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DI REPUBBLICA DOMENICA 4 MAGGIO 2014 NUMERO 478 “Tante soluzioni a nessun problema” Ecco, nel giornalino fatto in casa, gli esperimenti del ragazzo che diventerà il papà di “Alice” PARIGI IRATURA: una copia. Anno di pubblicazione: 1849. Editor, un di- ciassettenne che, oltre a essere direttore responsabile, è anche il principale redattore, l’illustratore unico e lo stampatore in pro- prio, o meglio, l’amanuense solitario. La rivista è infatti da lui ma- noscritta, dalla prima all’ultima pagina: novanta in tutto. Settimo di otto nu- meri, tutti realizzati durante le vacanze tra il 1849 e il 1850 insieme ai die- ci fratelli e sorelle, tra cui la sorellina di cinque anni, The Rectory Umbrella (“L’ombrello del rettorato”) è il primo Paese delle meraviglie letterarie del futuro autore di Alice, Lewis Carroll. Che ancora non si chiamava così, ma conservava l’austero nome di battesimo: Charles Lutwidge Dodgson. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE ETTORE! Oserai tu entrare una seconda volta nell’antro del gran Mago? Se non hai cuore audace, astieniti: chiudi queste pagine, più non leg- ger oltre. Alte nell’aere penzolavan le forme rinsecchite di due gatti neri. In mezzo a loro stava una civetta, appollaiata su una spaventosa vipera autoreggente. I ragni s’arrampicavan su per i lunghi capelli grigi del grande Astrologo, men- tre tracciava a lettere d’oro una formula diabolica sulla pergamena magica che pendeva dalle fauci della vipera letale. Una strana figura, come una patata ani- mata (1), con braccia e gambe, fluttuava sopra la mistica pergamena e pareva intenta alla lettura, a rovescio, delle parole. Ma ascoltate! SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE prima di Carroll Il reportage. Le cattedrali della Silicon Valley La lettura. Alice Munro, i miei primi (e ultimi) racconti autobiografici Spettacoli. In erboristeria dai CCCP: siamo ancora fedeli alla linea L’incontro. Giosetta Fioroni: “Avrei voluto fare il pittore” MARIO SERENELLINI LEWIS CARROLL La copertina. La grande fabbrica degli inediti Straparlando. Arnaldo Pomodoro: “Così sogno” La poesia del mondo. L’autunno di Baudelaire Lewis LEWIS CARROLL A VENT’ANNI/CORBIS T L Cult la domenica

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DI REPUBBLICADOMENICA 4 MAGGIO 2014 NUMERO 478

“Tante soluzionia nessun problema”Ecco, nel giornalinofatto in casa,gli esperimentidel ragazzo che diventerà il papà di “Alice”

PARIGI

IRATURA: una copia. Anno di pubblicazione: 1849. Editor, un di-ciassettenne che, oltre a essere direttore responsabile, è anche ilprincipale redattore, l’illustratore unico e lo stampatore in pro-prio, o meglio, l’amanuense solitario. La rivista è infatti da lui ma-

noscritta, dalla prima all’ultima pagina: novanta in tutto. Settimo di otto nu-meri, tutti realizzati durante le vacanze tra il 1849 e il 1850 insieme ai die-ci fratelli e sorelle, tra cui la sorellina di cinque anni, The Rectory Umbrella(“L’ombrello del rettorato”) è il primo Paese delle meraviglie letterarie delfuturo autore di Alice, Lewis Carroll. Che ancora non si chiamava così, maconservava l’austero nome di battesimo: Charles Lutwidge Dodgson.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

ETTORE! Oserai tu entrare una seconda volta nell’antro del gran Mago?Se non hai cuore audace, astieniti: chiudi queste pagine, più non leg-ger oltre. Alte nell’aere penzolavan le forme rinsecchite di due gattineri. In mezzo a loro stava una civetta, appollaiata su una spaventosa

vipera autoreggente. I ragni s’arrampicavan su per i lunghi capelli grigi del grande Astrologo, men-

tre tracciava a lettere d’oro una formula diabolica sulla pergamena magica chependeva dalle fauci della vipera letale. Una strana figura, come una patata ani-mata (1), con braccia e gambe, fluttuava sopra la mistica pergamena e parevaintenta alla lettura, a rovescio, delle parole. Ma ascoltate!

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

primadi Carroll

Il reportage. Le cattedralidella Silicon ValleyLa lettura. Alice Munro,i miei primi (e ultimi)racconti autobiograficiSpettacoli. In erboristeriadai CCCP: siamo ancorafedeli alla lineaL’incontro. GiosettaFioroni: “Avrei volutofare il pittore”

MARIO SERENELLINI LEWIS CARROLL

La copertina. La grande fabbrica degli ineditiStraparlando. Arnaldo Pomodoro: “Così sogno”La poesia del mondo. L’autunno di Baudelaire

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LA DOMENICA la Repubblica

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UEL CHARLES LUTWIDGE DODGSON verrà comunque subito sottomesso alle so-le iniziali, C. L. D., o mascherato nelle numerose rubriche autografe da in-finite sigle, V. X., B. B., F. L. W., J. V., F. X., Q. G., secondo quella vocazione al-lo pseudonimo e al travestimento letterario che accompagnerà l’intera pro-duzione di Carroll. Anche le sezioni di questa rivista casalinga, distribuitain famiglia e tra gli ospiti del rettorato di Croft-on-Tees, nello Yorkshire, do-ve i Dodgson abitano per venticinque anni, sono un anticipo di futuro. Findal primo numero (The Rectory Magazine) il periodico svirgola nelle dire-zioni già predilette dal maestro del nonsense: racconti a puntate, articoli“scientifici” di zoologia immaginaria, filastrocche parodistiche, pastichesin rima, giochi matematici, paradossi logici. E gli amati indovinelli, in unaspassosa Piccola posta che elenca le soluzioni ai problemi anziché i proble-

mi (cui sta al lettore risalire): procedura a rovescio che anticipa Alice attraverso lo specchio (1872), do-ve prima si mangia la torta, poi la si taglia a fette e infine la si mette a cuocere nel forno.

In questa giovanile festa di futuro, rifulge un bizzarro romanzetto, The Walking-Stick of Destiny (“Ilbastone da passeggio del destino”), tradotto e pubblicato per la prima volta in volume nelle edizionifrancesi Sillage, che riuniscono le otto puntate in cui è suddiviso nel manoscritto originale di The Rec-tory Umbrella (conservato alla Harvard di Cambridge, Massachusetts, e rispolverato in copia anasta-tica da Dover nel 1932, centenario della nascita di Carroll). Illustrato da frizzanti disegni (sedici nel ma-noscritto, dieci ripresi nel volumetto francese), di perizia persino superiore a quelli per Alice Under-ground (la prima versione, del 1864, che l’autore offrirà in dono alla bambina), The Walking-Stick of

Destinyè un sorprendente presagio di trovate, giochidi parole, nonsense poi ricorrenti nel capolavoro di do-mani. Di trama strampalata — già buon segno delloscrittore che verrà — il microromanzo si diverte a in-trecciare trame lambiccate dentro ambienti aulici o difiaba — il castello d’un Barone non meglio identifica-to e l’antro d’un Mago da operetta — in un abile andi-rivieni narrativo a montaggio alternato. Dove il gio-vane Dodgson, che non esita a fare il verso a Dickens oa Shakespeare (i seicenteschi Thou e Thee, invece diYou, nei momenti ironicamente alti della narrazio-ne), sa già padroneggiare, rimescolandole libera-mente in chiave umoristica, le convenzioni letterarie:come l’irruzione diretta dell’autore (“Lettore! Se non

MARIO SERENELLINIFilastrocche parodistiche,giochi di parole, trame surreali:il diciassettenne Charles Dodgsonaveva del genio. E infattigiusto 150 anni fa inventò Alice

>SEGUE DALLA COPERTINA

nelpaesedellemeraviglieBenvenuti

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La copertina. Lewis prima di Carroll

la Repubblica

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hai nervi adamantini, non voltare questa pagina!”)che dalle ilari follie dello Sterne di Tristram Shandy(“chiudete quella porta!”) arriva all’interazione auto-re-lettore-personaggi nel Roman d’Ernest et Célesti-ne di Pennac. Ma il piacere più sottile di giocoliere let-terario s’indovina nell’uso funambolico delle note(che in funzione di glossa beffarda ci hanno deliziatonelle tavole di Jacovitti o nelle graphic novels di Al-tan), qui destinate talora a rinviare alle illustrazioni,come avverrà nella Nursery Alice (1889), la versioneridotta e colorata per bambini «dagli 0 ai 3 anni». Lepiù frequenti e giocose sono le glosse riferite al testo.Ad esempio, a commento del dialogo «Hai la mia pa-rola» — «Per la tua parola, non darei due soldi», guiz-za la comica “nota della spesa” dell’autore: «Se ne puòdedurre che valeva circa un soldo e mezzo. Tenendoconto del proverbio “Parola tra ladri / spariscon duequadri”, si può ragionevolmente concludere che i dueavevano da spartirsi attorno ai tre soldi».

Copiosi anche altri segnali d’una nativa disposizio-ne al divertissement letterario, costante poi nella suaopera, dall’ammiccante mimesi verbale («accondi-scese a prender commiato» si dice d’un personaggio«disceso» di colpo, perché defenestrato) alle trionfaliparole-baule: “confuscato”, «forse impasto di confusoe offuscato, perché la signora Cogsby presentava laparticolarità di non distinguere gli aggettivi». Ma, so-prattutto, lo scherzoso romanzo del Carroll degli inizi,già profeticamente sfrenato, è più volte una precocepalestra di Alicee Attraverso lo specchio. Non solo peril gusto della parafrasi caricaturale dei poeti consa-crati (di cui fa qui le spese la figura ridicola d’un poetadi corte, il molto allusivo Milton Smith) ma anche perl’attrazione fatale verso grovigli verbali impazziti, co-me il labirintico discorso del Barone (che induce via viagli uditori a svuotare la sala), primo germoglio dell’e-nigmatico Jabberwocky (poesia nonsense scritta da

La patataparlantee il magotremante

n urlo lancinante sisrotolò per l’antro,rimbombando dauna parete all’altra,andando a morire (2)

sulla volta imponente. Orrore!eppur, non tremò il cuore delMago, anche se il suo dito mignolorabbrividì lievemente tre volte euno dei suoi radi capelli grigi silevò di colpo dal suo cranio, ritto diterrore: un altro avrebbe seguito ilsuo esempio ma aveva un ragnoappeso e non ci riuscì.Ed ecco, un lampo di luce mistica,nero come l’ebano più cupo (3),

inonda i luoghi e alla suamomentanea luminescenza sivede la civetta fare una voltal’occhiolino. Minaccioso presagio!La vipera che la sorregge ha forsesibilato? Oh, no, sarebbe troppospaventoso! Nel profondo silenziodi morte che seguì questo eventoterrificante, si distinse unostarnuto solitario provenire dalgatto di sinistra. Sì, si distinse. Estavolta il Mago davvero, e perintero, tremò.«Lugubri spiriti dei gorghid’abisso!», smozzicò in unmormorio, nel mentre che le suevecchie membra parevan flettersisotto di lui: «Io non vi ho invocati: perché vimanifestate?».Così parlò. E così rispose, con vocecavernosa, la patata: «Tuuuu, sì!».Tutto fu silenzio.Il Mago ripiombò nel terrore: «Cosa? Preso per la barba (4) dauna patata (5)? Giammai!». Martellò l’annoso petto inambasce, poi, raccolte le forze perparlare, urlò: «Dì solo ancora una parola e tibollirò all’istante. Teeee, sì!».

(1) La sua voce mandava un suonofalso, doveva esser qualcosa di“pescioso”. Cfr. il mio articolozoologico sui pesci (parodia di untesto pseudoscientifico nella stessarivista The Rectory Umbrella NdT)(2) Dopo la sua morte, apparve il suofantasma. Cfr. righe seguenti. (3) Difficile figurarsi a che puòsomigliare una luce nera: si puòottenere versando inchiostro su unacandela in una camera oscura.(4) Cfr., al capitolo II: “Il vecchiolisciò la sua barba...”.(5) È bene tener bene a mente la

storia della patata. È importante.

da The Walking-Stick of Destiny,capitolo V, pp. 41-43

in The Rectory Umbrella(Traduzione dall’originale inglese

di Mario Serenellini)

LEWIS CARROLL

>SEGUE DALLA COPERTINA

Carroll nel 1871) a sua volta antenatodel Finnegan’s Wake di Joyce.

E ora, lettore, affronta le ultime ri-ghe. Alice abita già qui. «Sono in ritardo,sono in ritardo!», primo gemito ango-sciato del servitore del Barone, quando«l’orologio ha appena suonato mezzogiornoe un quarto più due minuti», prepara il refraindel trafelato Coniglio Bianco. Ma ancheHumpty Dumpty, l’oscillante ometto-ovettodi Attraverso lo specchio, è già uomo sodo: èla patata «con braccia e gambe», in atterrag-gio oculare sulla formula del Mago, letta «alcontrario», come si conviene a chi dovrà passa-re la vita in un mondo a rovescio. Ma soprattut-to, la celebrazione finale d’un processo di cui, giàkafkianamente, non si conosce l’imputazione eforse nemmeno il colpevole, è un preassaggio del-l’accusa che risuonerà nel tribunale della ReginaRossa: «Chi ha rubato le torte?». Il romanzino di quin-dici anni prima ne lancia la prima requisitoria: «Alloraparlò il Mago: L’uomo che accuso, se mai d’uomo real-mente si tratta, è...». Viene in soccorso l’abituale no-terella: «In molti hanno chiesto all’autore, invano:“Ma che aveva fatto?”. L’autore non lo sa». Nessunasorpresa, Virginia Woolf ci ha da tempo avvertito: «I li-bri di Carroll non sono libri per bambini, sono gli unicilibri in cui ridiventiamo bambini».

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LE ILLUSTRAZIONIALCUNI DISEGNIE MANOSCRITTIDI “THE WALKING-STICKOF DESTINY”,ROMANZETTODEL GIOVANE CARROLLRIPRODOTTOSUL SUO GIORNALINO“THE RECTORYUMBRELLA”GLI ORIGINALISONO CONSERVATIA HARVARD.IN FRANCIA LA CASAEDITRICE SILLAGELO HA PUBBLICATOCON IL TITOLO“LA CANNE DU DESTIN”

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la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 28LA DOMENICA

Alto (Stanford University) in giù. Immersinel verde, tuttavia, i quartieri generali deiNuovi Padroni dell’Universo sono anch’essiuna delusione garantita. A Menlo Park, alnumero uno della Hacker Way, diverte l’i-ronia della toponomastica (è come se i ban-chieri newyorchesi avessero ribattezzatoWall Street la Via dei Predoni), ma è l’unicoguizzo di fantasia: a parte il nome della stra-

da, il quartier generale di Facebook è se-gnalato solo da un cartello col pollice rivoltoin alto, il segno “like” (mi piace) del socialnetwork. Non fosse per le tante auto Teslaelettriche da cinquantamila dollari che ri-caricano le batterie (gratis) nel parkingaziendale, l’anonimo edificio di mattoni ros-si è un casermone squadrato che potrebbe

ospitare un scuola o la posta. Proseguo il mioviaggio fino a Cupertino, che mi accoglie co-me una città sino-coreana: le insegne dei ne-gozi pubblicizzano ristoranti asiatici, mas-saggio dei piedi, corsi di taekwondo, seratekaraoke, e la filiale della Cathay Bank. Pri-ma ancora di arrivare al mitico numero unodell’Infinite Loop (“cerchio infinito”) mirendo conto che Apple si è appropriata diquesta cittadina come una metastasi: occu-pando via via tutti i palazzi di uffici lungo ilDe Anza Boulevard. Una crescita a casaccio,senza un filo conduttore, senza una lineaestetica. Che vergogna, per un’azienda chenel design dei suoi prodotti ha imposto la su-blime eleganza zen come tratto distintivo.

Certo la banalità della Silicon Valleyscompare quando varchi le porte d’ingres-so e penetri nei luoghi di lavoro. Googleplexsembra un villaggio vacanze per hippy, conragazzi in bermuda e infradito che giocanoa beachvolley. Le sue celebri mense saluti-ste (che furono fondate dall’ex cuoco dellarock band Grateful Dead) sono ubique, ispi-rate dall’idea che “nutrirsi deve essere undivertimento gratuito”, i magnifici giardinisono essenziali per incoraggiare la “biofi-

SAN FRANCISCO

E IL NOSTRO FUTURO sta nascendo qui, finora si è ben nascosto. Ri-torno a guidare sull’autostrada 101, che da San Francisco versoSud attraversa la Silicon Valley. Ora che abito a New York, mi col-pisce di più ciò che davo per scontato quando vivevo qui: la bana-lità. Incolonnato nel traffico denso e monotono a 55 miglia orarieobbligatorie, vedo scorrere ai due lati un paesaggio fatto di inse-gne dei fast food McDonald’s e Taco Bell, di ipermercati Costco,Home Depot e Office Max, benzinai, concessionari d’auto, ma-gazzini, depositi. La Highway 101, leggendaria nel mondo inte-ro perché attraversa la più alta concentrazione di tecnologia, in-novazione e ricchezza, ha partorito negli ultimi quarant’anni tut-te le rivoluzioni del nostro tempo: dall’elettronica all’informati-

ca, da internet ai social network. Eppure potrei essere sul raccordo anulare di Dallas o diAtlanta, in qualunque sconfinata periferia americana: stesse insegne sempre uguali, stes-so anonimato. La standardizzazione della bruttura.

Poi il paesaggio s’ingentilisce, con palmizi rigogliosi sotto il sole californiano, giardini eparchi ben curati, quando abbandono l’autostrada e mi addentro nelle cittadine, da Palo

templiValleydei

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La prima ad atterrare nella Silicon sarà l’astronave della AppleMa entro due anni anche gli altri faraoni digitali, da Google a Facebook,trasformeranno il distretto hi-tech più famoso(e brutto) del mondoPer aggiudicarsi, a colpi di archistar, la palma della rivoluzione estetica

FEDERICO RAMPINI

I NUMERI

> APPLEFATTURATO45,6 MILIARDI DI DOLLARI80.300 DIPENDENTI

> AMAZONFATTURATO25,59 MILIARDIDI DOLLARI88.400 DIPENDENTI

> GOOGLEFATTURATO15,54 MILIARDI DI DOLLARI35MILA DIPENDENTI

> FACEBOOKFATTURATO2,5 MILIARDIDI DOLLARI3.500 DIPENDENTI

Il reportage. Nuove cattedrali

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NEL 2011 STEVE JOBS

PRESENTÒ IL PROGETTO DEL CAMPUS:

IL PIÙ GRANDE E COSTOSO

EDIFICIO DEGLI USA.

LA CONCORRENZA SI SCATENÒ

SUBITO

la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 29

lia”, l’amore della natura che “è la migliorecura antistress”. L’unico dei giganti digitaliche ha scelto di rimanere in città (a SanFrancisco) cioè Twitter, ti accoglie in ufficidove ha abolito i telefoni fissi, le pareti e leporte, dove la reception d’ingresso è un “ni-do” (i tweetsono cinguettii di uccelli), dovele riunioni strategiche conservano quel to-no d’improvvisazione giovanile che serve aribadire un concetto: nulla è permanente,nulla è codificato e gerarchizzato, la vita nel-l’economia hi-tech è un flusso di cambia-mento incessante.

Non sono certo il primo a notare che la Si-licon Valley è una gran delusione estetica.L’esteta capo, Steve Jobs, lo avvertì comeuna sconfitta personale. Quattro mesi pri-ma di morire, nel giugno 2011, il fondatoredi Apple si presentò alla seduta del consigliocomunale di Cupertino con un annuncio cla-moroso: la costruzione di un nuovo quartiergenerale. Affidato a una delle archistar glo-bali, l’inglese Sir Norman Foster celebre permonumenti grandiosi come il Nido d’Uccel-lo (Pechino, Olimpiadi 2008) e il Reichstagdi Berlino. Jobs si presentò all’amministra-zione cittadina col progetto già bell’e pron-

to. Il disco volante, o l’astronave, l’hannochiamato. Un disco gigantesco, appoggiatoin mezzo al verde, di dimensioni colossali: ilpiù grande e costoso (cinque miliardi di dol-lari) edificio d’America, più ampio del Pen-tagono. Potrebbe contenere cinque stadi difootball, ci staranno diecimila dipendenti.Fu l’ultimo grande sogno di Jobs, orche-strato con cura, fino alla presentazione-spettacolo che fece ricordare le sue perfor-mance al lancio dei nuovi prodotti di Apple.

E così da quel giugno 2011 la Silicon Val-ley ha deciso di redimersi, di riscattare lapropria banale bruttezza. Scatenata daJobs, è partita subito la gara dell’emula-zione di tutti gli altri. Il centro mondialedelle tecnologie, dopo avere generato lapiù vasta ricchezza capitalistica in un arcodi tempo così breve (nessun altro distrettoindustriale nella storia ha raggiunto in po-chi anni la capitalizzazione di Borsa di Ap-ple più Google più Facebook più Twitter ec-cetera), ora vuole lasciare un segno dure-vole anche nel paesaggio. Come Bill Gatesarrivato alla maturità s’innamorò del Ri-nascimento italiano, così tutta l’economiadigitale scopre il mecenatismo a fini este-

tici. La Silicon Valley avrà le sue piramidi,la sua valle dei templi.

Appena divulgato il progetto Jobs-Fo-ster, immediatamente Facebook si è messaalla rincorsa. Il fondatore Mark Zuckerbergha ingaggiato un’altra archistar, l’america-no Frank Gehry. Il cui progetto, volutamen-te, è una sorta di anti-Foster. Mentre il va-scello spaziale di Apple sarà imponente e in-gombrante, smisuratamente visibile dalontano, al contrario la nuova sede Face-book disegnata da Gehry vuole scomparirenella natura. Imitando il museo di scienzeambientali di Renzo Piano a San Francisco,Gehry ha adottato la soluzione del “tettoverde”: il campus Google sarà semi-interra-to, interamente coperto di vegetazione, sot-to giardini pensili che lo assorbiranno e lomimetizzeranno.

Google ha lanciato il suo progetto pochimesi dopo Facebook. I fondatori Sergey Brine Larry Page hanno esaminato vari progetticoncorrenti, scartandone uno dell’architet-to tedesco Christoph Ingenhoven, per sele-zionare una società di design di Seattle, laNbbj. «La sfida — spiega l’esperto di archi-tettura Paul Goldberger — è molto ardua. I

giganti delle tecnologie digitali hanno scon-volto e rivoluzionato ogni altro aspetto dellanostra vita quotidiana, resta da vedere sepossano avere un impatto altrettanto po-tente sull’ambiente urbanistico e la costru-zione». Un aspetto colpisce Goldberger. Lepiramidi dei nuovi faraoni della nostra epo-ca, pur diverse come lo sono i progetti di Fo-ster e Gehry, sembrano avere una cosa in co-mune: «Guardano verso se stessi, sono degliambienti auto-sufficienti, più simili ai cam-pus universitari che alle città, anzi del tuttoscollegati dalle cittadine attorno».

Tutto accadrà molto in fretta, le cattedra-li della Silicon Valley sorgeranno entro il2016. La velocità non fa difetto, da questeparti. E allora il pellegrinaggio in quest’an-golo della California ci offrirà emozioni nuo-ve, forse anche una chiave di lettura ag-giuntiva sull’ideologia dei faraoni digitali.L’informalità e la mediocrità estetica si ad-diceva alla fase pionieristica: dopotutto que-sti giovani cervelli hanno quasi sempre co-minciato a reinventare il mondo dentro ungarage. Ora che del mondo sono diventati ipadroni, devono decidere che forma dargli.

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la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 30LA DOMENICA

E fino a quel momento, tutta la casa era stata piena di lei, passi voceodore talcato eppure minaccioso che occupava ogni camera, anchein sua assenza. Che cosa mi fa dire minaccioso? Non che avessi pau-ra. Non che mia madre mi dicesse esplicitamente che cosa dovevopensare. Esercitava la propria autorità senza bisogno della minimaimposizione. E non solo riguardo al fratellino, ma anche a propositodei cereali Red River che mi facevano bene e perciò dovevano pia-cermi da matti. O del modo di interpretare l’immagine appesa ai pie-di del mio letto, quella che mostrava Gesù nell’atto di imporre le ma-ni ai fanciulli. Allora il termine imporresignificava qualcosa di un po’diverso, ma non era su quello che concentravamo la nostra atten-zione. Mia madre indicava la bimbetta che si nascondeva dietro unangolo perché voleva andare anche lei da Gesù, ma era troppo timi-da. Quella ero io, diceva, e a me sembrava vero, anche se non l’avreimai capito se non me l’avesse spiegato e avrei comunque preferitoche non fosse così.

Una cosa che mi faceva proprio star male era quando in Alice nelPaese delle Meraviglie Alice diventa enorme e resta intrappolatanella tana del coniglio, ma ridevo lo stesso, perché mia madre sem-brava trovarlo molto divertente.

Fu con l’arrivo di mio fratello, tuttavia, e con le interminabili tiri-tere su come lui fosse una specie di regalo per me, che cominciai adaccettare la vastità del divario possibile tra l’idea che mia madre ave-va di me e la mia. Credo sia stato questo a rendermi pronta per Sa-die, quando venne a lavorare da noi. Mia madre era ormai relegataal territorio di sua pertinenza con i neonati. Con lei meno in giro, eb-bi modo di riflettere su ciò che era vero e ciò che non lo era. Fui co-munque abbastanza saggia da non farne parola con anima viva.

Il tratto più singolare di Sadie — anche se in casa nostra nessunosi sognò di sottolinearlo — era la sua celebrità. Avevamo una stazio-ne radio in paese e lei ci suonava la chitarra e cantava la sigla di ini-zio che aveva composto personalmente.

«Buongiorno, buongiorno, buongiorno a tutti voi…». E una mezz’ora dopo, «Arrivederci, arrivederci, arrivederci, a tut-

ti voi…». Fra l’una e l’altra sigla intonava canzoni a richiesta, oltre adalcune di sua scelta. Le persone più sofisticate in paese la prendeva-no un po’ in giro per quelle canzoni e per la stazione radiofonica in séche si diceva fosse la più piccola di tutto il Canada. Si trattava di ascol-tatori di una radio di Toronto, che volevano sentire le novità musi-cali del momento — tipo Three Little Fishes and a Momma Fishy Too— oppure Jim Hunter e i suoi disperati notiziari di guerra a tutto vo-

lume. La gente di campagna, invece, apprezzava la radio locale e ilgenere di canzonette di Sadie. La sua era una voce forte e malinco-nica, e cantava di solitudine e di cuori infranti.

Leanin’on the old op rail,In a big corral.Lookin’down the twilight trailFor my long lost palLa maggior parte dei terreni agricoli nella nostra zona erano sta-

ti disboscati e colonizzati in pianta stabile da centocinquant’anni,più o meno, perciò quasi da ciascun casale se ne vedeva un altro a po-chi campi di distanza. Eppure, i contadini volevano ancora ascoltarecanzoni che parlassero di mandriani solitari, del richiamo e dellosconforto di località remote, di efferati criminali che, dopo aver com-messo atroci nefandezze, morivano pronunciando il nome della lo-ro mamma, o di Dio.

Era di tutto questo che cantava Sadie in un contralto stentoreo edolente a piena gola, mentre quando poi veniva da noi a lavorare simostrava energica e sicura, lieta di chiacchierare, soprattutto di sestessa. E di solito non trovava altri interlocutori a parte me. La divi-

sione dei compiti tra lei e mia madre comportava che fossero quasisempre separate, e comunque non credo che avrebbero gradito con-versare insieme. Mia madre, come ho detto, era una persona seria,che aveva fatto l’insegnante a scuola prima di fare da maestra a me.Forse le sarebbe piaciuto che Sadie fosse il tipo bisognoso di aiuto,qualcuno da istruire sul galateo del parlare quando diceva «voialtri».Ma Sadie non dava tanto l’impressione di volere l’aiuto di qualcuno,né di voler parlare in maniera diversa da come aveva sempre fatto.

opo pranzo Sadie e io restavamo sole in cucina. Miamadre si prendeva una pausa per un sonnellino e, seera fortunata, dormivano un poco anche i bambini.Quando si alzava si cambiava d’abito, come se siaspettasse un pomeriggio libero da impegni, anchese non sarebbero mancati di sicuro altri pannolinida cambiare, nonché quell’altra indecorosa incom-

benza che mi sforzavo sempre di non guardare, quando l’ultima na-ta s’ingozzava di latte attaccata al suo seno.

Faceva il sonnellino anche mio padre: non più di un quarto d’orain veranda con il Saturday Evening Postaperto sulla faccia, prima ditornare al lavoro nel granaio.

Sadie scaldava l’acqua sulla stufa e lavava i piatti col mio aiuto econ gli scuri chiusi per tenere fuori il caldo. Quando avevamo finito,lavava il pavimento e io asciugavo, utilizzando un sistema di mia in-venzione: quello di pattinare in giro per la cucina scivolando suglistrofinacci. Poi rimuovevamo i rotoli di carta moschicida gialla e ap-piccicosa che avevamo piazzato dopo colazione ed erano già neri dimosche morte o ancora ronzanti e li sostituivamo con altri nuovi chea loro volta si sarebbero riempiti di cadaveri entro l’ora di cena. Pertutto il tempo Sadie mi raccontava della sua vita.

Allora non mi era facile giudicare l’età della gente. Il mondo si di-videva in grandi e bambini e lei per me era grande. Poteva avere se-dici anni, ma forse anche diciotto o venti. In ogni caso, le piaceva ri-petere di non avere nessuna fretta di sposarsi.

Andava a ballare tutti i sabati sera, ma sempre da sola. Da sola e per sé sola, come diceva lei. Mi raccontava della sala da ballo. Ce n’era una in paese, poco lon-

tano dalla via principale, che d’inverno ospitava le piste da curling.Pagavi dieci centesimi e potevi salire a ballare sulla pedana con tut-ta la gente intorno che ti fissava; non che a lei importasse. Ci tenevaa sborsarli di tasca sua, i dieci centesimi, per non dover dir grazie anessuno. Ma qualche volta un giovanotto la anticipava. Le chiedevase voleva ballare e lei, per prima cosa, gli chiedeva di brutto “tu seicapace? Sai ballare?”. L’altro la guardava stranito e rispondeva “cer-to”, altrimenti cosa ci avrebbe fatto lì? E di solito si scopriva che perballare intendeva trascinarsi sui piedi qua e là tenendola stretta conle manacce sudate. Certe volte li lasciava impalati sulla pista e si met-teva a ballare da sola — che era quello che le piaceva fare, in ogni ca-so. Finiva il giro pagato e, se il cassiere protestava e cercava di farlapagare per due anziché uno, lei gli diceva di farseli bastare. Che ri-dessero pure vedendola ballare da sola, se ne avevano voglia.

L’altra sala era appena fuori del paese, sulla statale. Da loro si pa-gava all’ingresso e non per un solo ballo, ma per tutta la sera. Il loca-le si chiamava Royal-T. Anche lì Sadie pagava per sé. Di solito i bal-lerini erano di livello superiore, ma lei cercava comunque di farsiun’idea di come se la cavassero prima di permettere a chiunque diportarla in pista. Erano perlopiù ragazzi del paese, mentre quegli al-tri arrivavano dalle campagne. In fatto di piedi erano meglio — que-sti del paese — ma non sempre era dei piedi che ti dovevi preoccu-pare. Bensì di dove volevano mettere le mani e stringere. Certe vol-te era costretta a minacciarli recitando articoli di legge e a chiarirebene come si sarebbe comportata se non la piantavano. Faceva pre-sente che lei era venuta per ballare e che si era pure pagata il bi-glietto. Per giunta, sapeva dove colpirli. Come rimetterli in riga. Ognitanto qualche ballerino in gamba c’era e allora si divertiva. E quan-do attaccavano l’ultimo pezzo, lei schizzava a casa.

Non era come certe altre, diceva. Non intendeva farsi acchiappa-re. Acchiappare. Quando diceva così, io immaginavo una grossa re-te che ti cala addosso, dei mostriciattoli che te la stringono attornofino a soffocarti senza lasciarti scampo. Sadie dovette intuire qual-cosa del genere dalla mia faccia, perché mi disse di non aver paura.

«Non c’è niente di cui aver paura a questo mondo, basta stare at-tenti».

«Tu e Sadie chiacchierate tanto» disse mia madre.Sapevo di dover stare in guardia, ma non sapevo da cosa.«Ti piace Sadie, vero?».Dissi di sì.«Beh, lo credo. Anche a me piace».Speravo che potesse essere tutto e per un momento mi illusi che

fosse così.

UANDO avevo cinque anni i miei genitori di punto in bianco

fecero un bambino, cosa che secondo mia madre avevo

sempre desiderato. Dove avesse rimediato quell’idea, non

lo so. Ci ricamò sopra parecchio, anzi; tutte cose di sua in-

venzione, ma non facili da contraddire. Un anno dopo ar-

rivò una bambina e ci fu di nuovo un certo trambusto, ma in tono minore ri-

spetto all’altra volta. Fino alla comparsa del primo bambino non mi era mai

successo di sentirmi diversa da come mia madre sosteneva che mi sentissi.

Niente di cuiavere paura

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QUNA BAMBINA,

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Alice Munro

la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 31

Invece: «Noi due non abbiamo più tanto tempo, adesso che ci so-no i bambini. Non ci lasciano tanto tempo, eh? Però vogliamo beneai fratellini, vero?».

Mi affrettai a dire di sì.E lei: «Davvero, davvero?».Non si sarebbe fermata finché non avessi risposto «davvero, dav-

vero», perciò l’accontentai. Mia madre voleva tantissimo qualcosa. Le amiche giuste, forse?

Signore che giocassero a bridge e avessero mariti che andavano a la-vorare in completo e gilè? Non proprio e comunque per quello nonc’era speranza. Oppure voleva me com’ero una volta, disposta a sta-re ferma mentre mi faceva i boccoli e a recitare a menadito il cate-chismo? Ma non aveva più tempo ormai per quelle cose. Per giuntauna parte di me le si ribellava contro sebbene né lei né io capissimoperché. Alla scuola domenicale non mi ero fatta nessuna amica delpaese. In compenso, avevo un’adorazione per Sadie. Sentii mia ma-dre dire così a mio padre: «Ha un’adorazione per Sadie».

Mio padre ribatté che Sadie era un dono del cielo. Cosa intendeva?Lo disse in tono allegro. Forse voleva solo chiarire che non era sua in-tenzione schierarsi dalla parte di nessuna delle due.

«Ci vorrebbero dei marciapiedi decenti per la bambina — dissemia madre —. Magari con dei marciapiedi decenti andrebbe in pat-tini a rotelle e si farebbe qualche amica».

I pattini a rotelle li avrei voluti, eccome. Ma a quel punto, chissàpoi perché, sapevo che non l’avrei mai ammesso. Poi mia madre dis-se qualcosa sul fatto che sarebbe andata meglio, con l’inizio dellascuola. Che sarei stata meglio io o che sarebbe andato meglio qual-cosa a proposito di Sadie. Non avevo voglia di sentire.

Sadie mi stava insegnando qualcuna delle sue canzoni e io sapevodi non valere un granché come cantante. Speravo tanto che non fos-se quella la situazione da migliorare o da interrompere. Non volevoproprio smettere.

Mio padre non aveva molto da dire. Ero da sempre appannaggiodi mia madre, tranne più tardi, quando diventai davvero insolentee mi si dovette castigare. Mio padre aspettava che crescesse mio fra-tello; lui sarebbe stato di sua competenza. I maschi non sono cosìcomplicati. E mio fratello non lo era. Crebbe senza mai dare un pen-siero.

rmai la scuola è cominciata. È successo qualche set-timana fa, prima che le foglie diventassero gialle erosse. E poi cadessero dai rami, quasi tutte. Non hoil cappotto dei giorni di scuola, ma quello bello, conil colletto e i polsini di velluto scuro. Mia madre hamesso il cappotto che porta in chiesa e un turban-te le nasconde i capelli quasi completamente.

C’è lei al volante, mentre andiamo dove stiamo andando. Nonprende spesso la macchina e ha una guida più studiata eppure piùinsicura di quella di mio padre. Dà un colpo di clacson a ogni curva.

«Eccoci» dice, ma le ci vuole un po’ per sistemare l’auto nel po-steggio. «Eccoci arrivate». La voce sembra volermi tranquillizzare.Mi sfiora la mano per darmi modo di prendere la sua, ma io fingo dinon essermene accorta e lei la ritira.

La casa non ha né un vialetto d’ingresso né un marciapiede. Unedificio decoroso seppure modesto. Mia madre sta per bussare conla mano guantata, ma a quanto pare non è necessario. La porta siapre. Lei aveva cominciato a dirmi qualche parola di incoraggia-mento — qualcosa tipo «vedrai che faremo più in fretta di quantopensi» — ma non riesce a finire. Il tono era fermo ma vagamente con-solatorio. Appena la porta si apre cambia, però, si fa più sommesso,soffocato, come se stesse chinando la testa.

Hanno aperto per fare uscire qualcuno, non solo per fare entrarenoi. Una delle donne in uscita si gira ancora a dire, senza sforzarsi af-fatto di parlare sottovoce: «È la signora dove lavorava, con la bam-bina». E una donna abbastanza ben vestita viene a parlare con miamadre e l’aiuta a togliersi il cappotto. Dopodiché, mia madre mi fasfilare il mio e dice alla donna che volevo molto bene a Sadie. Sperache non sia un problema avermi portata.

«Oh, gioietta» dice la donna, e mia madre mi tocca appena per far-mi capire che devo salutare.

«A Sadie piacevano tanto i bambini — dice la donna —. Tantissi-mo».

Noto la presenza di altri due bambini. Maschi. Li conosco da scuo-la: uno fa la prima insieme a me, l’altro è più grande. Stanno sbir-ciando da una stanza che deve essere la cucina. Il più piccolo si infilain bocca un biscotto tutto intero, per far ridere, mentre quell’altro,il grande, fa una smorfia schifata. Non rivolta al gesto del biscotto,ma a me. Mi detestano, ovviamente. Coi maschi i casi erano due, seti incontravano in un posto che non fosse la scuola o ti ignoravano(ma ti ignoravano anche a scuola) oppure ti facevano quelle facce eti chiamavano in modi orrendi. Tutte le volte che dovevo avvicinar-mi a uno di loro, mi irrigidivo e non sapevo come comportarmi. Na-turalmente era diverso se c’erano degli adulti in giro. I due bambiniin questione non dicevano niente ma finché non venne qualcuno atrascinarli in cucina, continuai a sentirmi in pena. A quel punto miaccorsi della voce particolarmente cortese e compassionevole di miamadre, perfino più sofisticata di quella della signora con cui stavaparlando, e pensai che forse la smorfia era rivolta a lei. A volte qual-cuno le faceva il verso, quando veniva a chiamarmi a scuola.

Intanto la donna con cui parlava, che sembrava fare le veci dellapadrona di casa, ci scortò verso un divano in un angolo sul quale se-devano un uomo e una donna che davano l’impressione di non sa-pere bene perché si trovassero lì. Mia madre si chinò a dire loro qual-cosa in tono molto rispettoso, indicandomi.

«Voleva un gran bene a Sadie», diceva. Sapevo che avrei dovutoaggiungere qualcosa, ma prima che potessi farlo, la donna sedutaemise un ululato. Non guardava in faccia nessuno di noi e il suono chele uscì di bocca pareva quello che uno potrebbe lasciarsi sfuggire sen-tendosi mordere o azzannare da un animale. Si picchiava le bracciacome a voler scacciare il misterioso aggressore, che tuttavia non ac-cennava ad andarsene. E rivolse a mia madre uno sguardo come sedovesse toccare a lei fare qualcosa in proposito.

Il vecchio le disse di calmarsi.«È un colpo tremendo per lei — commentò la nostra guida —. Non

sa quel che si fa». Si abbassò un po’ di più e disse: «Su, su. Così spa-venta la bambina».

«Spaventi la bambina» ripeté ubbidiente il vecchio.Dopo quelle parole, la donna smise di urlare e prese ad accarez-

zarsi le braccia graffiate come se non sapesse chi gliele aveva ridot-

te così. Mia madre disse: «Povera donna».«Figlia unica per giunta» disse la nostra accompagnatrice. E a me:

«Non avere paura».Avevo paura invece, ma non delle urla. Sapevo che da qualche par-

te c’era Sadie e non volevo vederla. Mia madre non aveva dettoespressamente che avrei dovuto, ma neppure che non avrei dovuto.

Sadie era rimasta uccisa mentre tornava a casa a piedi dalla salada ballo Royal-T. L’aveva investita una macchina nel breve tratto distrada di ghiaia fra il parcheggio della sala e l’inizio del vero e propriomarciapiede del paese. Probabilmente procedeva di buon passo, co-me al solito, e di sicuro pensava che le auto l’avrebbero vista, o cheaveva lo stesso diritto loro di trovarsi sulla strada, e forse la macchi-na alle sue spalle aveva sterzato o forse Sadie non camminava esat-tamente dove credeva. L’auto che la investì cercava di svincolarsi daquella che aveva subito dietro la quale invece tentava di far svoltarela prima su una via del paese. Si era bevuto parecchio nel locale, an-che se la sala non era autorizzata alla vendita di alcolici. E alla fin diuna serata, c’era sempre baccano di clacson, gente che gridava, por-

tiere che sbattevano. Pur marciando spedita senza neppure una tor-cia elettrica, Sadie doveva essersi comportata come se toccasse a tut-ti gli altri preoccuparsi di evitarla.

«Una ragazza che se ne va a ballare a piedi senza un accompa-gnatore» disse la donna ancora in vena di cortesie nei confronti dimia madre. Parlava a voce bassa e mia madre le mormorò qualcosain tono dispiaciuto. «Era andarsela a cercare» aggiunse la donna cor-diale, abbassando ulteriormente la voce.

A casa avevo sentito discorsi che non capivo. Mia madre avrebbevoluto che si facesse qualcosa che forse riguardava Sadie e l’auto chel’aveva investita, ma mio padre diceva di lasciar perdere. Noi nonc’entriamo con quello che succede in paese, disse. Non provai nep-pure a decifrare le loro parole, perché mi sforzavo di non pensare af-fatto a Sadie, meno che mai da morta. Avevo sperato con tutta mestessa di non andare a casa di Sadie, quando avevo capito che quel-la era l’intenzione, ma non ero riuscita a escogitare nessuna via discampo tranne quella di assumere un atteggiamento estremamen-te ostile.

Ora, dopo la crisi della vecchia sul divano, mi pareva che potessi-mo girare sui tacchi e andarcene. Avrei evitato di ammettere la ve-rità, e cioè che l’idea di qualsiasi cadavere mi terrorizzava.

Proprio quando pensavo di avercela fatta, sentii mia madre e ladonna che ormai sembrava sua connivente parlare della peggioreprospettiva possibile.

Vedere Sadie.Sì, diceva mia madre. Certo che dovevamo vedere Sadie.La morta.Avevo tenuto gli occhi perlopiù bassi, limitando grossomodo la vi-

sta a quei due bambini poco più alti di me e alla vecchia coppia se-duta. Adesso, però, mia madre mi portava per mano da un’altra par-te.

La bara era lì, nella stanza, sin dal principio ma io l’avevo scam-biata per qualcosa di diverso. Data la mia inesperienza in materia,non sapevo bene come fosse fatta.

Poteva essere un ripiano per appoggiare fiori, l’oggetto al quale cistavamo avvicinando, oppure un pianoforte chiuso.

Forse la gente intorno ne aveva in qualche modo mascherato le di-mensioni reali, la forma e l’effettiva profondità. Ora tuttavia quellestesse persone ci lasciavano rispettosamente passare e mia madremi parlava a voce bassissima.

«Su, vieni» mi disse. La sua gentilezza mi parve odiosa, trionfan-te. Si chinò a guardarmi in faccia ed ero certa che il gesto servisse aimpedirmi di fare quello che avevo appena pensato: tenere gli occhiben chiusi. Poi distolse lo sguardo, ma continuò a tenermi stretta permano. Riuscii comunque ad abbassare le palpebre non appena nonebbi più i suoi occhi addosso, ma decisi di non chiudere i miei per noncorrere il rischio di inciampare o di farmi spingere da qualcuno pro-prio dove non volevo ritrovarmi. Ero in grado di indovinare solo l’im-magine sfocata dei fiori rigidi e il luccichio del legno verniciato.

Poi sentii mia madre tirare su col naso mentre mi trascinava via.Poi lo scatto della borsetta che si apriva. Dovendo infilarci dentro lamano, allentò la presa sulla mia e potei liberarmi. Lei piangeva. Eragrazie allo spostamento dell’attenzione sulle sue lacrime e sul suonaso che avevo ottenuto la libertà.

Guardai dritto dentro la bara e vidi Sadie. L’incidente le aveva risparmiato faccia e collo, ma non me ne ac-

corsi subito. Ebbi solo l’impressione generale che non ci fosse nientedi così brutto in lei, a differenza di quello che avevo temuto. Chiusigli occhi velocemente ma scoprii che era più forte di me, dovevo tor-nare a guardare. Prima di tutto il cuscino giallo che aveva sotto la nu-ca e che in qualche modo copriva al mio sguardo anche mento e golae l’unica guancia in vista. Il trucco era guardare in fretta un pezzet-to di lei, e tornare subito al cuscino, e la volta dopo guardare un po’ dipiù, senza avere paura. E alla fine guardare Sadie, tutta completa ocomunque tutta quella che potevo vedere del lato disponibile.

ualcosa si mosse. L’avevo visto bene, la palpebra siera mossa. Non si era aperta, e nemmeno socchiu-sa, niente del genere; giusto sollevata appena ap-pena, quel tanto che le avrebbe permesso, a esse-re lei, a essere dentro di lei, di vedere attraverso leciglia. Magari solo di distinguere che cosa era chia-ro e che cosa era scuro, là fuori.

Non fui affatto sorpresa in quel momento e nemmeno spaventa-ta. La cosa che avevo visto corrispose immediatamente a tutto ciòche sapevo di Sadie, ma era anche congruente con l’esperienzastraordinaria in serbo per me. E neppure mi sognai di richiamare l’at-tenzione di qualcun altro su quel che accadeva, perché non succe-deva per loro, bensì per me sola.

Mia madre mi aveva ripresa per mano e disse che era ora di anda-re. Ci fu ancora qualche scambio di battute, ma l’attimo dopo, mi par-ve, ci ritrovammo già fuori.

Mia madre mi disse: «Bene». Mi strinse forte la mano e aggiunse:«Allora. È andata». Dovette fermarsi a parlare con qualcun altro di-retto alla casa, poi salimmo in macchina e ripartimmo. Avevo la sen-sazione che avrebbe voluto sentirmi pronunciare un commento odirle qualcosa, ma non lo feci.

Non ebbi nessun’altra visione di quel genere e, a dire la verità, Sa-die svanì piuttosto in fretta dai miei pensieri, scombussolata com’e-ro dalla scuola dove imparai a destreggiarmi alternando curiosa-mente esibizionismo e terrore mortale. Di fatto, la sua importanzasi era già ridimensionata quella prima settimana di settembre,quando aveva detto che doveva rimanere a casa a badare a suo pa-dre e sua madre e che perciò non avrebbe più lavorato da noi. E poiinvece mia madre aveva scoperto che lavorava al caseificio.

Eppure per parecchi anni, ogni volta che pensavo a lei, non avevoil minimo dubbio su ciò che mi era stato mostrato. Moltissimo tem-po dopo, quando ormai non nutrivo più il minimo interesse versoqualsiasi fenomeno anormale, continuavo ad avere l’idea che quel-la cosa fosse successa. Ci credevo serenamente, come possiamo cre-dere, per non dire ricordare, di aver avuto in passato un’altra den-tatura completa, ora scomparsa ma non per questo meno vera. Fin-ché un giorno, quando potevo perfino essere già ragazza, seppi, conun vago senso di vuoto dentro di me, che ora non ci credevo più.

(Traduzione di Susanna Basso)© 2012 Alice Munro. All rights reserved

© 2014 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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DOMENICA 4 MAGGIO 2014 32LA DOMENICA

IOVANNI, lo sai che cosa succede adesso?», dicela Benemerita Soubrette stringendo il bracciodi Giovanni Lindo Ferretti. «Posso immaginar-lo», risponde lui. Una splendida Annarella bal-la, i lunghissimi capelli sciolti seguono il ritmodei movimenti del corpo. Il vestito che indossasembra muoversi con lei. È uno dei tanti abiticreati per le esibizioni dei CCCP-Fedeli alla li-nea, la band che ha cambiato la musica, la sto-ria del costume italiani oltre che la vita di unacospicua parte di giovani negli Anni 80. «Il ve-stito era fatto di code di cavallo», spiega Anna-

rella. «Segno del destino», dice Giovanni, che coi cavalli passa buona parte del suo temponella casa di Cerreto Alpi dove è nato, a mille metri, e in cui da molti anni è tornato a vivere.

Siamo a Reggio Emilia e stiamo guardando un video in una sala dello Spazio Gerra che,per il festival Fotografia Europea, ospita la grande mostra dedicata ai CCCP voluta, creata eallestita da Annarella Giudici, altrimenti nota come la “Benemerita Soubrette” che insiemeal cosiddetto “artista del popolo” Danilo Fatur costituiva la parte di teatro-performance delgruppo. Un qualcosa che non si era mai visto prima e che ha contribuito a fare dei CCCP ungruppo profondamente diverso da tutto ciò a cui l’Italia era abituata. «Il video», spiega An-narella, «documenta l’ultimo concerto dei CCCP e si è tenuto proprio qui, a Reggio». Arrivail brano successivo, la voce di un giovane Ferretti con cresta punk rosso fiammante canta “iosono l’Anarchia/ ecco un altro Anticristo/ ma eri solo carino/ proprio carino/ pigro di testa eben vestito...”. Anche Annarella torna sul palco con un abito fatto di barattoli di crema Ni-vea: «Quello ce l’aveva Massimo Zamboni ma l’ha perso, poverino, c’è rimasto così male anon ritrovarselo più. Ma sai, allora non si dava più di tanta importanza a certe cose».

Massimo Zamboni, il chitarrista, è l’altroelemento fondamentale dei CCCP. Incon-triamo anche lui qualche giorno dopo: «Erail 1981 e decisi di fare l’autostop fino a Berli-no: ci misi cinque giorni. Trovai una casa oc-cupata dove stare, un lavoro da cameriere inuna pizzeria e mi mantenevo così. Una sera,in discoteca, qualcuno mi batte sulla spalla,mi volto: era un’amica di Reggio che mi pre-senta un altro delle nostre parti “che doma-ni parte per la Tunisia”? Aveva una valigia inmano, aveva la febbre: era Giovanni LindoFerretti. Fu amore a prima vista. Gli dissi:“Vieni da me”. Non partì più».

Altro passo indietro. L’intervista a Anna-rella e a Ferretti, dopo lo Spazio Gerra conti-nua nell’erboristeria oggi gestita dalla “Be-nemerita”. Che subito precisa: «Io di intervi-ste non ne faccio. Non ne ho mai fatte». Instrada ci sono ancora gli striscioni per il 25Aprile. «Solo qui a Reggio poteva nascere ungruppo con un nome come il nostro». C’è unpubblico enorme, oggi fatto anche di mol-tissimi giovani, che adora e continua a com-prare dischi e memorabilia dei CCCP, che pu-re si sono sciolti con il Muro di Berlino, nel lon-tano 1989. Tanto che sia Ferretti che Zam-boni, ognuno con un proprio gruppo, hannoripreso a cantarne le canzoni. E adesso staper uscire un vinile singolo a tiratura limita-

ta, un libro pieno di foto, tra cui alcune ine-dite di Luigi Ghirri e, per finire, una mostrache li celebra nella loro Reggio Emilia.

Ma come sono nati i CCCP?

Ferretti: «Dopo Berlino ci era venuta, conMassimo, l’idea di fare una band e della par-tita faceva parte Zeo, il fratello di Annarella,che suonava la batteria». «Andammo anchea Roma da Edmondo Berselli, a L’Espresso,tanto eravamo convinti delle nostre capa-cità, con una valigetta con dentro le nostrefoto perché le pubblicasse», aggiunge An-narella. Cosa successe? «Stai mica regi-strando?». «Certo che sta registrando, èun’intervista, ma tu non pensarci Annarel-la…», interviene in aiuto Giovanni. Che con-tinua a raccontare. «Andammo da lui perchépensavamo che si facesse così...». E Bersellicosa vi disse? «Ci chiese informazioni tecni-che sulle fotografie ma io non ero in grado dirispondergli. In quelle foto c’era un’esteticache sarebbe poi stata quella dei CCCP».

Vi vestivate già punk?

«Eravamo vistosissimi e fieri di noi», ri-sponde Annarella. «Una volta, appena usci-ti dal portone di casa, una macchina ha in-chiodato per vederci, un’altra che arrivavale è finita nel culo e una terza pure, in fila,tump! tump!, tump!», ricorda Giovanni.

Furono punk filosovietici nell’Italia Anni 80Poi si sono sciolti. Ora tornano con un libroe una mostra. Siamo andati a Reggio Emiliaper chiedergli: vi rimetterete mai insieme?

LUCA VALTORTA

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GIOVANNI LINDOFERRETTI(1953,CERRETO)CANTA ANCORAÈ DIVENTATOCATTOLICOLA SUA PASSIONESONO I CAVALLI

la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 33

«Un’altra volta, al bar di Castelnuovo Monti,ho incontrato uno dei miei matti del periodoin cui facevo l’operatore psichiatrico. Mi havisto con la cresta colorata e mi ha abbrac-ciato (non mi toccava mai): “Giovanni eraora che venissi dalla nostra parte”, mi disse».

Eravate gli unici punk a Reggio?

«C’erano dei punk a Carpi che avevano ilTuwatt, una vecchia scuola occupata che sisarebbe trasformata nel punto di riferimen-to della scena punk locale. Lì abbiamo cono-sciuto Danilo Fatur, che sarebbe poi diven-tato il nostro “Artista del Popolo”. Allora sichiamava José Lopez Macho Frasquelo e lì fa-ceva il barista e lo spogliarellista. Lo assol-dammo subito. Però era assolutamente ne-cessario bilanciarlo: era una presenza trop-po animale. L’unica persona che poteva te-nerlo a bada era Annarella. Che serviva atemperare anche noi perché il palco deiCCCP era molto, molto difficile. Perché? Per-ché Fatur era un pazzo: una sera è arrivatosul palco con una sua scultura mobile. In pra-tica era un falcetto legato a una ruota che gi-rava. Io e Zamboni ci siamo guardati e ab-biamo visto che era legato con qualcosa chesembrava non vedesse l’ora di rompersi e vo-lare rasente le nostre gole. Un’altra volta èuscito con una trappola da lupi vera, aperta,e la esibiva al pubblico che non sapeva beneche cosa fosse: se qualcuno avesse messo lì lamano gliel’avrebbe mozzata all’istante».

Ma eravate davvero comunisti?

«Venivamo da lì: c’era ironia, sarcasmoma anche buoni sentimenti. Dopodiché il Pcirivoluzionario qui è stato fatto fuori da To-gliatti come esperimento ed è venuto fuori ilPci dei ceti medi riformisti».

Poi, come molti ormai sanno, ti sei con-

vertito: ti ha spiazzato Papa Francesco?

«Mi ha spiazzato Ratzinger: non me loaspettavo e per due giorni sono rimasto cu-po a riflettere. Poi quando ho visto l’insedia-mento del nuovo Papa ho capito che quelloera stato l’ultimo, straordinario dono di Be-nedetto XVI: a differenza di alcuni cattolicitradizionalisti io mi sono emozionato quan-do ha salutato con quel “Buonasera” e chie-sto alla folla una benedizione. È una cosa del-la tradizione della Chiesa bizantina, detta daun Papa gesuita».

Perché vi siete sciolti?

«Non c’è un motivo. Era finita».Ti ritieni ancora “Fedele alla Linea?”

«Assolutamente, alla mia, fatta di sbagliche rivendico tutti perché se non li avessi fat-ti non sarei come sono oggi».

Possibilità di rivedere tutti i CCCP ancora

insieme, almeno per un’ultima volta?

Giovanni: «Quello che deve accadere ac-cade». Annarella: «Non facciamo program-mi». Zamboni: «Se rinascessero a tavolinosarebbero un prodotto».

DANILO FATUR“L’ARTISTADEL POPOLO”OGGI FAIL BOSCAIOLOIL SUO ULTIMODISCO S’INTITOLA“CESSO 2012”

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ANNARELLAGIUDICILA PIÙ GIOVANEDEL GRUPPOOGGI GESTISCEL’ERBORISTERIACOSMONATURA A REGGIO EMILIA

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NON RINNEGO NULLADEL MIO PASSATO.SONO SEMPRE STATO

FEDELE A UNA LINEA,LA MIA. E SE HO FATTOSBAGLI NON RINNEGONEPPURE QUELLI. ANZILI RIVENDICO. SE NON NEAVESSI FATTI NON SAREICOME SONO OGGI. QUEL CHE DEVE ACCADEREACCADE SEMPRE

GIOVANNI LINDO FERRETTI

UNA SERA, A BERLINO,IN UNA DISCOTECA,QUALCUNO MI BATTE

SULLA SPALLA, ERA UN’AMICA DI REGGIO CHE MI PRESENTA UN ALTRODELLE NOSTRE PARTI ERA IN PARTENZA PER LA TUNISIA. AVEVA UNA VALIGIA IN MANO E LA FEBBRE: ERA GIOVANNILINDO FERRETTI

MASSIMO ZAMBONI

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FOTO DI GRUPPOLA BANDCON AMANDA LEARNEL 1988. DALL’ALTOIN SENSO ORARIO:IL MANIFESTOANTI CINESEDEI CCCP E LO SHOW“PSICOLABILE” (1985)

la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 34LA DOMENICA

HIC O DEPRESSIVO, simbolo di vita in Africa (nere sono le nu-vole che portano la pioggia) e di lutto e rinuncia in Occi-dente, colore di pelle da rivendicare con orgoglio e insultodi un’ideologia nefasta, identificato con lo yin — la partefemminile — secondo la medicina tradizionale cinese ecomplementare al rosso nel primo dei sette chakra, i centrienergetici della religione induista. Il nero è un non-colore —ovvero l’assenza di colore — complesso e speciale, amato eodiato in tutti i tempi e da tutte le arti, compresa quella cu-linaria.

L’opera al nero tradotta in cucina ha vissuto un passatopiuttosto faticoso, questione di sopravvivenza e cautela, so-prattutto in Occidente. Esattamente come per l’amaro, in-

fatti, nel nostro Dna il nero è marchiato dal segnale di pericolo. Cibi rischiosi perché forsevelenosi, forse putrescenti, sicuramente poco affidabili. Così il tartufo è stato a lungo iden-tificato con il cibo del diavolo: cotture lunghissime per cancellarne gli effluvi mortiferi,esattamente come erbe e radici — dalla liquirizia in su — assurte a benevolmente dige-stive molti secoli dopo il loro avvento sulla terra.

Diverso l’approccio culinario orientale, che ha nella conoscenza di erbe, funghi, semi, spe-zie uno dei suoi capisaldi, insieme a sapien-tissime pratiche di essiccazione e fermenta-zione, dalle uova “dei cent’anni” cinesi alkimchi coreano. Nero è il tè e neri sono i semidi sesamo alla base della colazione tradizio-nale, nere le alghe per fare il brodo ed evita-re che le zuppe di legumi provochino gonfio-re.

Redimere il nero dal nostro inferno ga-stronomico, è stato un processo lungo e pe-riglioso, legato ai progressi della scienza ealla curiosità indomita dei cuochi, binomio

vittorioso che ha permesso a un crescentenumero di alimenti scuri, scurissimi, di ap-prodare finalmente sulle tavole, declinatiin cento ricette celeberrime, dalla sfoglia-tina di patate e caviale di Vittorio Fusari alcappuccino al nero di seppia di Massimilia-no Alajmo. Il terzo elemento è stata la mo-da, pronta ad acclamare il nero a tavolaesattamente come sulle passerelle del pret-à-porter. Quando a metà degli anni ‘80, i ge-melli Philippe e Christian Conticini apriro-

Nero è buono.Contrordine,altro che cibo del diavolo:fa tanto chic e sta bene con tuttoLICIA GRANELLO

Sapori. Black power

no la “Table d’Anvers” a Parigi, i grandipiatti neri, studiati per far risaltare al mas-simo il rosso corallo dell’aragosta, divenne-ro uno dei simboli della nuova cucina d’au-tore, bella da vedere e non solo da gustare.Uno strappo alla regola aurea dei piattibianchi, rapidamente mutuato per posatee perfino bicchieri.

Finalmente buono e bello, il nero si è sco-perto anche straordinariamente salubre,grazie alla ricchezza di antociani, in primafila nella lotta all’ossidazione dei tessuti.Nero è l’olio di semi di zucca, con potentiproprietà protettrici della prostata, neri imirtilli che preservano l’elasticità dei vasisanguigni, neri i semi di sesamo, con il lorotrionfo di calcio, magnesio, proteine e aci-di grassi, neri i fagioli tutto ferro anti-ane-mia. Nera anche l’uva, regina del benedet-to resveratrolo: se ne volete fare provvistain versione liquida, organizzate una gita aNapoli, pronta a ospitare la nuova edizioneWine&The City, in programma dal 20 al 24maggio: quattro giorni e oltre cento indi-rizzi sparsi in tutta la città — enoteche e wi-ne-bar, ma anche boutique, gallerie d’artee giardini — tra degustazioni, reading, pre-sentazioni e concerti, con il vino protago-nista. Ammessi anche i patiti di bianchi ebollicine.

ORIGINARIAMENTEGLI ALIMENTI SCURI

ERANO RITENUTIPERICOLOSI

E INVECEDAL TARTUFO

ALL’OLIO DI SEMI L’INFERNO

GASTRONOMICOÈ FINITO.

PER SCOPRIREINSOSPETTABILI

QUALITÀ

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Il libroL’agronomo Davide Ciccarese

ha scritto “Il libro nerodell’agricoltura” per Ponte

alle Grazie, in cui denuncia i rischi della produzioneintensiva, dagli ortaggi fuori stagione importati

dall’altra parte del mondo ai terreni contaminati

dai pesticidi fino agli Ogm

La ricercaSi chiama “Sun black”

il pomodoro nero appena uscitosul mercato dopo cinque anni

di ricerche nei laboratori della Scuola Superiore

Sant’Anna. Il colore nerastro è frutto di un arricchimento

genetico con gli antociani di uvae mirtilli.Verrà commercializzato

in versione ciliegino e standard

Le pentoleLa tradizione delle pentole

di ghisa targata Alsazia per decenni ha fatto identificare

il colore nero con la cucinasalutare: cotture lente a fuoco

bassissimo, risparmio di grassi,conservazione di fragranza

e profumi. L’introduzione recentedel colore ha aggiunto un tocco

di glamour (ma tolto fascino)

C

la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 35

INVENZIONE dicomplessi plasticisaporiti, la cuiarmonia originale diforma e colore nutra

gli occhi ed ecciti la fantasia prima ditentare le labbra». Esempio: IlCarneplastico creato dal pittore futuristaFillìa, interpretazione sintetica deipaesaggi italiani, è composto di unagrande polpetta cilindrica di carne divitello arrostita ripiena di undici qualitàdiverse di verdure cotte. Questo cilindrodisposto verticalmente nel centro delpiatto, è coronato da uno spessore dimiele e sostenuto alla base da un anellodi salsiccia che poggia su tre sfere doratedi carne di pollo.Così proclama il maitre Tommaso FilippoMarinetti nel Manifesto sulla cucinafuturista del 1931. La storia dell’arte è una sequenzaiconografica di cotto e di crudo, materieorganiche e nature morteaccompagnano la sua evoluzione. Formae colore diventano elementi costitutividell’immagine sin dall’ellenismo. Tra il IIe il III secolo a. C. su pavimenti di mosaicoe affreschi erano rappresentatidecorazioni con resti di cibo, come ilimoni attribuiti a Sosos. Proseguendonel tempo arriviamo alla natura mortacome genere e qui primeggiaCaravaggio con la sua Canestra di frutta(1596) un tripudio cromatico che rendeancor più appetibile la frutta offertaall’occhio e al palato. Fino ad arrivare alla teoria del colore dicui si occupa prima Goethe e poiKandiskij che descrivono la diversaincidenza del timbro cromatico sullasensibilità dello spettatore. Sempre piùl’elemento visivo diventa ornato dellatavola. Con Cezanne c’è solo l’imbarazzodella scelta. Prevale una degustazionepolisensoriale delle diverse materie,composte e scomposte nelle diversecompilazioni non soltanto cubiste. Maanche nel secondo dopoguerra gli artisticontinuano a riferirsi al cibo per trovarvinutrimento per le proprie immagini.Nel 1968 Daniel Spoerri apre aDüsseldorf un ristorante in cui serve ciboda lui stesso preparato e opere frutto deiresti della sua cucina. Entra in campo ilconcetto di metamorfosi,trasformazione delle materie e dei colorisotto i colpi del tempo. Mario Merz sulsuo tavolo a spirale presenta unapolicromia di frutta e ortaggi destinati aun naturale degrado.Se artisti americani come Oldenburg eWarhol hanno tramutato in immagini ilcibo, altri europei ne hanno fatto materiadell’opera: il cioccolato di Vettor Pisani,lo zucchero di Mondino, la carne diKounellis, il sale di Paladino, il pane diPascali. Ma su tutti vola alto Man Ray colPane dipinto (1958), una baguettedipinta di un blu che anticipa il colore diYves Klein. Ancora una volta domina ilcolore scelto dall’artista dadaista che conquesto timbro cromatico pare mettere innavigazione nell’infinito dello spazio ilnostro pane quotidiano.

Apparecchiala tavolozzacosì la cucinacolora l’arte

ACHILLE BONITO OLIVA

9

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Ravioli del Plin al Cevrin di Coazze

La ricetta

LO CHEF

MATTEOBARONETTO,AVIGLIANESETRENTASEIENNE,DOPO QUASIVENT'ANNICON CRACCOGUIDA DA POCO IL PIÙ PRESTIGIOSORISTORANTE DI TORINO,"IL CAMBIO".UNISCE GENIALITÀE TERRITORIO,COME IN QUESTARICETTA IDEATAPER REPUBBLICA

INGREDIENTI

PER LA PASTA: 350 G. DI FARINA “00”, 250 G. DI FARINA DI RISO,

260 G. DI ALBUME, 20 G. DI ACQUA MINERALE, 6 G. DI SALE,

8 G. DI NERO DI SEPPIA IN POLVERE

PER IL RIPIENO: 70 G. DI CEVRIN DI COAZZE , 280 G. DI MASCARPONE ,

25 G. DI MOSCATO D’ASTI , 2 G. DI PEPE NERO

La farina è una miscela di grano tenero e riso, da impastare conl’albume, l’acqua e il sale per ottenere una pasta liscia e fra-grante. Mentre la lasciamo riposare avvolta nella pellicola,mescoliamo il mascarpone, il Cevrin grattugiato (una ro-biola di capra e mucca di pascolo della montagna torine-se), il Moscato e il pepe. Tiriamo la pasta, diamo la for-ma farcendo con il ripieno . Cuociamo i ravioli in ab-bondante acqua salata e li asciughiamo bene, pri-ma di spolverarne la metà con la polvere di nerodi seppia. I ravioli vanno serviti senza condi-mento, asciutti, secondo la tradizione pie-montese degli agnolotti “cordonati”. Untempo, infatti, venivano offerti appoggiatisul canovaccio da cucina, che segnava con la tra-ma cordonata del tessuto la superficie della pasta,per dare più valore alla farcitura (e forse perrisparmiare sul condimento...).

Riso VenerePiccoli, profumati i chicchi integralinati dall’incrociodi un antico risoorientale con una varietàpiemontese. Riccodi proteine e saliminerali, perfettoper l’insalata con gamberi,sedano rapa e salsa di soia

RISERIA GREPPIVIA G. GARIBALDITRONZANO VERCELLESE(VERCELLI) TEL. 0161-911333

Spaghetti neriSpaghetti al nerodi seppiacon gamberonisgusciati

LiquiriziaCresce spontaneanella piana di RossanoCalabro e in quella di Atri,Abruzzo. Ha radicilunghe e forti,essiccate primadell’utilizzoda cui si ottiene il liquoredigestivo

AMARELLICONTRADA AMARELLI, SS. 106 ROSSANOCALABRO(COSENZA)TEL. 0983-511219

MirtilliUn trionfo di antociani (che li colorano di blu-nero) e vitamina C per i campionidell’alimentazioneanti-age, potentiantinfiammatori e antibattericiLa salsa è perfettaper accompagnarela panna cotta

GELATERIA CREOLOVIA ABONDI 1 TRENTOTEL. 0461-824489

CioccolatofondenteCome per tè e uva,i tanninifunzionano da conservanteL’intensità del colore crescecon la percentualedi massa di cacaoSquisito il tortinocon cuoremorbido ideato da Michel Bras

DE BONDTLUNGARNO PACINOTTI 5,PISATEL. 050-3160073

Semidi papaveroPetali neri o bianchi screziatidi viola-nero.Dai semi si ricavaun olio preziosoTostati, arricchiscono gli impasti salatio dolci, come quello dello strudel

ACHERERVIA CENTRALE 8 BRUNICO(BOLZANO)TEL. 0474-410030

TartufoDimora tra Norcia,Spoleto e Périgord il tubermelanosporum,che al contrariodel bianco non teme la spadellatura, per preparare il filetto di manzotartufato

LA CASADEL TARTUFOVIA DELLA BIBLIOTECA 8 TERNI(PERUGIA)TEL. 0744-452086

Alga kombu Tanto iodio,pochissimo sodionell’erba di marea cui il pigmentofeocroma dona il colorenerastro Si usa per il dashi(brodo vegetalegiapponese) e per renderedigeribili le zuppedi legumi

LE SPEZIEDEL GURUVIA LAMARMORA 15 ROMATEL. 347-3601355

SeppieDa pulire con attenzione per preservare il sacchettinodell’inchiostro,con cui la seppiasi nasconde ai predatori Per colorare pani,paste, grissini,oltre al celebrerisotto al nero

PESCHERIADI SOZIGLIAPIAZZA MACELLIDI SOZIGLIA 48 GENOVATEL. 010-2510074

Caviale Le uova di storione, ormai allevatoin Italia (primoproduttoreeuropeo), entranoin piatti-simbolodell’alta cucina,come gli spaghettifreddi di GualtieroMarchesi

CALVISIUS VIA JOHN KENNEDYCALVISANO(BRESCIA) TEL. 030-9686220

sfumature di nero

«L’

la Repubblica

DOMENICA 4 MAGGIO 2014 36LA DOMENICA

Fin da piccola avrebbe voluto fare “il pittore”. “La pittrice no, mai, ai

miei tempi fare la pittrice più o meno voleva dire fare la prostituta”.

E così, negli anni dell’avanguardia romana, quelli ruggenti di piaz-

za del Popolo, tra “nottate, scorribande ed enormi bevute”, non c’è

stato un fronte dell’arte che non abbia esplorato con passione e leg-

gerezza. Amica di Cy Twombly e Pasolini, compagna di Parise, an-

cora oggi dritta come un fuso, dal

suo atelier ai piedi del Gianicolo

si guarda indietro e dice: “Ora

che m’è rimasto poco tempo mi

spiace davvero moltissimo”

GiosettaFioroni

ROMA

O STUDIO di Giosetta Fioroni è un angolo di paradiso al quale si accededa dietro via della Lungara, sotto le pendici del Gianicolo, lontano daltraffico di Roma. Lei è mattiniera e apre il cancello azzurro con un belsorriso, lo sguardo limpido dietro i grandi occhiali. Lo studio di un ar-tista è sempre un pezzo di anima messo a nudo, ed è vero anche qui: a

cominciare dal profumo della materia, dei colori, della carta. Poi levando losguardo alle pareti campeggia una gigantografia dell’edizione Adelphi dei Sil-labari di Goffredo Parise, suo compagno per venticinque anni, insieme alle im-magini degli amici Guido Ceronetti, Andrea Zanzotto, Cesare Garboli, ValerioMagrelli, Franco Marcoaldi. E insieme alle locandine delle mostre più recenti,Silver a New York (curata da Claire Gilman) e Faïence alla Galleria nazionaled’arte moderna di Roma, fatta di bellissimi e statuari vestiti di ceramica colo-rata montati su una sorta di palcoscenico per eroine letterarie.

L’arte che le scorre nelle vene e le fa battere il cuore l’ha accompagnata pertutta la vita lungo un cammino segnato dall’inizio. Giosetta è l’unica figlia diFrancesca e Mario, madre pittrice (i teatrini con le marionette che poi tantol’hanno ispirata) e padre scultore (è sua quella morbida fanciulla dormiente,quando aveva nove anni): «Io, da quando ho ricordi, so che volevo fare il pittore,ho sempre avuto il sentimento di andare verso questo lavoro. Dico pittore per-ché ai miei tempi le pittrici erano considerate quasi prostitute…». Appro-dare nel giro degli artisti più in voga e all’avanguardia quando è nel pie-no della giovinezza è un destino al quale non si sottrae. A quell’epoca conloro, gli artisti un po’ bohémien e un po’ maudit, c’erano soltanto Gio-setta e Carla Accardi, rare presenze femminili del gruppo che ruotavaintorno a piazza del Popolo e alla leggendaria galleria di Plinio De Mar-

tiis, La Tartaruga. La vita di una donna artista, nel furo-re degli anni Sessanta, era fatta di notti nei locali e scor-ribande, conversazioni colte e colpi di fulmine intellet-tuali: «Io non sono stata mai femminista. Ma piuttostoattratta dal femminile, da un modo morbido di percepi-re il mondo. Ma anche in quegli ambienti ho sempre se-guito una mia strada. Tra l’altro, ho sempre avuto un miocompagno». Rigore, talento, idee chiare. E una girandoladi frequentazioni memorabili. Come quella con l’americanoWillem de Kooning: «Mi ricordo molto bene che per lui, su

idea di Toti Scialoja, che era mio insegnante all’Accademia, organizzammo unafesta nel mio studio in via delle Orsoline, vicino a Santa Cecilia. Per l’occasionecomprai dieci bottiglie di whisky, che mi sembravano uno sproposito. L’indo-mani mattina in terra ce n’erano ottanta, e tutte vuote. Bevevano come matti eadoravano mangiare i piatti della cucina romana. M’è rimasta negli occhi l’im-magine di una grandissima bellezza di quell’uomo all’epoca già maturo: avevaqualcosa di teneramente partecipe all’umanità, che si riconosce anche in queisuoi magnifici lavori, a metà fra coscienza e perdizione».

Le tele, le carte, il giardino con gli alberi di corbezzolo sopra il suo studio e, inun ammezzato lungo e stretto affacciato sull’interno, il suo archivio. In una ve-trina stanno i cataloghi e la consacrazione della monumentale monografia Ski-ra firmata da Germano Celant (2009): «Ho sempre avuto il culto della memo-ria, fin da ragazza prendevo piccoli appunti come diari disegnati, cose che maiavrei immaginato un giorno di esporre». Quello di Giosetta — il nome lo scelsesua mamma pensando a Josette Day, l’attrice protagonista del film di CocteauLa Bella e la Bestia— è un mondo colorato che prende forma insieme a quello dialtri artisti spesso celeberrimi, con i simboli ricorrenti che sono sempre un pen-siero rivolto all’infanzia perduta, a una leggerezza caleidoscopica: il cuore, lastella, le piccole case, il teatrino delle marionette, il mondo protetto dell’infan-zia da tenere sempre davanti agli occhi come un rifugio. Le carte argentate, i di-segni, i collage, le ceramiche, i teatrini: non c’è un fronte dell’arte che Fioroninon abbia esplorato, spaziando fra le gloriose Biennali anni Sessanta, ai tempidei furori pop e fino alle più recenti sperimentazioni di scenografia e fotografianella serie Senex, con l’amico fotografo e curatore Marco Delogu, scatti che fan-no di lei un personaggio teatrale.

Con voce cadenzata, con dizione quasi scenica, con un lessico delicato ed’antan, Giosetta, una donna grande, alta e ancora oggi dritta come un fu-so, con un incedere da dama d’altri tempi, ama parlare anche della sua pas-sione per la calligrafia, di quello scrivere e appuntare dettagli ovunque cheè uno dei tratti distintivi della sua arte. Parla e racconta fino ad aprire il ca-pitolo dell’amore (sempre ricambiato) per il mondo della letteratura. Oltrea Parise (l’amore vero, immortalato in tante fotografie di momenti felici fi-no alla morte nel 1986) la lunga lista degli amici letterati, degli altri artistiche hanno accompagnato la sua vita di sincera pasionaria dell’arte. Una sto-ria ora raccontata per immagini in My Story, da poco uscito per Corraini, qua-si un libro d’artista, pieno di illustrazioni e documenti di vita vissuta. Comeè nella foto di Ugo Mulas che la ritrae in dolcevita nera e con il bicchiere inmano seduta accanto a Cy Twombly: «Nell’estate del 1969 venne da noi aSperlonga, comprò due balle di fieno, le gettò in terra e dormì nella verandaper tutte le vacanze. Nei lunghi anni romani, quando poi prese casa in cen-tro, aveva un appartamento talmente smisurato da percorrerlo in biciclet-ta, da una stanza all’altra, sempre lavorando come un matto».

Sono gli anni dei viaggi, di Venezia, Parigi, Milano, e poi delle fughe verso gliStati Uniti, sono i tempi delle sue carte d’argento, quelle che a guardarle beneancora oggi sono evidentemente tutto il contrario della pop art che intanto trion-fa. Ricorda il lungo viaggio a New York con Parise, nel 1975: «In quel periodo Gof-fredo si era incapricciato dei locali omosessuali. Erano luoghi di una turpitudi-

ne, di un dolore incredibili, segnati da un senso di oltraggio del corpo terri-bile. Luoghi ed esperienze fortissime in una città che però non amavo vera-mente». Sono i tempi anche di certe inaugurazioni un po’ blasé, come quel-la in cui è ritratta sorridente accanto a Federico Fellini: «Mi ha un po’ cor-teggiato un periodo, anche se è imbarazzante dirlo. Goffredo era spesso inviaggio. E un’estate andai a casa sua e di Giulietta a Fregene. Una villa bel-

lissima con un grande giardino in cui Fellini amava accogliere unaspecie di corte dei miracoli. C’era un idrocefalo, un clown, unosciancato. A me facevano paura ma lui mi ripeteva, con quel suoaccento, “Non vedi che sono interessantissimi?”. Insieme faceva-mo delle splendide passeggiate con il pattino. E una volta mi portòa Cinecittà dove era accolto come un re: lì aveva appena ricostrui-

to Venezia, e da poco finito di girare il Casanova con quell’attoreinglese, Donald Sutherland. Era pazzo di quel posto, adorava Ci-

necittà». Tra i grandi italiani dei suoi tempi d’oro ricorda an-che gli incontri con Pasolini: «Era un mostro, di aspetto terri-

bile, con i capelli tinti e quegli stivaletti di coccodrillo chescricchiolavano, i jeans aderenti. Io ho molto amato le sue

poesie. Quei versi per la madre in cui dice “È dentro latua grazia che nasce la mia angoscia”. Li ho utilizzati

in un’opera in suo omaggio. Pasolini è morto di omo-sessualità. Era quella la sua religione».

Chi ha lavorato con Giosetta — tanti artisti italia-ni e non — s’è ritrovato legato a lei per sempre e co-me per magia, in un girotondo festoso che tiene insé la sostanza di una riflessione artistica vigile econtinua. Dice, con un velo di malinconia: «M’è ri-

masto poco da vivere, e mi dispiace moltissimo. Lamia vita è qui, in questa strada, in questi ambienti pie-

ni di luce e di storia, qui dove c’è il mio lavoro. Due cose che so-no andate sempre insieme. Oggi è ancora così».

FRANCESCA GIULIANI

NON SONO MAI STATA FEMMINISTA BENSÌ ATTRATTADAL FEMMINILE, DA UN MODO MORBIDO DI PERCEPIRE IL MONDO. FIN DA RAGAZZA PRENDEVO PICCOLI APPUNTI COME DIARI DISEGNATI, MA MAI AVREI PENSATO UN GIORNO DI ESPORLI...

FELLINI MI HA CORTEGGIATA PER UN PO’MI INVITAVA ALLE SUE FESTE A FREGENETRA SCIANCATI, CLOWN E IDROCEFALICHE MI SPAVENTAVANO. “NON VEDI CHE SONO INTERESSANTISSIMI?” MI DICEVA

PIER PAOLOERA UN MOSTRO

MA AMAVO MOLTOLE SUE POESIE:

“È DENTRO LA TUAGRAZIA CHE NASCELA MIA ANGOSCIA”

HO UTILIZZATOQUEI VERSI

PER SUA MADRE IN UNA MIA OPERA

L’incontro. Pasionarie

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