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DOMENICA 20 FEBBRAIO/Numero 314 D omenica La di Repubblica spettacoli Apollo 2011, rinasce una stella ANGELO AQUARO e SMOKEY ROBINSON l’incontro LAURA PUTTI cultura Chandler, “Ecco come si scrive un noir” RAYMOND CHANDLER e GIANCARLO DE CATALDO l’immagine I giorni dell’ira e quelli della speranza MICHELE SMARGIASSI TORINO È il 20 febbraio 1861 e da due giorni Torino festeggia. C’è una luce diversa in città. Straordinarie luminarie ac- cendono piazza Carignano, via dell’Accademia delle Scienze, via Po, e soprattutto piazza Castello, regina della decorazione urbana particolarmente curata dal signor Ot- tino regista della scenografia. (segue nelle pagine successive) ILLUSTRAZIONE FOTOTECA STORICA ANDO GILARDI R ISORGIMENTO NELLO AJELLO N OSTRO I NVIATO Tra cronache minime e grande storia il racconto dei giorni straordinari in cui si fece l’Italia Sylvie Vartan, “Vi ricordate di me?” NEL DAL Repubblica Nazionale

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DOMENICA 20 FEBBRAIO/Numero 314

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Apollo 2011, rinasce una stellaANGELO AQUARO e SMOKEY ROBINSON

l’incontro

LAURA PUTTI

cultura

Chandler, “Ecco come si scrive un noir”RAYMOND CHANDLER e GIANCARLO DE CATALDO

l’immagine

I giorni dell’ira e quelli della speranzaMICHELE SMARGIASSI

TORINO

Èil 20 febbraio 1861 e da due giorni Torino festeggia. C’èuna luce diversa in città. Straordinarie luminarie ac-cendono piazza Carignano, via dell’Accademia delleScienze, via Po, e soprattutto piazza Castello, regina

della decorazione urbana particolarmente curata dal signor Ot-tino regista della scenografia.

(segue nelle pagine successive)

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NOSTRO INVIATO

Tra cronache minime e grande storiail racconto dei giorni straordinari

in cui si fece l’ItaliaSylvie Vartan, “Vi ricordate di me?”

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Repubblica Nazionale

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

la copertinaCronache risorgimentali

“Soldati! Gaeta è caduta!”. È il 20 febbraio 1861: i tricolorisventolano in città, le luminarie si accendono e nelle strade

non si parla più il dialetto. Il nostro inviatonel Risorgimento rilegge i giornali dell’epoca

e, tra piccola e grande storia, racconta i giorniincredibili che porteranno all’Unità del Regno

(segue dalla copertina)

Appare più imponente del solito, fra il gran luccichioche gli dà risalto e i fuochi d’artificio che ne fanno ba-lenare ogni angolo, lo scenario della Gran Madre.Molti conoscono, sia pure solo di nome, l’artista-pi-rotecnico che ha preparato lo spettacolo: si chiamaArdenti. Presenzia a queste scene, rallegrate da mol-

te musiche, un gruppo di Altezze Reali. Comprende il principe Um-berto di Piemonte, Amedeo Duca d’Aosta, madama Maria Pia: untrio di teste coronate. Sventolano in tutta Torino i tricolori che giàannunciano l’Italia risorta. Più per una mutua convenzione che perun impulso patriottico di circostanza, il dialetto piemontese sembrarisuonare, nelle strade, meno insistente del solito. Si parla di più initaliano. La musica della Guardia Nazionale di Torino, diretta dalmaestro Demarchi, con i suoi cento coristi si fa applaudire in piazzaCastello da una grande folla. Le tre Altezze Reali partecipano allagioia popolare prima da un balcone del Palazzo del Ministero degliAffari Esteri, poi tra la folla in carrozze scoperte. Dovrebbe esserci an-che la Duchessa di Genova, ma non ha potuto, per indisposizione.

«SVENTOLA LA CROCE DI SAVOIA!»È così che Torino, cuore dell’Italia che sta nascendo, celebra una

notizia cruciale che arriva dal sud: la capitolazione di Gaeta, ultimocaposaldo del regno borbonico. «Soldati! Gaeta è caduta! Il vessilloitaliano e la vittrice croce di Savoia sventolano sulla torre d’Orlando.Quanto io presagiva, voi compieste il 13 del corrente mese. Chi co-manda soldati quali voi siete, può farsi sicuramente profeta di vitto-rie. Voi riduceste in 90 giorni una piazza celebre per sostenuti asse-dii ed accresciute difese. La storia dirà le fatiche e i disagi che patiste,l’abnegazione, la costanza ed il valore che dimostraste. Il Re e la Pa-tria applaudono il vostro trionfo, il Re e la Patria vi ringraziano». Co-sì comincia il messaggio con il quale il generale Enrico Cialdini, co-mandante in capo dell’esercito italiano, annuncia la vittoria: il regnodelle Due Sicilie ormai non c’è più, rimangono solo da conquistarela cittadella di Messina e la fortezza di Civitella del Tronto che dispe-ratamente resistono. La vittoria è a un passo: ai soldati che hannopartecipato all’impresa il generale concede due mesi di congedo,dopodichè «potranno essere richiamati alle armi». Non si sa mai.

LE POLEMICHE SUI GIORNALI

L’annunzio da Gaeta è solo la conferma di voci che passano di boc-ca in bocca. Torino sapeva già. E non tutti — è ovvio — esultano. Pro-prio qui viene sequestrato un foglio clericale intitolato Il Campani-le, che della resa di Gaeta fornisce una descrizione a suo dire fedele,con epiteti molto severi rivolti ai vincitori, quasi fossero autenticisanguinari. Vi si citano, come una sopraffazione inferta ai vinti, cer-ti brani del «comunicato di capitolazione», stipulato fra il coman-dante delle truppe di re Vittorio e il governatore della fortezza cara aFrancesco II. Le frasi che richiamano il biasimo del foglio confessio-nale sono quelle in cui si stabilisce che, dopo la firma della capitola-zione «non deve restare nella Piazza gaetana nessuna mina carica»

e si preannunzia che «se si trovassero distrutte a bella posta armi ap-partenenti all’esercito di Sua Maestà Vittorio Emanuele», i respon-sabili «sarebbero immediatamente fucilati». Sarà pure duro ma è in-dispensabile capire che una capitolazione non è uno scherzo.

Ma non sono solo i clericali a stare all’opposizione. C’è anche chinutre dubbi su casa Savoia: il re sarà all’altezza del compito che l’a-spetta? Il Giornale di Verona, critica il monarca sabaudo per il fattodi trovarsi alla Scala di Milano in pieno veglione di Carnevale quan-do viene raggiunto dal dispaccio sulla grande vittoria di Gaeta. «Im-maginatevi», così scrive il quotidiano veneto, «la confusione ed il fra-casso». La polemica si accende. Il Monitore toscano gli replica sprez-zante: «Ci si domanda se la confusione non fosse piuttosto a Vero-na». Il conflitto inter-italiano straripa nella stampa.

E ORA TOCCA A ROMA

Vittorio Emanuele viene descritto come fosse circondato daun’aurea di affabilità cordiale, quasi si trattasse di un amabile«bonhomme» assiso sul trono. C’è chi racconta di un’avventura dalui vissuta a Milano. Sua Maestà rasenta in carrozza il ponte di PortaVenezia, quando il cavallo d’un lanciere, spaventato dagli osannadella folla, s’impenna, scalcia e manda in frantumi un fanale dellavettura. Nel trambusto due donne cadono a terra malconce. Balza-to giù dal veicolo, il sovrano rialza e rincuora le popolane, sue suddi-te nuove di zecca. L’aneddoto, oltre che ammirativo, è edificante.

Più secche le notizie che filtrano dall’entourage di Camillo Bensodi Cavour. Si cita di un messaggio che il Conte ha inviato al baroneBettino Ricasoli, a Firenze: «Dopo Gaeta», vi si legge, «Roma deve es-sere la prima stagione verso la quale rivolgere i nostri passi». Nel ri-ferire questo proposito cavouriano, il periodico Italia e Roma, ar-dentemente unitario e anti-vaticano, ricorda come esso sia in lineacon il programma espresso con insolito calore emozionale dallostesso conte-presidente l’11 ottobre dell’anno scorso, il 1860: «Noivogliamo fare della Città Eterna, in cui 25 secoli deposero i loro mo-

numenti di gloria, la splendidaCapitale del nuovo Regno Italia-no».

Gaeta è caduta, ma il Piemonte —avanguardia d’Italia — è ancora in guer-ra. Nelle strade, nelle case, negli uffici, ilconflitto oscilla fra le imperative ragioni dellascienza militare e la vita quotidiana, con i suoicorollari insopprimibili. Mentre sul Giornale mi-litare ufficialesi discute dei vantaggi strategicamente decisivi intro-dotti dall’adozione della più aggiornata «artiglieria rigata» in luogodi quella «liscia» di stampo tradizionale, ecco campeggiare, nellaGazzetta Ufficiale del Regno, una réclame, nella quale si dà notizia

dell’apertura delle procedure d’appalto perla fornitura alle Forze armate di un’adeguata

«provvista di funicelle, spago, cordame e nastri difilo, ascendente nel complesso a lire 21,50». Gli «aspi-

ranti all’impresa» potranno presentarsi nella Sala degliIncanti presso il Ministero della Guerra, depositando «bi-

glietti della Banca Nazionale o titoli del Debito Pubblico per un va-lore pari a un decimo dell’ammontare dell’impresa».

«MIO MARITO? È SCEMO DI MENTE!»Si combatte aspramente fra italiani sul confine tra Stato e Stato,

ma non cessano, in ogni comunità, all’interno degli alloggi e sul ci-glio di pianerottoli e parapetti, assedi, sortite e scontri animosi tra

Quando Torinosi svegliò italiana

NELLO AJELLO

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33 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

coniugi, casigliani e consanguinei. Ecco ad esempio che un quoti-diano pubblica una lettera così concepita: «La sottoscritta RiccaGioanna, nata Bellardi, in rettifica all’avviso da voi inserito il 4 feb-braio corrente a pagina tre, rende noto che il di lei marito, Ricca Mar-tino, di Ivrea, da cui trovasi essa da oltre tre anni legalmente separa-ta di talamo e d’abitazione, è scemo di mente ed affatto decotto. Per-ciò la medesima dichiara che non intende assumere in sé obbliga-zioni per i debiti o contratti di qualsiasi natura, riguardanti il sud-detto Ricca».

C’è, insomma, un’eterna vita domestica a tal punto abbagliatadalle proprie pulsioni quotidiane da affiancarsi, e a volte sovrappor-si alla storia con l’iniziale maiuscola che si va compiendo. Non si sase ciò sia un paradosso o una risorsa.

IL RE IN MEZZO AI SALAMI

Sul settimanale di Firen-ze, L’Arlecchino, si raccontache tale Lapo Baldassarre,pizzicagnolo con negozio in

via dei Calzaioli, ha collocatoun busto in gesso di Re Vittorio

Emanuele su uno scaffale al cen-tro di una mostra di salami. «La scena rappresenta», ha dichiarato,«il Sovrano in mezzo ai sudditi». La satira politica, nell’Italia che staper nascere, è anche lei in fasce. Crescerà. Cos’altro potrebbe fare?

(1 - continua)

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IL VIAGGIO

Comincia oggi

in queste pagine,

e proseguirà in quelle di R2,

il viaggio del nostro inviato

nel Risorgimento

Nello Ajello, attraverso

i giornali dell’epoca,

racconterà

la vita quotidiana

e gli avvenimenti storici

delle settimane

che precedono

la nascita del Regno d’Italia

(Ricerca iconografica

a cura di Raffaella

De Santis. In copertina,

cartoline illustrate

in occasione

del cinquantesimo

anniversario

del Regno d’Italia)

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NAPOLI. 19 febbraio 1861A Torino si è riunito il Parlamento del nuovo

Regno. Lo annuncia anche il giornale

partenopeo. Dove, tra l’altro, si pubblicizza

l’olio di fegato di merluzzo raccomandato

dai medici parigini per “malattie di petto,

bronchiti, scrofole, temperamenti linfatici”

FIRENZE. 20 febbraio 1861La moda garibaldina porta in auge cappe

e mantelli. Nella “Fabbrica centrale

toscana”, a due passi dal Duomo,

si possono acquistare mantelli impermeabili

arrivati direttamente dall’America

Il prezzo varia dai 18 ai 40 franchi

TORINO. 17 febbraio 1861Vittorio Emanuele amava fumare i sigari

In quei giorni a Torino circolavano

le sigarette Asthmes che si credeva

aiutassero a respirare meglio. Si potevano

trovare nella farmacia del dottor Mondo,

come da pubblicità su L’Opinione di Torino

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L’apocalisse del secolo ventunesi-mo è fredda, umida, battuta dalvento. Sagome umane, nel vuototroppo vuoto di un orizzonte fu-moso, sembrano non cercare névolere più alcunché. Forse l’infer-

no è proprio questo: un luogo dove tutto è già ac-caduto, irreparabilmente. Paolo Pellegrin resta insilenzio mentre sfoglio l’album dei suoi ultimi die-ci anni di fotografo: il fotoreporter italiano oggi for-se più apprezzato nel mondo. Non è convinto diqueste impressioni: «Ci sono gli uomini, le donne,non è ancora finito tutto finché ci sono uomini edonne». È appena tornato dall’Egitto, dove ha fo-tografato la rivolta per Newsweek, e forse è questoche lo rende oggi più ottimista: «una cosa straor-dinaria, enorme, mi auguro che sia un inizio, oravorrei andare in Iran e in tutti i luoghi dove possaraccontare fini di regimi e inizi di riscatto».

Se tra quei ragazzi del Cairo è cominciata unanuova storia, forse ha fatto bene Pellegrin a but-tarlo fuori proprio ora il primo ricapitolo del mon-do che ha visto e fatto vedere negli ultimi dieci an-ni, che sono anche i primi dieci di un millennio.Forse si è liberato, così, del peso di un decenniospietato, il decennio del fuoco dal cielo. «Non èun’antologia di cose fatte, ho cercato un filo». Nonè un portfolio infatti, è una visione del mondo. Nonvoleva neppure metterci le didascalie, la divisionein capitoli. Dies Irae, il titolo gliel’ha suggerito Ro-berto Koch, fotografo ed editore di Contrasto, e luil’ha accettato dopo un’esitazione. Perché PaoloPellegrin si sente, è un umanista, e il solvet saecu-lum in favilladel pianeta non gli è piaciuto proprioraccontarlo così; ma è anche un fotografo, e sa cheera suo dovere farlo. Romano, quarantasei anni, fi-glio di architetti, padre da poco più di un anno,asceso all’olimpo dell’agenzia Magnum nel 2001dopo una lunga esperienza con i francesi di Vu. Eral’anno delle Torri Gemelle, e da allora è partito al-l’inseguimento di tutti i frammenti di Armaged-don, di tutti gli acconti di apocalisse offerti dallacronaca alla storia: Iran, Katrina, Libano, Tsuna-mi, Gaza, Haiti, Cambogia, Kosovo...

Fosse nato una o due generazioni prima, Pelle-grin sarebbe stato un «fotografo di guerra» comeCapa, come Griffiths, come Burrows, come Mc-Cullin. Non ne esistono più, perché non esistonopiù le guerre. Quelle che si chiamano ancora così,per inerzia, sono piuttosto le catastrofi locali diuno stato di entropia politica globale. Naturali oantropiche, è perfino difficile distinguere una ca-tastrofe dall’altra, quando ci si arriva dentro, tan-to lo scenario è sempre lo stesso: deserto freddo,disperazione, polvere, corpi, fango, esseri umaniche erano vittime prima e lo sono ancora di più do-

l’immagine2001-2011

Il ventunesimo secolo cominciò in settembre, con le Torri gemellePoi l’Iraq, Katrina, lo Tsunami, Gaza, Haiti... Paolo Pellegrin,il fotoreporter italiano oggi forse più apprezzato nel mondo,ha immortalato i frammenti dell’inferno e li ha chiusi in un libro:“Dies Irae”. Ora, appena rientrato dal nuovo Egitto, si auguradi poter voltare pagina “e raccontare solo i giorni della speranza”

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

MICHELE SMARGIASSI

I dieci anni dell’apocalisse

Dall’alto. Kosovo 2000, donne serbe piangonol’uccisione di un uomo. Indonesia 2005:una sopravvissuta allo tsunami. Iraq 2003:una donna osserva alcuni militari trascinareil cadavere di un combattente

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

po. Pochissime le uniformi regolari in queste im-magini. Anche là dove si combatte con le pallotto-le «il fronte non c’è, la prima linea non c’è, lo spa-zio è caotico, il pericolo è ovunque e in nessun po-sto». È un missile che ti esplode a pochi metri dalviso mentre fotografi la scena di un attentato: gli ècapitato anche questo, a Tiro, Libano del sud: èfuggito, è tornato indietro, ha fotografato, tantoche senso ha correre lontano, lontano da dove, dacosa? «Tornai indietro senza sapere cosa dovevofare, solo perché non accettavo di scappare senzaaver dato un senso».

Pellegrin è un fotografo dell’era dell’incertezza.La fiducia in sé che possedeva la fotografia concer-ned del secolo scorso è svanita. Pellegrin non foto-grafa straight, diretto, geometrico come Cartier-Bresson. Non va in cerca della bellezza perduta co-me Salgado che corre in direzione opposta alla suarisalendo le Scritture fino alla Genesi. Ha imparatoqualcosa sul modo di raccontare dai suoi maestri,il Koudelka di Caos, il Peress di Telex Iran: le sue in-quadrature si sbilanciano, tremano come sottol’impatto di una granata, il fuoco si sfuoca, l’oriz-zonte si piega; il fotografo fotografa il proprio limi-te, la propria incapacità di capire tutto, «l’unica co-sa che riesci a controllare è la tua disponibilità ametterti in gioco», accetta di essere un testimonedebole, un raccoglitore dei reperti tra le maceriedegli eventi, che offre ai lettori così come li ha tro-vati, prelevati, rimessi in qualche forma, così comeli ha confusamente capiti, chiedendo aiuto a loroper capirne di più. Ma non sprofonda nell’abissocome il comandante Kurtz di Cuore di tenebra, noncede all’orrore, non diventa «amico dell’orrore».Pellegrin legge e ama il McCarthy di La strada, ro-manzo apocalittico ma illuminato da un lampo disperanza proprio nelle ultime righe. «C’è sempreda qualche parte un desiderio di sopravvivere, unavolontà di riscatto. La pietra d’angolo a cui m’ap-poggio è raccontare gli uomini. Dovunque sia an-dato, ho spesso incontrato simultaneamente lafaccia peggiore e la faccia migliore degli uomini».

In particolare, nel volto delle donne. Che noncombattono: ma sono il campo di combattimen-to, come i loro corpi, i loro gesti, le loro lacrime mo-strano all’obiettivo. Sorrette da altre donne, o solein strade troppo deserte, circondate dal vuoto, losguardo in quel vuoto, come temendo nuove e an-cora peggiori catastrofi: quantus tremor est futu-rus... È l’interminabile «giorno dell’ira», giudiziouniversale affollato di dannati ma senza ultimogiudice. Capa, stanco di esplosioni, sognava di es-sere «un fotografo di guerra disoccupato». Pelle-grin ha chiuso un Dies Irae lungo dieci anni fra duecopertine, sognando forse di diventare un Tom-maso da Celano disoccupato. In piazza Tahrir spe-ra di aver trovato l’incipit di un altro, diverso libro.

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IL LIBRO E LA MOSTRA

Dies Irae (Contrasto, 24x30 cm.,

35 euro) è la prima grande pubblicazione

restrospettiva dedicata al lavoro di Paolo

Pellegrin (membro di Magnum Photos

dal 2001) con immagini che vanno

dalla Cambogia fino all’Iran passando

per la guerra in Iraq, l’uragano Katrina,

il colera ad Haiti. Il volume accompagna

la mostra che con lo stesso titolo

è in programma fino al 15 maggio

presso la Fondazione Forma

per la Fotografia di Milano

Dall’alto. Kosovo 2000: i funerali di un uomoucciso da una mina. Libano 2006: civili in fugaverso Tiro durante i raid israeliani. Gaza 2004:un’operazione delle Israel Defence Forcesin una casa palestinese

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

NIl romanzo noir dev’essere motivato in maniera credibile sia

come situazione originale, sia come rivelazione finale. Deve esse-re costituito di azioni plausibili compiute da gente plausibile in cir-costanze plausibili, tenendo presente che la plausibilità è in largaparte generata dallo stile. Questo mette al riparo da quasi tutti i fi-nali artificiosi e dalle storie cosiddette «a circuito chiuso», nellequali il personaggio meno probabile è calato di peso nel ruolo delcriminale senza però convincere nessuno. Mette anche al riparodalle elaborate mise-en-scène come quella, per esempio, di Assas-sinio sull’Orient Express di Agatha Christie, in cui l’intera ambien-tazione del delitto produce una serie di eventi così incongrui chenessuno ci crede davvero.

La storia noir dev’essere tecnicamente solida per quanto attie-ne ai metodi di omicidio e di investigazione. Niente veleni fantasio-si o effetti indesiderati quali morte per dosi sbagliate ecc. Niente si-lenziatori alle pistole (di solito non funzionano, perché non c’è con-tinuità tra la camera di scoppio e la canna), niente serpenti che si ar-rampicano sui cordoni dei campanelli. Se l’investigatore è un poli-ziotto navigato deve comportarsi come tale e avere le qualità men-tali e fisiche per far fronte al proprio lavoro. Se è un privato o undilettante deve saperne abbastanza su come funzionano le cose nel-la polizia per non rendersi ridicolo. La storia noir deve trasporre sucarta il livello culturale dei propri lettori.

Deve essere realistica in fatto di personaggi, atmosfera e am-bientazioni. Deve parlare di gente vera in un mondo vero. Poi ovvia-mente nella storia noir c’è anche l’elemento fantastico. Va oltre ilcampo delle probabilità fondendo insieme spazio e tempo. Perciòpiù è esagerata la premessa, più letterale ed esatto dev’essere il pro-

cesso che essa produce. Davvero pochi scrittori di noir hanno talen-to nel delineare i personaggi, ma questo non significa che quel ta-lento sia superfluo. Un personaggio può essere creato in vari modi:secondo il metodo soggettivo, che prevede di entrare nei pensieri enelle emozioni del personaggio; secondo il metodo oggettivo odrammatico, come a teatro, attraverso l’aspetto, i comportamenti,i discorsi e le azioni del personaggio; infine raccontando la storia delcaso mediante il sistema che adesso è chiamato documentaristico.Quest’ultimo è particolarmente calzante per il genere di romanzonoir che vuole essere aderente ai fatti e non emotivo, come fosse unrapporto ufficiale.

La storia noir deve avere un valore di fondo, a parte l’elemen-to misterioso. Quest’idea suonerà rivoluzionaria per alcuni deiclassicisti e parecchio spiacevole per tutti gli scrittori di second’or-dine. Malgrado ciò, ormai è affermata. Tutti i noir fatti bene ven-gono riletti, spesso molte volte. Chiaramente questo non acca-drebbe se l’enigma fosse l’unico motivo di interesse per il lettore. Ilnoir deve avere colore, slancio e deve essere graffiante. Ci vuole abi-lità compositiva per compensare uno stile piatto, anche se questotrucco è stato usato di tanto in tanto, soprattutto in Inghilterra.

La struttura della storia noir deve essere abbastanza sempli-ce nella sua essenza da poter essere spiegata facilmente quando

RAYMOND CHANDLER

Così si scrive un noir

el 1949, Raymond Chandler annotava que-sti “Appunti sul noir”. Sono le dieci regoleche il maestro del genere considerava fon-damentali per scrivere il romanzo perfetto.

Un poliziesco degno di questo nome deve essere innanzitutto credibile,sufficientemente semplice e assolutamente onesto, nel senso che può fuorviareil lettore ma “senza mai colpirlo sotto la cintura”. Parola di un maestro

del genere, l’inventore di Marlowe, che nel 1949 elencava le dieci regole che un buon giallista non puòpermettersi di tradire.Ora questi appunti inediti vengono pubblicati insieme a un’antologia di letteree riflessioni ad amici sul mestiere dello scrittore. Tradotte da Sandro Veronesi e illustrate da Igort

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

viene il momento. Il finale ideale è quello in cui tutto si fa chiaro inuna breve sequenza di azioni. Idee così felici sono rare e uno scrit-tore che riesce a concretizzarle anche solo una volta è degno di lo-de. La spiegazione non deve essere veloce (a parte al cinema) espesso non può esserlo. La cosa importante è che deve essere inte-ressante, deve essere qualcosa che il lettore è ansioso di sentire,non una nuova storia con una nuova e irriconoscibile serie di per-sonaggi buttati dentro quasi a voler giustificare una trama che faacqua. Non c’è niente di più difficile da gestire che lo scioglimentodi un enigma. Se dici abbastanza da accontentare il lettore tonto,avrai di sicuro detto abbastanza da irritare quello intelligente. E quiarriviamo a un dilemma di base dello scrivere noir, il fatto che unnoir deve attrarre solo una parte del pubblico di lettori e non puòattrarli tutti con le stesse trovate. Fin dai primi tempi dei romanzia triplo intreccio mai nessun tipo di narrativa è stato letto da tantigeneri diversi di persone. I semiletterati non leggono Flaubert e gliintellettuali di norma non leggono i mammozzoni contemporaneie gonfiati di storia spacciati per romanzi storici. Ma tutti leggonoun noir di tanto in tanto, e un numero sorprendente di persone nonlegge praticamente altro. Gestire la spiegazione vis-à-vis con que-sto pubblico così diversamente educato è un problema quasi irri-solvibile. Se è possibile, a parte per gli aficionados a cui va bene tut-to, la soluzione migliore è quella di Hollywood: «Nessuna spiega-zione se non a caldo, e dopo quella basta».

La soluzione del mistero deve essere in grado di sfuggire al let-tore ragionevolmente intelligente. Questo, e il problema dell’one-stà, sono i due elementi più sconcertanti della letteratura noir. Al-cuni tra i migliori romanzi noir non riescono a sfuggire fino in fon-do a un lettore intelligente (quelli di Austin Freeman ad esempio).Ma un conto è intuire chi è il colpevole e ben altro è essere in grado

di giustificare questa intuizione col ragionamento. Dal momentoche ci sono vari tipi di menti fra i lettori ce ne saranno alcuni che in-dovineranno una soluzione nascosta con intelligenza e altri cheverranno fregati dalla trama più semplice. Ma ingannare fino infondo un vero appassionato di letteratura noir non è necessario enemmeno auspicabile. Un mistero intuito per metà è più coinvol-gente di uno in cui il lettore procede totalmente al buio. Aver pe-netrato almeno un po’ la nebbia del mistero accresce l’autostimadel lettore. L’essenziale è che alla fine rimanga un po’ di nebbia chelo scrittore possa soffiare via.

La soluzione, una volta rivelata, deve sembrare l’unica possi-bile. Almeno la metà dei romanzi noir che vengono pubblicati vio-lano questa regola.

Il romanzo noir non deve provare a dare tutto e subito. Se sitratta di un mistero che ha luogo in un’atmosfera mentale fredda,non può essere anche una storia di violenza o di sentimenti esa-sperati. Il terrore distrugge il ragionamento logico. Se la storiaesplora le complesse sollecitazioni psicologiche che spingono unapersona a commettere un omicidio, non può anche contenere l’a-nalisi obiettiva dell’investigatore esperto. L’investigatore non puòessere l’eroe e la minaccia allo stesso tempo, così come l’assassino

non può essere una vittima tormentata dalle circostanze e con-temporaneamente anche il malvagio senza pietà.

Nel romanzo noir il criminale deve essere punito, in un mo-do o nell’altro, e non necessariamente in tribunale. Contraria-mente a quanto si pensa ciò non ha niente a che fare con il morali-smo. È parte della logica del genere letterario. Senza questo la sto-ria è come un accordo musicale che resta incompiuto. Lascia unsenso di irritazione.

Il noir deve essere ragionevolmente onesto verso il lettore.Il proposito è sempre questo, ma le sue implicazioni raramentevengono capite fino in fondo. Che significa essere onesti in questocaso? Non basta dichiarare i fatti. I fatti devono essere dichiarati inmodo onesto e devono essere tali da poterci ragionare sopra. Nonsolo gli indizi non devono essere tenuti nascosti al lettore (i più im-portanti come i meno), ma non devono nemmeno essere defor-mati da un’enfasi fuorviante. I fatti irrilevanti non vanno presen-tati in modo tale da farli sembrare eccezionali. A un certo punto del-la narrazione il lettore deve essere in grado, se è abbastanza per-spicace, di chiudere il libro e intuire quale sarà l’essenza del finale.Ma questo comporta ben più del semplice controllo sui fatti. Com-porta il fatto che la storia deve mettere il lettore ordinario in gradodi trarre le giuste conclusioni. Non si può pretendere che il lettoresia dotato di una rara erudizione né di una memoria abnorme perdettagli minimi. Perché se si richiedesse questo il lettore nonavrebbe gli strumenti per capire la soluzione, semplicemente la ri-ceverebbe impacchettata senza poterla aprire. Immergere l’indi-zio — chiave in una pozzanghera di parole è un trucco accettabilea patto che l’andamento della storia abbia creato abbastanza ten-sione da mettere ben in guardia il lettore.

A questo punto sembra evidente che il problema della disone-stà è una questione di intenzione e di enfasi. Il lettore si aspetta divenire fregato, ma non certo da un’inezia. Si aspetta di fraintende-re un indizio, ma non perché non è un esperto di chimica, geolo-gia, biologia, patologia, metallurgia e un’altra dozzina di scienzeallo stesso tempo. Si aspetta di dimenticare qualche dettaglio chesuccessivamente si rivelerà importante, ma non se il prezzo da pa-gare è doversi ricordare mille cose inutili che non hanno impor-tanza. E se la prova regina si basa su conoscenze scientifiche, il let-tore si aspetta che la scoperta del colpevole sia pur sempre alla por-tata di una normale mente attenta, anche se per eliminarlo occor-re uno specialista. Alcuni trucchi risultano offensivi perché sonosfacciati, e anche perché tolti quelli non resta altro. Arriva sempreun momento in cui l’investigatore è giunto alle sue conclusioni enon ne informa il lettore, quando smette (e molte vecchie volpi delmestiere se ne accorgono subito) di colpo di pensare ad alta voce econ gentilezza chiude la porta della sua mente in faccia al lettore.Ai tempi in cui il pubblico era ancora innocente e bisognava pren-derlo a pesci in faccia perché si rendesse conto che c’era qualcosache non tornava, l’investigatore era solito dire: «Bene, ci sono i fat-ti. Se li guardate con minuziosa attenzione sono certo che trovere-te molti modi di spiegare questi strani eventi». Al giorno d’oggi vie-ne fatto con meno sfoggio, ma l’effetto di una porta che si chiuderimane intatto. Per finire bisognerebbe aggiungere che il proble-ma del gioco pulito in un noir è puramente professionale e artisti-co e non ha nulla a che vedere con la moralità. Il punto è se il letto-re viene fuorviato entro i limiti delle regole del gioco, o se viene col-pito sotto la cintura. La perfezione è impossibile. La totale fran-chezza distruggerebbe il noir. Migliore è lo scrittore, più avanti sipotrà spingere con la verità e più astutamente potrà mascherareciò che non può essere detto. E non solo questo gioco di abilità non

prevede regole morali, ma le regole da seguire cambiano conti-nuamente. Devono farlo. Più passano gli anni più il lettore si fa ac-corto. Può essere che ai tempi di Sherlock Holmes se il maggiordo-mo si aggirava furtivamente fuori dalla finestra della biblioteca conuno scialle in testa diventava un sospettato. Oggi il corso delle co-se lo eliminerebbe istantaneamente da ogni sospetto. Non soloperché il lettore di oggi si rifiuta di considerare un tale fuoco fatuocome un dettaglio rilevante, ma perché egli è costantemente al-l’erta per cogliere gli sforzi dell’autore a far volgere la sua attenzio-ne verso le cose sbagliate e a distoglierla da quelle giuste. Tutto ciòche passa in secondo piano è sospetto, ogni personaggio che nonè tra i sospettati è sospetto e quello che fa arricciare i baffi all’inve-stigatore e lo rende serio in volto è considerato senza importanza,dal lettore attento. Spesso allo scrittore di noir sembra che l’unicometodo ragionevolmente onesto ed efficace per fregare il lettorerimanga fargli allenare la mente sul problema sbagliato, per cosìdire, per metterlo in grado di risolvere un mistero (dal momentoche è quasi sicuro di risolvere qualcosa) che lo dirotterà su una stra-da laterale, perché riguarda solo tangenzialmente il problema cen-trale. E anche per questo bisogna barare, di tanto in tanto.

(Raymond Chandler™ Copyright © 2011 Raymond ChandlerLimited. All rights reserved. Traduzione di Sandro Veronesi)

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IL LIBRO

Parola di Chandler(Fandango, 344 pagine,

22 euro) con la traduzione

di Sandro Veronesi

e i disegni di Igort sarà

in libreria dal 24 febbraio

Un americano quasi tranquilloGIANCARLO DE CATALDO

L’evento più “nero” della vita di Raymond Chandler è un grottesco tentato suici-dio, «il patetico spettacolino da due soldi» inscenato dopo la morte dell’amataCissy, l’adorata moglie-madre di vent’anni più grande di lui, sposata nel 1924

(quando Chandler ne aveva già trentotto). Per il resto, la sua vita non si può certo defini-re eroica, e appare ben illustrata dalle fotografie che lo ritraggono all’epoca della matu-rità: un tipo appena un po’ “english”, con capelli corti, lisci e brizzolati, occhialetti da pro-fessore, baffi sottili, pipa, marsina e papillon. Un americano tranquillo, diventato scrit-tore a quarantacinque anni dopo una esperienza da aspirante giornalista fra Europa eAmerica, una guerra mondiale vissuta nelle retrovie, una carriera da dirigente di mediolivello in un consorzio petrolifero. Da un signore come lui ci si aspetterebbero arsenicoe vecchi merletti, e invece Chandler irrompe con una potenza devastante sulla scena let-teraria e ne cambia i destini.

Certo, lo Zeitgeistgli dà una mano non indifferente. Sono gli anni in cui l’America si staancora leccando le ferite dopo il crollo di Wall Street del ’29. Una nuova classe crimina-le, nata con il proibizionismo, ossessiona i sogni di una borghesia che si scopre instabi-le, impotente a fronteggiare le mene di avidi speculatori e politicanti corrotti, improvvi-samente delusa dal quel “sogno americano” nel quale tanto aveva creduto. Il delitto ab-bandona i salotti e torna alla strada, sua sede naturale. Il “noir” offre una cifra perfettaper raccontare il disordine della contemporaneità. Chandler crea Philip Marlowe, ar-chetipo di tutti gli “occhi privati” di là da venire; Bogart gli presta il suo tratto fra il vitreo,il nevrotico e il romantico. Ne deriva una figura mitica che il suo autore definirà, di volta

in volta, con la lucida consapevolezza che lo contraddistingue quando si versa in mate-ria di arte, cultura e spettacolo, un nuovo don Chisciotte o un povero fallito. Fallito nelsenso che è destinato a fallire l’obbiettivo cardine del tempo — arricchirsi — perché trop-po affezionato al suo personalissimo, inattaccabile codice morale. All’affilatezza retori-ca, sorretta da un senso dell’umorismo spesso graffiante, e mai banale, tutte qualità del-le quali gli scritti chandleriani traboccano, fa da contrappunto una singolare indifferen-za nei confronti delle ragioni politiche, e persino sociali, della sua narrativa. Chandler, inopposizione al milieu rosso che domina Hollywood, se non un conservatore dichiarato,è quanto meno allergico alle invasioni di campo. Nelle sue lettere è sarcastico con chi loconsidera «all’altezza» di scrivere un romanzo «proletario», sferzante nei riguardi delleriviste militanti, ostile alle «idee», perché, annota, «più ragioni, meno crei». Da qui l’am-bivalenza del rapporto di amore-odio con Hollywood: definito, con paradossale affetto,il luogo nel quale «lo scrittore si rivela nella sua definitiva corruzione», ossia scrive sottopadrone, ma per sua libera scelta, come d’altronde è sempre toccato a ogni artista, fosseil committente la Chiesa o la «saggezza commerciale di qualche editore». Quando lo ono-riamo come maestro del noir, vogliamo dire che, anche grazie a lui, il “noir” è diventatoun modo eccellente per raccontare il lato oscuro della società. Ma Chandler scriveva d’al-tro. Chandler, nella sua California grigia e senza tempo, fra gangster sanguinari, amicitraditori e rosse incendiarie dal cuore di pietra, esplorava i territori impervi di quel maldi vivere che appartiene a ogni essere umano.

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Count Basie. CharlieParker. Miles Davis,Louis Armstrong,Aretha Franklin,James BrownIl meglio del blues,del jazz, del funkydel soul e dell’hip hopè da qui che è partitoOra lo storico teatrodi New York,simbolo della culturaafro-americana,dopo un lungo periododi crisi di ideepassa al contrattaccoE con una bella mostrae grandi concertisfida la concorrenzadi Brooklyne dei reality show

SPETTACOLI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

NEW YORK

a qui a tremesi» tuonòJohn G. Taylor,il presidente dell’Associa-zione Proprietari di Harlem,«l’invasione dei neri sarà unacosa del passato». Era il 7 apriledel 1911 e la «Negro Invasion» —come titolava l’Harlem HomeNews — stava invece appena co-minciando. Cent’anni dopo i cori ditutte le chiese d’America arrivano an-cora fin qui: come stasera. Per sfidarsinella Gospel Choir Competiton del mi-tico Apollo Theater. Tutto come allora?Macché. Harlem si scolorisce per il ri-torno dei bianchi (e la carica dei latini) elo storico teatro sulla 125esima strada siripensa. Una bella mostra che si chiamacome una canzone di Marvin Gaye: Ain’tNothing Like the Real Thing. Non c’ènulla di meglio della realtà. E una seriedi concerti nel nuovo Apollo Music Ca-fe. È sempre musica nera: ma d’avan-guardia. La soulsinger che strizza l’oc-chio al dark. La blueswoman che vienedal Ghana e gioca con l’hip hop.

L’Apollo come un laboratorio? L’A-pollo com’era negli anni d’oro: cioèquelli nerissimi. In cui a guidarlo però c’e-ra il bianco Frank Schiffman. Uno che ungiorno — 23 maggio 1965 — si vide telegrafare isentiti ringraziamenti di Martin Luther King: «Leiha probabilmente fatto più che ogni altro uomoin questo paese per incoraggiare generazioni digiovani artisti neri». Per la verità il vecchio Frank— che regnò sull’Apollo dal 1935 in cui lanciò El-la Fitzgerald fino alla scomparsa nel 1974 — dabravo businessman aveva trovato un modo piùredditizio di dividere l’umanità invece che inbianchi e neri: quelli che avevano «drawingpower», la capacità cioè di richiamare pubblicopagante, e quelli che no. Un’ossessione che il ma-nager rivela nelle schede del suo archivio per la

2011

È rinata una stellanella notte di HarlemANGELO AQUARO

«D

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

prima volta in mostra.Certo anche Frank aveva le sue passioni. Il

grande Count Basie, per esempio. «9 novembre1951. Suonato bene. Ottima personalità. Sfortu-natamente, nessuna capacità di richiamo». «9maggio 1952. Buona band. Ma di nessun richia-mo». «17 aprile 1953. Band ECCELLENTE» scriveil manager a lettere insolitamente maiuscole. IlConte ha finalmente sfondato? Macché: «Ancorauna volta niente affari».

La metà dei ’50 è un momento di svolta. Finoral’Apollo ha sfidato il Savoy e il Cotton Club nellascena jazz di Harlem. Soprattutto a ritmo di quelbebop che — scrive il New Yorker nel 1948 — «peri neri è una vera manifestazione di rivolta». Char-lie Parker. Miles Davis. Dizzie Gillespie. Thelo-

nious Monk. Ma il fiuto per il business spinge l’a-mante delle big band ad aprire al nuovo che avan-za. Fino a farsi trascinare dal rock: soprattutto seha la grinta felina della giovanissima Tina Turner.È il 17 settembre 1965 e la moglie di Ike — scrivel’eccitatissimo Frank — «si muove come argentovivo».

Da allora l’Apollo è una sfilza di nomi mitici:Aretha Franklin, B. B. King, Smokey Robinson,Stevie Wonder. E il Fratello Soul Numero Uno.Quel James Brown che comincia come cantantedi chiesa e si impone come Sex machine. Trasfor-mando il teatro nel suo tempio — i tre Live at theApollo, 1962, 1967 e 1971, sono i capolavori dellasua ascesa funky. Fino ai funerali proprio all’A-pollo, 28 dicembre 2006, la carrozza bianca come

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LE IMMAGINIL’Apollo Theater, a Harlem;

una illustrazione di Louis

Armstrong; locandine di concerti;

e in alto a destra la copertina

di Ain’t Nothing Like the RealThing, How the Apollo TheaterShaped American Entertainment (Smithsonian Books)

Le mie sorelle, mia madre e Ray Charlessono cresciuto con quella musica in testa

SMOKEY ROBINSON

Avevo sei o sette anni quando sentii parlare per la prima volta dell’Apollo. Avevo due sorelle piùgrandi, e tra loro due e mia mamma ebbi modo di ascoltare sempre un bel po’ di musica di ognitipo, dai gospel alla classica, dai gutbucket blues a un genere che suonavano le mie sorelle e

che chiamavano bebop. La prima voce che ricordo di aver udito cantare fu quella di Sarah Vaughan,perché le mie sorelle l’adoravano. Mia madre ascoltava Louis Armstrong, i Five Blind Boys e Manto-vani. La maggior parte di quei cantanti aveva suonato all’Apollo.

I Miracles e io ci esibimmo per la prima volta all’Apollo nel 1958, in uno spettacolo di Ray Charles.Un’esperienza terrorizzante. Penso che nessuno di noi si fosse mai allontanato tanto da Detroit inprecedenza. Avevamo sentito raccontare tante cose dell’Apollo Theater e immaginavamo che nelbackstage ci fosse in attesa un tipo, sempre pronto con il suo uncino per agganciarti e trascinarti via,se non eri abbastanza bravo. Per le prove ci si doveva trovare lì alle sette della mattina. Arriviamo por-tandoci dietro solo quelle che in gergo si chiamano “onionskin”, le partiture dei nostri pezzi. Gli spar-titi riportavano gli accordi, ma non l’arrangiamento per il sassofono o per una grande band come quel-la di Ray Charles che ci avrebbe accompagnato tutta la settimana. Bene, arriva il nostro momento di

suonare con la band, ed eccoci lì, con gli spartiti. Arriva Honi Coles, che allora dirigeva l’Apollo, e simette a urlare: «Siete venuti qui solo con questi? Ma che pensate di fare?». Insomma, scatena l’in-

ferno perché non abbiamo gli arrangiamenti. Proprio quella mattina Ray decide di venire alle pro-ve. Chiede: «Che succede, Honi?». «Questi ragazzi arrivano da Detroit, senza neppure gli arran-

giamenti». E Ray fa: «Non ti preoccupare per questo». Io sono allibito: davanti a me c’è propriolui, Ray Charles in carne e ossa. E chiede: «C’è qualcuno di voi che sa suonare la vostra musi-

ca?». Balbettando, rispondo: «Sì, Mister Charles, io la so suonare al piano». E lui: «Vieni qui,siediti accanto a me e fammi sentire». E così attacco a suonare e cantare She’s not a bad girl.

Dopo nemmeno una strofa, Ray dice: «Okay ragazzo, ci sono!». E inizia a suonare. Inizia asuonare come se la conoscesse già, come se l’avesse scritta lui. Lui suona e io canto. Poi fa:

«Allora, sassofoni, scrivete questo e quest’altro. Voi, trombe, scrivete questo! Tu, al basso,scrivi e suona questo». Se ne resta seduto lì a fare gli arrangiamenti quella mattina stessa. Da quel

momento in poi avrei potuto trovarmi anche a Timbuktu, ma se qualcuno mi avessechiamato dicendo: «Smokey, prenditi un giorno libero, organizziamo qualcosa per Ray

Charles a New York e vogliamo tu ci sia», io mi ci sarei precipitato.

Dalla prefazione a “Ain’t Nothing Like the Real Thing”(Traduzione di Anna Bissanti)

i due cavalli che trasportano il feretro dell’uomoche cantava Say It Loud, I’m Black and Pride, Dil-lo forte: sono nero e orgoglioso.

Già, l’orgoglio. La storia dell’Apollo e di Harlemsi incrociano naturalmente con quella del movi-mento. E dell’Hotel Theresa: l’albergo sempre lì,sulla 125esima, che nell’età del jazz era il più lus-suoso di New York (e infatti era vietato ai neri) enegli anni ’60 diventò la base di Malcolm X. AlTheresa sbarca perfino Fidel Castro. «Si è allonta-nato su tutte le furie dallo Shelburne Hotel ed èandato a protestare in persona alle Nazioni Uni-te per il trattamento che gli sarebbe stato riserva-to a New York» scrive il New York Timesdel 20 set-tembre 1960. Motivo? «L’inaccettabile richiestadi denaro da parte dell’hotel...». Chissà se anche

Fidel fa un salto all’Apollo. Che 37 anni dopoavrebbe ricevuto la visita di Bill Clinton. Uno deiprotagonisti della rinascita di Harlem: il primo expresidente ad aprire un ufficio proprio lì. Ma que-sta è storia di oggi. Dal mito alla cronaca. La nuo-va direttrice Mikki Shepard — finalmente unadonna — fa di tutto col suo restyling per acchiap-pare l’audience giovane che scivola verso l’ormaipiù trandy Brooklyn. Perché è vero che ogni mer-coledì qui ritroverete sempre le «Amatuer Ni-ghts» che lanciarono Pearl Bailey e tante altre star.Ma se oggi vuoi fare boom vai in tv da AmericanIdol: non qui. Addio Apollo? Dice bene la canzo-ne-slogan della mostra: «Nulla di meglio dellarealtà». A parte il reality.

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le tendenzeItalian job

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

ILARIA ZAFFINO

Una volta era il tailleur.Classico, severo, terribil-mente serio, preso a pre-stito riveduto e correttodal guardaroba maschile.Impossibile sbagliare. Per

le donne, il look da ufficio era una scelta asenso unico. Per non parlare degli uomi-ni, ingessati in completi impeccabili. Mala parola d’ordine è cambiata: ora il 63 percento degli italiani (secondo una ricercaEuroffice) la mattina quando esce di casasceglie il “casual curato”. Un concettotutto italiano per esprimere un look me-no rigoroso, che rimette nell’armadiocravatte e tailleur (fanno tanto banca), co-lori spenti e anonimi, a favore di uno stilepiù libero, colorato, comodo e originale.E soprattutto a scelta multipla, che dà li-bero sfogo alla fantasia, ma moltiplica an-che le possibilità di sbagliare, estendendoall’intera settimana il casual friday diamericana memoria, cioè l’abbigliamen-to più informale concesso il venerdì, in vi-sta del weekend che si avvicina.

Dagli scaffali delle librerie al web spo-polano allora discussioni sul dress codedaufficio, tra manuali di istruzioni sul lookper fare carriera e blog dove ci si chiedegiacca sì o giacca no o se portare le calze inogni stagione. E persino alla Bocconi fio-riscono corsi che insegnano cosa indos-sare per colloqui di lavoro o riunioni inazienda. All’inizio dell’anno, ha fatto di-scutere il caso di una banca svizzera che siè presa addirittura la briga di compilareun vademecum di quarantaquattro pagi-ne per fornire precise direttive ai dipen-denti su come vestirsi, sconfinando per-sino in consigli sull’igiene personale e leabitudini alimentari: per esempio, nonmangiare aglio durante la pausa pranzo.

Manuali e lezioni di stile a parte, ci sonoperò delle regole valide per tutti, da cui

non si può prescindere, indifferentemen-te dal luogo in cui si lavora. Come tenere ilcellulare silenziato sulla scrivania, avere icapelli sempre in ordine (per lui, anche labarba curata) e utilizzare creme e profuminon troppo invadenti. Soprattutto in unperiodo in cui lo spazio negli uffici tendedrasticamente a ridursi e i dipendenti fini-scono col trovarsi sempre a più strettocontatto tra di loro. Cura della personadunque, buon gusto e moderazione pri-ma di tutto. Ma largo a tessuti giovani emorbidi, anche i jeans — perché no — in-gentiliti magari da accessori preziosi. È ildettaglio che fa la differenza e se il look nelsuo insieme è curato ci si può sbizzarrire,per esempio con una cintura insolita.Mentre per chi vuole restare sul tradizio-nale anche il più classico dei tailleur puòdiventare originale se esaltato da un toccodi colore che viene dalle scarpe oppureravvivato da orecchini grandi o collaneimportanti. Attenzione però: i gioielli van-no bene, ma senza esagerare. Se si scegliedi indossarne uno un po’ più appariscen-te, bisogna limitarsi a quello. Altro capito-lo fondamentale, la borsa. In questo caso,la raccomandazione è una sola: che sia ca-piente. Infine, il trucco: naturale, senzaconcessioni a colori shocking. E con un kitd’emergenza per un rapido ritocco da te-nere sempre a portata di mano.

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Ufficiodress code

Per le donne era il tailleur: grigio, severo, di taglio maschilePer gli uomini l’immancabile cravatta. Oggi sul luogo di lavorovince il “libero look”. Mai formale, purché sempre curatoe ravvivato dai dettagli giusti. Ecco dunque le nuove regoleper la mise perfetta: dettate dai tempi e assecondate dalla moda

Casual, ma con un certo stile

FRANCESINAStringata in pelle

color miele con inserti

di pitone e aperture

laterali. Plateau

e tacco sono

in legno chiaro

Di Stuart Weitzman

IL MOCASSINOUn classico

per l’ufficio

il mocassino

da uomo

In pelle marrone

Di Santoni

IL CARDIGANCotone cento

per cento

con doppia

chiusura

in contrasto

e bottoni

in madreperla

È la proposta

casual

di Luigi Borrelli

LA GIACCALeggerissimo mohair,

sempre impeccabile

Per uno stile informale

ma elegante

La Mohair Jacket è

la novità L.B.M 1911

per la primavera

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

Lo stilista inglese Paul Smith

SIMONE MARCHETTI

Impeccabile e disinvolto come solo certi inglesi sanno es-sere, lo stilista Paul Smith racconta la sua visione dell’abi-to formale femminile. Mancano poche ore alla sua sfilata

per la settimana della moda londinese (in program-ma domani), eppure non fa trasparire alcun segno distanchezza o nervosismo. Solo quell’aria decorosama un po’ sopra le righe tipica delle sue creazioni.

La sua carriera è iniziata con la rivoluzione del-l’eleganza maschile per poi arrivare a quella fem-minile. Cosa pensa delle donne che si vestono co-me gli uomini nelle occasioni formali?

«Penso che il completo giacca-pantaloni siauno degli oggetti preferiti dai luoghi comuni. So-prattutto per le donne. Il pregiudizio, infatti, ri-serva questa mise ai matrimoni, ai funerali e aicolloqui di lavoro. La storia della moda, invece,lo contraddice. Ricordo con perfezione, sul fini-re degli anni Settanta, la sfilata in cui Yves SaintLaurent presentò lo smoking da uomo sullapasserella femminile. Rimasi scosso, quasi in-tontito dal sex appeal di quella creazione. Ne-gli ultimi anni, poi, il taglio e le proporzioni digiacche e pantaloni sono stati completa-mente ripensati, alleggeriti, rimodellati.Una donna che oggi sceglie un completomaschile da lavoro deve, prima di tutto, stu-diarne il taglio e il tessuto. Soprattutto, de-ve capire come la giacca si appoggia ai fian-chi, come modella spalle e seno. In questidettagli sta la differenza tra un pezzo dicartone e un abito formale che non sacri-fichi un centimetro di femminilità».

Esiste, invece, un abito femminileche sia l’equivalente della giacca-cami-cia-cravatta per gli uomini?

«Certo: in inglese si chiama Shiftdress. Si tratta di un modello con for-ma ad “A” oppure a tubo che partedalle spalle e arriva appena sopra il gi-nocchio. Non importa che abbia lemaniche oppure sia sbracciato. Ciòche conta è che includa impunture,cuciture o riprese sul torso. Questidettagli lo rendono confortevolenei movimenti e insieme aderente

al corpo. Contrariamente aquanto si possa pensare, poi,

deve coprire il più possibile.La femminilità, nei contestilavorativi, non è data daicentimetri di pelle espostama da quelli coperti ad arte.

In questo, c’è ancora moltastrada da fare. Soprattutto in

Italia».Che consigli darebbe, invece,

a chi deve vestirsi per affrontareun colloquio di lavoro?

«Qui la situazione si complica.Il colloquio di lavoro è un mo-mento delicato in cui la persona-lità del candidato e le richieste deldatore di lavoro devono trovare

un equilibrio, non un conflitto emai una prevaricazione. Pena la

perdita di stile e di naturalezza. Imiei consigli, a riguardo, sono tre.

Individuare il contesto del lavoro de-siderato e cercare di adeguarsi, al-meno in prima battuta. Quindi, pro-vare a calare i propri gusti e peculia-rità in questa estetica. Infine, decide-re quale messaggio si vuole trasmet-tere. Questo passaggio è il più diffici-le perché non si pensa mai alla modacome a un veicolo per il proprio pen-siero, per le proprie qualità. Eppure,soprattutto in ufficio o nelle occasio-ni formali, l’abito può diventare unostrumento infallibile di competizio-ne e di comunicazione».

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CASUALMa anche molto

curato il look proposto

da Canali per l’uomo

che la mattina si veste

per andare in ufficio

I tessuti sono tutti

made in Italy

SPORTIVOÈ un look un po’

più sportivo quello

proposto da Peuterey:

sotto al giubbetto

dolcevita marrone

che riprende le scarpe

e pantaloni chiari

SEVENTIESGiacca in duchessa

di seta e jersey

abbinata a pantaloni

Seventies di jersey

e décolleté argentate

per la donna

vestita Max Mara

LO SCHIZZOIl bozzetto

di Paul Smith

per un completo

formale femminile

della collezione

primavera/estate 2011

DISINVOLTAAi pantaloni a palazzo

in cotone bianco e blu

Tommy Hilfiger abbina

un mini peacoat

in spugna bianco

con canotta in jersey

di cotone rossa

IL PORTA iPADRinforzato in nylon, con elastici e fasce all’interno per fissare

l’iPad. Chiusura con la zip. Di K-way

CLASSICOBlazer tre bottoni

con fantasia quadri,

camicia bianca di lino

e pantalone a cinque

tasche di cotone

La borsa da viaggio

è in pelle ocra. Gant

RIGATOCamicia a righe

bianche e nere

con pantalone

a sigaretta in tessuto

cangiante. Le scarpe

sono in pvc con punta

in pelle. Paul Smith

LA PENNAIn resina blu

con decorazione

in avorio:

è la penna

che Montblanc

dedica

a Mark Twain

“L’abito è uno strumentousiamolo per comunicare”

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

Non neutrali

SwissMadein

In principio fu il dottor Liebig, poi venne il signor Tobler, poi ancoraHenri Nestlé. Nazione di grandi gastro-inventori, per tanti è ancora soloterra di cioccolato e formaggi. In realtà ormai da tempo la Svizzeraè riuscita a far fruttare sia la diversità delle culture che la compongonosia il meglio di chi le sta vicino.Provare per credere

Emmentaler o Nescafè, dado Liebig o To-blerone? È un puzzle rossocrociato, la cu-cina di Guglielmo Tell, un colorato giocodell’oca, dove, casella dopo casella, si sco-pre un incredibile percorso di invenzionigastronomiche, adorate da grandi e picci-

ni. La Svizzera è grande quanto un pollice di macellaio.Ma ricca di illuminanti intuizioni alimentari. In primis,quella del dottor Liebig, ricercatore chimico dall’animoumanitario, scosso dall’impotenza dei governi a com-battere la piaga della povertà. A lui si deve l’invenzionedell’estratto di carne, concentrato di proteine a costo ri-dotto. Generazioni di mamme hanno cresciuto i lorobambini armate di quel barattolino bianco, padre no-bile dei dadi di carne con cui surroghiamo la prepara-zione del brodo.

Altra storia gastrocolta, quella del signor Tobler, os-sessionato dall’esigenza di trovare la formula per ren-dere irresistibile il cioccolato realizzato nel suo labora-torio, presso cui un giovanissimo Albert Einstein lavo-rava come contabile. L’idea nacque dalla passione deifigli ragazzini per il torrone. Una crasi gastronomica —Tobler-torrone — firmò la prima tavoletta a sezione pi-ramidale, simbolo delle montagne svizzere.

Da manuale di storia dell’alimentazione anche le in-tuizioni di un altro chimico, Henri Nestlé, sulla concen-trazione del latte, seguita — alla fine degli anni Trenta —dall’invenzione del caffè liofilizzato, che sarebbe entra-to nella Razione K in dotazione ai soldati, e la fondazio-ne della “Conservenfabrik Henckell & Zeiler”, poi tra-mutata in “Hero”, nata a fine Ottocento per sistematiz-zare la produzione di marmellate e succhi di frutta.

Le cucine svizzere sono tante. Non solo e non tantoper la diversità intrinseca dei cantoni che la compongo-no, quanto per l’influenza imponente delle nazioni-madri della confederazione: Francia, Germania e Italia.Così, tra Berna a Losanna, tra Bellinzona e Zurigo, le di-stanze culinarie sono infinitamente più grandi di quel-le chilometriche. Eppure la Svizzera ha incarnato in an-ni non sospetti, perfino suo malgrado, un prototipo digastro-globalizzazione “interna”. La commistione traingredienti e ricette, figlia degli spostamenti dei tantiimmigrati arrivati da ogni parte del mondo, sposata so-prattutto dai cuochi di nuova generazione, regala sapo-ri originali e inaspettati.

Anche in campo enologico, gli svizzeri hanno assor-bito il meglio da chi gli sta vicino. Oltre cinquanta i viti-gni presenti, e quasi quattromila i viticoltori, con puntedi eccellenza che riguardano soprattutto Pinot Noir (zo-na d’elezione il Bündner Herrschaft) e Merlot, verogioiello del Canton Ticino, che gli dedica quasi l’85 percento del suo territorio.

Ma nell’immaginario collettivo, la Svizzera è ancorae sempre terra di formaggi & cioccolato. Comprate unaformina di Vacherin Mont d’Or, foderatela di carta sta-gnola, sollevate una cucchiaiata di crosta e riempitelacon vino bianco secco. Ricoprite, infornate per mezz’o-ra, e godetevi una fondue da urlo, da dividere solo conchi amate davvero. Mai come in questo caso, meglio so-li che mal accompagnati.

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LICIA GRANELLO

I giochi dei 4 cantoni

• 600 gr di pane tagliato in cubetti • 1 spicchio d’aglio• 0.3 l di vino bianco secco• 1/2 cucchiaino di amido di mais• 400 gr di vacherin Fribourgeois• 400 gr di gruyère• 5 cl di kirsch • pepe

Grattugiare o affettare il formaggio

Pelare e strofinare lo spicchio di aglio all’interno

del caquelon (pentola in ghisa o terracotta)

Sciogliere l’amido di mais nel kirsch. Versare il vino

nel caquelon e aggiungere il formaggio

Cuocere a fuoco lento, mescolando con un cucchiaio

di legno fino a ebollizione. Aggiungere il kirsch e pepare

a piacere. Portare in tavola, con una fiammella

sotto il caquelon. Intingere i tocchetti di pane

con le apposite forchette lunghe

Ingredienti per 4 persone

Fonduta al formaggio

LA R

ICETT

A

i sapori

von Liebig crea l’estratto di carne

1847i formaggi AOC/DOP

10l’anno in cui nasce il Nescafè

1938

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

Berna

DOVE DORMIREGOLDENER SCHLÜSSEL

Rathausgasse 72

Tel. 0041-31-3110216

Camera doppia da 140 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIAREKIRCHENFELD

Thunstrasse 5

Tel. 0041-31-3510278

Chiuso domenica e lunedì

menù da 30 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA GLATZ

Weyermannsstrasse 24

Tel. 0041-31-3002000

Ginevra

DOVE DORMIREHÔTEL SAVOY

Place de Cornavin 8

Tel. 0041-22-9064700

Camera doppia da 148 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIARELE GRUYERIEN

Rue de Chêne-Bougeries 2

Tel. 0041-22-3491012

Chiuso domenica

menù da 20 euro

DOVE COMPRAREFROMAGE BRUAND

29 Boulevard Helvétique

Tel. 0041-22-7369350

Lugano

DOVE DORMIREHOTEL VICTORIA AU LAC

Via General Guisan 3

Tel. 0041-91-9942031

Camera doppia da 145 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIARESANTABBONDIO

Via Fomelino 10, Sorengo

Tel. 0041-91-9932388

Chiuso domenica e lunedì

menù da 50 euro

DOVE COMPRAREMDB WINE STORE

Corso Elvezia 13

Tel. 0041- 91-9214066

itinerari

Tête de MoineNata nel monastero di Bellelay,

la testa di monaco è un goloso

formaggio a pasta semidura,

raschiato in lamine sottili

arricciate come piccole rose

Friedrich DürrenmattSedettero intorno alla tavola rotondafurono portati in tavola diversi tipidi antipasto, affettato, uova alla russa,lumache, brodo di tartarugaL’atmosfera era eccellenteda La Panne

La montagna incantatadel dottor Müesli

ANDREA FAZIOLI

Questa è la storia di un truffatore e di unamontagna incantata. Giorgio Malfanti èun ticinese trapiantato in Svizzera tedesca,

uno che si guadagna da vivere dipingendo e ven-dendo opere d’arte fasulle. Viene a sapere che inuna famosa clinica sulle Alpi svizzere il direttoresta sperimentando nuovi metodi di terapia: cu-rare con la musica, con la frutta, con l’arte.

Così un mattino Giorgio arriva lassù, in ungrande pianoro scaldato dal sole. Al centro, comeun castello, la clinica. Un edificio nobile e auste-ro, degno della Lebendige Kraft, aperta nel 1904sullo Züriberg e famosa per i suoi ospiti illustri.Tra questi Eugène Ionesco, Yehudi Menuhin,Golda Meir e anche Thomas Mann, il quale scris-se: «Ho deciso di dire addio al mondo e alla bellavita per 3 o 4 settimane e di andare alla clinica deldottor Bircher-Benner, un penitenziario igieni-co i cui successi sono molto decantati». Anche laclinica cui fa visita Giorgio Malfanti, con i suoi fal-si quadri in una cartella sotto braccio, è un ele-gante penitenziario igienico. Il medico direttoredella clinica lo accoglie in un delizioso poggiocon vista sulle montagne. Il dottore, un uomopiccolo con una folta barba bianca, invita il suoospite a respirare l’aria pura. Poi gli chiede:

— Tra tutte le invenzioni svizzere, qual è la piùpericolosa?

Giorgio pensa agli orologi a cucù, al Toblero-ne, alla fonduedi formaggio… Ma il dottore scuo-te il capo.

— Per anni ho pensato che fosse l’assenzio —dice mentre con la punta d’acciaio del bastonedisegna ghirigori per terra. — Sa che l’assenziol’abbiamo inventato in Svizzera? Poi arrivò l’Lsd,la dietilamide dell’acido lisergico. Uno dei piùpotenti allucinogeni, creato nel 1943 dal chimi-co svizzero Albert Hoffmann. Ma qui sappiamocombattere anche le allucinazioni.

— Davvero? — chiede Giorgio, in attesa di por-tare il discorso sui quadri.

— Merito della nostra alimentazione solare. —Il dottore si china e abbassa la voce. — Ogni mat-tina i nostri pazienti mangiano un cucchiaio difiocchi d’avena insieme a latte condensato, noc-ciole tritate, una mela grattugiata e un po’ di suc-co di limone. Il dottore illustra nei dettagli la suacura, finché Giorgio riesce a convincerlo a dareun’occhiata ai quadri e gli propone di compraredue paesaggi alpini di un famoso pittore elvetico.Il dottore ha in tasca un assegno già compilato.Giorgio gli dà il resto in contanti e il dottore si pre-cipita verso la clinica, ansioso di appendere al-l’ingresso le opere d’arte. I quadri sono falsi, maGiorgio — intascando l’assegno — non si fa trop-pi scrupoli: serviranno a calmare i nervi dei pa-zienti del dottor… come si chiama? Giorgio ha di-menticato il suo nome. Controlla sull’assegno:«Maximilian Oskar Bircher-Benner».

Bircher-Benner? Il dottore è sparito, ma Gior-gio digita il nome sul suo I-Phone e legge: «Maxi-milian Oskar Bircher-Benner (1867-1939), me-dico e nutrizionista svizzero, inventore del Bir-chermüesli, specialità a base di latte, frutta e ce-reali nota in tutto il mondo». Giorgio guarda l’as-segno e, insieme alla rabbia sente crescere l’in-quietudine. Intorno a lui le montagne sonosilenziose, un soffio di vento scende lungo la val-le. Rabbrividisce. Possibile che, sotto il sole delleAlpi, appaiano i fantasmi? E soprattutto, possibi-le che i fantasmi spaccino assegni fasulli? Ma lemontagne non danno risposta. Solo quel soffio divento, che smuove appena l’erba intorno al so-lenne edificio della clinica.

(Andrea Fazioli è autorede La sparizione, edito da Guanda)

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gli appuntamentiSono più di 80 le manifestazioni

legate al Carnevale svizzero

Quella di Basilea (14/16 marzo)

è considerata la più importante

del Paese: nelle strade della città

cortei con lampade e la banda

di pifferi. Poi, colazione

con cioccolata calda

e sottilissimi dischi rotondi

fritti di sfoglia

RöstiI dischi di patate grattugiate,

cotte in olio o burro prima

a fiamma bassa e poi rosolate,

servite a colazione

oppure come contorno

MuesliIdeato a inizio Novecento

dal dottor Max Bircher come

alimento per i suoi pazienti,

è un mix di fiocchi di cereali,

frutta secca e semi oleosi

KirschArrivano dalle coltivazioni

sui primi pendii del Giura le nere

ciliegie aromatiche dalla cui

distillazione nasce il liquore

che aromatizza la fondue

TobleroneUna storia secolare per il torrone

ideato dalla famiglia Tobler:

cioccolato al latte, mandorle

e miele. Quarant’anni fa

è nata la versione fondente

CenovisHa 80 anni la crema dal nome

latino (cena e vis, mangiare

e forza) a base di lievito

di birra, sale, estratto di cipolla

e carota da spalmare sul pane

CapunsArrivano dal Cantone

dei Grigioni gli involtini

di bietola farciti con un impasto

di farina, uova e insaccati

a dadini, bolliti in latte o brodo

Apfel-BachisImpasto di uova, latte, vino

bianco, zucchero, mele

e scorze d’agrumi grattugiate

per la torta da cuocere

in padella. Rifinire con cannella

RacletteIl nome identifica formaggio

e ricetta: arrostito e spatolato

man mano che fonde,

si accompagna con affettati,

patate bollite e sott’aceti

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ChoucrouteCrauti, cipolle, patate e carne

di maiale – pancetta, spalla

affumicata, wurstel – per il piatto

importato dall’Alsazia,

profumato al cumino

Repubblica Nazionale

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20 FEBBRAIO 2011

l’incontroFemme fatale

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Un’attrice non vedegli spettatoriseduti al cinemaLa cantante, invece,dal palcoscenicosente il respiro dei fane ogni serasi concede vera,autentica, nuda

suo nome compare in molti blog italia-ni? «Mi sembrano così lontani queitempi. Però è vero che ogni volta chesono ospite della televisione italianami chiedono di cantare le canzoni di al-lora. E tutti le cantano in coro. Come seil ricordo di quei due anni passati a Ro-ma — solo due anni in fondo — si fos-se congelato nella memoria. Ma inrealtà io in Italia vorrei tornare per can-tare le mie nuove canzoni (in Francia èappena uscito il suo ultimo disco, So-leil bleu, ndr). Mi piacerebbe fare con-certi in piccoli teatri, anche soltanto aRoma e Milano. E sono sicura che unpubblico l’avrei».

Due anni a Roma, 1968 e 1969 perDoppia coppia con Lelio Luttazzi eCanzonissima (Zum Zum Zum comesigla imperitura) e perfino uno show dapadrona di casa: Incontro con SylvieVartan. Poi nel ’70 un terribile inciden-te d’auto con Johnny Hallyday la co-strinse a cure americane. Tornò in Ita-lia nel ’75 in Punto e bastacon Gino Bra-mieri, ma l’incanto dei Sixties era fini-to. Per due anni era stata l’attesissimaregina del sabato sera italiano delle20.30, con un pugno di brani entratinella storia della nostra canzone: daCome un ragazzo a Due minuti di feli-cità, da Buonasera buonasera a Irresi-stibilmente, da Una cicala canta a ZumZum Zum, tutti già successi in patria.«Ricordo che la Rca italiana mi avevamesso a disposizione un meravigliosostaff di autori e traduttori. In quegli an-ni c’erano discografici bravissimi co-me Paolo Dossena o Mario Simone.Persone così oggi non esistono più».

La famiglia Vartanian lasciò la Bul-garia e arrivò in Francia nel 1952. Sylvieha otto anni e già sa che diventeràun’artista. Vuole fare l’attrice. Perquattro anni i Vartanian vivono in unastanza d’albergo a Parigi, poi le cose ini-ziano ad andare meglio. Eddie, fratellodi Sylvie, entra alla Rca francese e la fadebuttare in un 45 giri in coppia con unrocker locale di nome Frankie Jordan.Eddie diventa il suo produttore e ancheil direttore dell’orchestra che l’accom-pagna in tournée. Il successo arriva ve-locemente. La ragazza è dotata, è bella,ha una faccia pulita e birichina da loli-ta yéyé. Tanto che la stampa la sopran-nomina la collégienne du twist, la licea-le del twist, the twisting schoolgirlquando si tratterà di arrivare al merca-to inglese. Nel ’62 esce il suo primo di-sco, nel ’63 si mette con Johnny Hally-day, già motociclista e molto borchia-to, anche lui a inizio carriera (si separe-ranno dopo diciassette anni e un figlio,David, anche lui cantante e composito-re, nato nel ’66), con il quale formerà

una delle coppie più rock e più glamourdell’epoca. «Ma non siamo mai statiuna coppia musicale. Ognuno aveva lasua carriera» dice la Vartan che oggi, ve-leggiando asciutta e ancora bellissima— ritoccata, ma con classe — verso isettanta, tutto sembra fuorché rock’n’-roll. «Abbiamo cantato soltanto unpaio di canzoni insieme, siamo statipochissimo sullo stesso palco. Aveva-mo carriere diverse. Lui venne in Italiauna volta per fare un duetto con me, manon ebbe successo. In compenso nonfu mai troppo contento del mio». La la-sciò sola a Roma per due anni? «Non erosola. Vivevo con mia madre e mio figliopiccolissimo in un meraviglioso hotelvicino alla Rai. Roma era una città stu-penda, effervescente. La città del cine-ma. All’epoca sembrava che tutto vi po-tesse accadere. Da voi mi sono diverti-ta moltissimo». Dolce vita? «Non avevotempo, lavoravo duro. Tutti mi imma-

ginavano libera ed emancipata, chissàperché gli italiani mi vedevano così,forse perché arrivavo da Parigi. Ma aRoma avevo portato la famiglia e nonfrequentavo i locali notturni. I ristoran-ti sì, ma non i night club. Di mondanoricordo soltanto le feste da Valentino».Cinecittà non cercò di coinvolgerla?«Sergio Leone chiese a Johnny e a me difare un western. Avevo anche impara-to a montare a cavallo, io che ne avevouna paura folle, sapevo saltare in sella escenderne al volo. Avevo imparato arullare la colt. Leone pensava a unaspecie di Bonnie e Clyde versione we-stern. Quel film non fu mai girato. In se-guito Johnny fece il cowboy per SergioCorbucci». In Francia, però, lei ha avu-to una carriera cinematografica. «Hofatto film, è vero, ma non quelli cheavrebbero potuto fare di me l’attriceche sognavo di diventare. Il mio impre-sario di allora, lo stesso di Johnny, ave-va detto no a Godard per Pierrot le Foue aveva rifiutato anche Les parapluiesde Cherbourg. Verso la metà degli anniSettanta, dieci anni dopo l’uscita delfilm, ho incontrato Jacques Demy aNew York. Mi ha detto: “L’avrei tantovoluta nei Parapluies, ma lei mi fece ri-spondere che era molto occupata e cheil cinema non le interessava”. Non eravero: non ho mai saputo delle propostedi Godard e di Demy. Per anni quellacarriera cinematografica mancata èstato il mio rimpianto. Poi ho capito ilcomportamento del nostro manager:ero così famosa negli anni Sessanta,vendevo così tanti dischi, che non vole-va dividermi con altri né, soprattutto,farmi coinvolgere da un altro campoartistico. E poi se avessi fatto l’attrice,non avrei potuto cantare. Sarebbe sta-ta un’altra vita. L’attrice finge davanti aun pubblico che non guarda negli oc-chi; la cantante del suo pubblico senteil respiro, deve commuoverlo o diver-tirlo, ogni sera gli si concede vera, au-tentica, nuda. Questo mi piace fare». Eperò in marzo fingerà, la Vartan sarà inteatro con uno dei successi della sta-gione parigina, L’amour, la mort, lesfringues, l’amore, la morte, i vestiti, diIlene Beckerman messo in scena daDanièle Thompson ogni mese (fino agiugno) con un cast differente di attricifamose. «Non vedo l’ora. Il cinema miha spesso mostrata come femme fata-le; il teatro mi offre una commedia.Adoro fare ridere. Nella pièce siamocinque donne di età diverse, sedute inscena. Ognuna racconta la sua vita, isuoi amori e i suoi errori con il linguag-gio della sua generazione e attraverso isuoi abiti. Io sono Gigi, la più vecchia emi sembra così strano. Per anni sono

stata la più giovane e continuo a fare lestesse cose di quando ho iniziato a can-tare, cinquanta anni fa. Ho la stessapassione, la stessa energia. Per questonon mi sono mai accorta del passaredel tempo».

Cinque volte nonna (dai due matri-moni di David Hallyday), Sylvie Vartanè anche madre di una tredicenne, Da-vina, adottata in Bulgaria quando ave-va sette mesi, con il suo secondo mari-to, l’impresario italoamericano TonyScotti. «Detesto quando Davina vienedefinita figlia adottiva. È mia figlia e ba-sta. Vivo insieme a lei le difficoltà del-l’adolescenza, le contraddizioni, gliostacoli. Anche questo mi ha permes-so di non pensare agli anni che passa-no». Nel 1991 ha creato una fondazio-ne “Vartan per l’infanzia”. Nel 2007 èstata parte attiva nella vicenda delle in-fermiere bulgare arrestate in Libia conl’accusa (poi rivelatasi infondata) diaver infettato con il virus dell’Aids piùdi quattrocento bambini libici. Gli an-ni che passano la riavvicinano al suopaese d’origine? «Sono nata in Bulga-ria, ma nelle mie vene scorre sangue ar-meno da parte di padre e ungherese daparte di madre. Ho anche avuto una bi-snonna italiana. Mi sento sempre dipiù bulgara e ungherese, e cerco di oc-cuparmi del mio Paese, ma è dura. LaBulgaria è stata per cinque secoli sottoi turchi e per più di quaranta anni sottoun regime comunista. I bulgari sonocome milioni di prigionieri ai quali al-l’improvviso abbiano aperto la gabbia.Abituarsi alla libertà non è facile. Civorranno generazioni».

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LAURA PUTTI

PARIGI

Un turbamento genera-zionale. Come un lam-po alla fine degli anniSessanta, una sferzata

di luce breve e intensa, perfetta perquei tempi. Era il 1968 quando la nostratv in bianco e nero incorniciò una bion-dina che cantava in italiano con un leg-gero, delizioso accento francese. Unpaio di anni prima un’altra creaturaesotica, un’inglesina di diciannove an-ni di nome Sandie Shaw, ci aveva aper-to la strada verso paesi stranieri. Ma sel’inglesina era entrata scalza nei sognidegli italiani (così le piaceva cantare),Sylvie Vartan vi entrò ben calzata. Tac-chi o stivali. Femminile fino al turba-mento (maschile) o emancipata, an-drogina, quindi insolita per l’Italia deitempi. Oltre a una musica allora consi-derata molto moderna — un rocketti-no twistato che in Francia chiamavanoyéyé — con la collega inglese la Vartanaveva in comune il palcoscenico del-l’Olympia (la Shaw nel ’65, ma lei un an-no prima, a vent’anni, come openingact dei Beatles) e un gruppo di disco-grafici di ampie visioni internazionali.Da noi si affacciavano Mina, Nada, Cin-quetti, Zanicchi, Caselli, brave, ma an-cora impacciate in un’Italia democri-stiana e bacchettona; l’apparizionedella francesina che ballava e cantava“Come un ragazzo ho i capelli giù, por-to i maglioni che porti tu e con la cintami tengo su i pantalon” fu deflagrante.

Sa, signora Vartan, che ancora oggi il© RIPRODUZIONE RISERVATA

Padre armeno, madre ungherese,l’infanzia in Bulgaria. Poi Parigi dovea diciott’anni arriva il primo disco e il successo. Quindi il ’68: per due anni

diventa la regina del sabatosera sulla nostra tvOra che veleggia versoi settanta continuaa cantare e porta la sua vitanei teatri di FranciaE confessa un suo piccolo

desiderio: “Quanto mi piacerebberitornare in Italia. Sono sicurache un mio pubblico lo avrei”

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Sylvie Vartan

Repubblica Nazionale