza di prospettive future, il non senso e la depressione oppure coltivando progetti di ribellione vio-lenta e alle ingiustizie e all’arrogan-za di certi potenti, ostinati nei loro privilegi e ciechi all’evidenza del disagio quotidiano. E se il bisogno di quel bambino stesse anche nelle relazioni professionali, impoverite e rese prive di autenticità, magari proprio dietro la porta chiusa dell’ufficio contiguo al mio?

Nel periodo natalizio, il Papa ha parlato di nuovo della tenerezza: non credo che questo sia un valore tipicamente e soltanto cristiano ma

piuttosto una disposizione d’animo che la generalità degli essere umani dovrebbe coltivare nelle relazioni reciproche.

Che cos’è la tenerezza, sentimen-to che si prova alla vista di un uomo appena dischiuso alla vita, se non l’istinto buono e commosso che ci porta ad avere cura degli altri esseri umani? “Tenerezza e cura”: due

atteggiamenti dell’animo accomu-nati dal senso della responsabilità personale. Se provo tenerezza verso una persona vuol dire che lei sta nei miei pensieri, che percepisco la necessità di averne cura, assu-mendo su di me la responsabilità del suo stare bene, qui ed ora. Ma anche del suo crescere di domani, dopodomani, tra un anno, tra dieci, nell’approssimarsi della fine della sua vita.

E allora il Natale ci ha lasciato la responsabilità di essere ciascuno custode dell’altro, il mandato alla solidarietà, non come merito e van-to personale bensì come normale dimensione delle relazioni umane. Io, personalmente, custode del mio vicino, sapendo che altri, a loro volta, hanno a cuore come io vivo; io, cittadino, custode del mio quar-tiere; io, professionista, custode dei valori e delle persone che mi sono affidate; io, amministratore, custode delle risorse e della cosa pubblica, scrupoloso ed imparziale vigilante sui bisogni, sui diritti e sulle oppor-tunità della comunità che governo.

Flavia Castelli

“La cocaina ti cambia dentro, ti annienta, ti calpesta e ti reinventa..”

Noi ragazzi perduti.

Certe persone non ne sareb-bero capaci, non sarebbero in grado, non potrebbero.

Meglio così per loro.Una vita lineare, equilibrata,

sana... una vita normale.Ne esiste tanta di gente così.

E poi ci siamo noi, scontenti, irrequieti, agitati, privi di un qual-siasi punto di riferimento, senza dominio.

Noi, fatti di parole e avventure, pieni di ricordi e insegnamenti, colmi di sprazzi di vita non nostri, stracarichi di ideali ma senza basi.

Noi siamo quelli senza paura, apparentemente, ma in realtà tremiamo, combattuti tra mille quesiti, incapaci di tenere il pun-to, sempre su un’immaginaria cresta dell’onda che ci trascina alla deriva senza nemmeno darci il tempo di rendercene conto.

Siamo quelli del “per noi è di-verso, sappiamo regolarci”, e alla fine siamo i primi ad andarcene a puttane; incastrati in fantasie che la nostra mente crea x con-vincerci che siamo diversi, che siamo migliori, più avanti mentre invece rispecchiamo solo la mas-sa, la parte più vile e triste della plebaglia.

Noi siamo quelli dalla risposta sempre pronta, dalla bugia pron-ta all’uso sulla punta della lingua... siamo noi... falsi e immaturi... noi... drogati.

Ma guai a chiamarci e definirci così; i drogati sono i tossici che si fanno le pere negli angoli bui della metropolitana, non noi; i drogati sono quelli che si sput-tanano lo stipendio, non noi; i drogati sono quelli di cui leggi sul giornale, non noi.

Ma alla fine, siamo proprio noi:ragazzi normali che ad un certo punto, per mille sfumatu-re di cause diverse, diventano dipendenti.

All’inizio di solito è l’alcol, e se quello t’inghiotte il passo succes-sivo è lei, madre dei nostri guai, bianca e dorata come un angelo, ma pesante e pressante come il diavolo, la cocaina.

Infima e bastarda ti attira e poi ti inghiotte.

Ora, io non so esattamente a che punto sono di questa trafila detta dipendenza ma una cosa la so, e ne sono certa, in me c’è qualcosa che non va.

Mi manca mio padre, lo am-metto, adesso forse più che mai. Sento la sua assenza in ogni insignificante spiraglio della mia essenza.

Non ho concluso niente, nulla di ciò a cui lui mi vedeva desti-nata, e anche il carattere, di cui sono sempre andata fiera, lo sto perdendo;sto diventando come tutte le altre, lacrime e mugugnii, senza reazioni, senza nome, sen-za coraggio.

Mi sto omologando, e detesto questa parte di me con ogni ato-mo che mi appartiene.

Sono diventata debole. Tanto debole da giustificare chi mi fa dei torti e mi manca di rispetto. Così debole da non capire qual è il giusto posto da

occupare, la miglior linea da seguire. Tanto debole da sapere di aver ragione e farmi pure urlare dietro. Debole, fragile, insicura. Forse anche un po’ inutile, perché l’apporto che potrei dare oggi a qualunque persona è pari a zero.

Non riesco ad aiutare me stes-

sa, figuriamoci qualcun altro.Ti rendi conto di quanto sei in

errore quando arrivano le gior-nate importanti, come Natale... e tu sbagli tutto. Sbagli le scelte, i momenti, le persone di cui ti circondi.

Pranzo di Natale in una casa vuota con un bicchiere di bianco in mano, non dormendo dal gior-no prima, un computer davanti e i pensieri che ti annebbiano il cervello.

Per quanto ci si possa sentire soli esserlo a Natale ti uccide, letteralmente, ti estrania dal resto del mondo, ti devasta. Ti pone davanti alla domanda diretta “Cos’ho sbagliato?”

Lì ricordi i ventisette Natali passati, ricordi la famiglia, le risate, i messaggini degli amici, i regali sotto l’albero, l’euforia, il sorridere giocando a quel gioco di carte che normalmente detesti, il pianoforte che viene usato sol-tanto nei giorno di festa quando siamo tutti riuniti perché in pochi lo sappiamo suonare, l’odore di caffè che ti sveglia alla mattina perché sei a casa della nonna e lei si sveglia sempre prima di chiunque altro.

Ricordi com’era essere felice e ti guardi intorno, non c’è nulla, solo un telefono spento perché ti vergogni di dar giustificazioni, un piatto e due schede.

E poi c’è lui, che ti ha tirata dentro a tutto questo schifo ed è nell’altra stanza così sfatto da non accorgersi nemmeno di te.

Ti senti sola, prometti a te stessa che cambierà tutto, che reagirai, che ce la farai, ma pochi giorni dopo arriva ancora quella circostanza in cui non sai dire di no, menti a te stessa, ti racconti bugie, ti autogiustifichi e cadi, ancora, un’altra volta e sei sempre più proiettata sulla via del non ritorno.

Sei mesi dopo i tuoi amici, quelli storici, per farti capire che ti sono vicini comunque ti organizzano una cena per il tuo compleanno e tu sei felice, nuova-mente radiosa, speranzosa, fino a quando poche ore prima della cena ti si presenta lui con una bottiglia e una busta... e tu cadi ancora. Alla cena dei tuoi amici non ti presenterai mai, e vivrai vergognandotene e isolandoti.

Un anno dopo guardandoti allo specchio faticherai a riconoscerti: le occhiaia, bianchiccia, brufoletti mai avuti denti ingialliti.

Tempo fa ti dicevano che eri bella.

Ormai è andata.Vale la pena farsi un bicchiere

e una riga.Come si fa a tornare indietro?Come ci si riprende la propria

vita?Io non so rispondere ma una

cosa col tempo l’ho capita: dro-gato è chiunque fa uso di droga, perché da farlo una volta a ren-derlo indispensabile il passo sta in un momento di debolezza, e tutti ne abbiamo almeno una volta.

La droga, io parlo soprattutto di cocaina, rovina il cuore, rovina il fisico, rovina il cervello, ma so-prattutto, rovina l’anima.

La cocaina ti cambia dentro, ti annienta e ti calpesta, e ti rein-venta, disegnando al posto della persona che eri una persona sen-za valori o sentimenti, una nullità.

Raffaella Nichol Campaniello

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INFORMAZIONE E CONTROINFORMAZIONESOCIETÀ

Gli sviluppi in ambito penitenziario

Decreto Carceri

Sembra che qualcosa si sia mosso. Non un’onda di ma-rea o un fiume in piena, ma

si ha comunque l’impressione di veder scendere un rivolo d’acqua dalle crepe dell’immensa diga d’indifferenza che isola la realtà carceraria dal resto del paese.

Prossimi ormai alle scadenze imposte dall’UE per risolvere la condizione di sovraffollamento che affligge la maggior parte delle strutture penitenziarie presenti in Italia, è stato varato un decreto legge con l’obbiettivo di alleggerire l’enorme pressione.

Il decreto in questione prevede ad esempio l’introduzione della liberazione anticipata speciale, retroattiva al gennaio 2010 e con un termine previsto per il 2015, anno in cui verrà valutata la portata di questa misura per una possibile reintroduzione. Questa, attualmente, si affianca alla libe-razione ordinaria, consistente in uno sconto di pena di 45 giorni per semestre, che in quella spe-ciale diventano 75, accelerando in questo modo l’uscita dagli istituti. Questo sarà possibile a seguito di una valutazione da parte del giudice e senza quindi far scattare automatismi giuridici tipici di misure come l’indulto.

Altre due soluzioni introdotte dal suddetto decreto consisto-no nell’innalzamento del tetto massimo di pena per accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali, che passa da 3 a 4 anni, e un maggiore ricorso alla deten-zione domiciliare, l’esecuzione domiciliare per fine pena, dando la possibilità di trascorrere gli ultimi 18 mesi all’esterno del car-cere. Per incentivare e facilitare la realizzazione di quest’ultima misura sono stati rispolverati i braccialetti elettronici, “intro-dotti” già nel 2000 con costi pari a 10 milioni di euro l’anno, e praticamente mai utilizzati a causa di alcune evasioni che avevano fatto sorgere dei dubbi sull’utilità di questi strumenti e della difficoltà di installazione del ricevitore presso l’abitazione del detenuto.

Da vent’anni si tentano diverse soluzioni con lo scopo di dare una svolta radicale al sovraffol-lamento, ma sembra purtroppo che nulla abbia funzionato per davvero; si è visto come l’indulto abbia il pregio di liberare molti individui in breve tempo. Questo obbliga però da un lato i Tribunali a dover comunque celebrare i processi, altro punto dolente del-

la Giustizia italiana, in quanto ad estinguersi è solo la pena e non il reato, e dall’altro provoca un sovraffollamento di quegli enti di assistenza che si vedono in breve tempo invasi di sog-getti con necessità di ogni tipo, da quelle terapeu-tiche fornite dal Sert, a quelle di accoglienza e reinserimen-to lavorativo, rischiando di mandare in tilt gli aiuti per mi-gliaia di persone. Non c’è quindi da stupirsi se una parte degli “indultati” del 2006 sia tornata tra le braccia della Giustizia in breve tempo, a causa dell’impossibilità di trova-re un’alternativa di vita o di un appoggio concreto all’esterno.

Le soluzioni più convincenti per tentare di alleggerire la portata delle nostre carceri sem-brano rappresentate da un mag-giore ricorso alle pene alternative e nella coordinazione di misure diverse, alcune atte a svuotare gli istituti da dentro, anticipando la liberazione per chi dimostra una buona condotta o puntando più risorse sull’istruzione e sulla for-mazione professionale durante la pena, e altre per diminuire l’af-flusso di individui. Preferire ove possibile la detenzione domici-liare per chi è in attesa di giudizio o condannato a pene brevi evita le traumatiche e controprodu-centi conseguenze dovute alla permanenza nell’istituto di pena.

Fino a quando le istituzioni e i cittadini accetteranno la presenza di 20.000 persone più del massimo consentito che attualmente stanno scontando una pena detentiva a fianco degli altri 45.000 soggetti per i quali le nostre strutture sarebbero pensate, probabilmente una so-luzione non si troverà mai. Fino a quando si preferirà investire in piccoli sforzi, che producono piccoli miglioramenti nei mo-menti di massima crisi, piuttosto che rivalutare completamente la situazione e rifondare alcuni istituti cardine, si continuerà a parlare di carceri sovraffollate, criminogene, e ingestibili, dove il tasso di suicidi è dieci volte superiore a quello riscontrabile tra la popolazione libera.

Giulio Thiella

Un tema da affrontare ogni giorno

La giornata mondiale contro la pena di morte

Il 10 ottobre ricorre la giornata internazionale contro la pena di morte, nata da un’iniziativa della

World Coalition against Death Pe-nalty, associazione fondata a Roma nel 2002 da enti non governativi di tutto il mondo. Le iniziative da loro

promosse hanno trovato eco in moltissimi paesi, con lo scopo di sensibilizzare sempre più persone su questo tema, pur-troppo ancora attuale.

Un’altra iniziativa è “Ci-ties for life”, ideato sempre nel 2002 dalla Comunità di Sant’Egidio e riorganizzato ogni anno il 30novembre,

durante il quale nelle città aderenti, più di 1600 in tutto

il mondo, vengono illuminati i monumenti più simbolici per dire no alle pene capitali, all’insegna dello slogan “No justice without life”. La data non è stata scelta a caso, infatti in questo giorno, nel 1786, il Gran Ducato di Toscana fu il primo Stato a bandire questa estrema punizione.

La tendenza abolizionista degli ultimi anni ha influenzato molti paesi, a dimostrazione di ciò si può notare come siano sempre meno gli Stati che mantengono la pena di morte. Secondo i dati raccolti da Amnesty International, se fino agli anni ‘60 i paesi totalmente abolizio-nisti erano meno di dieci, oggi sono addirittura 140 quelli che l’hanno definitivamente vietata. Una situa-zione incoraggiante se si osserva che nell’ultimo decennio altri 21 Stati hanno seguito questo esempio.

Questi dati indicano una progres-siva presa di coscienza da parte dei

governi di tutto il mondo riguardo alla pena capitale, e oggi una netta minoranza di nazioni le prevede e le applica ancora. Di questi 58 paesi la Cina è quello che ricorre maggior-mente a questa estrema punizione,

eseguendo ogni anno almeno 5.000 condanne a morte, l’85% circa del totale mondiale. Diverse organizza-zioni umanitarie hanno incontrato difficoltà nel reperire questi dati, riscontrando da un lato l’assenza di registri ufficiali e l’ostilità delle istituzioni, e dall’altro il decentra-mento delle esecuzioni, di cui sono incaricati i tribunali distrettuali; manca in questo modo un controllo diretto del governo centrale, che non intervenendo direttamente, sembra esprimere a riguardo un’impassibile e tetra accondiscendenza.

Altri Stati mantenitori sono l’Iran, che compie circa 500 esecuzioni

ogni anno, seguito da Corea del Nord e Stati Uniti, dove non si su-perano le 50. Camere a gas, sedie elettriche, iniezioni letali, impicca-gioni e fucilazioni; punizioni che in Italia e in Europa sono storicamente

confinate ad un passato di guerra, rappresentano l’attualità in diversi paesi. Come un tempo, la maggior parte delle condanne è eseguita in pubblico, usate come deterrente per intimorire, mettere in guardia e rendere partecipe la popolazione di questi crimini di Stato.

Decidere di punire i propri citta-dini con la morte, qualunque sia il crimine, nasce da una concezione totalitaria che vede la persona come una pedina dello Stato piuttosto che come un individuo da tutelare. Per quanto il peccato possa essere grave, credo che nessuno abbia il diritto di deci-dere della vita di un’altra persona motivando questa scelta con la necessità di tutelare la collettività. Questa punizione risulta in verità

controproducente perché non ot-tiene giustizia, non ripara il danno e non riesce a ripagare le vittime e la comunità per ciò che hanno subito. Il condannato così, valutato troppo pericoloso o indegno di continuare a vivere, va incontro ad una pena de-finitiva, inappellabile e senza sconti, che mortifica lui e il valore stesso della vita umana. L’auspicio, visti gli enormi passi avanti degli ultimi 50 anni in tema di diritti umani, è quello di poter parlare presto delle pene capitali come di incivili strumenti della giustizia del passato, e non più come uno scomodo presente.

Giulio Thiella

Un’esperienza per comprendere gli ostacoli che alcune persone incontrano nella vita di tutti i giorni

La settimana dell’inclusione

L’iniziativa proposta da Reatech Italia, la rassegna dedicata all’autonomia, accessibilità e

inclusione, mira a portare all’interno delle scuole una maggiore consape-volezza e sensibilità verso il mondo della disabilità, proponendo agli alunni un approccio diretto con essa.

Mettersi nei panni degli altri significa immedesimarsi nella realtà quotidiana di altre persone, e il progetto d’inclusione, che è stato pro-posto in una scuola media di Merano, ha lo scopo di far vivere in prima persona ai giovani studenti le difficoltà quotidiane di chi è portatore di handicap. Durante la set-timana i ragazzi vengono messi in condizione di non poter udire per mezzo di tappi alle orecchie, o di non poter vedere tenendo un fazzoletto sul viso, o anco-ra di non poter compiere movimenti con una mano. Queste attività, anche se inizialmente possono essere prese con leggerezza dai piccoli partecipanti, in breve hanno invece l’effetto di farli riflettere su ciò che momentanea-mente non sono più in grado di fare, sui limiti che hanno incontrato e su come poterli superare.

L’utilità di questa esperienza è duplice; difatti se da un lato il bam-bino che s’immedesima nella disa-bilità capisce in prima persona le difficoltà che questa comporta, allo

stesso modo il suo compagno, con il compito di aiutarlo a compiere quei gesti che appaiono impossibili, deve capire come interagire con i nuovi limiti del primo. Il compito di chi assiste è quello di prodigarsi per far

si che il primo affronti quegli ostacoli che non riesce a superare da solo, per far si che non ci siano per lui gradini insormontabili; è anche importante capire quali disagi può incontrare il suo compagno, deve quindi avere pazienza ed aiutarlo, ma senza pre-varicarlo compiendo per lui anche i gesti più semplici, perché in questo

modo si va contro allo sviluppo di quell’autonomia che ogni persona, nelle sue capacità e nei suoi limiti, si ritaglia nella vita quotidiana.

Così gli studenti a coppie seguono la lezione di disegno, ma uno dei

due, bendato, avrà bisogno del-le indicazioni dell’altro; alla fine dell’ora il primo avrà imparato a conoscere ed affrontare gli ostacoli relativi alla mancanza della vista, mentre il secondo si sarà prodigato per assisterlo, e avrà così capito come potersi rendere utile per aiutare chi ha questo deficit.

“Prima di giudicare una perso-na, cammina per tre lune nelle sue scarpe”. Anche se l’esperien-za che gli studenti hanno vissuto è durata solo una settimana e non i tre mesi dell’antico prover-bio, il messaggio che dovrebbe loro giungere è proprio quello di provare ad immedesimarsi in realtà diverse dalla propria, capire quindi le difficoltà di chi ci sta di fronte per conoscerlo più a fondo, sviluppando di con-seguenza una nuova sensibilità verso gli altri. Capire che l’auto-nomia di ognuno dipende dalle sue esperienze di vita, dalle sue

capacità e dai limiti che gli si pongo-no di fronte nella quotidianità sarà di aiuto a quei ragazzi che faranno tesoro delle cose apprese durante la settimana, un dono speciale che do-vranno conservare e sviluppare nella loro vita da adulti, utile a sconfiggere anche i pregiudizi più forti.

Giulio Thiella

Page 9: Pro.di.gio  n°I febbraio 2014

pro.di.gio. progetto di giornale | www.prodigio.it | [email protected] | febbraio 2014 - n. 1

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INFORMAZIONE E CONTROINFORMAZIONESOCIETÀ

Il gioco d’azzardo e le Slot Machine rappresentano una piaga sociale: un affare che non si ferma neppure dinnanzi alle vittime del sisma d’Abruzzo

Giocare col Terremoto

Ore 3:30. Una brezza gelida turbava la notte primaverile. Due secondi e mezzo più tardi la città dell’Aquila crollò come

un castello di carte. Era il 6 aprile 2009. Sotto il peso del calcestruzzo morivano 308 persone e 80 000 persero per sempre la propria casa. La terra tremò tanto da scuotere le coscienze, mentre il sangue si spargeva fra detriti e cal-cinacci. Come molte storie in Italia, il terremoto dell’Aquila fu una triste tragedia avvolta da menzogne.

Non si trattò di una catastrofe solo naturale. Il tremore mortale del sisma fu causato, senza ombra di dubbio, dalla forza della natura. Una scheggia di crosta terrestre, la placca Adria, sprofonda da milioni di anni sotto il continente europeo, incurante della fragile vita che accidentalmente ne occupa la su-perficie. Invece, le case, i palazzi, le chiese crollate e i cadaveri di bam-bini, donne e uomini intrappolati sotto di esse furono una tragedia umana. Una disgrazia umana non solo perché si trattava di una storia terribile di vite spezzate. Fu una catastrofe aggravata dall’uomo. I morti sono stati anche il frutto di decenni di speculazio-ne edilizia e di criminali che hanno costruito mescolando sabbia marina al cemento. Interi palazzi costruiti fregandosene delle norme antisismiche, errori grossolani nella progetta-zione degli edifici, staffe di ferro nel cemento armato non a norma di legge per risparmiare sui materiali e ristrutturazioni abusive. Il parla-mento italiano aveva fino allora continuamen-te rinviato con proroghe l’entrata in vigore di nuove normative antisismiche. A L’Aquila erano crollati il nuovo ospedale, la prefettura, la casa dello studente. Oltre alla sofferenza, la morte, le mutilazioni dei feriti, gli arti amputati, le colonne vertebrali spezzate, famiglie distrutte, cadaveri intrappolati, la devastazione, oltre i dieci miliardi di euro di danni stimati, quella notte di aprile fu anche la notte delle risate. Non le risate isteriche di chi perde il senno di fronte alle tragedie umane, né la gioia di chi nonostante avere perso tutto ritrova i propri cari. Niente di tutto questo. Risate ciniche, fred-de, razionali, menti che si destarono dal sonno per fare conti, calcoli meticolosi di quanto

quella calamità avrebbe fruttato. Ridevano gli imprenditori Francesco Maria De Vito Piscicelli, Gianfranco Gagliardi, Carlo Strassil, pensando ai soldi che il sisma avrebbe portato alle loro aziende immobiliari. Rideva il prefetto della

città, Giovanna Iurato, al telefo-no con Francesco Gratteri, capo del Dipartimento Anticrimine, rimosso dopo una condanna di quattro anni per i fatti del G8 di Genova. Il prefetto ricor-dava divertita le finte lacrime durante i funerali delle vittime. Quelle risate indignarono l’inte-ra nazione quando finirono sui giornali, ma molti altri risero di cui nessuno ha mai saputo: affaristi, speculatori, mafiosi, politici. Non posso non imma-ginarmi i ghigni di questi uomini, una gioia ir-refrenabile per il regalo inaspettato che madre natura aveva fatto loro. L’emergenza avrebbe offerto la possibilità di saltare le procedure delle gare d’appalto, evitare fastidiosi vincoli burocratici, infiltrarsi nella Protezione Civile, maggiorare i prezzi su qualsiasi cosa ed avere accesso ad una vera e propria montagna d’oro: i soldi della ricostruzione di un’intera città. Ciò che pochi sanno è che quella notte ridevano anche le compagnie dell’azzardo. Quel terre-moto nella primavera del 2009 cambiò la storia

dell’azzardo in Italia.In fretta e furia fu varato il “Decreto Abruzzo”.

Il governo, allora presieduto da Silvio Berlusco-ni doveva risolvere il problema dell’emergenza e trovare i fondi per la ricostruzione. La coper-

tura economica di 1152 milioni di euro prevista dal decreto ven-ne assicurata tagliando gli aiuti alle famiglie per 300 milioni, riducendo la spesa per sanità e farmaci di 380 milioni e soprat-tutto liberalizzando, estenden-do, aumentando senza confini l’offerta dei giochi d’azzardo. Giornali e telegiornali annuncia-rono l’arrivo di un nuovo gratta e vinci per l’Abruzzo, il “Gratta Quiz”, nome orribile per un gioco altrettanto stupido. Se-condo i trionfalistici annunci del governo avrebbe dovuto por-

tare non meno di 500 milioni di euro all’anno da destinare intera-mente al restauro del capoluogo abruzzese. Naturalmente il “gratta quiz” era solamente lo specchietto per le allo-dole, fu un flop terribile e fu presto ritirato dal mercato. Nel frattem-po vennero concesse ulteriori estrazioni del Lotto e nuove varian-ti, venne introdotto il WinForLife, nuove scommesse ippiche V7, la possibilità del cash game nel poker, i casinò

online, venne legalizzata la possibilità delle scommesse tra giocatori, il betting exchange. La vera rivoluzione del decreto Abruzzo fu l’introduzione di una nuova tipologia di slot machine: le Video Lottery Terminal.

Le VLT sono monoliti tecnologici di 1,5 - 2 metri di altezza. Veri e propri totem. Inamovibili pietre consacrate all’azzardo. Le slot machine fino ad allora presenti in Italia erano le “New Slot”, le macchinette che possiamo trovare ne-gli angoli di quasi ogni bar, edicola e tabaccaio. Delle dimensioni di un jukebox, le New Slot

sono piccole e hanno limiti notevoli. Accettano solo spiccioli. Ogni new slot è costituita da un unico gioco, ma fondamentalmente sono tutte dei rulli elettronici, simili alle vecchie slot da far west. Ogni giocata ha il costo di un euro e la vin-cita massima è di cento euro. Il pay-out, ovvero la percentuale dei soldi immessi che ritorna ai giocatori sotto forma di vincite (dopo una media di trentamila giocate), è fissata al 75%. Ogni New Slot possiede una scheda elettronica che ne controlla il funzionamento. Modificarla non è impossibile e molti negozianti con una minima conoscenza di elettrotecnica sono stati in grado di alterarla senza difficoltà. Le vlt sono tutt’altra cosa. Non hanno schede manipolabili come le new slot. Sono tutte collegate tramite rete a server remoti. Si può effettuare una giocata a partire da 50 centesimi, ma si può introdurre fino a 2 000 euro in un colpo solo. Ogni videolottery può offrire decine di giochi diversi, selezionabili a inizio partita tramite il comodo touchscreen. I giochi vengono co-stantemente aggiornati, modificati a seconda delle preferenze dei giocatori. Piccole costanti migliorie al fine di indurre le persone a giocare sempre di più. Il fascino delle VLT non è dato solo dall’estetica: hanno moltiplicato a dismi-sura le possibilità di vincita. Il montepremi di ogni macchinetta raggiunge i 5 000 euro, ma è possibile partecipare al jackpot di sala di 100 000 euro e a quello nazionale di 500 000 euro. Tutto è scientificamente studiato nei minimi particolari. Le vlt accettano monete, banco-note, schede prepagate, smartcard e ticket. Furono introdotte come “sperimentazione”, cosa che garantiva un prelievo fiscale ridicolo del 2%. Una tassazione incredibilmente bassa, considerato che le VLT, da sole, costituiscono quasi il 20% del fatturato dei giochi. Il decreto Abruzzo è stato l’ultimo pezzo del sistema che negli ultimi vent’anni ha trasformato l’Italia in uno dei più grandi motori mondiali dell’az-zardo. Per usare le parole dell’ex assessore aquilano, Ermanno Lisi, il sisma fu proprio “un colpo di culo”.

Tommaso MorettiFonti:

www.huffingtonpost.itwww.repubblica.it

www.ilfattoquotidiano.itwww.corriere.it

L’Aquila 6 aprile 2009 ore 03.32 .

L’eterna lotta per il solito fine: il denaro!

Informazione e controinformazioneSegue dal numero precedente.

Mi spiego con degli esempi: Grillo in una delle sue affermazioni onli-ne, dice: “Sabato scorso a Parma

tecnici e esperti hanno discusso per ore di inceneritori, dei danni alla salute, della loro assoluta inutilità, di rifiuti zero, dei tre miliardi di debiti di Iren, società quotata in Borsa e posseduta in maggioranza dai Comuni targati pdmenoelle. Nulla di tutto questo è stato riportato. La piazza vuota, semi vuota, quasi piena è stato l’unico ar-gomento di interesse (in piazza della Pace erano presenti 3.000 persone e decine di migliaia erano collegate in streaming).Con un’informazione libera l’Italia cambiereb-be in 24 ore”.

In effetti si potrebbe credere a ciò che dice Grillo, ma anche no, visto che non si ha effettivamente la possibilità di verificare quanti erano in streaming.

Ed ancora riporto ciò che scrisse Il Fatto Quo-tidiano tempo fa: Cosa c’entra Martin Lutero con Twitter? Parecchio. Quando il monaco te-desco pubblicò la sua traduzione della bibbia, il Vaticano non la prese bene. E c’è da capirli. Rendere fruibile al Popolo (il maiuscolo è vo-luto) i testi sacri senza l’intermediazione della Chiesa era un gesto rivoluzionario che metteva in crisi tutto l’apparato ecclesiastico e, a casca-ta, la struttura della società. Twitter, oggi, ha la stessa funzione. Attraverso il social network, le notizie circolano senza l’intermediazione dei media ‘ufficiali’, quelli che nel ventunesimo

secolo sono quasi tutti controllati, monitorati, guidati, gestiti, organizzati, lottizzati, occupati, censurati e indirizzati da governi e lobby finan-ziarie. Non stupisce quindi che il primo ministro turco Erdogan si scagli contro Twitter, o che il governo turco arresti 24 persone accusandole di aver “incitato ai disordini e fatto propagan-da” via Twitter. La stessa reazione dei principi tedeschi fedeli al papato quando i contadini tedeschi si ribellarono in seguito alla diffusione delle idee promosse da Lutero.

In questo caso si eleva Twitter ad una specie di Molok e stando a quello che ha detto Ma-rina Petrillo nella sua trasmissione Alaska su Radio Popolare ha sottolineato la diffusione

di Twitter in Turchia. Per avere una conferma della popolarità del social network nel paese di Erdogan è sufficiente fare un salto sull’ipnotico tweetping.net, in cui vengono evidenziate su una mappa le concentrazioni in tempo reale dei tweet postati. Istanbul è rappresentata da una stella luminosa con intensità pari a New York, Parigi o Londra. Insomma: un veicolo per la circolazione di informazioni che surclassa qualsiasi telegiornale o quotidiano. Una forza mostruosa di cana-lizzazione d’ informazioni. Ma avete mai giocato al “gioco del pesce” quello dove il primo della fila suggerisce all’orecchio del secondo una frase che poi passando da persona a persona finisce per essere un

messaggio quasi completamente differente da quello lanciato? In un certo senso la stessa cosa può capitare anche su twitter ed i casi d’in-formazione sbagliati ce ne sono stati, e molti.

Resta il fatto che il social network è sicu-ramente un peso massimo che stronca sul nascere qualsiasi tentativo di addomesticare l’opinione pubblica attraverso i tradizionali sistemi di controllo, e che è impossibile battere sul piano della concorrenza ‘leale’.

Ecco quindi che si passa alla criminalizzazio-ne del mezzo, che per Recep Tayyip Erdogan sarebbe una ‘cancrena della società’, come invece per Grillo lo sono i giornalisti.

Certo è che l’exploit del governo turco,

pronto a mettere agli arresti comuni cittadini rei di aver usato Twitter per esprimere la loro opinione, è un pre-cedente che si pone accanto all’in-tenzione del premier Cameron, nella democratica Inghilterra, di introdurre misure di controllo per l’accesso a Twitter e Facebook per fermare le proteste degli studenti inglesi. Ma anche qui da noi c’è da stare attenti

vista la mai abbandonata legge “ammazza Internet” che puntualmente di tanto in tanto fa capolino in Parlamento.

Certo è che l’informazione è sempre al centro di appetiti diversi, il condizionare l’opinione pubblica per gruppi d’influenza è un punto fisso, e talvolta si parla d’altro per non parlar di niente. Il conflitto di interessi tra informazione e poteri forti è diventato quasi insopportabile.

Per la maggior parte siamo informati da sette televisioni e tre giornali. Le reti Rai, Mediaset e qualche rete privata, chi occupata da partiti, chi di proprietà del famoso tycon a capo di un partito e chi al potere finanziario. Un gigantesco Truman Show in cui la verità può essere menzogna e la menzogna può essere verità.

Di fatto, l’unica fortuna che ci rimane, affin-ché l’informazione sia il più libera possibile, è quella di usare la nostra testa con intelligenza, senza mai fermarsi alla prima “sirena”, ma invece controllando e diversificando le fonti. D’altronde farsi una propria idea, non è male.

Piergiorgio Gabrielli

Rapporto Freedom House- Wikipedia

Page 10: Pro.di.gio  n°I febbraio 2014

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L’Angolo del filosofo

Sorella Povertà

Immagino già le vostre espressioni, gentili lettori di quest’angolo di cui avete testé letto il titolo, ed in verità se

siete giunti a leggerlo allora siete davvero tosti, non posso per-mettermi di fallire, sebbene sia arrivata a capire per quali motivi state rimugi-nando (saranno le mie doti di maga e la sfera che nascondo in casa a fare capo-lino). E a cosa state pensando? State cer-tamente giungen-do al noto risultato: «con la filosofia non si campa».

Ed è ora che vi stu-pirò.

Perché, ultima-mente, sembra che non sia affatto così. In linea teorica sì, non fraintendetemi, eppure, come una volta qualcuno mi ha detto, stiamo attraversando le sabbie mobili di un periodo di “fiera della vanità filosofica”, siamo infangati in un melmoso marasma di persone dettesi “filosofi”, che si ostinano a fare i tuttologi (al modo stesso dei sociologi) e a conferenziare di qua e di là (uno fra tutti, Diego Fusaro, mi perdoni se per caso sente ronzare le orecchie) cercando a tutti i costi fama, notorietà e successo. «Vivere nascosti» un motto

oramai superato, chi lo cita più? A dirla tutta, il nascondimento non è il mio forte, per tutta una serie di motivi che forse un giorno vi spiegherò, eppure lo preferisco di

gran lunga alla bestiale fiera odierna. Ed ecco la fessura nella quale si insinua Sorella Povertà che, come dice Andrea Pomella nel suo bel libro “10 modi per imparare ad essere poveri ma fe-lici”, è innanzitutto una condizione spirituale e può diventare strumen-to di liberazione. Abitare la povertà, amarla come una sorella, francesca-namente, è ciò che la filosofia sente l’irresisti-bile bisogno di fare per preservare se stessa. Non è mantenuta dai vari Fusaro, Cacciari &

Co., non è difesa da presuntuosi tuttologi che ambiscono ad ergersi baluardo ultimo di valori ed idee, no.

È invece custodita e costantemente rinfocolata, come un piccolo fuoco che si alimenta, proprio da Sorella Povertà. Quel-la di cui da sempre ci si vergogna, quella che da sempre si cerca di occultare, spin-gendola sotto il tappeto, lei che è nuda, e non sa con che cosa nascondere il biancore del suo corpo. Senza successo, la si cerca di occulare. Infatti, Sorella Povertà ha un

ben strano modo di comportarsi, non è una donna “normale”, è un po’ pazzerella e potrebbe benissimo bazzicare i centri di salute mentale. Lei basta a se stessa, è feli-ce d’essere com’è, e lo è perché l’ha scelto. Ha, cioè, reciso i ponti con tutto il resto, ha tagliato, spezzato e, non spaventatevi, ucciso tutte le altre possibilità.

Diceva una persona che stimo moltis-simo: «Fare una scelta è compiere un’o-micidio: è uccidere tutte le altre infinite possibilità». Ebbene, Sorella Povertà vive con umiltà, vive una vita fra le meno am-bite, ma tra le più ambiziose. Esattamente questo è ciò che ha in comune con Filo-sofia, che però, principio della fine, inizio della discesa, ha tentato di oltrepassare le colonne d’Ercole. Sorella Povertà le ha ad ogni modo teso una mano, e Filosofia è lì, in bilico. Come fare? Credere ai sogni logora? Può darsi.

Ma, Francesco d’Assisi insegna, comin-ciando col fare ciò che è necessario, e poi ciò che è possibile, all’improvviso ci sorprendiamo a fare l’impossibile. Impos-sibile che è, ad esempio, amare Sorella Povertà, e lasciarci da lei guidare. Il filosofo non è colui che sa, non è uno che va per le piazze ad imbonire la gente con ricette magiche, con pillole di verità che lui solo può dispensare. Il filosofo, diceva Giusep-pe Rensi, è un artista: non già uno che sa, ma uno che guarda. E rimane a guardare, con il sorriso sulle labbra. Ed i piedi - po-veramente - scalzi.

Sara Caon

AMBIENTE

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Dal racconto di Luca Malesani, tra i vincitori del Concorso letterario Basilio Beltrami promosso dall’Unione Italiana Ciechi - Ipovedenti e IRIFOR Trentino.

“In Memoria”

Me ne stavo lì, nel mio comodo pacchettino, vivacemente decorato con disegni colo-

ratissimi e scritte ammiccanti. Aspet-tavo il mio turno, pazientemente.

Non ero lì da molto, appesa ad un gancio nel reparto accessori. E sape-vo che non ci sarei rimasta a lungo: mi ero accorta di quanto rapidamen-te le mie sorelline se ne fossero parti-te per sempre, afferrate da decine di mani, passate frettolosamente sotto lo scanner della cassa ed infilate in sacchetti, borsette, tasche.

E dunque, me ne stavo lì in attesa, tranquilla. Questione di giorni, ore, forse solo di minuti e anch’io avrei imboccato la mia strada. Solo, mi pizzicava un tantino la curiosità: a chi sarei appartenuta? Che vita mi avrebbe fatto vivere? Non c’era che da aspettare. Giorni, ore, forse minuti: poi avrei saputo. Da quel mo-mento, avrei dovuto lavorare sodo, perciò perché non godersi ancora un po’ di quiete prima di essere gettata nella mischia?

Il giorno arrivò. Dita eleganti, inanellate e ingentilite da un deciso smalto rosso mi acciuffarono, mi scambiarono con qualche banco-nota e mi trasportarono a quella che credevo fosse la mia destinazione.

Ahimè, mi ero illusa. Dopo un paio di giorni, ero ancora imprigionata nel mio involucro, bello finché volete ma un po’ opprimente. Peggio ancora: anziché liberarmi, le stesse dita - questa volta smaltate di viola - mi avvolsero in carta colorata, mi stroz-zarono con un nastro bianco e così conciata mi cacciarono in un posto buio, un cassetto o un armadio, non so non vedevo più niente.

Cercai comunque di mettermi tranquilla. Non poteva continuare così, non ero nata per fare la mum-mia. Presto o tardi mi avrebbero dato la possibilità di dimostrare le mie ca-pacità. Pazienza, mia cara, pazienza.

Lo ammetto, ero mezza assopita. Ma mi svegliai immediatamente e fui assalita da una forte eccitazione, quando mi afferrarono, mi sballotta-rono per bene e mi propinarono un nuovo viaggio. Non vedevo nulla, ma qualcosa mi diceva che quella era la svolta decisiva. Il mio destino era segnato.

Poco tempo dopo, vidi la carta stracciarsi fragorosamente attorno a me e tornai a rivedere la luce. Nuove mani che mi rigiravano curiose ed interrogative. Mani piccole, rosee e lisce, con segni di pennarello sulle dita. Mani di bambina. La stessa bambina che, tempo dieci secondi, mi gettò in mezzo ad altri oggetti, tutti nuovi come me, per lo più ancora imballati come me. E tristi come me, in preda ad una crisi da abbandono.

Ma come? È il modo di trattare dei regali belli ed utili? Ma la bambina era lontana, nella stanza accanto, a strafogarsi di tramezzini e pizzette per festeggiare la sua Prima Comu-nione.

Finalmente, verso sera, la zia ri-prese in mano la situazione. La zia, quella con le unghie colorate, quella che mi aveva acquistato e regalato. Prese con una mano la nipotina, con l’altra me ed il cellulare nuovo di zecca e, senza smettere un attimo di parlare, mi tolse la plastica di dosso e mi spinse con decisione nella pancia del telefonino. Di nuovo al buio, ma non mi dispiaceva affatto: quello era il posto giusto per me. Significava l’inizio della mia vera vita.

Sono pronta, usami, sono nata per questo. Sono la tua prima SIM card.

Delusioni. Ancora delusioni. Usa-mi, sì, ma nel modo giusto! Siamo depressi entrambi, io ed il mio col-lega cellulare. La bambina si ricorda di noi solo per giocare a mamma casetta con le sue amiche: dà loro il telefonino di plastica, quello vecchio,

quello finto, e parla tenendo in mano noi. Non spinge un tasto, a che le serve? Le sue amichette sono lì, a due metri di distanza.

Una SIM muta, che controsenso. Che umiliazione. D’altra parte, nove anni, a chi dovrebbe telefonare? Alla maestra, di domenica? Alla mamma, per parlare dalla camera alla cucina? Tempi difficili per me, i primi tempi.

Due anni, e cambiò tutto. All’im-provviso non fu più bambina, la sua camera si trasformò, i vecchi vestiti lasciarono spazio ad altri, per nulla somiglianti ai precedenti. E toccò pure a me, venir fagocitata da quella nuova esistenza dominata dal turbi-nio degli entusiasmi e delle passioni, dalla folle inarrestabile altalena dei sentimenti. Mi ritrovai a lavorare come una pazza, giorno e notte. Non mi spaventava la fatica. Ma, ancora una volta, ero delusa.

Tutto il mio sapere, inutilizzato. Il mio ricco vocabolario, ignorato per far spazio a strane sigle e contrazioni incomprensibili, stipate nel misero spazio di 160 caratteri. E messaggi su messaggi, e pollici frenetici a schiacciare tasti ormai logorati.

A me tutto sommato andò bene: non mi gettò mai nel cassonetto, come fece più volte con i poveri telefonini che mi avevano ospitato e protetto, rovinati per la sua incuria o caduti in disgrazia perché non più alla moda oppure perché privi di qualche nuova, inutile funzione. Con me continuò stranamente ad essere fedele, trasferendomi da un cellulare all’altro. Non so se fu un bene. In ogni caso, la accompagnai nella sua storia.

Se il vocabolario giaceva inutiliz-zato dentro di me, in compenso la rubrica traboccava di nomi e numeri. Soprattutto ragazzi, soprattutto più grandi di lei.

Non posso permettermi di fare la moralista, sono solo un misero tassello di plastica più piccolo di un

francobollo: ma certo gli sms che inviava mi mettevano un po’ in im-barazzo... Per fortuna, sua madre non riuscì mai a leggerli, non conosceva la password la poverina.

Ad un certo punto mi ritrovai appesantita da un sacco di foto. Le scattava ovunque, a scuola per strada in casa, e come ridevano lei e le sue compagne nel guardarle insie-me. Poi, quasi smise. Quasi. Perché le poche che ancora scattava, le faceva da sola nel bagno di casa. Le faceva a sé stessa, le prime volte era in mu-tandine, poi non aveva addosso più neppure quelle.

Non ridevano, guardandole, i ra-gazzi ai quali le mostrava. Avevano uno sguardo inebetito, la voce bal-bettante. Qualche euro lo trovavano sempre, per potersele trasferire sul proprio telefonino e riguardarle con calma alla sera, sotto le lenzuola, sognando di averla lì con loro, nuda come loro.

Erano contenti, lei anche: con i soldi che le davano poteva compe-rarsi qualche maglia costosa, un paio di jeans di marca, che sua madre credeva regalati al compleanno da amiche troppo generose.

Quando il tempo della scuola terminò, ero ormai disincantata. Sapevo che quella che chiamano la maturità non avrebbe portato a grandi cambiamenti. Mi ero fatta un’idea del tipo di persona alla quale ero finita in mano.

Mi usava come andava bene a lei, era giusto così. Ma non mi sentivo davvero utile.

Numeri di amanti, molti. Messaggi banali, un’infinità. Altri messaggi, brevi ma feroci. Scritti per ferire in profondità. E poi telefonate, a volte lunghe, solitamente vuote. Imma-gini, talvolta morbose: un cadavere a terra, dopo un incidente stradale. Un barbone preso a calci da degli sconosciuti. Qualche attore o can-

tante, sfuocato.Mi sentivo vecchia, e forse lo ero

davvero. Oppure avevo perso l’ener-gia degli inizi, le illusioni di cui mi ero nutrita erano svanite da tempo.

Quel giorno faceva freddo, pio-veva sull’autostrada. Una pioggia incessante e scura. Ero lì, a portata di mano, sul sedile del passeggero, chiusa dentro l’ennesimo nuovo cellulare punteggiato di minuscoli swarovski. Entrambi silenziosi, noi due, per lasciare spazio alla musica ed alle chiacchiere dell’autoradio.

Non ricordo quale amica decise di chiamarla proprio in quel momento. So solo che lei, d’istinto, afferrò il suo nuovo gingillo, sollecitata da una suoneria ritmata ed invitante. Non resistette alla tentazione di vedere chi la stava cercando. Probabilmente riuscì a leggerne il nome sullo scher-mo, prima di schiantarsi contro il camion che la precedeva e che stava frenando bruscamente, rallentato da un altro veicolo più lento.

Me la cavai. Fui estratta dal cellula-re, già distrutto dopo pochi giorni di vita, mentre io ero tutta intera, con la mia infinità di inutili nomi e parole e numeri e foto.

Lei, la estrassero dalle lamiere sotto la pioggia, ma dentro di sé non aveva più nulla di vivo.

Ripensai a quelle dita di bimba, che mi avevano sfiorato con curiosità la prima volta. Era passato molto tempo, ma cosa conservavo di tutti quegli anni? Nulla che potesse ser-vire ad altri. Nessun messaggio che valesse la pena leggere, il giorno del suo funerale. Nemmeno un ricordo capace di far piangere un amico, un parente.

Giorni dopo, qualcuno finalmente mi prese e cancellò ogni mia memo-ria. La mia vita ripartì da lì.

Luca Malesani

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AMBIENTESOCIETÀ

Siamo stati all’annuale fiera organizzata a Feltre e dedicata alla cultura del dell’agricoltura libera dai brevetti su piante e semi

Libero scambio di semi

Un ’ o c c a -sione per vedere ri-

uniti: agricoltori dalla Svizzera, dall’Austria e

dal sud, centro e nord Italia, i piccoli produttori locali e le associazioni di promozione culturale ed ambientale nelle loro declinazioni tradi-zionali e sostenibili. Me ne aveva parlato un mio amico che recentemente ha intra-preso un percorso teso al recupero di terra coltivabile, alla valorizzazione di antichi saperi dell’agricoltura tradi-zionale e alla valorizzazione di piante autoctone.

Ammetto che ho sempre avuto l’orto a casa mia, prima in Toscana poi in Trentino, una realtà che inizialmente non mi prendeva e che in-vece ora ringrazio più che mai di aver conosciuto. Nella mia famiglia, quella dell’orto, è un esperienza cominciata più per passione che per necessità, ma che nel tempo è sicuramente diventata un’attività parallela che comporta un sacrificio oltre a quello lavorativo. Avere le proprie patate per cinque, sei mesi l’anno, raccogliere un cesto di insalata a pochi metri da casa, trovare pronti finocchi, pomodori, zucchine e il profumato basilico è qualcosa di magnifico.

Si, lo sarebbe ancora di più se i semi usati fossero liberi da brevetti, proprietà e speculazioni finanziarie. Non esiste nulla di più naturale che dedicare parte del proprio raccolto alle sementi che potranno essere usate l’anno seguente o scambiate con altre varietà.

L’evento denominato “Chiamata A Raccolto” e organizzato dal gruppo “Coltivare Condividendo”, vuole richiamare l’attenzio-ne dell’opinione pubblica, sull’importanza dell’agricol-tura biologica e tradizionale, attraverso buone pratiche messe a punto negli anni. Occasioni di ritrovo come questa rappresentano l’op-portunità di prendere con-tatto diretto con associazio-ni, cooperative e agricoltori locali che del libero scambio di saperi e sementi, hanno fatto la loro missione per vivere in maniera sostenibile e sana.

Partiamo presto la mat-tina, la macchina con cui facciamo la trasferta è un po’ sgan-gherata, ma fa il suo dovere, con noi viaggia anche una ragazza che m racconta essersi occupata negli ultimi anni di agricoltura sosteni-bile, della filosofia “ridiamo braccia all’agricoltura” e della diffusione di antiche tecniche rilette in chiave contemporanea. Infatti lei, insieme ad un’altra sua collega ad amici e volontari, sono almeno due anni che portano avanti l’iniziativa “Farmazio-ne”. Un vero e proprio orto comune che funge da laboratorio didattico e come spazio produttivo per tutta i partecipanti e la collettività.

Le chiaccere in viaggio fanno macinare chilometri senza render-sene conto arriviamo all’ingresso del bocciodromo di Feltre, dove è allestito l’evento. Mi accorgo di essere di fronte a un mondo comple-tamente inaspettato, una cittadina

medioevale che in una domenica soleggiata d’autunno riesce ad accogliere tante persone, dai sem-plici curiosi, ai produttori, ai piccoli agricoltori e gli esponenti dell’asso-ciazionismo transalpino. Il grande salone è ancora in allestimento, ma iniziano a comparire i vari baracchini. Il primo, cattura la nostra attenzione: è dedicato all’orto sinergico, e viene illustrata la corretta disposizione di verdure, piante aromatiche, insetti benefici, l’utilizzo di concimi e fer-tilizzanti naturali come la paglia, la cenere e quant’altro.

Poco più in là compare un lungo tavolo costellato da almeno un centinaio di varietà di patate da tutto il mondo. Questo tubero re-siste ad alte quote, alcune varietà hanno colori più svariati, dal banco al violaceo e dalle forme più strane. È un piccolo museo itinerante il cui

artefice è un’associazione agro culturale ligure che si occupa di diffondere la conoscenza su questo tubero straordinario, che nella storia è divenuto elemento base nella dieta di molte popo-lazioni. Lì ci viene spiegato che la storia della patata e delle sue varietà inizia negli Stati Uniti, da lì essa segue le principali rotte commerciali e raggiunge tutto il mondo. Nei secoli essa si è incrociata naturalmente o con l’intervento inconsapevole dell’uomo, fino a quando qual-cuno decise di classificarla, eti-

chettarla e brevettarne le qualità. In Europa come in America vennero se-

lezionate quelle più pro-duttive e a basso costo da dedicare ai grandi consu-mi, questo fece si che le varietà minori vennero dimenticate in sperdute valli montane, in piccole riserve agricole nella pia-nura o dove si continuava a coltivarle e a incrociarle naturalmente. Ma si sa che al progresso non si possono porre limiti e per questo nascono brevetti su qualità resistenti a de-terminati parassiti o con-dizioni climatiche, che necessitavano di ricerche in laboratorio, di investi-menti e ovviamente di un ritorno economico. Dall’esempio della patata,

che rappresenta in un’unica soluzione sia il frutto che il seme della pianta, si può estendere il discorso a tutte le sementi conosciute: dal kamut, all’orzo, dal peperoncino al pomodoro, per non parlare delle insala-te e di tutta la frutta, che oggi rischiano l’omologazione e la standardizzazione con il pretesto di una maggior pro-duttività e resisten-za.

L’ i m p o r t a n z a della condivisione, dell’intreccio natu-rale delle specie e della preservazione di qualità locali è ora maggiormen-te sentito vista una

tendenza europea e globale alla estrema regolamentazione di se-menti e piante.

È in Commissione Europea dal 13 luglio scorso una proposta di legge sul materiale riproduttivo vegetale. Una legge che si propone di control-lare totalmente semi e piante: “tutti i semi, tutte le piantine, piante o talee”. Potranno essere commerciati solo semi e piante “approvate” da un ufficio preposto, “certificate” e inse-rite in un elenco ufficiale; potranno essere coltivati per il mercato solo vegetali prodotti con i suddetti semi e piante.

Sarà l’ufficio apposito della Com-missione Europea a decidere quali semi e quali piante. Il vaglio sarà disposto da un’ Agenzia ad hoc, che predisporrà i controlli su agricoltori e giardinieri. I criteri di validità sono: “distinguibilità, omogeneità, sta-

bilità”. Proprio quelle delle piante industriali, meglio se brevettate. Sì, perché le multinazionali stanno brevettando quei pomodori che noi riproduciamo per talea, quelle pata-te di cui conserviamo e ripiantiamo il seme un anno dopo l’altro. Dunque è importante la “stabilità”: se il seme brevettato della multinazionale producesse una pianta diversa da quella originaria (per esempio, le zucche si ibridano facilmente con lo spontaneo aiuto di api e insetti), come potrebbe provare che è di sua proprietà e che non ho il diritto di riseminarla? Ma la legge ha pensato a tutto: distinguibilità, omogeneità, stabilità. Tutte caratteristiche atte a far pagare i “diritti d’autore” e a rendere illegali le piante prodotte direttamente dai contadini.

Ci hanno provato creando varietà in laboratorio, giocando con i geni e realizzando i cosiddetti Organismi Geneticamente Modificati (OGM) ma per ora non riescono a vincere la resistenze e la diffidenza, e hanno quindi ripiegato sugli organismi non geneticamente modificati, appropriandosene, attraverso i bre-vetti. Chi si aspettava, infatti, che per piantare un boschetto di pioppi e ontani, per vendere al mercato del paese qualche cassetta di ciliegie o di noci si dovesse avere il “certificato” di idoneità per queste specie?

Per intenderci, chiunque abbia un vivaio e venda piante, dal tagete al sedano, dalle cipolle ai cipressi, dai pomodori al rosmarino, sarà control-lato in maniera ferrea: potrà coltivare e seminare solo piante “approvate”, catalogate e certificate; dovrà eti-chettarle a norma di legge e la legge qui insiste molto. Dovrà imballarle a norma di legge; dovrà tenere registri e dovrà rendere continuamente con-to di quello che produce e che vende.

La conseguenza evidente, voluta e inevitabile sarà che nessun vivaista si azzarderà più a produrre le proprie piante, ognuno si limiterà a compe-rare e rivendere quelle fornite dalle compagnie, con etichetta e imbal-laggio sicuramente regolare, dato che li hanno decisi e imposti loro.

Quel che riguarda le piantine vale anche per i semi, vale per i prodotti che poi venderà il contadino: sarà sempre più difficile e costoso anche solo attenersi alla legge. Ed ecco il grande risultato: fine della piccola e media azienda agricola. Come è già successo per l’allevamento, l’agricoltore diventa un operaio dell’industria agroalimentare, ma-gari sul suo stesso terreno, di cui detiene formalmente la proprietà, tocca a lui coprire tutti i costi e, se il prodotto non si vende, pagarne il prezzo a proprie spese.

Lorenzo Pupi

Dall’alto:L’area stand a Feltre.Patate d’Oltralpe.

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