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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2012 NUMERO 371 CULT La copertina BARTEZZAGHI E MURGIA Da YouTube alle piazze la letteratura in viva voce La recensione FRANCO MARCOALDI Il comunista che scoprì il crollo del Muro All’interno L’intervista SUSANNA NIRENSTEIN Irving Yalom “Capire la psicoanalisi con Spinoza” Teatro ANNA BANDETTINI Il principe di Kleist per Cesare Lievi è un giovanotto sognatore e irreale Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: “La luce nelle storie di Rebecca West” Siamo oltre Orwell La provocazione di Enzensberger Le idee HANS MAGNUS ENZENSBERGER Quando i ragazzi andarono a cercare Federico Caffè La storia DANIELE ARCHIBUGI Q uella mattina sono anch’io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Roc- co Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Bor- sellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le di- ta. Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: «Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde, l’amico poliziotto: «Siamo cadaveri che camminano». Un fotografo aspetta che loro — Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino — siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent’an- ni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l’altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati. Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell’uomo in- castrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Gran- de guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso par- lamento dell’isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussu- reggianti palme. Chi è l’ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, se- gretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Ca- mera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopo- polo negli infuocati anni del separatismo e dell’occupazione delle terre. È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L’agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari — come qualcuno mormora — si dovrebbe esplorare la «pista interna». Indagare dentro il suo parti- to. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi com- pagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che ora- mai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent’anni fa. (segue nelle pagine successive) ATTILIO BOLZONI 1982: Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa 1992: i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino 2012: nell’anniversario degli omicidi dei grandi avversari della mafia non sappiamo ancora chi li ha voluti morti. Ma sappiamo il perché Il racconto e il documentario del cronista di “Repubblica” dal fronte Uomini soli Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 8APRILE 2012

NUMERO 371

CULT

La copertina

BARTEZZAGHI E MURGIA

Da YouTubealle piazzela letteraturain viva voce

La recensione

FRANCO MARCOALDI

Il comunistache scoprìil crollodel Muro

All’interno

L’intervista

SUSANNA NIRENSTEIN

Irving Yalom“Capirela psicoanalisicon Spinoza”

Teatro

ANNA BANDETTINI

Il principe di Kleistper Cesare Lieviè un giovanottosognatore e irreale

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certaidea di mondo:“La luce nelle storiedi Rebecca West”

Siamo oltre OrwellLa provocazionedi Enzensberger

Le idee

HANS MAGNUS ENZENSBERGER

Quando i ragazziandarono a cercareFederico Caffè

La storia

DANIELE ARCHIBUGI

Quella mattina sono anch’io là, con il taccuino in manoe il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Roc-co Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Bor-sellino che è con le spalle al muro e si sta accendendoun’altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le di-ta. Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo:

«Ninni, cosa sta succedendo?». Mi risponde, l’amico poliziotto:«Siamo cadaveri che camminano». Un fotografo aspetta che loro— Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino — siano per un attimovicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent’an-ni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l’altro sonomorti tutti e quattro. Ammazzati.

Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell’uomo in-castrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzoladal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo allacittà delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Gran-de guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso par-

lamento dell’isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussu-reggianti palme.

Chi è l’ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, se-gretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Ca-mera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopo-polo negli infuocati anni del separatismo e dell’occupazione delleterre. È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982.

L’agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso.Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere unamatrice internazionale. Magari — come qualcuno mormora — sidovrebbe esplorare la «pista interna». Indagare dentro il suo parti-to. Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi com-pagni. Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che ora-mai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti ecerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent’anni fa.

(segue nelle pagine successive)

ATTILIO BOLZONI

1982: Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa1992: i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

2012: nell’anniversario degli omicidi dei grandi avversari della mafianon sappiamo ancora chi li ha voluti morti. Ma sappiamo il perché

Il racconto e il documentario del cronista di “Repubblica” dal fronte

Uomini soli

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8 APRILE 2012

U

KALASHNIKOVOre 21: Carlo Alberto dalla Chiesa

viene ucciso a colpi di kalashnikov

in via Isidoro Carini insieme alla moglie

Emmanuela. Stavano andando a cena

La copertinaUomini soli

Il comunista, il carabiniere, i due magistrati

Uniti dallo stesso senso del dovere e contro lo stesso nemicoUccisi venti e trent’anni fa esatti.Un libro e un documentariodel cronista di “Repubblica” che li ha conosciuti spiegano perché il potereli ha voluti morti e perché i mandanti restano oscuri

PIOLA TORRE

CARLO ALBERTODALLA CHIESA

MITRAGLIATORI E REVOLVEROre 9.20: una pioggia di proiettili uccide

Pio La Torre insieme all’autista e amico

Rosario Di Salvo mentre sta andando

in auto alla sede del Pci

(segue dalla copertina)

ccidono l’uomo che prima di tuttigli altri intuisce che la mafia sicilia-na non è un problema di ordinepubblico ma «questione naziona-le», il parlamentare che vuole unalegge che segnerà per sempre la no-stra storia: essere mafioso è reato.Chiede di strappare i patrimoni aiboss, tutti lo prendono per un visio-nario. Dicono che è ossessionato damafia e mafiosi, anche nel suo par-tito ha fama di “rompicoglioni”. Alpresidente del Consiglio GiovanniSpadolini propone di inviare a Pa-lermo come prefetto il generaleCarlo Alberto dalla Chiesa, il carabi-niere che ha sconfitto il terrorismo.Non fa in tempo a vederlo sbarcare,l’ammazzano prima.

Pio La Torre aveva conosciutodalla Chiesa nel 1949 a Corleone, luisegretario della Camera del lavorodopo la scomparsa del sindacalistaPlacido Rizzotto e il capitano volon-tario nel Cfbr, il Comando forze re-pressione banditismo. Il loro primoincontro avviene nel cuore della Si-cilia. Quindici anni dopo si ritrove-ranno uno di fronte all’altro in com-missione parlamentare antimafia,uno deputato e l’altro comandantedei carabinieri della Sicilia occiden-tale. Il terzo incontro non ci saràmai.

Destini che s’incrociano in un’i-sola che non è ricca ma sfrenata-mente ricca, superba, inespugnabi-le. Il giorno dell’uccisione di Pio LaTorre in Sicilia arriva il generale.«Perché hanno ucciso La Torre?», glichiedono i giornalisti. «Per tuttauna vita», risponde lui. È il cinquan-

tottesimo prefetto di Palermo dal-l’Unità d’Italia. L’hanno mandatogiù «per combattere la mafia».Informa il capo del governo che nonavrà riguardi per la «famiglia politi-ca più inquinata del luogo». È la Dcdi Salvo Lima e di Giulio Andreotti.Non gli concedono i poteri promes-si, solo contro tutti Carlo Albertodalla Chiesa resisterà per centoven-ti giorni. Il 3 settembre 1982 toccaanche a lui. E alla sua giovane mo-glie Emmanuela.

Omicidio premeditato, annun-ciato, dichiarato. Omicidio forte-mente voluto per chiudere un con-to con un generale diventato troppoingombrante. Una leggenda per isuoi carabinieri, una minaccia per-manente per un’Italia che sopravvi-ve fra patti e ricatti. Dicono che a far-lo fuori è stata la Cupola. Come perPio La Torre. Un alibi perfetto per

seppellire e dimenticare un genera-le fatto a pezzi dallo Stato. Nei gior-ni precedenti al 3 settembre le sab-bie mobili siciliane se lo sono divo-rato Carlo Alberto dalla Chiesa. Leprime pagine del giornale L’Ora, so-no fotocopie con numeri al postodei titoli: 81…84…87…Gli omicidia Palermo dall’inizio dell’anno. L’11agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fi-ne mese l’inchiostro rosso si spandesulla foto dell’ultima vittima. Il tito-lo che va in stampa dice 100.

«L’operazione da noi chiamataCarlo Alberto l’abbiamo quasi con-clusa, dico: quasi conclusa», è la te-lefonata che arriva dopo una “spa-ratina” a Villabate. Una rivendica-zione così a Palermo non l’hannofatta mai. Sembra un proclama ter-roristico. Una dichiarazione diguerra, in stile militare. Sono a Ca-steldaccia quando arriva quella te-

lefonata. Mi arrampico su una stra-dina che sale fino alla caserma deicarabinieri. Lì c’è già il capitano Ti-to Baldo Honorati, il comandantedel nucleo operativo di Palermo. Èdavanti a un’utilitaria impolverata,la parte posteriore dell’auto è “ab-bassata”, schiacciata verso l’asfalto.Ormai si riconoscono anche da lon-tano le macchine con un grosso pe-so nel bagagliaio. Significa che lìdentro c’è un uomo. Il capitanoapre. È un “incaprettato”, mani epiedi legati con una corda che glipassa intorno al collo. Quando i mu-scoli delle gambe cedono, la vittimafinisce per strangolarsi. «È un altroregalo per il nostro generale», dicel’ufficiale mentre via radio gli arrivala notizia che è stato ritrovato un ca-davere sulla piazza di Trabia. Ed ègià morto anche lui — l’agguato acolpi di kalashnikov in via Isidoro

ATTILIO BOLZONI

PIAZZA TURBA

30 aprile 1982VIA CARINI

3 settembre 1982

Quattro destini incrociati

“Prima o poi ce la faranno pagareper quello che stiamofacendo in Sicilia Palermo è una cittàdove si fa politica con la pistola”

“Ho capitola regoladel giocoSi uccidequandoavviene questacombinazione fatale:è diventato troppopericoloso,ma si può uccidereperché è isolato”

PIAZZA TURBA

30 aprile 1982VIA CARINI

3 settembre 1982

Repubblica Nazionale

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Carini, una settimana dopo — Car-lo Alberto dalla Chiesa, carabinierefiglio di carabiniere, nato a Saluzzo,provincia di Cuneo, Piemonte. Dal-l’altro capo dell’Italia.

Palermo è laboratorio criminalee terra di sperimentazione politica,è porto franco, capitale mondialedel narcotraffico, regno di latitantiin combutta con questori e prefetti,onorevoli mafiosi e mafiosi onore-voli. Il giudice Falcone indaga sui“delitti politici” siciliani, indaga sul-la morte di Pio La Torre e Carlo Al-berto dalla Chiesa. Scopre tutto eniente. Sospetti. Trame. Mandantisempre invisibili. Palermo è dentrouna guerra permanente. Poi, l’attofinale. Nel 1992.

Il 23 maggio, vent’anni fa. Alle 17,56 minuti e 48 secondi gli strumen-ti dell’Istituto di Geofisica e di Vul-canologia di monte Erice registrano

«un piccolo evento sismico con epi-centro fra i comuni di Isola delleFemmine e Capaci». Non è un terre-moto. È una carica di cinquecentochili di tritolo che fa saltare in ariaGiovanni Falcone. È il magistratopiù amato e più odiato del Paese. Davivo è solo. Da morto è esaltato eosannato, il più delle volte daglistessi nemici che ne hanno voluto lesconfitte.

Sepolto in una piccola stanza die-tro una porta blindata, in mezzo aicodici e alla sua collezione di pape-re di terracotta, è il primo italianoche mette veramente paura allamafia. Prigioniero nella sua Paler-mo, è l’uomo che cambia Palermo.Porta i boss alla sbarra con il maxiprocesso. Vengono condannati inmassa. Detestato, denigrato, guar-dato con sospetto dai suoi stessi col-leghi in toga, temuto e adulato dalla

politica, resiste fra i tormenti schi-vando attentati e tranelli governati-vi. Prima tremano per la forza dellesue idee, poi si impossessano dellasua eredità. È celebrato come eroenazionale solo quando è nella tom-ba. Mario Pirani lo descrive comel’Aureliano Buendìa di Cent’anni disolitudine, che ha combattuto tren-tadue battaglie e le ha perse tutte.Giuseppe D’Avanzo ricorda «l’umi-liante sottrazione di cadavere»compiuta dopo la strage di Capaci.Chi l’ha violentemente intralciatoin vita, lo invoca in morte. Ha cin-quantatré anni e cinque giorniquando vede per l’ultima volta lasua Sicilia.

Al suo funerale c’è una folla stra-ripante nella basilica di San Dome-nico, il Pantheon di Palermo. Unapioggia violenta lava la città. Sonoquasi le due del pomeriggio, la piaz-

za adesso è deserta. C’è solo un uo-mo, inzuppato, che avanza guar-dando nel vuoto. È Paolo Borselli-no, l’amico e l’erede di GiovanniFalcone. Altri due uomini con lostesso destino. Nascono alla Kalsa adistanza di pochi mesi uno dall’al-tro, da ragazzini si rincorrono fra ivicoli, si ritrovano trentacinque an-ni dopo in un bunker di tribunale. Sene vanno insieme, nella stessa esta-te. Cinquantasette giorni di dolore.Per il fratello perso e per uno Statoche tratta. Paolo Borsellino si senteabbandonato, mandato allo sbara-glio da gente di Roma che nell’om-bra sta negoziando la resa. Sono inmolti a tremare per i suoi segreti. Sache è già arrivato l’esplosivo ancheper lui. Si getta nel vuoto il procura-tore di Palermo, assassinato daun’autobomba e dal cinismo diun’Italia canaglia che l’ha visto mo-

rire senza fare nulla. Tradito e ven-duto. Il 19 luglio del 1992 salta inaria. Come Falcone. L’agenda rossache ha sempre con sé non si troveràmai. Dicono che è stata ancora laCupola. È sempre e solo la Cupolache ha deciso la sorte di tutti loro.Così ci hanno raccontato. Così cihanno portato sempre lontano dal-la verità. Depistando. Inventandosifalsi pentiti. Scaricando tutto ad-dosso a Totò Riina e ai suoi corleo-nesi. Prima usati e poi sacrificati, se-polti per sempre nei bracci speciali.Trent’anni dopo, non sappiamoancora chi ha voluto morti Pio LaTorre e Carlo Alberto dalla Chiesa.Vent’anni dopo, non sappiamo an-cora chi ha voluto morti GiovanniFalcone e Paolo Borsellino. Sappia-mo solo che erano quattro italianiche facevano paura al potere.

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DOMENICA 8 APRILE 2012

CINQUECENTO CHILIOre 17.56 e 48 secondi: 500 chili di tritolo

fanno saltare in aria le auto blindate

di Giovanni Falcone e della scorta

Muoiono anche la moglie e tre poliziotti

AUTOBOMBAOre 16.58: una Fiat 126 con cento chili

di tritolo esplode e uccide Paolo

Borsellino mentre sta andando

dalla madre. Muoiono cinque agenti

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“Ma io sonoun siciliano, un siciliano veroPer me la vita valequanto il bottonedi questa giacca”

GIOVANNIFALCONE

PAOLOBORSELLINO

CAPACI

23 maggio 1992VIA D’AMELIO

19 luglio 1992

L’INIZIATIVA

Dal 13 aprile è in libreria Uomini Soli (Melampo editore, 232 pagine,

16 euro), le biografie di quattro italiani che facevano paura al potere

scritte da Attilio Bolzoni. Tutti uccisi a Palermo. Il segretario del Pci

siciliano Pio La Torre e il generale dei carabinieri Carlo Alberto

dalla Chiesa assassinati nel 1982, i giudici Giovanni Falcone

e Paolo Borsellino fatti saltare in aria nell’estate del 1992

È il racconto - nel ventennale e nel trentennale della loro morte –

dei misteri e dei drammi di una Sicilia insanguinata

Il libro sarà distribuito il 16 maggio prossimo anche in edicola

con Repubblica insieme al film-documentario Ritorno a Palermodi Paolo Santolini: un viaggio nella memoria dove parlano

i sopravvissuti delle stragi, i familiari delle vittime, i protagonisti

di una spaventosa stagione iniziata nel 1979 con l’uccisione

del giornalista Mario Francese e conclusa quasi un quarto di secolo

dopo con l’esplosivo di Capaci e di via Mariano D’Amelio

Il documentario, girato in Sicilia nel marzo scorso, è prodotto

dalla Faber Film e da Libera e sostenuto da Arcoiris Tv,

Coop, Cgil, Arci e Coldiretti Sicilia

“Non sarà la mafiaa uccidermima saranno altriE questo accadràperché qualcuno lo permetteràE fra quel qualcuno,ci sono anchei miei colleghi”

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23 maggio 1992VIA D’AMELIO

19 luglio 1992

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8 APRILE 2012

La storia

sere state le sue mosse e trovammo uninterlocutore di rara sensibilità umananel capo della squadra mobile di Ro-ma, Nicola Cavaliere. Se stava vagandoper la città in stato confusionale, avevabisogno di essere aiutato.

Iniziammo a cercarlo sulle pendicidella collina di Monte Mario, dove abi-tava, e nelle zone limitrofe. Ci fu chi

perlustrò gli argini del Tevere, chi cercònei dintorni della nuova facoltà di viaCastro Laurenziano e della vecchia se-de di Piazza Fontanella Borghese. In-seguimmo falsi indizi, come quello diun gioielliere che riteneva di averlo vi-sto seduto sui gradini di una stazionedella metropolitana. Negli stessi gior-ni, un altro anziano si buttò nel Tevere

da Ponte Marconi ma ben presto, vistigli ingrandimenti delle foto scattate daun passante, escludemmo che si po-tesse trattare di lui. Bussammo alleporte dei conventi e chiedemmo aiutoal Vaticano. Armati di penna e taccui-no, parlavamo con le persone che co-nosceva ricercando qualche indizio eraccomandando mille volte di mante-

nere la riservatezza.Per cinque lunghissimi giorni non

abbiamo dato la notizia all’opinionepubblica, per paura che la vita di un uo-mo sensibile e straordinario comeCaffè potesse essere insudiciata. Tra-mite Marco Ruffolo, uno dei suoi ama-ti allievi, chiedemmo a Eugenio Scalfa-ri di pubblicare su Repubblica un an-

DANIELE ARCHIBUGI

Un mercoledì mattinaFederico Caffè scom-parve di casa con la di-screzione che lo avevaaccompagnato per tut-ta la vita. Saranno state

le sette quando mi arrivò la telefonatadi suo fratello minore Alfonso, anchelui celibe e professore, con cui convi-veva. Mi disse «Vinicio (così lo chiama-vano in famiglia) è scappato di casa».Ci misi pochi minuti a raggiungerela loro casa di via Cadlolo, dovetrovai i suoi nipoti e Nicola Aco-cella, uno dei suoi allievi chepiù si era preso cura di lui nelleultime settimane. Non sape-vamo che cosa attenderci: lasua fuga sarebbe stata di brevedurata come quella di un adole-scente o avrebbe preso una piegaben più tragica?

La domenica prima ero andato atrovarlo a casa. Da tre mesi, Caffè erastato preso da una profonda crisi de-pressiva e non andava più, come ave-va sempre fatto, tutti i giorni in facoltà.Negli anni in cui frequentai l’Univer-sità, dal 1976 al 1982, è stato l’amicopiù vicino, nonostante fossi quasimezzo secolo più giovane. Come altriaffezionati allievi che avevano saputodella sua depressione, cercavo di aiu-tarlo passando qualche ora nel suostudiolo. La mia amicizia con Caffè èiniziata ben prima che nascessi: miopadre era il suo migliore e forse unicoamico, e lui fu il testimone di nozze deimiei genitori. Era un uomo assai riser-vato e sin da bambino ho pensato chefosse la sua statura — era alto un me-tro e mezzo — a renderlo così schivo.Celibe, era generosissimo con i figli deisuoi amici: solo pochi mesi fa sono ve-nuto a sapere che gli stessi giocattoliche ci faceva pervenire negli anni Ses-santa giungevano anche ai figlioli delsuo amico Paolo Sylos Labini e chissàa quanti altri.

Unico tra i miei fratelli, mi iscrissi aeconomia e commercio, la facoltà nel-la quale lui passava dodici ore al gior-no. Scoprii in quel frangente che l’uo-mo riservatissimo che avevo cono-sciuto si trasformava dietro la cattedrae tramite l’eloquio, sempre sostenutoda un sano pragmatismo di mai ripu-diata marca abbruzzese, riusciva a per-suadere e, soprattutto, ad accendere lacuriosità. Mi accorsi presto che ero sta-to arruolato nella confraternita deisuoi allievi che, senza bisogno di ritiiniziatici, si ispirava ai valori coltivatidal Maestro: rigore e sobrietà. Per so-praggiunti limiti di età, Caffè aveva dapochi mesi smesso di insegnare, ripor-tandone un tracollo emotivo. Il circolodi persone che gli era più vicino ne erarimasto sorpreso: come era possibileche lui, l’uomo che aveva sempre so-stenuto tutto e tutti, avesse ora bisognodi sostegno? Aveva retto in piedi un’in-tera facoltà, reclutato i più prometten-ti insegnanti e contribuito al dibattitopolitico. Con discrezione, ma anchecon passione civica, aveva sempre usa-to gli strumenti dell’economia per di-fendere i più deboli. Aveva tempo pertutti e per tutto, e a nessuno aveva ne-gato il suo sostegno e conforto. Eppu-re, ora, si dimostrava incapace di ab-bandonarsi alle persone che gli voleva-no bene.

Da quel mercoledì iniziarono giorniterribili: non volevamo dare la notiziain pasto alla stampa nel timore che, sefosse stato travolto dal clamore dei me-dia, avrebbe potuto compiere atti in-consulti che speravamo fosse ancorapossibile scongiurare. Telefonammoai molti suoi amici sparsi per Roma eper il mondo, nella speranza che si fos-se rifugiato a casa di uno loro. Cercam-mo di immaginare quali potevano es-

Cold case

PONTE DUCA D’AOSTASi teme il peggio

e si battono le sponde

del Tevere sotto il Ponte

Duca d’Aosta,

il più vicino alla casa

di Caffè

PIAZZA FONTANELLABORGHESE

Uno dei primi posti

della ricerca è la zona

della libreria dove

l’economista si forniva

regolarmente

PONTE MARCONIUn fotografo per caso

scatta l’immagine

di un uomo che il 15

aprile si getta

nel Tevere. Non è Caffè

MONTE MARIONessun tassista

o autista di bus dice

di aver preso a bordo Caffè

Si perlustra tutta la zona

dove il professore

era solito passeggiare

VIA CADLOLO 42È la notte tra il 14 e il 15 aprile 1987

Sul tavolino accanto al letto Federico

Caffè ha lasciato orologio, occhiali,

chiavi, passaporto e libretto degli assegni

In tasca non ha più di 30mila lire

Alle 5.30 un vicino di casa sente aprire

la porta dell’appartamento

dove vive il professore

TARQUINIASi ricorre anche ai sensitivi:

alcuni indicano che Caffè

è in campagna, forse

nel paese poco fuori

Roma. Alcuni studenti

si precipitano là

I ragazzi che cercaronoil professor Caffè

Nella notte del 15 aprile 1987 il grande economista scomparve nel nullaSi pensò al suicidio, a un incidente oppure a una fuga perfetta per lasciarsi ognicosa alle spalle. In quei giorni quasi tutti i suoi allievi intrapresero una grandericerca, perlustrarono tutta Roma e non scartarono nessuna ipotesiDopo venticinque anni, il racconto di uno di loro

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8 APRILE 2012

L’ultima lezione

«La sera si fa lunga senza coloro che amiamo». Inco-mincia con queste parole prese in prestito da Monta-le Federico Caffè, le riflessioni della stanza rossa. Sono

scritte a mano dallo stesso Caffè nella prima pagina del libro diBruno Amoroso che esce in occasione dell’an-niversario della scomparsa del grande econo-mista abruzzese. Amoroso, che di Caffè è statoprima allievo e poi amico di una vita e che a luideve il consiglio di lasciare l’Italia per cercareuna carriera accademica in Danimarca, hamesso insieme anni di ricordi, carteggi, collo-qui, riflessioni e li ha rielaborati e trasformati inun dialogo ininterrotto e durato anni. Il libro,ricco di fotografie e documenti rari o inediti, ri-percorre non soltanto la vicenda umana delprofessore e gli eventi sociali di quegli anni maanche l’evoluzione del suo pensiero keynesia-no, le sue preoccupazioni di fronte all’avanzaredelle teorie neoliberiste e le vere e proprie pro-fezie amare su come il capitalismo di natura finanziaria avreb-be finito per riversarsi contro le classi lavoratrici, i risparmiato-ri e il ceto medio. Una raccolta di lettere di Caffè fa da appendi-ce al volume. Edito da Castelvecchi (186 pagine, 17,50 euro) il li-bro uscirà il 13 aprile.

nuncio criptico dettato dal fratello:«Vinicio, torna a casa, sto male. A. «. Inqueste poche parole c’è forse il dram-ma estremo con cui Federico aveva co-struito la sua esistenza: anche nel mo-mento tragico in cui stava probabil-mente pensando di porre fine alla pro-pria vita, chi gli era più vicino speravadi convincerlo a cambiare idea richia-

mandolo ai suoi doveri verso gli altripiuttosto che a quelli verso se stesso.Del resto, era lui che da sempre avevaavuto tanta facilità a dare quanto diffi-coltà a ricevere.

Portai la notizia all’Ansa una dome-nica pomeriggio. Fui bombardato didomande e ognuna di esse mi parveuna violenza esercitata nei confrontidel mio professore. Ci trovavamo inuna situazione contraddittoria: da unaparte, il clamore suscitato dalla suascomparsa aumentava la possibilitàche fosse rintracciato, dall’altra teme-

vamo la passione per il gialloscandalistico dei mass media.Così nessuno di noi parlò del-la sua crisi depressiva e peranni e anni siamo stati reti-centi nel descrivere lo stato

in cui si trovava negli ultimimesi. La scomparsa del picco-

lo grande economista non dove-va inficiare l’aura che si era merita-

to con un’esistenza esemplare. Dopo un quarto di secolo, possiamo

solo constatare che, qualsiasi sia statoil destino del nostro maestro, è statoquello che lui si è scelto. La sua vicendanon sarebbe ancora un mistero se nel-le ore successive alla sua scomparsanon avesse dimostrato di avere le dotiprofessionali di un agente segreto assaipiù che quelle di un austero docente.Anche la sua ultima pagina l’ha scrittasenza farsi aiutare da nessuno.

Quando la notizia divenne di pub-blico dominio, giunsero numerosissi-mi allievi per aiutarci nelle ricerche.

Spesso non ci conoscevamo, ma ba-stava uno sguardo per capire che ap-partenevamo alla medesima confra-ternita. Agli studenti degli ultimi annisi accompagnavano quelli dei decennianteriori, e ognuno di loro chiedevache cosa potesse fare di utile. Non erafacile trovare una risposta perché nep-pure la polizia aveva fornito una casi-stica. Nell’organizzare le squadre chebattevano la città palmo a palmo, chie-devo spesso qualche informazione su-gli anni in cui lo avevano frequentatoall’università. Mi sentivo ripetere sem-pre la stessa frase: «È stato il periodopiù bello della mia vita». Ma lui, Fede-rico Caffè, lo avrà mai saputo?

(Daniele Archibugioggi è dirigente del Cnr,

docente all’Univeristà di LondraBirkbeck College

e professore onorarioall’Università del Sussex)

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VIA DEL CASTROLAURENZIANO

La sede della facoltà

di economia dove Caffè

insegnava: altra zona

battuta palmo a palmo

L’APPELLOGli studenti pubblicano

su Repubblica il 20 aprile

un annuncio utilizzando

il suo soprannome Vinicio

Nessuna risposta

PIAZZA DELLA PIGNAIl 29 aprile dell’88, un anno dopo

la scomparsa, un falso allarme: viene

individuato un sosia perfetto

del professore e per di più senza

documenti. In realtà l’uomo

si chiama Egidio Colella

PIAZZA FIUMETre anni dopo la scomparsa,

alcuni familiari di Ezio Tarantelli,

ex allievo e amico di Caffè ucciso

dalle Br, sono sicuri di aver visto

l’economista scendere dal bus 58

e correre verso via Salaria

SUICIDIOFederico Caffè confessò in una lettere la sua depressione. In pochi anni

aveva perso le persone più care, la madre, la vecchia tata, tre amici come

Tarantelli, Franciosi e Vicarelli e doveva accudire il fratello Alfonso

AMNESIANell’ultima lettera scritta all’amico Carlo Ruini, Caffè si lamenta

che le “abituali amnesie senili sono diventate totali”

Il professore potrebbe essersi smarrito

FUGAÈ la teoria dello scrittore Ermanno Rea: Caffè, con l’aiuto di qualcuno

si sarebbe fatto portare in un convento. Un suo santino ritrovato

diceva: “La vera carità non nasce dalla pienezza ma dalla povertà”

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Le ipotesiARICCIAUn esposto indica che il corpo di Caffè

sarebbe in un pozzo nella cittadina laziale

È il 14 agosto del 1999. Non è vero

STAZIONE TERMINIIl 22 aprile un gioielliere, Eugenio

Marcuzzi, dice di aver visto Caffè

alla Stazione Termini. “Sembrava

un barbone, gli ho dato qualche moneta

Mi ha detto, signore non si preoccupi,

non ho bisogno di nulla”

Anche i familiari

del gioielliere confermano

la somiglianza

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 34

DOMENICA 8 APRILE 2012

U

“Il Grande Fratello” non ha più bisognodi una dittatura come quella immaginata

dall’autore di “1984”.Secondo l’intellettuale tedescoa far sì che le persone perdano la propria libertàoggi ci pensano Google e Facebook A cui ogni giorno con un clic diciamo “Mi piace!”

Le ideePoteri forti

SORVEGLIATIHANS MAGNUS ENZENSBERGER

n uomolungimirante, questo Eric Blair, meglio noto conlo pseudonimo di George Orwell. Uno che di regimi to-talitari se ne intendeva, assai prima che il termine en-trasse a far parte del lessico degli storici. Uno che nel1943, quando Stalin, Churchill e Roosevelt si incontra-vano a Teheran, già vedeva profilarsi l’antagonismo trale superpotenze e la guerra fredda.

Qualche anno dopo la Seconda guerra mondialeOrwell pubblicò il suo più celebre romanzo, 1984. Il fu-turo che vedeva all’orizzonte non gli piaceva. Dipinse ilpanorama infernale di un regno del terrore nel bel mez-zo dell’Europa, che in un futuro non lontano avrebbeperfezionato i metodi di Stalin e di Hitler: un partito uni-

co ai comandi di un“Grande Fratello”; una“neolingua” ideata percapovolgere il significatodelle parole; l’abolizionedella sfera privata; un re-gime di sorveglianza a360 gradi, rieducazione elavaggio del cervello del-l’intera popolazione, einfine un’onnipotentepolizia segreta per soffo-care sul nascere qualun-que tentativo di opposi-zione, con la tortura, i

campi di concentramento e l’assassinio.Fortunatamente quella profezia non si è avverata, al-

meno per quanto attiene alla nostra parte del globo: conessa George Orwell ha ingannato sia noi che se stesso.Ma non avrebbe immaginato neppure in sogno che perottenere almeno in parte quel risultato — e in particola-re un sistema di sorveglianza a tutto campo — non c’erabisogno di una dittatura. Si poteva raggiungerlo ancheall’interno di un sistema democratico, senza l’uso dellaviolenza, con metodi civili, se non addirittura pacifisti.

Più di quattro secoli fa un giovane francese, Etiennede la Boétie, aveva già incominciato a riflettere su que-sto tema: nel suo Discorso sulla servitù volontaria, nonpago di mettere alla berlina i despoti assoluti del suotempo, l’autore si rivolgeva soprattutto alle coscienze dichi si adattava alla tirannide: «Sono gli stessi popoli —scriveva — a subire questa piaga, o anzi a farsi male dasé; se solo cessassero di sottomettersi alla servitù, sareb-bero liberi. Il popolo si assoggetta, accondiscende allasua miseria, o addirittura la insegue… Non crediate cheun uccello si lasci impaniare, né che un pesce abbocchiall’amo con più facilità di un popolo pronto a farsi allet-tare dalla servitù, per poco che gli si spalmi un po’ di mie-le in bocca».

Di fatto però, già da tempo non abbiamo più a che fa-re con la figura del monarca unico, personalmente iden-tificabile e attaccabile, contro cui insorgeva Etienne dela Boétie. E neppure subiamo, come nel libro di Orwell,la tirannia di un Grande Fratello, ma piuttosto il domi-nio di un sistema simile a quello descritto da Max Webernegli anni Venti del secolo scorso.

«L’organizzazione burocratica, con le sue professio-nalità e specializzazioni, la separazione delle compe-tenze, i regolamenti e i rapporti d’obbedienza in base auna scala gerarchica, sta portando avanti, di concertocon la morta macchina, l’edificazione della struttura, diquel futuro assoggettamento, nel quale forse un giornogli uomini saranno costretti a inserirsi nella più totaleimpotenza, come i fellah dell’antico Stato egizio, se peressi l’unico e ultimo valore in base al quale si decida lanatura e l’amministrazione dei loro affari sarà un buonsistema — buono e razionale in senso puramente buro-cratico — di tutela, rifornimento e gestione. Perché inquesto la burocrazia è incomparabilmente più efficien-te di qualsiasi altra struttura di dominio».

Nelle sue previsioni, quella struttura di assoggetta-mento sarebbe stata «dura come l’acciaio»: ma perquanto chiaroveggente, in questo almeno Max Weber siera sbagliato, dato che nel frattempo la gattabuia si è tra-sformata in un abitacolo relativamente confortevole,

qualcosa come una cella spaziosa ed elastica, dalle pa-reti di gomma. I nostri sorveglianti arrivano a passi fel-pati, cercando, per quanto possibile, di conseguire i lo-ro principali obiettivi strategici — sorveglianza a tuttocampo e abolizione della sfera privata — senza far ru-more. Ricorrono al manganello solo quando proprionon c’è altro da fare. Preferiscono rimanere anonimi;non portano uniformi ma abiti civili; si fanno chiamaremanager o commissari, e non operano più in caserme,bensì in uffici con l’aria condizionata. Nell’espletamen-to dei loro compiti hanno modi amabili e cordiali. Ai re-sidenti garantiscono la sicurezza, l’assistenza, il comforte i consumi. Perciò possono contare sulla tacita appro-vazione degli abitanti, e non dubitano che i loro protet-ti premeranno con zelo un pulsante invisibile con lascritta «mi piace».

Anche su un altro punto l’analisi di Weber appare og-gi anacronistica: la sua disarmante fiducia nella forza ecapacità d’azione dello Stato. Se a noi questa fiduciaviene meno, non è solo perché gli Stati sono incalzati,braccati dai mercati finanziari globali, ma anche per-ché oggi né Berlino, né Bruxelles e neppure Washing-ton sarebbero in grado di garantire da soli il controllototale della popolazione; e ciò semplicemente perché iloro funzionari sono troppo sprovveduti e maldestri.Oltre tutto, non riescono neppure a stare al passo con iprogressi della tecnologia. Perciò le autorità dipendo-no dal “mondo economico”, cioè dalle corporationdell’informatica. Solo se le due parti procedono fiancoa fianco — i governi da un lato, e dall’altro imprese co-me Google, Microsoft, Apple, Amazon o Facebook — lapresa a tenaglia sulle libertà dei cittadini raggiunge ilmassimo dell’efficacia. È comunque chiaro che in que-sta fragile alleanza, il ruolo delle istanze politiche èquello del partner più debole, dato che solo le corpora-tion dispongono delle competenze indispensabili, delcapitale e della necessaria manovalanza: informatici,ingegneri, programmatori di software, hacker, mate-matici e crittografi.

Nel Ventesimo secolo, né la Gestapo, né il Kgb o la Sta-

Viviamo in celle spaziose e dalle pareti di gommaI nostri sorvegliantiarrivano a passi felpati

Si fanno chiamare managere hanno modi cordiali

HANS MAGNUS ENZENSBERGER

Orwell non lo aveva previsto

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DOMENICA 8 APRILE 2012

E CONTENTI

si avrebbero neppure lontanamente immaginato i mez-zi tecnologici oggi a disposizione: le onnipresenti tele-camere di sorveglianza, il controllo automatizzato deitelefoni e della posta elettronica, le immagini satellitariad alta definizione, i profili di movimento superdetta-gliati, i sistemi di riconoscimento biometrico del volto;programmi gestiti grazie a stupefacenti algoritmi, me-morizzati in banche dati di sconfinata capienza.

L’ultimo accenno di reazione, ormai quasi dimenti-cato, contro lo zelo delle autorità tedesche e delle me-gaimprese risale al lontano 1983 — un anno prima delladata che ha fornito il titolo al romanzo di Orwell. Un cen-simento relativamente innocuo suscitò allora un certoallarme, e le denunce di molti cittadini furono accoltedalla Corte costituzionale. Non solo i giudici di Karl-sruhe condannarono l’iniziativa del governo, ma istitui-rono una nuova legge costituzionale sull’“autodetermi-nazione informatica”, a tutela della personalità. Unasentenza che oggi appare ingenua: di fatto, nessuno neha mai tenuto conto. Nella cyberguerra contro la popo-lazione i sostenitori della riservatezza dei dati sono im-potenti, e da tempo hanno gettato la spugna.

Su un punto invece — quello dell’evoluzione lingui-stica — George Orwell ha colto nel segno: la “neolingua”da lui descritta è assurta ormai al rango di gergo ufficia-le della sociologia. La Costituzione non piace ai cosid-detti servizi. Distinguerli dai criminali informatici ètutt’altro che facile. Le nuove tessere sanitarie di fatto al-tro non sono che una card elettronica di censimento del-le malattie, facilmente decriptabile da un qualsiasihacker. E quanto ai social network, fanno leva sull’esibi-zionismo dei loro utenti per sfruttarli senza pietà.

Un ultimo, molesto residuo di sfera privata è il con-tante. È dunque logico che lo Stato, di concerto con lecorporation, metta in campo un impegno coerente perabolirlo, mediante la proliferazione di carte di credito,client card e altri sistemi di pagamento (tramite telefo-nia e chip) di prossima introduzione. L’obiettivo nonpotrebbe essere più chiaro: esercitare una sorveglianzacapillare sulla totalità delle transazioni. A ciò sono inte-

ressati, oltre al fisco, i network asociali, il commercio on-line, gli istituti di credito, la pubblicità e la polizia. Un al-tro effetto sarà quello di cancellare persino il ricordo del-la materialità del denaro, ridotto a una serie di dati ma-nipolabili a piacimento.

Al solo scopo di completare il quadro daremo infineuno sguardo a un settore collaterale, segnalando i ten-tativi in atto di abolire i diritti d’autore.

Il copyright è una conquista recente, che risale al Di-ciannovesimo secolo. Fino a quel momento, la lettura dilibri era un privilegio riservato a una piccola minoranza.All’improvviso, il romanzo divenne un prodotto di mas-sa. Gli scrittori si resero conto che grazie ai diritti sulle ti-rature e sulle traduzioni, la letteratura poteva essere fon-te di guadagni sostanziosi. Purtroppo non hanno avutomolto tempo per stare allegri. Il libro stampato, oggi de-nominato print, è diventato un modello di fine serie perle maggiori case editrici. Le quali considerano ormai ilcopyright come un ostacolo, con grande giubilo delleavanguardie digitali. Per questi allegri pirati, l’obbligo dipagare un prezzo per ciò che l’industria informatica de-finisce content è comunque assurdo. D’ora in poi gli au-tori, come venivano chiamati, dovranno rassegnarsi alavorare gratis; in compenso potranno twittare, chatta-re e bloggare a piacimento.

Nessuno sembra preoccuparsi del fatto che ormai iltempo di decadimento delle tecniche a nostra disposi-zione varia da tre a cinque anni — lo stesso ritmo dei ci-cli economici dei grandi gruppi informatici. Mentre untesto su pergamena o carta deacidificata rimane perfet-tamente leggibile a distanza di cinque secoli o anche diun millennio, i media elettronici devono essere riversa-ti con una certa frequenza per non diventare inservibilidopo soli dieci o vent’anni: un dato che ovviamente col-lima con lo spirito dei loro inventori.

L’abolizione del libro stampato non è peraltro un’i-dea nuova. Fu preannunciata nel lontano 1953 da RayBradbury, nel suo bestseller (!) Fahrenheit 451, che nedescrive gli sviluppi fino alle estreme conseguenze. Inquel racconto utopistico, il possesso di un libro è consi-

derato un crimine e punito con la pena di morte. Nelleloro visioni del futuro i grandi pessimisti tendono a esa-gerare; ma il fatto di essere confutabili depone in loro fa-vore, e non contro di loro. Ciò è vero sia nel caso di Brad-bury e Orwell che in quello di Max Weber. Ovviamente,per saperne di più col senno di poi non c’è bisogno di es-sere un genio.

A fronte dei pronostici più tetri sorge una domanda,inevitabile come l’amen in chiesa: possibile che non cisia qualche elemento positivo? La risposta è facile, vistoe di grande soddisfazione: tutto ciò che è sopravvenutograzie alla nostra volontaria servitù non ha richiestospargimenti di sangue. I «residui del passato» non sonostati liquidati, come Lenin cercò di fare in Russia, macontinuano a esistere. E ciò per un motivo evidente: latolleranza dei nostri sor-veglianti si basa su unsemplice calcolo costi-benefici. Sarebbe troppodispendioso tentare distanare gli ultimi refratta-ri, di sopprimere una pic-cola minoranza capar-bia, che per puro e sem-plice puntiglio si opponeal fato digitale. Ecco per-ché ci si accontenta diuna sorveglianza al 95 percento. Dunque, non è ilcaso di farci prendere dalpanico: anche perché il restante 5 per cento equivale pursempre a quattro milioni di persone. E così anche in fu-turo, chi proprio non potrà farne a meno, potrà conti-nuare a mangiare e bere, amare e odiare, dormire e leg-gere analogicamente senza preoccuparsi più di tanto, erestare relativamente inosservato.

Traduzione di Elisabetta Horvat© Hans Magnus Enzensberger 2012

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Il controllo non è totale, un cinque per centodella popolazione resta

refrattario.Ma viene tolleratoin base a un semplice calcolocosti-benefici

IL DISEGNOSopra, un’illustrazione degli Stenberg Brothers

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LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 8 APRILE 2012

Dopo il dominio del pop e le mega-produzioni stile “Spiderman”,Broadway riscopre il genio dell’autore di “Porgy & Bess”

e fa il pieno al botteghino con due spettacoli in cartelloneUn omaggio al primo compositore a portare il jazz nei musical e i musicalall’opera. E a dare scandalo suonando le melodie dei “negroes”

SpettacoliRevival

NEW YORK

C’è sempre qualcunoche la sa più lungadegli altri. «Ascol-tando questa im-

mondizia di facile presa, come il duettotra Porgy e Bess You Is My Woman Now,c’è domandarsi come il compositorepotrà più rinunciare a piegarsi a questefacili e inutili conquiste». Parola di Law-rence Gilman, l’allora celebratissimo— e oggi, Dio l’abbia in gloria, scono-sciutissimo — critico musicale del NewYork Herald, giorno del Signore 11 otto-bre 1935. Oppure prendete quell’altrogenio di Oscar Thompson, esegeta diClaude Debussy, autore lui stesso didotti trattati di estetica e critica, esimioprofessore alla Columbia University:«Come pensare — scriveva sull’Eve-ning Post, 21 dicembre 1928 — che trauna ventina d’anni ci possa essere an-cora un pubblico disposto ad ascoltarecon pazienza e piacere le pagliacciatemusicali del signor Gershwin?» E già:come pensare? E soprattutto: cosa pen-sare di fronte alle migliaia di personeche, più di ottant’anni dopo, si mettonoogni sera in fila a New York per l’ennesi-mo spettacolo di George Gershwin?

Al diavolo i vecchi tromboni: porta-rono pure sfiga. Appena due anni dopola profezia dell’Herald, 1937, invece di«piegarsi» ai facili successi, il più grandemusicista d’America fu piegato da untumore. E pure lontano della sua ama-ta Broadway: addirittura nel campo ne-mico, Hollywood, dov’era volato per gliultimi film con Fred Astaire. Al diavolo ivecchi tromboni. E invece fiato alletrombe, ai clarinetti — ah, l’inizio dellaRhapsody in Blue che Woody Allen im-mortalò nell’inizio di Manhattan — esoprattutto alle voci e alle gambe, e chegambe e che voci, che stanno riportan-do Gershwin sulle scene.

Per carità: vero è che il vecchio Geor-ge non se n’era mai andato. E da Lady,Be Good! a Show Girl i suoi musical —ne scrisse una trentina — sono statisempre saccheggiati per rilanciare quie là quell’«immondizia di facile presa».Ma dice Laurence Maslon - il più gran-de storico dell’argomento, professoredella New York University e autore del-

le 470 pagine di Broadway: The Ameri-can Musical trasformate col registaMichael Kantor in un documentarioormai cult - che era appunto dagli an-ni Venti e Trenta che mai s’erano visti,come ora, addirittura due suoi shownella stessa stagione.

Proprio così. New York riscopre loswing al ritmo indemoniato di NiceWork If You Can Get It, il musical appe-na aperto che costringe Matthew Bro-derick, l’ex ragazzino di War Gamesog-gi sposo e padre felice accanto alla Sa-rah Jessica Parker di Sex & The City, a ci-mentarsi nelle evoluzioni che la registae coreografa Kathleen Marshall confes-sa di aver rubato ai film di Ginger Rogers

ANGELO AQUARO

Un americanoa New York

Quando debuttò negli anni Trentai critici parlarono di “immondiziadi facile presa” e “pagliacciate”Pochi capironoche aveva trasformato il folk in musica classica

GERSHWINsuper

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e Fred Astaire. Una vera operazionevintage. Perché la storia del playboy dibuona famiglia che si innamora di untrafficante di liquori non arriva dall’A-merica del Proibizionismo e di Ger-shwin, ma è stata scritta nei giorni no-stri per poter squadernare in scena ilmeglio del meglio di George: da Let’sCall the All Things Off a But Not For Me.

Non solo. Malgrado la profezia ma-lefica dei critici spocchiosi, Gershwin èin scena, per esempio, proprio conPorgy & Bess, l’opera che fece scandaloperché aveva per protagonisti quei ne-groes, come si diceva allora, che il com-positore aveva scelto come «espressio-ne della musica americana» e che —scriveva — «sono perfetti per il mio sco-po: perché si esprimono non soltantoattraverso la parola parlata ma anche,e con naturalezza, attraverso la canzo-ne e la danza». Canzone e danza sullostesso piano della parola, e per di piùsulla bocca, e sulle gambe, dei “negri”:più scandalo di così.

Nei panni di Bess una star del calibrodi Audra McDonald — quattro TonyAwards, cioè gli Oscar del teatro, e ilsuccesso tv con Private Practice — e inquelli di Porgy un baritono dalla solidareputazione come Norman Lewis (Lesmiserables, Chicago), la storia delmendicante disabile che cerca di sal-vare la bella nera dalle grinfie di unamante violento è già un fenomeno.Anche se proprio Maslon, forse per te-nere anche lui fede alla tradizione deiprof criticoni, storce il naso. «No» dice«a Gershwin non sarebbe piaciuta.Questa è una di quelle produzioni chedefinirei uccisa dai troppi tagli: ci sonocosì tanti piccoli tagli alla musica, maspecialmente alla storia, che il suo va-lore viene sminuito di molto».

Non che la regista Diane Paulus, an-che lei vincitrice di un Oscar teatrale perla riedizione di Hair, sia impazzita: i ta-gli di cui parla il professore sono dovutialla “traduzione” di Porgy & Bess, che èun’opera lirica, nel linguaggio più pro-

fano di Broadway. Ma l’iniziativa è dav-vero più che ardita. Perché proprio conPorgy & Bess lo stesso Gershwin avevagià operato ai tempi una di quelle co-raggiosissime sintesi per cui è diventa-to famoso: inventando l’“opera folk”.«Mi sono sentito chiedere spesso per-ché parlo di opera folk», scriveva il com-positore, che era anche una bella pen-na, sul New York Times. «La risposta èsemplice; Porgy & Bess è un raccontofolk. E i suoi protagonisti avrebbero na-turalmente cantato canzoni folk. Maquando ho cominciato a lavorare sullamusica decisi di non utilizzare canzonifolk perché volevo che si sentisse unacerta unità. Così ho scritto io stesso imiei spiritual e le mie canzoni. Ma restacomunque musica folk — e per questo,visto che è messa in forma operistica,Porgy & Bess è diventata un’opera folk».

L’argomentazione è rivoluzionarianel suo rinnovo della tradizione. Nel-l’America del 1935 questo figlio di im-migrati ebrei di Odessa, venuto su tra

Brooklyn e il Lower East Side, iscrivevase stesso nel solco dei grandi. Dai ro-mantici come Robert Schumann, chetra i primi pescò nel folk scrivendo i suoiLieder ispirati alle musiche campestri.Fino a quell’Antonin Dvorak con cui inAmerica tutto cominciò, che per la suaSinfonia dal Nuovo Mondo saccheggiòle melodie dei nativi e dei neri: «Sonoconvinto che il futuro della musica diquesto paese», scriveva il musicista ce-co, in visita alla fine del Diciannovesi-mo secolo negli States, «vada cercatonelle cosiddette negro melodies. Sonoqueste le canzoni folk d’America».

Resta da chiedersi perché l’Americaabbia deciso di riscoprire la sua tradi-zione proprio ora. Resta da chiedersiperché senta il bisogno di riabbrac-ciarsi a Gershwin proprio ora: a ritmodi jazz e di swing. «La verità è che negliultimi dieci anni i musical avevano tut-ti strizzato l’occhio al pop: da Hair-psray a Jersey Boys. Era la musica deibaby boomer», spiega sempre Maslon,«e il risultato sono state commediemusicali che non sempre avevano an-che buone canzoni. Ecco perché l’ideadi riportare Porgy & Bess, ha funziona-to subito. Stiamo parlando della piùbella musica americana mai scritta peril palcoscenico: c’era bisogno di torna-re a quel livello».

Eccolo il tema dolente: l’eredità. Do-po Gershwin nessuno mai? In fondo inquesti giorni anche un altro signore, evivente, può vantare il record di duespettacoli a Broadway in contempora-nea, Evita e Jesus Christ Superstar: equel signore si chiama Andrew LloydWebber. «La prego», si inalbera il pro-fessore, «non ci sarà mai più nessunocome George Gershwin. L’uomo cheportò il jazz a Broadway, che portòBroadway all’opera...». D’accordo: manon è quello che in altri termini sta fa-cendo oggi un altro grande? Dal rock aBroadway: ecco a voi Spidermandi Bo-no e gli U2. «Non lo nomini nemmeno!L’era di Gershwin fu un periodo di cosìgrandi trasformazioni che no, nessunopotrebbe più ritrovarsi in quelle circo-stanze. E nessuno potrebbe quindi da-re il contributo che diede lui». Mai con-trastare i critici: la sanno sempre piùlunga degli altri.

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LA CARRIERA

CUBA

Nel 1932

un soggiorno

all’Avana gli ispira

l’Overture Cubana

dove attinge

a piene mani

alla musica

popolare

delle Antille

SUMMERTIME

Ma il capolavoro

assoluto resta

Porgy & Bess,

melodramma

moderno

che contiene alcune

delle sue arie

più famose

come Summertime

PARIGI

Mentre si trova

in Europa

per rappresentare

il suo Concerto

in fa, nel 1928

a Parigi compone

An American

in Paris: l’opera

strega il pubblico

RHAPSODY IN BLUE

Nel 1924 in meno

di tre settimane

scrive Rhapsody

in Blue: sintesi

di stili diversi,

è ancora oggi

uno dei pezzi

più eseguiti

in tutto il mondo

A BROADWAY

Con Swanee,

cantata da Al

Jolson, nel 1919

diventa famoso

e inizia la sua

lunga carriera

a Broadway

che lo porterà

poi a Hollywood

L’ESORDIO

Nato a Brooklyn

nel 1898, inizia

a scrivere canzoni

a quindici anni

Nel 1916

compone il primo

capolavoro: When

You Want’em,

You Can’t Get’em

LE IMMAGINIA sinistra, George Gershwin e Michael

Tilson Thomas in un’illustrazione di Al Hirschfeld

del 1976. A destra, la locandina di Nice WorkIf You Can Get It e, sotto, Porgy & Bessa New York nel 2011

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LA DOMENICA■ 38

DOMENICA 8 APRILE 2012

Finali multipli decisi su Facebook, ambienti digitali sovrapposti alla realtàcreati dai gps degli smartphone, nuovi personaggi inventati dalle appdei tablet, suggerimenti e varianti in tempo reale grazie a TwitterEcco a cosa stanno lavorando i più grandi programmatoridel mondo: la piattaforma del divertimento globale

NextSuper Mario 2.0

«Siamo nel caos e nessuno sa cosa staper succedere. Ma sappiamo chesarà una rivoluzione». WarrenSpector sembra a un tempo spa-ventato e divertito. Affastella paro-le rapide passando dal futuro al pre-

sente senza riuscire a trovare un punto fermo al qualeancorarsi. Classe 1955, aspetto da intellettuale newyor-chese, è il game designer di punta della Walt Disney.Quello che è riuscito con Epic Mickey, a ottobre la se-conda avventura, a rianimare un personaggio comeTopolino ormai privo di qualsiasi profondità. E ora, do-po aver realizzato ben ventidue giochi elettronici dal1990 a oggi, vede davanti a sé una prospettiva comple-tamente nuova: «Un videogame per console che vengainfluenzato da Facebook, che interagisca contempora-neamente con un’applicazione per tablet e persmartphone, a sua volta legata alla versione per conso-le portatile. Un gioco che permetta di costruire e condi-videre universi digitali, storie e personaggi, sfruttandotutte le potenzialità delle piattaforme ora disponibili».Basta un po’ di fantasia per immaginare il risultato. Vi-deogame con finali multipli decisi sui social network.Ambienti digitali ad alta definizione sovrapposti al rea-le che, grazie al gps degli smartphone, riproducono indiretta quel che avviene per le strade di una città. Ap-plicazioni che permettono di inserire nuovi protagoni-sti sfruttando la macchina fotografica del tablet esoftware per la manipolazione delle immagini.

L’idea di Spector appena due anni fa sarebbe sem-brata una follia. Improbabile oltre che impossibile. Og-

gi invece le cose stanno cambiando così rapidamenteda renderlo un passaggio quasi inevitabile. Esistono giàtitoli che vivono su diversi dispositivi. Anzi, nel caso delgioco di calcio Fifadella Electronic Arts, su tutti i dispo-sitivi e le piattaforme disponibili, incluso Facebook.Campi separati fra loro che hanno come vertice l’edi-zione per PlayStation 3 e Xbox 360, tecnicamente la piùraffinata, poi convertita e resa compatibile con tutto ilresto. Malgrado l’incomunicabilità fra i vari giochi, Fi-fa ha comunque smesso di essere un semplice video-game. È un brand che evolve 365 giorni l’anno nei treecosistemi digitali: console, tablet e smartphone, webe social network. Operazione da circa seicento milionidi dollari, che coinvolge sei o sette team sparsi per ilmondo e sta accrescendo esponenzialmente la popo-larità del marchio. «Tecnicamente è ancora difficilemettere in comunicazione un videogame per iPhone

con uno per Xbox 360», spiega David Reeves, a capo del-la filiale europea della Capcom, l’editore giapponeseche ha pubblicato titoli come Resident Evil e Street Fi-ghter. «Quel che già si potrebbe fare è collegare i video-game, ovunque escano, con musica e video. Domani?La visione di Spector potrebbe avverarsi, oppure po-trebbe succedere che si arrivi a un’unica console. Di si-curo i giochi elettronici cominciano a essere un servi-zio, qualcosa che in futuro si sottoscriverà con un ab-bonamento per essere fruito ovunque e comunque».

I pesi, in termini di giro d’affari, sono noti. Quello deivideogame tradizionali vale fra i cinquanta e i sessantamiliardi di dollari, ma è in calo quasi ovunque. Gli appstore al contrario sono un business da 11 miliardi, men-tre web e social network toccano quasi i cinque miliar-di. Eppure sono proprio questi ultimi due i campi cheavranno la crescita maggiore nei prossimi anni. Per gliapp store si parla di 25 miliardi nel 2015, nove quelli peri browser. E la differenza fra i tablet e le varie Sony Play-station o Nintendo Wii, dal punto di vista della qualitàdella grafica, si sta assottigliando. Nel frattempo le per-sone che usano Flash, il software per le animazioni perbrowser e dunque anche per Facebook, hanno rag-giunto quota un miliardo e 300 milioni. Adesso la Ado-be sta per lanciare un motore grafico, Unity 3D, con ilquale sviluppare videogame ad alta definizione. Che siaggiunge al progetto della Epic, colosso delle console edel pc, che vuol trasferire il suo Unreal Engine 3 usatonei blockbuster per Xbox 360 proprio su browser. «Fla-sh diventerà la console per il web», ha sintetizzato Dia-na Helander di Adobe. Che suona come una dichiara-

CONSOLEOggi le console da casa

e portatili sono la punta

di diamante del mercato

dei videogiochi. Il giro d’affari

che producono è valutato

tra i 50 e i 60 miliardi di dollari

La consoleè game over

JAIME D’ALESSANDRO

Console Social games Cross-platform Flash

GLOSSARIO

Dal francese antico “sole”, tavola,

associato al prefisso “con” è passato

all’inglese e in ambito tecnologico

è sinonimo di pannello di controllo

e di macchina per videogame

Per esteso tutti i giochi sociali

da quelli da tavolo a quelli elettronici

Ultimamente è la definizione

più usata per indicare i videogame

per social network

Un software pensato per diverse

piattaforme, che siano console

(portatili o da casa), smartphone

o tablet. Da noi viene tradotto a volte

con “portabilità” fra i diversi device

Il programma che dal 1996

è il più usato per creare animazioni

su web. Sta diventando il mezzo

principale per portare videogame

in alta definizione sui social network

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8 APRILE 2012

zione di guerra, ma anche come una possibilità per co-struire un ponte fra mondi diversi. In più si assiste a untravaso continuo di competenze da un settore all’altro.Dai videogame tradizionali alle applicazioni, ai socialgame. E viceversa. Nascono network dedicati a singolivideogame, le app si moltiplicano e la grafica è semprepiù raffinata, nascono esperimenti di ogni genere e sichiede che le console del futuro abbiano un legame for-te con Twitter, come ha auspicato Tim Sweeney, grancapo della Epic.

«Cambia l’approccio allo sviluppo di videogame»,conferma Tameem Antoniades con il suo accento bri-tannico da salotto letterario. Vestito tutto di nero, stilerockstar new wave anni Ottanta, Antoniades è il diret-tore creativo della Ninja Theory di Cambridge, unasoftware house che in passato ha lavorato con scrittoricome Alex Garland e musicisti del calibro di Nitin Sawh-ney. Sta finendo il nuovo Devil May Cryper Capcom, magià pensa al futuro. «La distinzione fra le diverse tipolo-gie di giocatori si sta facendo labile, al pari di quella frale piattaforme». Il mantra che molti colleghi di Anto-niades ripetono sempre, da Peter Molyneux di Fable aDavid Cage di Heavy Rain, è che il settore dei giochi lo sipuò paragonare al cinema degli anni Venti, all’epocadel muto. Guardando il livello di raffinatezza di certeproduzioni ad alto budget, sembra un’affermazioneimpietosa. Ma se invece consideriamo la prospettivatracciata da Spector allora il paragone comincia a cal-zare. «Abbiamo ancora tante cose da sperimentare»,conclude lui. «Siamo davvero solo all’inizio».

SMARTPHONE E TABLETIl mondo delle app su dispositivi

mobili come iPhone e iPad

è fatto per il 70 per cento

da videogame. Vale 11 miliardi

di dollari e dovrebbe crescere

a 25 miliardi entro il 2015

Siamo nel caose nessuno sa cosasta per succedereMa sappiamoche sarà unarivoluzione

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App store

WARREN SPECTOR

Game designer Walt Disney

WEB E SOCIAL NETWORKI giochi in Flash, compresi quelli

per Facebook come Farmville,

hanno un giro di affari di cinque

miliardi di dollari che dovrebbe

arrivare a nove entro due anni

Negozio virtuale di applicazioni

per tablet, smartphone, computer

e smart tv. Inventato dalla Apple

nel 2008, oggi è diventato paradigma

di una nuova concezione di internet

SKYLANDERS CLOUDPATROLAppena uscito su iPad

e Android, è l’ennesimo

gioco per console

che passa agli app store

FIFAUno dei primi ad andare

dalle console da casa

a quelle portatili,

dai tablet agli smartphone

fino al pc e a Facebook

BALDUR’S GATEUscito nel 1998, ora

è in versione per browser

e cross-platform: pc,

mac e iPad. E i giocatori

potranno sfidarsi tra loro

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8 APRILE 2012

A tavola

La danza della torta verdeper il “merendino” del lunedìENZO BIANCHI

In Monferrato e nelle Langhe al lunedì dell’An-gelo, “Pasquetta”, tutti si affrettano a cercareun lembo di prato dove batta il sole, per fare il

“merendino”: si arriva verso mezzogiorno con ce-stini carichi di cibi preparati la sera prima o il mat-tino stesso, si stende una tavola sull’erba ancorabassa, mentre “gli uomini” stappano le bottigliedi vino. È il canto di vittoria sull’inverno e sul fred-do che costringevano tutti in casa: finalmente sista all’aria aperta, quasi a celebrare il sole che ri-comincia a scaldare.

Tra i piatti preparati, fa da regina la “torta ver-de” o “pasqualina monferrina”, una torta fattacon le prime erbe raccolte nei campi o negli orti:spinaci, radicchio verde, cicoria, punte di aspara-gi selvatici. Passate in padella con olio e aglio, tri-tate e mescolate con uova e parmigiano, esaltate

dal profumo-sapore della maggiorana, leerbe creano un impasto che accoglie an-

cora del riso cotto al dente prima di finire in forno,impreziosito da qualche ricciolo di burro. Le fettecompatte, di un verde splendente, esaltano i gra-ni di riso che luccicano ormai trasparenti. Così latorta verde fa da regina e pietanze più consistenti— dai salumi ai formaggi, alle cotolette di coniglioimpanate — le danzano attorno come damigelled’onore. E lei, spodestato per un giorno il pane, siaccompagna gioiosa a tutti i piatti. L’allegria è re-sa piena da un bicchiere di grignolino o di freisasecca, ormai preziosa rarità: i cuori si accendono,i canti si rincorrono da una collina all’altra, prelu-dio di altra musica di festa che accompagnerà lavendemmia, quando la stagione apertasi sul ver-de dei prati si spegnerà nei colori di fiamma del-l’autunno. Ricordi di un tempo che fu? Non cre-do: io, come tanti altri, Pasquetta la vivo ancoracosì, con questi sapori sul palato e nel cuore.

PashaFINLANDIAA base

di tvorog,

cioè latte

acidificato

filtrato, il dolce

della Pasqua

finnica va lavorato

con burro, uova,

panna e servito

con pane dolce

al cardamomo (pulla)

KutyaRUSSIAIl dolce di grano

e miele, simbolo

di fertilità,

apre il pranzo

della Pasqua

ortodossa

A seguire, pesci,

polpette e la pasta

con ricotta e prugne

(vareniki)

DayenuISRAELETra le ricetta rituali

della Pasqua

ebraica,

il brodo di carne

con pane azzimo

spezzettato

e uova sbattute,

profumato

di cannella. Variante

con gli spinaci

Lamb cakeSTATI UNITIFarina, latte, uova,

zucchero e semi

di papavero

nella ricetta

della torta

americana a forma

di agnello

Panna arricchita

con cioccolato

bianco per la glassa

PescadocalzadoEL SALVADORPer la Pasqua

in Salvador,

filetti di boca

colorada (cernia)

fritti, rifiniti

in pentola insieme

a ceci, patate

e brodo di pesce

addensato

con farina di mais

Hot CrossBunsREGNO UNITOSulle tavole inglesi

fin dal venerdì

santo, le brioschine

speziate

(cannella, chiodi

di garofano,

noce moscata)

decorate

con una croce

di glassa di zucchero

La paranza francese, il maialino castigliano, l’immancabile Guinnessirlandese e i piatti a base di latte cagliato dalla Finlandia alla RussiaMai come adesso il cibo diventa simbolo della naturache risorge dopo il gelo dell’inverno

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LA DOMENICA■ 42

DOMENICA 8 APRILE 2012

Da bambino leggeva un libroal giorno. La passione per il cinemaè venuta dopo, quando era postino e correva da una sala all’altra dalle tre del pomeriggio a mezzanotte. E ora

che ha cinquantacinqueanni, di cui trenta passatia fare il regista, rivela:“Da tempo dicoche il prossimofilm sarà l’ultimo

Così potrò finalmenteandare per funghie riparare cianfrusaglie”

PARIGI

Non s’è ancora sedutoche ha già acceso unasigaretta: «Non si spa-venti: è elettronica,

nessuno qui morirà. La nebbiolina chevede uscire è vapore acqueo. Surroga-to necessario ma non sufficiente: nem-meno l’ombra del primo tiro mattuti-no dopo il caffè. “Nessuno è perfet-to”...». Ecco il primo dei virgolettati dafilm celebri che continueranno a sro-tolarsi, alternandosi a battute di spiri-to e annotazioni lunari, nella conver-sazione fuori del mondo con Aki Kau-rismäki, cinquantacinque anni appe-na compiuti (il 4 aprile) e tanta voglia discherzare, dietro gli abituali impacci.La faccia rossa di timidezza e di birra, dicui affiora sul tavolino la bottiglia aglisgoccioli, il regista distillerà i suoi pen-sieri quasi sempre a occhi bassi e a den-ti stretti, come se parlasse a se stesso.

Ricorre l’amata-odiata Finlandia, ilPaese dove si sente un esule, anzi, unalieno sin da quando ci viveva e lavora-va a tempo pieno, prima di trovare al-tre patrie, magari provvisorie, comeadesso la Francia o il Portogallo, in cuitrascorre la maggior parte dell’anno vi-cino a Porto, circondato e rassicuratodalle vigne generose: «La Finlandia èuna patria fantasma, priva d’una sua

identità. Helsinki? Irriconoscibile.Possedeva la bellezza delle grandi cittàdell’Est: oggi sembra un albero di Na-tale, tutto luci al neon e pizzerie. Il pa-norama cosiddetto finnico è oggi unaselva d’insegne pubblicitarie: Nestlé,Nokia, Shell. È un Paese che si è vendu-to agli stranieri, come aveva profetiz-zato venticinque anni fa il mio Amleto,vano oppositore della chiusura di se-gherie e stabilimenti poco produttivi aprofitto di multinazionali specializza-te nella produzione di anatroccoli diplastica». E il cinema finlandese, chelei continua a alimentare, coprendo-ne, insieme a suo fratello Mika, quasiun quarto dell’intera produzione? «Tracinema finlandese e cinema italiano,io farei il cambio subito: soprattutto almattino, la sera non so più».

La fiera marginalità che fin dall’ini-zio ha contraddistinto Kaurismäki re-gista lo guida anche nella spigolosaquotidianità, dove ha l’aria d’esseresolo un ospite di passaggio della vitaordinaria, inafferrabile e astratto, ere-de dal vero del diletto Buster Keaton: «Ilmio modello nella superiore dignitàcon cui affronta il mondo avverso».L’acqua, per esempio, la grande nemi-ca: non a causa, come si sospetterebbe,della gradazione alcolica zero. «Vede lascritta in piccolo sull’etichetta?», addi-ta il cineasta, respingendo la mineraleitaliana da tempo inghiottita da unamultinazionale. «La colonizzazionecommerciale è indicata a caratteri mi-croscopici, ovviamente, ma in questoio sono un campione di pointillisme:nulla mi sfugge, a costo di trascorrereore nel fare la spesa, il che rende miamoglie furiosa. Ma con me ogni eti-chetta passa sotto la lente d’ingrandi-mento».

Anche il continente nordamericanoè diventato per lui una piccola etichet-ta, ogni volta da svergognare: «L’au-tunno scorso, a promuovere nei festi-val statunitensi Miracolo a Le Havrehomandato il mio attore André Wilms,perché mi rifiuto di mettere piede ne-gli Usa: non intendo piegarmi all’im-posizione di controlli antropometricidell’identità, lasciando le impronte di-gitali in balìa della loro polizia». Giàdieci anni fa, aveva declinato l’invitodel Festival di New York dopo che erastato rifiutato il visto ad Abbas Kiaro-stami: «Avevo risposto però con un bi-glietto: se il governo Bush non vuole sa-perne d’un iraniano, a maggior ragio-ne non avrà nulla da spartire con un

finlandese. Noi non abbiamo nemme-no il petrolio! E avevo aggiunto un po-st scriptum per Donald Rumsfeld, invi-tandolo piuttosto al viaggio inverso, araggiungermi nelle foreste per andareinsieme a raccogliere funghi.: “Questoforse la calmerà”». L’incetta di funghi ètra i suoi precetti distensivi più fre-quenti: «Vale anche per me. Da anniprometto che il prossimo film sarà l’ul-timo: dopo di che potrò finalmente se-guire con tranquillità l’epifania deifunghi e riparare vecchie cianfrusa-glie. Prima però ho da terminare la tri-logia portuale iniziata da Le Havre conun film da girare in Spagna e uno inGermania. E poi: sipario!»

Oltre ai funghi, la musica ha per luiun effetto calmante: «Mi piace tutta,dalla classica alle canzonette. Ho unaquantità sconsiderata di cassette e di-schi, che mi porto dietro in una cesta dilegno, anche se poi ascolto sempre glistessi, quelli che metto insieme, a ca-

saccio, nei film, occupandomi io stes-so di mixarli nella sala di montaggioche ho ricavato dalla mia casa a Karkki-la». La sua oasi musicale, celebrata perla pista di danza all’aperto dell’hotelOiva da lui diretto: «Adesso non più:troppo stress. Ma per anni, d’estate, èservito a diffondere, anche con dischida me prodotti, una rarità assoluta, dicui mi vanto d’essere promotore e teo-rico: il tango finlandese. Si meraviglia?Ho in Carlos Gardel un padre spiritua-le. Secondo studi recenti, era una ma-rinaio finlandese, che la famiglia dellamadre non ha mai voluto riconoscere.Per anni ha trascorso le notti in un giar-dino pubblico a cantare sommessa-mente sotto le finestre i refrain del suoPaese, prima che lo obbligassero aprendere il largo. La leggenda vuoleche le sue lacrime abbiano fatto cre-scere un’enorme quercia».

Rimasta senza tanghi la pista estivadell’hotel Oiva, l’altra “discoteca” diKaurismäki continua a essere la berli-na nordica fuori tempo massimo, ar-ruffato bazar a quattro ruote di cartac-ce, riviste, casse di birra, libri e monta-gnole delle melodie finlandesi preferi-te, quelle di esasperante sentimentali-smo di un amico crooner da pocoscomparso: «Le metto a tutto volumequando, con moglie e cane, attraversol’Europa. Per rassicurare entrambi,prima di salire e mettermi al volante,faccio loro una dimostrazione con ilmio alcoltest portatile, di ferro nero.Questo. Fa un po’ Kgb degli anni d’oro,no?».

Mai nessuna lamentela dai suoicompagni di viaggio? «Il miracolo del-la mia vita è stato incontrare mia mo-glie. È lei che dirige i cani nei miei film.Dopo tre giorni che scrivo una sceneg-giatura, lei bussa alla porta: “Aki, haipreso in considerazione una parte peril cane?”. Nel mio cinema si sono avvi-cendate cinque generazioni di qua-drupedi. Li adoro, perché non fannomai critiche e non si perdono in inutilianalisi». Come nascono i timidi, im-pacciati, quasi afasici personaggi diKaurismäki, che in trent’anni, da Lafiammiferaia a Ho affittato un killer, aNuvole in viaggio, L’uomo senza passa-to, hanno conquistato le platee? «Dauna passione confessabile: la lettera-tura. Ho sempre letto moltissimo, finda bambino: quasi un libro al giorno,come una macchinetta. A Karkkila hopiù di cinquemila volumi, molti rilettipiù volte. La mia vera mania, anche più

dei film, resta la lettura, da Kafka a Go-gol, al vostro Tomasi di Lampedusa: IlGattopardo è forse il miglior libro ditutti i tempi. La passione per il cinemaè cominciata più tardi, nel quartiereoperaio di Kurvi dove ho trascorso lagiovinezza: ero postino, mestiere chemi permetteva di assistere alle proie-zioni dalle tre del pomeriggio a mezza-notte. I quartieri periferici erano alloraricchi di sale: andavo dall’una all’altraspostandomi in tram. La mia preferitaera il Savoy, sede della cineteca: avevoil mio posto fisso, al centro della primafila, mi si riconosceva dai capelli lunghie lisci alla Jean-Pierre Léaud di cui finda ragazzo ero un fan assoluto».

Da spettatore è poi divenuto eser-cente: «Quando ho cominciato conmio fratello a rastrellare le sale di quar-tiere, per prima cosa le ho svuotate deidistributori di pop-corn, riempiendogli schermi di film di rara distribuzio-ne, come quelli dell’ancora sconosciu-to Almodóvar, aprendo poi sotto i bardel centro un altro cinema: quandoHelsinki ha esaurito le capacità di as-sorbimento cinematografico, ho cala-mitato le pellicole in Lapponia, al mioFestival del sole di mezzanotte». «Let’sGo» («Andiamo») è l’improvviso com-miato di Kaurismäki. È il virgolettatod’un altro film di leggenda: «Indovina-to? Mucchio selvaggio, l’inizio dellacarneficina».

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L’incontroMaestri

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Non metto piedenegli Usa: hannorifiutato Kiarostami,perché dovrebberovolere un finlandeseNoi non abbiamonemmenoil petrolio

Aki Kaurismäki

MARIO SERENELLINI

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 8 APRILE 2012

I saporiDi rito

è chi serve il capretto al forno e chi il pesce impanato, chi non prescinde dalle erbe amaree chi abbonda con l’uvetta nel pan dolce. La Pasqua degli altri assomma i sapori e i coloridel mondo, in nome di una celebrazione tutta da godere a tavola, laica o religiosa che sia.Questione di ingredienti. Che dall’Europa al Nuovo Mondo coincidono con i diversi pianidi lettura della Pasqua: testimonianze di resurrezione e miti di fertilità, bandiere della pri-mavera appena sbocciata e simboli del sacrificio più grande, il legame con la terra e la for-za generatrice del mare. A partire dalle uova: non c’è Pasqua che possa prescindere dal-l’emblema della vita in fieri all’interno del guscio, con il suo carico di valenze simboliche,come testimonia la novella secondo la quale Maria Maddalena, ammonita da Pietro al qua-le si era rivolta dopo la scoperta del sepolcro vuoto («Crederò a quanto dici solo se le uovadi quel cestello diverranno rosse»), le vide davvero arrossarsi e le portò all’imperatore Ti-berio, per testimoniare l’avvenuta resurrezione di Cristo.

Molto più delicata la questione dell’agnello, “sacrificale” per antonomasia. La Pasquaebraica si chiama Pesach (dal verbo ebraico pasoah, passare oltre, da cui anche il nome ita-liano) in memoria della notte in cui l’angelo della morte uccise tutti i primogeniti egiziani,“passando oltre” le case degli ebrei, marchiate preventivamente con sangue d’agnello. Daallora, tra i cibi rituali della Pesach figura la zampa d’agnello arrostita. Una tradizione re-ligioso-culinaria, estesa ai cristiani, che ha spopolato per molti anni, trasformando le va-rie ricette a base di agnelli e capretti in altrettanti “must” del pranzo pasquale. Per soddi-

Pasquaconchi

vuoi

CochinilloasadoSPAGNATipico della Pasquacastigliana, il maialino cottoal forno dopo averlocosparso di lardo(lavorato con sale,aglio e pepe nero) e adagiato su foglie di alloro

Friturede paysFRANCIALa versione francese del nostro fritto di paranza rallegra la tavola pasquale in alternativa alle carni tradizionali,soprattutto nelle regionimarittime

Stufatoalla GuinnessIRLANDALa bevandanazionale irlandese firma il piatto principe della Pasqua:controfiletto a tocchetti,cipolla, pancetta e un fiumebirra. Si servecon salsa di lamponi

MaghiritsaGRECIALa zuppa che chiude il sabato santo è una minestra di riso e cipolla con brodo d’agnello, le sue frattaglie, uovabattute con succo di limone e aneto

sfare le richieste del mercato si è creata una catena alimentare collegata agli allevamentidell’Est europeo concentrata a inizio primavera, con migliaia di ovini lattanti stipati e tra-sportati fin qui per diventare i nostri arrosti della festa. Proteste, sensibilizzazione al pro-blema e le proposte di ottimi piatti alternativi hanno fatto lentamente scendere i numeridelle macellazioni, che l’anno scorso si sono fermate a quota 711mila. Ancora tante, macinquantamila in meno. Per fortuna i dolci non richiedono altro sacrificio che la remise enforme alla fine dei festeggiamenti. Ricotta e latte cagliato firmano le ricette più golose,omaggio alla primavera e alla leggiadria dei suoi aromi. Questo infatti è il periodo in cui illatte — quello serio, munto da mucche, pecore e capre ben alimentate e libere dal giogodegli allevamenti intensivi — profuma della prima erba fresca, con la sua carica di micro-nutrienti. Un tesoro olfattivo e gustativo che si trasferisce pari pari nelsiero — dal cui riscaldamento si ottiene la ricotta — e nelle ca-gliate, primo passo della lavorazione dei formaggi, dove il gu-sto lievemente acidulo rinfresca i sentori grassosi del latte.

Visto che i giorni della Pasqua cattolica, ebraica e ortodossasono racchiusi nella settimana che corre fino a sabato prossimo,saltabeccate allegri tra una ricetta e l’altra, deliziandovi con i piat-ti rituali, che in questi giorni mettono allo stesso tavolo qualche mi-liardo di persone. Alla fine, una fetta di colomba, pastiera o cassatachiuderanno il cerchio. O meglio, l’ovale. Di cioccolato, of course.

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Il giorno che la Terra diventa ovaleLICIA GRANELLO

C’è il capretto al forno e il pesce impanato, la zuppa

d’agnello o il dolce di grano. E poi naturalmente le uovaIn questi giorni di celebrazioni cattoliche, ebraiche e ortodosse,che arrivano fino a sabato prossimo, ecco cosa si mangia nel mondo

C’

Repubblica Nazionale