DOMENICA AGOSTO DeAndré -...

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il fatto La casa verde, a prova di futuro ENRICO FRANCESCHINI e LUCA MERCALLI l’immagine Elogio del cavallo, maestro perduto STEFANO MALATESTA i luoghi La panchina, oasi ai margini del caos BEPPE SEBASTE DOMENICA 12 AGOSTO 2007 D omenica La di Repubblica cultura Calvino, il premio al “meno peggio” NELLO AJELLO e ANNA TONELLI la lettura Dopo Barney, la versione di Emma EMMA RICHLER FOTO DELIGIO / MONDADORI le parole segrete Viaggio nel caveau di Siena che custodisce le carte inedite del grande cantante-poeta GINO CASTALDO SIENA I l tesoro segreto di Fabrizio De André è custodito in una grande cassaforte. L’addetto digita la combinazione e apre lentamente la porta del forziere. Dentro ci sono tante scatole, semplici scatole di cartone, ma basta aprirle e diventano uno scrigno prezioso, una favola inimmagi- nabile per chiunque ami il lavoro del più grande poeta della canzone che abbia attraversato la musica italiana. Ci sono documenti, appunti, foglietti sparsi, libri pieni di annotazioni ancora da de- cifrare e capire in tutti i loro riverberi e rimandi. Quando gli archivisti del Centro Studi De André si pas- sano questi fogli, ognuno chiuso in una copertina protettiva, sembra maneggino antichi papiri, per- gamene pregevoli, mappe di un intricato tesoro del pensiero. E hanno ragione. Lì dentro c’è tutto quel- lo che è rimasto: l’intera vita, le parole, i pensieri di Fabrizio De André. All’inizio si avverte un piccolo fremito di ribellione. È strano pensare come la grandezza creativa di un uomo possa essere ridotta in una serie di scatole: l’effetto è spiazzante, malinconico, ma basta aprire alcuni documenti e lo stupo- re spazza via la tristezza, la polvere degli archivi si trasforma in residuo angelico, il grigio spessore del cartoncino si fa brillante, le frasi che spuntano dai fogli prendono vita, sembra di sentirle pronuncia- re con la voce di diamante che tutti conosciamo dai dischi. (segue nelle pagine degli Spettacoli) con una testimonianza di NICOLA PIOVANI DeAndré SU REPUBBLICA.IT I molti appunti inediti da cui nascevano testi e musiche, i pensieri, le foto e i ricordi d’infanzia Molto del materiale raccolto negli archivi del Centro Studi De André - commentato da Gino Castaldo e Nicola Piovani - è da oggi online in una audiogallery realizzata da Anna Zippel su Repubblica.it - Repubblica Tv

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il fatto

La casa verde, a prova di futuroENRICO FRANCESCHINI e LUCA MERCALLI

l’immagine

Elogio del cavallo, maestro perdutoSTEFANO MALATESTA

i luoghi

La panchina, oasi ai margini del caosBEPPE SEBASTE

DOMENICA 12 AGOSTO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

cultura

Calvino, il premio al “meno peggio”NELLO AJELLO e ANNA TONELLI

la lettura

Dopo Barney, la versione di EmmaEMMA RICHLER

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DE

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le parolesegrete

Viaggio nel caveau di Sienache custodisce le carte ineditedel grande cantante-poeta

GINO CASTALDO

SIENA

Il tesoro segreto di Fabrizio De André è custodito in una grande cassaforte. L’addetto digita lacombinazione e apre lentamente la porta del forziere. Dentro ci sono tante scatole, sempliciscatole di cartone, ma basta aprirle e diventano uno scrigno prezioso, una favola inimmagi-nabile per chiunque ami il lavoro del più grande poeta della canzone che abbia attraversato la

musica italiana. Ci sono documenti, appunti, foglietti sparsi, libri pieni di annotazioni ancora da de-cifrare e capire in tutti i loro riverberi e rimandi. Quando gli archivisti del Centro Studi De André si pas-sano questi fogli, ognuno chiuso in una copertina protettiva, sembra maneggino antichi papiri, per-gamene pregevoli, mappe di un intricato tesoro del pensiero. E hanno ragione. Lì dentro c’è tutto quel-lo che è rimasto: l’intera vita, le parole, i pensieri di Fabrizio De André. All’inizio si avverte un piccolofremito di ribellione. È strano pensare come la grandezza creativa di un uomo possa essere ridotta inuna serie di scatole: l’effetto è spiazzante, malinconico, ma basta aprire alcuni documenti e lo stupo-re spazza via la tristezza, la polvere degli archivi si trasforma in residuo angelico, il grigio spessore delcartoncino si fa brillante, le frasi che spuntano dai fogli prendono vita, sembra di sentirle pronuncia-re con la voce di diamante che tutti conosciamo dai dischi.

(segue nelle pagine degli Spettacoli)con una testimonianza di NICOLA PIOVANI

DeAndré

SU REPUBBLICA.IT

I molti appunti ineditida cui nascevano testie musiche, i pensieri, le foto e i ricordi d’infanziaMolto del materialeraccolto negli archividel Centro Studi De André- commentato da GinoCastaldo e Nicola Piovani- è da oggi onlinein una audiogalleryrealizzata da Anna Zippelsu Repubblica.it -Repubblica Tv

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Microturbine a vento per produrre elettricità, serbatoiper la pioggia, pannelli solari per riscaldare l’acqua,doppi vetri e pareti isolanti per trattenere il caloreA BedZED, sobborgo di Londra, le abitazioni adottanole tecniche più avanzate per far sì che l’avvenirenon ci riservi Blade Runner o una nuova età della pietra

LONDRA

Ho visto il futuro, e non è nientemale: solo che, mi dispiace de-ludere i bambini e gli appas-sionati di fantascienza, non

prevede macchine volanti o grattacieli diduecento piani stile Blade Runner. In com-penso, però, non prevede nemmeno un apo-calittico ritorno ai secoli bui, senza luce, sen-za calore, senza mezzi di locomozione diver-si dal cavallo o dalle gambe, senza comfort dialcun genere. Ha un nome futuristico, un po’da fumetto: BedZED, acronimo di Bedding-ton Zero Energy Development, che in parolepovere significa “comunità a sviluppo ener-getico zero”, ossia in cui tutta l’energia derivada fonti rinnovabili e sostenibili. La comunitàin questione, Beddington appunto, sobbor-go meridionale di Londra, è il quartiere più

ecologico dell’intero Re-gno Unito: esperti di mezzomondo vengono a visitarlodal 2002, quando fu inau-gurato, con l’obiettivo dicopiarlo e moltiplicarlo.Anche Gordon Brown, ilnuovo primo ministro bri-tannico, intende moltipli-care su larga scala questo

modello: ha promesso di costruire tre milio-ni di unità abitative dello stesso tipo entro cin-que anni. Un giorno, forse neanche tanto lon-tano, probabilmente abbastanza vicino dapermettere ai nostri figli e anche ai più fortu-nati tra noi di vederlo, ogni nuova casa dellaGran Bretagna, e forse del pianeta globale in-dustrializzato, sarà fatta così.

Visto da lontano, BedZED sembra un in-crocio tra una nave giocattolo e un granaioimpazzito. Grandi tubi a ventosa sui tetti, co-lorati di giallo, rosso, verde, blu, somiglianoalle ciminiere di un vecchio bastimento o alperiscopio di un sommergibile. Un lato degliedifici è quasi totalmente intagliato dai vetridi ampie finestre. La forma è irrego-lare, con i piani superiori prote-si in fuori rispetto agli inferio-ri, come dopo l’effetto di unsisma, ma l’insieme tra-smette una curiosa sen-sazione di dolce e quasiarcaica armonia. Fi-nanziato dal PeabodyTrust, la più antica fon-dazione britannica perl’energia autonomaabitativa, e dall’ammi-nistrazione locale diSutton, il comune da cuidipende il quartiere, Bed-ZED utilizza gli accorgi-menti più avanzati per rispar-miare energia e ridurre le emis-sioni di gas nocivi.

L’architetto Bill Dunster, che lo ha proget-tato da cima a fondo, ha seguito alla lettera leindicazioni del ministero dell’Ambiente percostruire «case con una coscienza verde», co-me afferma uno slogan. Ed ecco dunque mi-croturbine a vento per produrre elettricitàche viene poi immagazzinata in una batteria,pannelli solari per riscaldare l’acqua che vie-ne conservata in un serbatoio, doppi vetri al-le finestre e materiali isolanti nelle pareti e sultetto per trattenere calore all’interno ridu-cendo il dispendio di energia, serbatoi pertrattenere l’acqua piovana da usare per loscarico della toilette (regolabile in diversaquantità, a seconda dei bisogni) e per innaf-fiare i giardini, contatori “intelligenti” per sa-pere esattamente in ogni momento quantaelettricità si consuma, cassonetti separati ediversificati per il riciclaggio di ogni tipo di ri-fiuti, emissione ridotta d’acqua dai lavandinie dalla doccia. E così via.

«La grande idea dietro questa iniziativa»,spiega con entusiasmo Jennie Organ, mana-ger del progetto BedZED, «va oltre i materia-li usati o le tecnologie a cui facciamo ricorso.L’idea è creare vite sostenibili sotto ogniaspetto e dettaglio. Le case sono un lato del-l’obiettivo ma è importante anche il modo incui ci si sposta e si viaggia, il cibo che mangi,lo stile di vita, il rapporto con i vicini, l’utiliz-zo del tempo libero». Infatti gli abitanti delquartiere si muovono su una flotta di auto-mobili tenute in comune, cercando di riem-pire tutti i posti di una macchina piuttostoche prenderne cinque con un passeggerociascuna; oppure, per gli spostamenti brevi,salgono su scooter elettrici, anche quelli a di-sposizione della comunità. Per lo shopping,in particolare di alimentari ma non soltanto,viene incoraggiata la spesa tramite Internet:meno viaggi in auto, meno consumo di ener-gia, più tempo a disposizione per fare altrecose più utili e divertenti. Dai mobili per l’ar-redamento ai quaderni di scuola, tutto quel-lo che entra nelle case di BedZED, se possibi-le, è riciclato, per risparmiare alberi e aiutarela conservazione dell’ambiente.

ENRICO FRANCESCHINI

il fattoStili di vita

sce da un calcolo preciso. Sebbene lamaggior attenzione nella lotta alcambiamento climatico si siafinora concentrata sull’in-quinamento da centralielettriche, autoveicoli eaeroplani, l’inquina-mento prodotto dagliedifici è anch’esso con-siderevole, come sirDavid King, capo deiconsiglieri scientifici diDowning street, va ri-petendo da anni. Pren-diamo ad esempio leemissioni di carbonio delRegno Unito, causa princi-pale dell’effetto serra: nel2005 sono state in tutto 152 mi-lioni di tonnellate, di cui tut-tavia ben quasi 42 milioniprovenienti da edifici,pari al 27 per cento deltotale. Per la preci-sione, queste 42milioni di ton-nellate digas noci-vo pro-ven-

Attività e strutture sociali e ricreative sonoofferte ai residenti del quartiere, allo scopo diincoraggiare le relazioni e gli scambi all’inter-no della comunità, ridurre gli spostamenti,migliorare la coesione e la solidarietà. Ogniedificio e quasi ogni casa, del resto, ha un giar-dino esterno e uno interno: anche questo perfavorire la socializzazione. Se l’avveniristicacittadina di BedZED ha un difetto, insomma,è che fa pensare un po’ a una vita in confrater-nita, a una strana comunità monastica, doveun benevolo e invisibile Grande Fratello vor-rebbe che i suoi discepoli, col nobile fine diconsumare meno, stessero sempre insieme enon si allontanassero quasi mai troppo da ca-sa. Il rischio, se questo è il futuro che ci aspet-ta, è di sentirsi un po’ intrappolati, invischiatinella rete dell’esistenza tassativamente eco-logica: fortunatamente ci sarà la sempre piùdiffusa “rete” di Internet a farci viaggiare edevadere verso altri mondi, ma in ogni caso puòdarsi che la casa con la «coscienza verde» diaun po’ di lavoro in più agli psicologi.

D’altra parte la Eco-House, la casa ecologi-ca, sembra una via obbligata. In Gran Breta-gna, dove il governo di Tony Blair prima equello di Gordon Brown ora hanno indivi-duato da tempo la questione energetica e am-bientale come una priorità urgente e assolu-ta, sono stati tra i primi ad accorgersene, pub-blicando studi, rapporti, dossier e delibereper sensibilizzare l’opinione pubblica. E or-mai non solo più per sensibilizzare: entro la fi-ne dell’anno sarà in vigore un regolamentoche rende obbligatoria l’osservanza di normeper il risparmio energetico e la difesa del-l’ambiente nel settore immobiliare. Nessunanuova casa potrà essere costruita, compratao venduta senza un certificato di “garanziaecologica”. Inoltre, quanto alle case vecchie,già in piedi, anche per queste saranno in-trodotte regole sul consumo di acqua edenergia elettrica, sulle emissioni dicarbonio, sul riciclaggio dei rifiu-ti, con pesanti sanzioni per itrasgressori.

La strategia britan-nica na-

La casa a prova di futuro

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

PANNELLI SOLARIRiscaldano l’acqua

utilizzando i raggi solariUn metro quadrato di pannellopuò scaldare a 45-60 graditra i 40 e i 300 litri d’acqua

al giorno a secondadel clima e quindidel soleggiamento

CONTATORI INTELLIGENTISono la “coscienza critica”

dell’inquilino: diconoesattamente la quantità

di elettricitàutilizzata e il relativo

costo in ogni momentodella giornata

Il nuovo premierbritannicoGordon Brownha promessodi far costruiretre milionidi unità abitativedello stesso tipoin cinque anni

PANNELLI FOTOVOLTAICII pannelli di cellule solari,

realizzati con il silicio,trasformano la luce solare

in energia elettricaOgni kwh prodotto

dal sistema fotovoltaicoevita l’emissione

di 0,53 chili di Co2

MICROTURBINAPosizionata sul tetto

produce elettricità sfruttandoil vento. Alcune microturbine(alte due metri e larghe 1,75)

promettono un tagliodel 30 per cento della bollettadi una famiglia media. La spesa

prevista per l’installazionedell’impianto è di circa

2.000 euro

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Eco-house fai da teistruzioni per l’uso

LUCA MERCALLI

Durante la crisi petrolifera del 1973 avevo set-te anni. In famiglia le domeniche senz’autonon provocavano né lamentele né noia, per-

ché c’era un sacco di lavoro da fare, per esempioconfezionare dei pannelli riflettenti da mettere die-tro i radiatori per limitare la dispersione del calore,o costruire un rudimentale collettore solare con unvetro e un tubo di rame dipinto di nero, per farci ladoccia in giardino. Il processo virtuoso del rispar-

mio energetico, chiamatoallora “austerità”, era

iniziato dopo l’over-dose petrolifera

del boom econo-mico, ma s’in-terruppe bru-scamente conil ritorno dibassi prezzip e t r o l i f e r i .Oggi che, traemissioni ser-

ra e petrolio asettanta dollari

al barile, il pro-blema si ripropo-

ne in modo ben piùvasto e strutturale, ci

si accorge di aver persotrent’anni.

Vero che la finanziaria 2007 introduce il 55 percento di sgravio fiscale in tre anni a chi fa operazio-ni di efficienza energetica sulla propria casa, veroche le nuove costruzioni dovranno seguire criterimolto più restrittivi e disporre di certificazioneenergetica, ma la grande sfida si gioca sul risana-mento dell’immenso parco edilizio esistente, che èletteralmente un colabrodo, sia per il caldo inver-

nale sia per il fresco estivo,in drammatica fuga

da finestre e murimal isolati.

Da che partecominciare perrendere più so-stenibile lapropria casa?Vi raccontocosa ho fattoio, su una spar-

tana abitazionerurale ottocen-

tesca di un centi-naio di metri qua-

drati. Per prima cosa hosostituito gli infissi — vecchi

e pieni di spifferi — con serramenti in legno dotatidi vetri doppi basso-emissivi (cioè trattati per limi-tare la trasmissione verso l’esterno della radiazionetermica). Poi ho applicato uno strato di isolamentosul solaio: un leggero pannello di polistirene di seicentimetri di spessore vale in termini di potere iso-lante come oltre due metri e mezzo di calcestruzzo.È un luogo comune pensare che basti un possentemuro in pietra a proteggere da freddo e caldo, è il

materiale che fa la differenza, più che lospessore.

Ho quindi installato sul tetto, for-tunatamente ben esposto a sud, i

pannelli solari per produrre ac-qua calda sanitaria e aiutare pu-re la caldaia a gas a condensazio-ne — più efficiente di quella tra-dizionale — affiancata peraltroin salotto da una bella stufa a le-gna con controllo dell’aria di

combustione. Lo spazio libero ditetto l’ho quindi tappezzato di

pannelli solari fotovoltaici, poten-za 2 kw, per produrre elettricità in

conto energia, la modalità di scambiocon la rete, e di tariffa incentivante che

permette di rientrare dell’investimento in circadieci anni. Questo articolo è stato scritto su un com-puter funzionante a energia solare. Ho sostituito lelampadine a incandescenza con quelle fluorescen-ti che consumano cinque volte meno.

Sui rubinetti ho installato il riduttore di flusso:meno trenta per cento d’acqua. Il giardinetto all’in-glese l’ho trasformato in orto, dove faccio il compo-st con i rifiuti di cucina evitando di conferirli alla rac-colta differenziata che riservo a carta, plastica, vetroe lattine. In cortile sto per installare la cisterna perraccogliere l’acqua piovana e innaffiare l’orto. Tuttiquesti lavori, distribuiti negli anni, mi sono costatimeno che cambiare l’automobile, hanno aumenta-to il mio comfort, diminuito la mia bolletta e ridottola mia impronta ecologica. In più, fare la doccia conl’acqua scaldata gratuitamente dal sole, priva diemissioni di Co2, è un sottile piacere aggiuntivo chenon ha prezzo.

gono per il 53 per cento dal riscaldamentodelle case, per il 20 per cento dal riscalda-mento dell’acqua corrente, per il 16 per cen-to da computer, televisori e altri elettrodo-mestici, per il 6 per cento dall’illuminazionee per il 5 per cento dalla cucina. Ebbene, gliesperti governativi inglesi affermano che

gran parte dell’inquinamento “casalin-go” può essere tagliato, e del resto

dovrà indubbiamente esseretagliato se la Gran Bre-

tagna vuolemantene-

re il

suo proposito di ridurre il totale delle emis-sioni di carbonio del 60 per cento entro l’an-no 2050.

Lo si potrà fare in due modi: attraverso mi-sure per risparmiare energia nelle case e de-centralizzando il sistema di fornitura di elet-tricità, in modo che l’energia venga prodottaa livello locale, su piccola scala, piuttosto chein enormi centrali lontane dal luogo a cui è de-stinata l’energia, che ne sprecano una parteconsiderevole per trasmetterla e farla arriva-re a destinazione. La produzione di energiasul posto può essere ottenuta costruendocentrali elettriche in miniatura per servireuna piccola comunità, ma portando questo

ragionamento alla sua logica ed estremaconclusione può essere fatta alme-

no parzialmente anche a casapropria, con pannelli

solari e turbine avento sul

tetto. Un libro bianco governativo sull’argo-mento sostiene che dal 30 al 40 per cento delfabbisogno di elettricità del Regno Unito po-trebbe essere in effetti ricavato dall’uso di si-mili tecnologie entro il 2050, l’anno fatidico ametà del Ventunesimo secolo in cui il mondospera di riuscire a invertire la rotta, rove-sciando gli scenari catastrofisti in un futuropiù roseo. O meglio, verdeggiante.

Nell’isola felice di BedZED quel futuro l’hogià sotto gli occhi. «Consumiamo il 50 percento di acqua in meno rispetto alle case tra-dizionali», snocciola le cifre del suo successola manager Jennie Organ, «ricaviamo il 20 percento dell’elettricità dalla luce solare, spre-chiamo un quinto di energia in meno dellacasa tipica britannica». La prova che in que-sta comunità ecologica non c’è nulla di soffo-cante o orwelliano la fornisce il mercato: no-nostante i prezzi siano di un quarto più alti inconfronto ad abitazioni di dimensioni equi-valenti, le case di BedZED vanno a ruba, biso-gna mettersi in lista d’attesa per sperare di ac-

quistarne una. Gli abitanti del quartiere piùecologico della Gran Bretagna han-

no visto il futuro, e gli è piaciu-to così tanto che hanno

deciso di antici-parlo al pre-

sente.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 12 AGOSTO 2007

IL QUARTIERE BEDZEDL’esperimento inglese(qui a sinistra alcuneimmagini) punta a creareuna comunità a “sviluppoenergetico zero”Le abitazioni, disegnatedall’architetto Bill Dunster,seguono le indicazionidel ministero dell’Ambienteper una casa con “la coscienza verde”

ACQUE PIOVANEIl loro recupero, graziead appositi serbatoi,

andrebbe a coprire circail 50 per cento

del fabbisogno giornalierodestinandolo all’irrigazione

del giardinoo, previa purificazione,

a uso sanitario

RACCOLTA DIFFERENZIATACirca il 25-30 per cento

dei rifiuti domesticiè di origine organica

e potrebbe essere riutilizzatacome concime naturale

A parte si raccolgono carta,vetro e metalli

ISOLAMENTO MURIPuò essere realizzatoall’interno della casa,

all’esterno o nell’intercapedinetra le pareti utilizzandodiversi materiali isolantiSi stima un risparmio

del 20 per cento

ISOLAMENTO TETTOÈ l’initervento tecnicamente

più semplice e ha il vantaggiodi un riscontro immediatoper l’economia termica

della casa. Si stima un risparmiomedio attorno al 35 per centoTra i materiali isolanti più usati

ci sono la lana di rocciae la fibra di vetro

DOPPI VETRIAlcune tipologie

aiutano a diffonderela luce e a ridurre

l’ingresso e la dispersionedi calore. Il risparmioenergetico possibile

è del 10 per cento

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

Il cavallo, maestro perdutoQ

ualunque animale è sem-pre molto più interessantee alla fine risulta molto piùintelligente della sommadelle prestazioni che ciaspettiamo da lui, se l’ani-

male è addomesticato. L’aveva intuitoJonathan Swift, che nei Viaggi di Gulli-ver aveva attribuito ai cavalli, incapacidi mentire, nemici della guerra e dellaviolenza, quel comportamento fatto didelicati sentimenti e di saggezza chemancava agli uomini. Tra i nobili equi-ni e i bestiali uomini esisteva un abis-so e il segno più evidente di questa dif-ferenza fisica e morale stava nell’an-damento a quattro gambe dei cavalli,molto più potente, sicuro e dignitosodel traballante, affannoso, precariomovimento azionato da due sole gam-be degli uomini. Trecento anni più tar-di, una équipe di matematici ha dovu-to rinunciare a creare un robot che an-dasse al trotto o al galoppo come un ca-vallo, perché era impossibile ripro-

durre l’estrema complessità dell’an-datura equina, in cui ogni passo vienescandagliato da sensori che analizza-no la qualità del terreno, il grado di ela-sticità, la presenza di corpi estranei eriferiscono immediatamente alla cen-trale di comando, trasformando unasemplice cavalcata in una performan-ce di altissima tecnologia.

Al tempo di Swift il rapporto tra uo-mo e cavallo non si era ancora inter-rotto definitivamente, come accadràall’inizio del Novecento con l’appari-zione dell’automobile. Un avveni-mento talmente rivoluzionario da fargridare a D. H. Lawrence: «L’uomo haperso il cavallo ed ora è perduto». Nes-sun altro animale è stato assunto inuna tale posizione di privilegio, nelcomplesso e vasto mondo dei miticreati dagli uomini, come il cavallo dabattaglia da creare immediatamenteuna differenza così grande e invalica-bile tra chi se ne serviva e chi andava apiedi. Per tutti i popoli delle steppe so-lo i cavalieri avevano diritto al nome diuomini, mentre chi rimaneva appie-

dato era meno che nulla, non un uma-no, ma un essere immondo, risucchia-to da quel fango che si ostinavano azappare. Gengis Khan, subito dopoaver conquistato la Cina, aveva datoordine di distruggere tutte quelle ri-saie che impedivano la crescita del fo-raggio per i tozzi pony dei conquista-tori, condannando così la cultura ci-nese alla totale distruzione. Ma l’ordi-ne non venne mai eseguito perché iconsiglieri di Gengis gli avevano fattonotare che dalle risaie avrebbe trattomolto più oro di quanto si potesse ri-cavare dalle biade di tutto il mondo.

La più antica celebrazione che si co-nosca di un cavallo è stata scritta do-dici secoli fa da uno di questi capitribùche si muovevano ininterrottamentedalla catena degli Altai fino alle mon-tagne della Ferghana. Quello che col-pisce in questo breve poema è chel’autore si rivolge al suo cavallo daguerra come a un compagno d’armi ri-cordando tutti i momenti passati in-sieme, nel pericolo, nelle cacce agli or-si e ai lupi, e nelle incursioni ai villaggi

degli stanziali. I nomadi parlavano ailoro cavalli perché sapevano di dipen-dere totalmente da loro, come i pesca-tori Maori — che attraversavano concanoe munite di bilanciere e di picco-le vele triangolari l’oceano Pacifico,raggiungendo isole remote come leHawaii o l’Isola di Pasqua — parlava-no ai pesci per ottenere informazionisui venti e sulle correnti marine. Biso-gnava conoscere il linguaggio adatto.E agli scettici va ricordato che in tem-pi in cui gli uomini riescono a tra-smettere le immagini da un capo al-l’altro del mondo attraverso dei fili,non si può dubitare che altre culture siservissero di conoscenze che a noipossono sembrare magiche ma chesono molto più comprensibili della te-levisione.

Questo rapporto tra uomo e cavallo,che esisteva soprattutto per tutte lepopolazioni che avevano fatto di que-sto animale uno strumento di soprav-vivenza, era talmente stretto che du-bitare della sua intelligenza era per inomadi come dubitare della propria.

Nessuno si aspettava o pretendeva daloro un comportamento imitativo diquello dell’uomo e che il loro grado dicapacità cognitiva potesse essereconfuso con un ricalco che la naturanon aveva previsto: uno dei più perni-ciosi equivoci diffusi dalla falsa scien-za. Eppure molti test che si fanno congli animali continuano a battere lastrada della capacità mimetica comeprova assoluta per giudicare il quo-ziente intellettivo delle bestie, cercan-do di individuare una vicinanza dicomportamenti che dal punto di vistascientifico non ha né capo né coda.Una di queste prove consiste nel met-tere davanti al cavallo due contenitoricon del cibo, il primo sistemato in mo-do che il cibo si veda e il secondo na-scosto da un panno. Il disinteresse to-tale mostrato dal cavallo per l’esperi-mento e la sua incapacità a distingue-re i contenitori è stata portata comeprova della sua modesta intelligenza,nettamente inferiore a quella di un ca-ne qualsiasi che non solo distingue maafferra il cibo e se lo porta via, come fa-

STEFANO MALATESTA

l’immagine

A pochi giornidal Palio di Sienache lo riportaal centrodella scena,queste fotodi Marco Deloguinvitanoa rifletteresulla simbiosidurata secolitra l’uomoe il più nobiledegli animali:un compagnodi strada ormaiabbandonato

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 12 AGOSTO 2007

rebbe anche un uomo. Ma questo suc-cede non perché il cane dispone diuna intelligenza superiore a quella diun cavallo, ma perché è un carnivoro,allenato alla lotta per la sopravviven-za tra carnivori, che non possono la-sciarsi sfuggire alcuna occasione di fa-re un buon pasto. Mentre il cibo deglierbivori è sempre lì, a disposizione,non sollecita nessuna fretta: aspettasolo di essere ingoiato e triturato dal-la mascella di un cavallo.

Un’altra delle leggende che perse-guitano i cavalli è la loro suppostaviltà. Il cavallo sarebbe un animalepauroso perché non ha mai adottatoquei codici d’onore che gli umani sitrascinano in guerra, pronti a morireandando allo sbaraglio senza saperebene perché. Qualche storico in venadi partecipare anche lui alla foltissimaletteratura su Waterloo con un contri-buto stravagante ha addossato il falli-mento della famosa carica di tutti glisquadroni della cavalleria francese —i corazzieri, gli ussari, i cacciatori, gliulani — , lanciati incautamente senza

la copertura dell’artiglieria e della fan-teria contro le alture di Saint Jeandov’erano attestati i quadrati dellegiubbe rosse comandate da Welling-ton, al terrore che aveva colto i cavallidavanti al minaccioso balenìo dellebaionette che spuntavano dai quadra-ti come pungiglioni di un istrice. Ma icavalli non erano né paurosi, né corag-giosi: avevano solo un’ottima memo-ria. E ricordavano perfettamente chein altre situazioni quel balenio avevasignificato la morte per molti di loro. Inassenza di altre motivazioni, cercava-no solo di non fare una fine analoga.

Uno che conosceva bene i cavalli,Amedeo Guillet, famoso per le sue ca-riche notturne in Etiopia alla testa del-le bande Amhara contro gli accampa-menti inglesi, qualche anno prima erastato incaricato di trovare una caval-catura adatta al duce, che voleva a tut-ti i costi andare a Tripoli di Libia e snu-dare la spada dell’Islam offertagli dal-la popolazione stando a cavallo: un’e-sibizione delicata, perché il duce nonera un buon cavaliere e il suo entoura-

ge inorridiva alla possibilità di una ca-duta. Guillet andò in Europa a sceglie-re una serie di cavalli che fossero im-ponenti, ma tranquilli, di occhio luci-do e di mosse svelte, ma senza scarti eli portò a Tripoli, sistemandoli in unastalla e colmandoli di ogni cura. Ogninotte faceva sparare scariche di mitra-gliatrice dietro la stalla. Terminate lescariche, veniva portato ai cavalli ilmiglior foraggio possibile, di modoche l’associassero agli spari e, in casodi un attentato, con l’ottima memoriache avevano, se ne stessero tranquilli.

Per gli occidentali, allevati all’inter-no di culture che li hanno sempre po-sti al centro dell’universo e sensibilialla mistica dell’Uomo come ValoreSupremo, che non ha paragoni nelcreato, e figurarsi con gli animali, èsempre stato molto difficile avere unrapporto con il cavallo che superassela prestazione dell’animale, anche se,come abbiamo detto, ne aveva mitiz-zato le qualità quando si riverberava-no sul cavaliere. Chiunque abbia avu-to familiarità con un cavallo si sarà ac-

corto che non sopporta le pacche aiposteriori, quelle date dai cretini chevoglio dimostrare una familiarità chenon hanno. Questo dipende dal fattoche anche volgendo la testa, non rie-sce a vedere cosa sta succedendo dal-le parti della coda, un’area molto sen-sibile scelta dai predatori o dal ma-schio dominante del branco per l’at-tacco. E dunque ogni intervento ester-no avvertito da quelle parti viene pre-so con estrema irritazione. Questi ealtri comportamenti sono conosciutidagli allevatori e dai cavalieri, ma qua-si mai ricondotti ad una personalità datrattare con lo stesso rispetto di quel-la umana.

Tra gli innumerevoli libri che parla-no dei cavalli — ne ho letti alcuni e sisomigliano tutti nella loro inconsi-stenza — ne ho trovato solo uno chenon esiterei a definire straordinario. Èuscito qualche tempo fa, si intitolaThe nature of the horses-Exploringequine evolution, intelligence andbehaviour e l’autore si chiamaStephen Budiansky. E la storia più

straordinaria che ho letto è quella cheriguarda l’addomesticamento del ca-vallo. Budiansky non è tanto convintoche il cavallo sia stato addomesticatodall’uomo, come raccontano i ma-nuali, all’inizio del neolitico. Secondolui, con molta più probabilità si è ad-domesticato da solo, entrando a farparte della famiglia degli uomini co-me i gatti i topi, le pecore e le galline.«Per ogni cavallo ucciso e mangiato,come per ogni vacca e ogni pecora,molti altri hanno trovato un rifugio euna difesa contro i predatori, un ciboabbondante e un trattamento supe-riore a quello normalmente adopera-to verso gli altri animali». Con l’intelli-genza che gli era propria, non esitaro-no a fare la scelta vantaggiosa sotto in-numerevoli punti di vista. Se avesserovoluto, non c’era domatore che potes-se domarli, come si vede nei film we-stern, per quanto bravo e sperimenta-to. Ancora oggi non c’è mai stato qual-cuno che sia riuscito a domare un ani-male simile che ha fatto una sceltacontraria: l’irriducibile zebra.

LA MOSTRA

Si intitola Quattrostudi sui cavallila mostra fotograficadi Marco Delogu(di cui riproduciamoalcune immaginiin queste pagine) in occasionedell’esposizione in Campidoglioa Roma della statuadel cavallo di bronzodi Vicolo delle Palme,un’opera del Quintosecolo a.C. appenarestaurata. Le immaginiritraggono la statua,le teste dei dieci cavallidell’affrescola Battaglia dei Romanicontro i Veientie i Fidenati del Cavalierd’Arpino e altri cavallisu fondo nero e biancoa luce naturaleLa mostra rimarràallestita nella saladegli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolinifino al 16 settembre

LE FOTOGRAFIELe foto di Marco Delogu pubblicate in queste paginealternano gli studi di un cavallo a figura interacon i primi piani del muso, e con le immagini di cavalliesposte in Campidoglio: quelle della statua in bronzodi Vicolo delle Palme del Quinto secolo a.C.e quelle degli affreschi dipinti dal Cavalier D’Arpino

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Meglio confessarlo subito: iosono uno di quelli che si sie-dono sulle panchine pub-bliche. Non solo nei belve-dere o sui poggi panorami-ci, di fronte a un lago o sul

lungomare, ma nei parchi, nei giardinetti,nelle piazze e nei viali, ovunque. Potresteanche avermi visto, magari di sottecchi. Opiù probabilmente avete evitato di guardar-mi. Perché da qualche tempo chi si siede suuna panchina, nelle nostre città, più cheanonimo diventa invisibile. Lo scrittore Lu-ciano Bianciardi raccontò che, nella Milanodei primi anni Sessanta, quella del boomeconomico, fu arrestato per strada perchécamminava troppo lentamente, strascican-do i piedi. Oggi stare in panchina è un’ano-malia sociale più grave, se chi si siede si sot-trae non solo alle regole non scritte dell’effi-cienza, ma allo sguardo degli altri. Se non siè anziani, donne incinte o con carrozzina, sesi è maschi o femmine adulti, chi sta in pan-china è poco raccomandabile. Nel miglioredei casi si è disoccupati, sfaccendati, vite diriserva. Eppure è l’ultimo simbolo di qual-cosa che non si compra, di un modo gratui-to di trascorrere il tempo e di mostrarsi inpubblico, di abitare la città. La panchina è ilmargine del mondo, vacanza di chi non va invacanza, ma anche il posto ideale per osser-vare quello che accade: ovunque sia, è il cen-tro dell’universo. Da lì si contempla lo spet-tacolo del mondo, ci si dà il tempo di perde-re il tempo, come leggere un romanzo. Siguarda senza essere visti. Ecco alcuni deinon piccoli piaceri del sedersi su una pan-china. Le mie preferite sono quelle verdi aonda di una volta, di legno, in via di estinzio-ne. Ma tutte le panchine sono oggi in via diestinzione. Come se la loro gratuità (la lorograzia), nel nuovo orizzonte del welfare fos-se assolutamente da bandire.

Che sulle panchine soggiornino i poveri egli extra-comunitari (qualunque senso abbiaormai questa parola: anche gli anziani sonoesclusi dalla comunità dei consumatori), ibarboni e i drogati, lo dicono le recenti spari-zioni e divieti in alcune città del Nordest, ul-tima delle quali Padova (sindaco ds): pan-chine eliminate per scoraggiare la sosta degliindesiderabili. A inaugurare questa rappre-saglia sociale fu a Treviso il sindaco leghistaGentilini, che fece ripulire una piazza da ogni

tipo di sedile in funzione anti-immigrati. Se-guì Trieste, dove si registrò una protesta si-gnificativa: «La città in piazza con i clo-chard», titolava un articolo di Paolo Rumizall’inizio di dicembre 2006. La rimozionedelle panchine per impedire ai barboni disedercisi a Natale fu effettuata da vigili ur-bani armati di sega, e il passaparola di citta-dini indignati, anziani compresi, divenneresistenza civile. «Come può venire in men-te di segare delle panchine?», sbottò lo scrit-tore triestino Claudio Magris. L’attore vene-to Marco Paolini esortò i triestini a mettersisulla schiena un bel numero “13”, come igiocatori di calcio d’una volta quando dove-vano restare fuori-campo come riserve, e ag-giunse: «Intorno a noi è pieno di gente pron-ta a toglierci di sotto il culo la tua panchinagratuita e a offrirci mille alternative a paga-mento». E Rumiz: «Mi ci sedevo da bambinosu quelle panchine di legno rosso, per vederarrivare i vapori. Mi ci sono seduto sempre,fino a ieri. Sedendomi lì, accanto alla fonta-na, celebravo la comunità e i valori in cui es-sa si riconosce. Ribadivo che lo spazio pub-blico ha un valore irrinunciabile, specie og-gi che tutto diventa privato, anche l’aria». AParigi, prima di diventare presidente,Sarkozy propose di abolire le panchine po-ste sotto i condomini, e in quasi tutte le no-stre città i cittadini, per esistere socialmen-te, devono trasformarsi in clienti e consu-matori — e tanto peggio se si mangia senzafame e si beve senza sete. È per avere dettoche la desocializzazione a Parma è iniziatasimbolicamente con l’occupazione dei gra-dini del monumento a Garibaldi, nell’omo-nima piazza, con vasi da fori per impedire al-la gente di sedersi, che il sottoscritto ha rice-vuto insulti e annunci di querela.

Le panchine stanno scomparendo, e datempo compongo il catalogo delle panchineche ho amato. Quelle del Parco Ducale diParma, dove guardando gli alberi e la gentescrissi le mie prime poesie dedicate a Cézan-ne, quelle di Milano in un ricco quartiere die-tro via Solferino, dove imparai il valore del-l’ozio, in opposizione al neg-ozio, guardan-do il pranzo di immigrati nordafricani a basedi pane e sardine. Quel rito povero mi suggerìun sovrappiù di riposo, e il valore d’uso di unluogo imbalsamato dalle algide e lussuoseresidenze. Le panchine delle piccole piazzedi Parigi, o sui boulevard, anche appena fuo-ri dai ristoranti, e quelle sulla sommità dellaScala del Tamburino a Roma, Gianicolo, og-

gi scomparse; quelle del cimitero dei poeti alTestaccio, dove sull’erba, di fianco alla tom-ba di John Keats, si contempla la Piramide eil traffico irreale di auto. Di recente a Ginevramio figlio adolescente, che lì va a scuola, miha mostrato un suo luogo segreto. Era nellavia più trafficata del centro, quella delloshopping e dei negozi di lusso. Due panchi-ne di legno marrone, vuote, in prossimitàdella fermata del tram. Ci siamo seduti lì adaspettarlo, tra le decine di corpi frettolosi e leluci multicolori dei negozi, e quando il tramè arrivato siamo rimasti beatamente avvoltinella nostra quiete, indifferenti ai traffici de-gli altri. Le persone salirono e scomparvero,come le onde del mare risospinte dalla risac-ca, senza che noi ci alzassimo dalla nostrapanchina. Era questo il luogo segreto di miofiglio, l’occhio del ciclone della sua nuovacittà, luogo di un vagabondaggio immobile ewalseriano. Gli ho sorriso felice.

La letteratura abbonda di panchine, sim-bolo di una vita di frontiera, spesso senza ap-partenenza, rivendicata da scrittori e artisti:oziosi, cioè straordinariamente assorbiti dalloro lavoro invisibile. Come appunto i per-sonaggi folli e guariti che popolano i raccon-ti dello svizzero Robert Walser (l’autore di Lapasseggiata), dove la panchina denota un’e-sistenza volutamente ai margini della vitacivile, nascosta e invisibile. Così, uno scrit-tore tra i più walseriani d’Italia, Giorgio Mes-sori, trovatosi in un giardino sotto il cielodell’Asia centrale, si ricorda a un certo pun-to del motto «laze biosas, vivi nascosto, ap-partato, senza metterti in mostra, come con-sigliavano i greci», e rievoca, insieme allapropria camera d’infanzia, «una panchinain un piazzale ingombro di macchine, il giar-dinetto allo scalo ferroviario» (Il paese delpane e dei postini).

La poesia dell’ozio contemplativo si ac-compagna nelle panchine a quella senti-mentale, l’amore che sboccia e che si espri-me su questo margine lievemente sopraele-vato del mondo, come cantava Georges Bras-sens ne Les amoureux des banc publiques(«gli innamorati delle panchine»), i baci cheraccolgono lo sguardo di disapprovazionedei passanti. Nasce su una panchina il Primoamore del romanzo d’esordio di SamuelBeckett, si chiude su una panchina l’amoreche Dostoievskij racconta ne Le notti bian-che. È su una panchina che si incontranoBouvard e Pécuchet di Flaubert, ed è su unapanchina che si svolge uno dei racconti più

BEPPE SEBASTE

i luoghiViveregratis

Alcuni sindaci del Nordest hanno cominciato a eliminarleper tenere alla larga dal cuore delle città clochard e immigratiIn effetti oggi chi ci sta seduto incarna un’anomalia sociale:si sottrae alle regole dell’efficienza, è un disoccupato,uno sfaccendato, una vita di riserva. Eppure in pochi altriposti si può contemplare lo spettacolo del mondo come da lì...

La poesiadell’ozio

contemplativosi accompagna

a quellasentimentale:

l’amoreche sboccia

in questa terradi confine,

i baci rubatidisapprovatidai passanti

La panchina, buen retiroai margini del caos

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

MANHATTAN

Bianco e nero,musiche di Gershwine New York. Il tributo

di Woody Allenalla sua città

è una riflessionesull’intimo umanonei luoghi simbolo

tra cui la panchinasulle rive dell’East River

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esilaranti di Thomas Bernhard (È una com-media? È una tragedia?). Se Henry Jamesscrisse The Bench of Desolation (La panchinadella desolazione, portato sullo schermo daClaude Chabrol), e in Italia la panchina dicittà entra nella letteratura col Marcovaldo(1956) di Italo Calvino, il capolavoro dellapoetica umana delle panchine lo scrisseGeorges Simenon in Maigret e l’uomo dellapanchina, noto ai lettori come la storia del-l’uomo con le scarpe gialle: «Un uomo comese ne vedono tanti sulle panchine del quar-tiere». Con l’empatia che è il suo unico meto-do d’indagine, Maigret percorre l’epopea diun provinciale impressionato dall’agitazio-ne della grande città, dalla folla in perpetuomovimento, ma anche commosso dalle viteumili e ordinarie che lottano ogni giorno perrestare a galla.

Anche nel cinema le panchine resistono aldisprezzo sociale in storie che costituisconouna resistenza culturale all’omologazione,sociale e psicologica: da La venticinquesimaora di Spike Lee, dove Edward Norton medi-ta su una panchina il suo ultimo giorno di li-bertà prima del carcere, a quella di ForrestGump, eroe e quasi santo in rotta coi valoridominanti, che racconta la sua storia sedutosu una panchina mentre aspetta l’autobus.Innumerevoli le panchine che scandisconole surreali avventure dei grandi Stan Laurel eOliver Hardy, emarginati e vagabondi: perStanlio e Ollio la panchina è il luogo di unaderiva tragicomica, e i loro continui, esila-ranti fallimenti, degni di Bouvard e Pécu-chet, dicono la poesia di un nomadismo cheresiste, anarchico e irriducibile, all’impera-tivo dell’ordine, dell’efficacia e del successo.C’è la gioiosa panchina nel parco in cui si in-crociano i destini dei futuri sposi (e dei lorocani) ne La carica dei 101, e c’è la disperazio-ne urbana descritta di recente in The bench(“La panchina”) dal regista danese Per Fly. Sequalcuno ha suggerito che anche il luogo del-la serie tv Friends — un bar di Manhattan chesi alterna a un appartamento — è quasi una

metafora delle panchinepubbliche, è invece pro-prio una panchina il sito dicelluloide divenuto iconadel paesaggio newyorchese,tra sogno e realtà. Parlo ov-viamente della panchina diSutton Place che Woody Allenha immortalato in Manhattan,dove lo si vede in smoking seduto di schienaad aspettare l’alba con Diane Keaton sottoQueensborough Bridge, ammirando come ilviandante del romantico Friederich non leAlpi ghiacciate, ma lo skyline di New York.

Anche l’arte contemporanea si fa portatri-ce dell’intensità di questo luogo così umano,e d’altronde è proprio l’arte a portare da sem-pre l’attenzione sulle soglie, sulla frontieratra l’interno e l’esterno dell’abitare, che lapanchina incarna così bene. Dalle magnifi-che panchine luminose di Alberto Garutti,alla panchina monumentale che MassimoBertolini ha installato sulla piazza della fieradi Basilea, sormontata dall’immensa A dianarchia, fino alla panchina coi sussurri e lefrasi degli innamorati che Christian Boltan-ski ha posto in un parco del XIII arrondisse-ment a Parigi.

Cosa c’è di più umano e universale di se-dersi? Non ci sono solo le panchine dei po-veri, come pure molte associazioni, in Fran-cia e in Svizzera, esortano a costruire sul mo-dello americano dei pocket garden, giardinitascabili provvisti di panchine, anche tra igrattacieli, per attenuare l’isolamento diquanti, anziani o invalidi, non possono altri-menti allontanarsi da casa (si veda il sitofrancese http:// www. lesbancspubliques.fr). Forse non tutti sanno ad esempio che laJuventus, la grande squadra di calcio, fu fon-data su una panchina di legno di corso ReUmberto a Torino oltre un secolo fa, e chenemmeno lo Zarathustra di Nietsche sareb-be esistito senza una panchina. Di fronte allago di Sils-Maria, in Engadina, il filosofostava «seduto ad attendere / attendere ma

senza attendersi nulla / al di là del bene e delmale». E a riprova che le panchine sono fat-te anche per ricchi, proprio a Sils-Maria gliepigoni di Zarathustra possono prenotarsiuna panchina e fare incidere sul legno le pa-role più gradite, al prezzo di 2500 franchisvizzeri. Un’iniziativa nata dall’ufficio delturismo che sta devastando il paesaggio conuna proliferazione, questa sì in controten-denza rispetto alle città, di panchine.

L’universalità del sedersi su una panchinapuò attingere anche all’infinito dell’omoni-mo sublime sonetto del nostro GiacomoLeopardi, cui si perviene grazie a una siepe,«sedendo e mirando, interminati / spazi di làda quella, e sovrumani / silenzi, e profondis-sima quiete». Chi oggi vada a Recanati da-vanti a quella siepe, divenuta muretto, difronte alle punte innevate dei Monti Sibillini,troverà una panchina nel giardino di un con-vento. È una sorta di malinconico, nostalgi-co infinito anche la saudade evocata da An-tonio Tabucchi nel suo I volatili del Beato An-gelico: «Il comune di Lisbona ha da sempremesso delle panchine pubbliche in alcunezone della città: i moli del porto, i belvedere,i giardini da cui si domina il mare. Sono mol-ti coloro che vanno a sedersi lì. Tacciono, conlo sguardo perso in lontananza. Cosa fanno?Praticano la “Saudade”. Cercate di imitarli.Certo, è un cammino arduo, le sensazioninon sono immediate, talvolta l’attesa durapersino degli anni. Ma, lo sappiamo, la mor-te è fatta anche di questo».

In letteraturae nel cinemasi ostinaa resistereal disprezzodei benpensantie accoglie“eroi” in rottacoi valoridominanti,da Bouvarde Pécucheta Forrest Gump

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 12 AGOSTO 2007

I FILM

FORREST GUMP

Aspettando il busForrest (Tom Hanks)racconta la sua vitaa chi siedesulla panchinaaccanto a luiGli ultimi decennidella storia americanascorrono nelle avventuredi un “idiot savant”

LA 25 ª ORA

Sulle panchinelungo l’HudsonMonty Brogan(Edward Norton)passa le ultime oreprima della prigionesognandoun’altra chancenella New Yorkpost 11 settembre

NOI SIAMO LE COLONNE

Storica la scenain cui Stanlio,seduto su una panchinacon Ollio, è confusoper aver compiutopiù azioni “aiutato”da braccia nascosteche sbucanodalla siepealle sue spalle

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Sessant’anni fa, a Ferragosto 1947, lo scrittore ligure conquistavail Premio Riccione con “Il sentiero dei nidi di ragno”. Ora dall’archiviodel Premio spuntano dei documenti inediti che raccontano

il retroscena di quel primo riconoscimento letterario. Il romanzo non era piaciutoalla presidente della giuria, Sibilla Aleramo: “Non è un capolavoro ma è quantodi meno peggio è stato mandato al concorso”. Eppure lo raccomandò agli altri giurati...

“Secondo Pavese è bellissimo - scrisseCalvino del “Sentiero” -, secondoFerrata è senza fantasia, secondoVittorini così così, secondo Balboil primo romanzo marxista, secondoi miei genitori un insieme di sconcezze”

LE FOTOGRAFIENella foto grande,Italo Calvino giovaneA sinistra e a destra,Umberto Terracinial “Riccione 1947”:con GianniQuondamatteoe, seduto al tavolo,con giurati e collaboratoriI documenti e le due fotodi Terracini pubblicatiin queste paginesono forniti dagli archividel Premio Riccione

signato vincitore insieme a Onofri,il romanzo non convince a fondotutti i giudici letterari. «Non man-ca qualcosa di buono, di vivace,ma il racconto risulta un po’ im-mobile», scrive Luzi. Zavattini lovota perché di fatto viene «racco-mandato» da Sibilla Aleramo cheperaltro sembra preferire l’altroromanzo vincitore «scritto da ungiovane del mio partito, ora capo del-l’Agit-Prop». Piovene approva l’indi-cazione per mancanza di concorrenti.Laconico il verdetto finale della giuria:«Esaminati i ventotto manoscritti con-correnti, la giuria non ha potuto riscon-trare in nessuno di essi qualità artistichetali da suscitare il suo deciso consenso».Di qui la segnalazione di dieci opere per«la commossa partecipazione dimostra-ta dai concorrenti alle recenti vicendedella nostra vita nazionale», con l’attribu-zione del premio (duecentomila lire) exaequo a Calvino e a Onofri.

Una vittoria dimezzata che scontenta lostesso Calvino. Convinto di aver scritto unromanzo «scabroso e difficile», confida all’a-mico Eugenio Scalfari di aver raccontato«un’esperienza di malvagità e schifo umani,ma con una speranza di redenzione quasi cri-stiana (terrena però), più dichiarata che rag-giunta». L’autore del Sentiero sapeva di poterscontentare «palati conservatori e benpensan-ti», ma non si aspetta giudizi così poco lusin-ghieri. A Silvio Micheli scrive in una lettera: «Se-condo Pavese è bellissimo, secondo Natalia an-che, secondo Ferrata è sbagliato, senza fantasia,scritto in gergo, pieno di convenzioni e non socosa altro, secondo Vittorini così così, secondoBalbo il primo romanzo marxista, secondo imiei genitori un insieme di sconcezze che noncapiscono come il loro figlio abbia potuto scri-vere». Con la giustificazione di essere inviato aPraga per l’Unità, Calvino diserta la cerimoniadi premiazione al dancing Savioli, la notte diFerragosto, presieduta da Umberto Terracini,allora presidente dell’Assemblea Costituente.

«Il Sentiero continuerà a bruciare a Calvino— spiega Andrea Dini, docente di lingua e let-teratura italiana alla Montclair State Univer-sity, studioso delle carte del Premio Riccione —. Al giudizio negativo dei giudici Mondadori fa-ceva ruota quello non esattamente lusinghie-ro dei riccionesi che donava a Calvino unsuccesso di stima, solo un segnale di inco-raggiamento».

Il sentiero dei nidi di ragno vienepubblicato da Einaudi alcuni mesi do-po: romanzo numero undici della se-rie “I coralli”, dopo Il compagnodi Pa-vese e È stato così di Natalia Ginzburg.Questa volta gli elogi sono più delle cri-tiche. «Il più bel racconto sull’esperienzapartigiana», lo loda Pavese. Il riscatto di chiconsidera «la Resistenza una storia per pochi»,commenta Caprara su Rinascita, facendo delSentiero un cult resistenziale.

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

Calvinoil “comunista”

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Il giallo della vittoria dimezzataANNA TONELLI

RICCIONE

«Non è un capolavoro, ma èquanto di meno peggio èstato mandato al concor-so». Un giudizio severo,

quello di Sibilla Aleramo, che sponsorizza l’e-sordiente Italo Calvino pur non folgorata dal ro-manzo. E infatti Il sentiero dei nidi di ragno vin-ce il Premio Riccione, ma ex aequo con Morte inpiazza di Fabrizio Onofri, un nome destinato arimanere in ombra, almeno nel campo dellanarrativa. Autori però definiti entrambi «comu-nisti», sulla cui vittoria cala il sospetto della scel-ta di parte, favorita da una giuria letteraria condichiarate appartenenze al Pci. «Colpa del pre-sidente la commissione, qualcuno dirà certa-mente, la scrittrice e comunista Sibilla Alera-mo», mette le mani avanti Giorgio Fanti sulle co-lonne del Progresso d’Italia. Con lei in giuria sie-dono Elio Vittorini, Cesare Zavattini, Guido Pio-vene, Mario Luzi, Corrado Alvaro, Romano Bi-lenchi. «Saremo quattro comunisti (Vittorini,Bilenchi, Luzi, oltre a me) — si preoccupa la stes-sa Aleramo — e due soli indipendenti (Zavattinie Piovene): spero che non si abbia a pensare cheil mio giudizio sia inquinato da spirito di parte».

Nonostante i giurati amici, quello di Italo Cal-vino non è un esordio trionfale. Lo testimonia-no i documenti conservati presso l’Archivio delPremio Riccione, in gran parte inediti, resi pub-blici in occasione del sessantesimo anniversa-rio. È l’agosto del 1947, l’estate della non anco-ra compiuta ricostruzione. Riccione vuole lan-ciare la sfida alla Versilia, promuovendo il Pre-mio Nazionale Riccione in concorrenza con ilgià affermato Premio Viareggio, che proprionello stesso anno fa vincere il postumo Letteredal carcere di Gramsci. Una sezione dedicata airomanzi d’esordio, un’altra ai copioni teatrali.In piena filosofia neorealista, nel bando vieneesplicitato che il concorso è riservato a «un’o-pera letteraria narrativa di contenuto sociale».Dopo essersi informato sui componenti dellagiuria, come attesta una sua cartolina autogra-fa, Calvino decide di partecipare con Il sentierodei nidi di ragno, un romanzo resistenziale conprotagonista un ragazzino che ruba la pistola aun tedesco trovando come nascondiglio unviottolo utilizzato dai ragni per fare il nido. ARiccione Calvino, giovane cronista de l’Unità,cerca la rivincita, provando per la prima volta lastrada del romanzo. Solo pochi mesi prima lostesso dattiloscritto che invia a Riccione vienebocciato al Premio Mondadori, con una pesan-te stroncatura di Giansiro Ferrata che lo defini-sce «mancante d’invenzione, troppo tranchede vie, scritto in gergo».

Pur avendo la promessa di pubblicazione daparte di Einaudi in tasca, l’aspirante scrittore ri-tiene che la passerella di un premio letterarionazionale possa essere utile per farsi conosceredal mondo editoriale, magari attraverso il pare-re favorevole di scrittori prestigiosi. Ma i plausiarrivano solo in parte. Anche se Calvino sarà de-

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NELLO AJELLO

Italo lo Scoiattolotra Ariosto e Urss

Una sorpresa, una delusione, un mezzo tradimento. Cercod’immaginare l’impressione che suscitò a suo tempo, tra igiurati del Premio Riccione, l’arrivo di quel dattiloscritto sor-

montato da un titolo anodino, Il sentiero dei nidi di ragno, e firmatoda un quasi ignoto Italo Calvino.

Correva l’estate del 1947. Nella letteratura e nel cinema spirava ilvento del neorealismo, che imponeva di raccontare le più recentitraversie, specie la Resistenza, in tono d’epopea. Quella direttiva, ilPci l’aveva infatti inserita fra le proprie Tavole della Legge. Si tratta-va di un riflesso nostrano del cosiddetto realismo socialista: un ri-cettario ruvidamente pedagogico, quest’ultimo, vigente in Urss. Idelegati culturali delle Botteghe Oscure ne imponevano l’adozionefra i militanti e, in genere, nei ranghi dell’«umanità socialista».

Assai più tardi, risalendo ai propri esordi letterari, lo stesso ItaloCalvino mi avrebbe riferito, in materia, un ricordo rivelatore. Prota-gonista, Emilio Sereni. Costui, dottissimo plenipotenziario cultura-le delle Botteghe Oscure provava fastidio di fronte all’impiego trop-po frequente, da parte dei compagni di partito, della semplice no-zione di «egemonia». Si trattava a suo parere di un eufemismo adot-tato da Antonio Gramsci per motivi di cautela carceraria. Adesso, inun contesto radicalmente mutato — sosteneva Sereni — sarebbestato più giusto parlare con franchezza, anziché di egemonia, di «dit-tatura del proletariato» applicata alle arti.

Come immaginare, tornando a noi, che nei dibattiti in corso tra igiurati della Riviera adriatica non giungesse l’eco di simili suggeri-menti? Chi dà oggi una scorsa al Sentiero dei nidi di ragno con l’oc-chio alla giuria del “Riccione” si rende conto che il ventiquattrenneromanziere ligure era caduto piuttosto male. A presiedere quellagiuria era la scrittrice Sibilla Aleramo, che appunto in quell’agostoaveva varcato la settantina. Ancora dotata di fascino, vantava amo-ri numerosi e illustri. Risaliva al 1906 Una donna, il suo romanzo piùnoto, molto “vissuto” e dallo stile romanticamente svenevole. A te-stimoniare il suo tardivo avvicinamento al Pci valeva poi un volumedal titolo Luci della mia sera. La sua iscrizione al partito portava ladata del 1946. Una neofita insomma, poco incline a praticare scon-ti. Era perciò difficile che lei si lasciasse attrarre da quel romanzo nelquale la vicenda partigiana assumeva sembianze agresti e infantili.Era una Resistenza privata dei suoi attributi canonici: un’intenzio-ne anti-eroica aleggiava fra le righe. Premiamolo, insomma — era lasostanza del discorso — ma con una motivazione che magari indu-ca il suo autore a ravvedersi. Nulla, nel verdetto della giuria riassun-to da Anna Tonelli, lascia intendere che al Premio Riccione sia toc-cato in sorte di insignire, sia pure ex-aequo, un capolavoro della nar-rativa italiana del Novecento. Molto di rado il conformismo è unconsigliere oculato o profetico.

Nei giorni del “Riccione”, Italo Calvino ha già estimatori e detrat-tori. Il più fervido tra i primi è Cesare Pavese, che ha capito tutto, siadi quella prova d’esordio che della generale attitudine espressiva delsuo giovane amico. Lo definisce infatti «uno scoiattolo della penna»,che sa «osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamo-rosa, variopinta, diversa» e avverte nella sua prosa «un sapore ario-

stesco». Fra i detrattori figura quel Giansiro Ferra-ta, che non solo ha bocciato di recente Il sentiero alPremio Mondadori, ma nel 1963, all’epoca dellaGiornata di uno scrutatore, insisterà nel trovareCalvino «sconcertante» e incapace di trattare «i no-stri problemi moderni» senza «distrarsi dai temiconcreti».

Tiepidi i giudici dell’assise romagnola. Un po’sdegnoso appare, dal suo canto, il premiato, chespiega la sua assenza alla premiazione adducendoun incarico ricevuto dall’Unità: partecipare al Fe-stival mondiale della gioventù, che si svolge a Pra-ga, e raccontarne ai lettori. Non è, in realtà, un pre-testo per nascondersi alla Aleramo e agli altri. Lecronache praghesi di Calvino, a rileggerle sull’U-nità, sono vivaci e antiretoriche. Lo «scoiattolo» siesibisce in questo cantiere della sinistra cosmopo-lita mimando con agilità le mosse delle sue coeta-nee: «Signorine alla moda dalle unghie laccate» che«si lanciano mattoni di mano in mano come gio-cassero a palla sulla spiaggia». Si può capire che asinistra, e specie sui giornali, si privilegi un tonomeno distaccato e un po’ più plumbeo, ma Calvi-no non sa e non vuole. Sempre più decisa sarà, neifatti, la sua renitenza ad accogliere il realismo so-cialista (o le sue filiazioni periferiche) come una ca-tegoria dello spirito.

Nell’autunno del ‘48, quando l’ufficio culturaledel Pci, nella persona del solito Sereni, volle cementare i pilastri del-l’ortodossia artistica, sostenendo la superiorità della cultura sovie-tica, realistica ed impegnata, su quella dell’Occidente, elitaria e de-cadente, Calvino reagì con un sorriso disarmante. «Hai stabilito»,obiettò a Sereni, «un chiaro concetto di quel che oggi ha da essere lanostra letteratura e la nostra arte: e ti allontani fregandoti le mani. Èallora che comincia il nostro lavoro e cominciano i problemi». È al-lora che «dobbiamo cavarcela da soli». Si ha un bel dire allo scritto-re: «Sii Omero» (così imprudentemente era stato raccomandato difare ai romanzieri «progressisti») «ma la distanza tra noi e Omero co-me la colmi?».

Sui binari inforcati all’epoca del Sentiero, Calvino viaggerà sem-pre. Lo chiameranno decadente. Lo accuseranno di idolatrare l’«iolirico» che «uccide la narrativa». Gli addebiteranno di disertare, rac-contando le sue favole, la lezione offerta da Gramsci sul «folclore co-me concezione del mondo e della società». Tutto inutile. Lo scoiat-tolo ariostesco continuerà a saltellare da un ramo all’altro, di libro inlibro. Infastidito, leggero, ironico. E quando sarà il momento di rom-pere davvero con il partito di Togliatti, le motivazioni estetiche da luiaddotte faranno tutt’uno con quelle politiche. Non a caso, nel lugliodel ‘57, dando l’addio al comunismo opterà per la favola. Agli ex di-rigenti e compagni racconterà una parabola marinara ambientatanel Cinquecento, La Grande bonaccia delle Antille. Si legge Antillema si capisce Italia. Dove il veliero del Pci giace “in panne” nelle sec-che della Storia.

Erano gli anni dell’“egemonia”o, per dirla con Emilio Sereni,della “dittatura del proletariato”applicata alle arti. Quel libro inveceraccontava una Resistenza spogliatadei suoi attributi canonici, fra le righealeggiava un’intenzione anti-eroica

I DOCUMENTIDa sinistra in alto, la prima copertina Einaudi de Il sentiero dei nididi ragno; il bando di concorso del Premio Riccione 1947;il frontespizio del dattiloscritto del romanzo di Italo Calvinoinviato al Riccione; una pagina del dattiloscrittocon le correzioni a mano dell’autore; il telegrammadel giurato Elio Vittorini col voto per Calvino; la letteracon cui Sibilla Aleramo accetta l’invito a far parte della giuriadel premio; la lettera di accettazione di Cesare Zavattini;il comunicato - firmato da Sibilla Aleramo, Mario Luzi,Guido Piovene, Cesare Zavattini - con cui la giuria,pur non avendo riscontrato in nessuno dei manoscritticoncorrenti «qualità artistiche tali da suscitareil suo deciso consenso», assegna il Riccione ex aequoa Calvino e Onofri; la lettera di ringraziamentodel comitato promotore a Mario Luzi per aver accettatodi far parte della giuria; il sollecito di Italo Calvinoalla segreteria del Riccione venti giorni dopo la vittoria:“Sono sempre in attesa del premio... Avrei proprio bisognoche mi mandaste subito questo premio”; la letteracon cui Vittorini accetta di far parte della giuriaa patto di poter evitare la cerimonia del 16 agosto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 12 AGOSTO 2007

FOTO RICCARDO GALLINI

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Mio padre non dà lezio-ni di molte cose, o sipotrebbe dire che nondà molte lezioni diniente, e quando lo fanon durano granché,

forse otto minuti o giù di lì, poi è strema-to e ha bisogno di un bicchiere o un po-modoro su un piatto perché ne ha avutoabbastanza della tua compagnia, la solapersona che vuole a lungo è mamma.Quando decide di dare lezione di qual-cosa, è saggio farsi trovare pronti e ab-bandonare ogni altra attività. Sopra l’al-bero, mio e di Jude, cerco di pensare suquali argomenti a parte la boxe io abbiamai avuto lezioni da mio padre. Nonmolti. Ma è perché dobbiamo imparareda noi stessi, in più andiamo a scuolacinque giorni alla settimana e abbiamola mamma. E Ben. Non credo che papàsappia quanto ci insegna Ben.

Non sono più stanca. E mi sto indo-lenzendo quassù.

Ecco un fatto. Papà è un giornalistasportivo ma non pratica quasi mai unosport con noi. Se una palla da cal-cio rotola fino a lui mentre staleggendo sulla terrazza, laignora completamente op-pure dice Oh!, con lo stessotono che usa quando il trillodel telefono gli rovina la con-centrazione. Una volta ha lan-ciato una pallina da cricket a Ju-de, ma per qualche ragionecontinuava a mirare alla sua te-sta, mentre Jude si spostava conprecisione ogni volta, e io rincor-revo la palla dappertutto cercan-do di spiegare a mio papà le rego-le dei lanci, tutto da sola perchéerano troppe parole per Jude cheriusciva a dire soltanto: «Ha ragio-ne lei, papà, ha ragione lei, papà», eintanto papà si muove impaziente edice Ok ok ok, alle mie istruzioni, epoi dritto a scagliare la pallina in altocome se Jude fosse una noce di coccoinfilzata in un bastone, perché miopadre è semplicemente incapace difare due cose assieme, ascoltare e lan-ciare. Fu una cosa piuttosto tremenda,e non ricordo chi di loro due abban-donò il campo per primo, lasciandomazza e palla in mezzo al giardino e io afissarle, mentre loro sbattevano en-trambi la porta in faccia allo sport.

Che cosa fa esattamente mio padre daqueste parti oltre a scrivere di sport e sta-re sul divano e parlare con la mamma, avolte farla roteare per la stanza in un bal-lo d’altri tempi con piroette e piegamen-ti improvvisi che mi sembrano un po’pericolosi? Qualche volta fa casino in cu-cina, ok, soprattutto di sabato. Altre vol-te si cimenta con i nostri compiti più chealtro per vedere a che punto siamo in ter-mini di conoscenza del mondo. NONMOLTO AVANTI, pensa lui. Inoltre, ac-compagna Ben e Jude a scuola, agitandoper aria le chiavi dell’auto e gridandotutto allegro: «Smammate!», «Dateviuna mossa!», «Ti abbiamo tirato giù dalletto, Jude?», «Ti stiamo tenendo sve-glio, eh?», «Avete voglia di andare ascuola a piedi? Ah ah ah!». Per quan-to chiasso faccia, i miei fratelli non cibadano, continuano tranquilla-mente a stipare roba dentro gli zai-netti, masticando pezzi di panetostato, mentre Gus li rimira congrande attenzione e un leggerocipiglio, e Harriet alza le bracciae urla: «Che spasso!», «Chegrasse risate dovremmo far-ci!», che è la sua nuova espres-sione preferita tratta da unaltro libro che mamma ci staleggendo in questi giorni,un libro del signor CharlesDickens: s’intitola Grandisperanze, mi induce apensare al nome di unacasa ma non lo è, è il no-me di un sentimento.

C’è un’altra cosa.Siccome papà cono-sce dei bei trucchetti,me ne ha insegnati unpaio. 1) Come rasset-

Sei una ragazza molto pigra!». Suor Me-schina perde un po’ il savoir-faire quan-do si tratta delle scarpe.

Questi sono alcuni trucchetti utili chemio padre mi ha insegnato, e sperosenz’altro che mi insegni ancora qualco-sa man mano che andiamo avanti per-ché ho solo dieci anni e vado per gli un-dici e non posso sapere tutto subito e poici sono cose che non c’è bisogno che sap-pia già adesso. Cambiano ogni momen-to, le cose che a una persona occorre sa-pere. Un estraneo potrebbe credere chea una ragazzina non serva saper tirare diboxe, ma questa è un’opinione comeun’altra. Fino a oggi ho avuto una sola le-zione di boxe ed ecco come è andata.

«Ehi Jem», fa mio padre, «è ora di unalezione di boxe. Dovrai sapere come ti-rare di boxe quando saremo là da dovevengo io!».

Cavolo. Cosa intende? Mi sto facendoogni sorta di idea su questo posto dove ininverno non smette mai di nevicare, cheè quello che ho spiegato a Lucy White,questo fatto che nevichi tutto il tempo, ètutto un nevicare, niente a confrontocon le minuscole spruzzatine di pelu-rietta ghiacciata che abbiamo qui.

«D’inverno», ho detto in tono d’orgo-glio, come farebbe un esploratore del-l’Antartico, «nevica a tutt’andare. Cosìè».

Prova ne ho, di questo feroce nevicareal paese di mio padre, da Victor, il mio se-condo fumetto preferito dopo Com-mando. In Victor, c’è la storia di un canedi nome Black Bob, un cane da pastore,non del genere rotolo di ciccia pelosoche sembra una pecora e che arrancaattraverso i passi alpini portando unbarilotto di cognac per gente svenuta,no, Black Bob è un cane da pastore ve-ro, del genere che bada alle pecore.C’è un nome adeguato a questo tipodi cane e Harriet lo saprà. Tutto ciòche devo fare è far scivolare il mio fu-metto verso di lei un giorno, senzachieder nulla direttamente, e lei midirà il nome del cane più relatividettagli. Ma adesso non è impor-tante.

Black Bob è piuttosto carino etirato a lucido, parola che in uncane o un cavallo denota forza esnellezza, forse persino in un es-sere umano, e che mi sembrauna parola utile cui fare ricorsonel caso diventassi giornalistasportiva. Me la segno nel mioBlocchetto di Mendoza. Inquesta storia, Black Bob va inCanada, anche se non so co-me ci sia arrivato dallo York-shire, dove vive con un pa-store belloccio dotato dicoppola e panciotto, spessacintura nera e una vistosasciarpetta bianca. Non socome sia finito a vivere av-venture in Canada perchémi sono persa alcuni nu-meri di Victor quando Ju-de si è preso un piccoloperiodo di vacanza daifurti. Non fa niente. For-se per Black Bob viag-giare è importante,chissà.

In Canada, BlackBob sta con un Moun-tie, un tipo di poliziot-to canadese a cavallo,con un cappello dav-vero grande sulla te-sta che deve essereben duro portarequando corre con-tro vento. Potreb-be cadere e il sog-golo potrebbestringere la goladel Mountie,oppure potreb-be sorreggerlo

come la vela diuna barca. Non è un cap-

pello aerodinamico — Jude mi haspiegato due o tre cose sull’aerodinami-ca — e non è adatto a un uomo in servizioattivo. Il Mountie e Bob provano un for-te sentimento l’uno per l’altro, simile aquello che Bob aveva per il pastore, unuomo che a Bob manca moltissimo. De-ve fare ritorno nello Yorkshire, ma intan-to si fa le sue avventure in Canada, cheper la maggior parte riguardano la cacciaai criminali durante le bufere di neve, co-

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

la letturaTalento ereditario

La versione di Emma

Il padre Mordecai fu l’inventore di Barney Panofsky,eroe cinico ma sconfitto, scorretto ma romantico,indolente ma paranoico: uno dei personaggi letteraripiù riusciti. Ora la figlia Emma Richler ha scrittoun romanzo sulla sua famiglia. E nella descrizionedel papà, lo scrittore e la sua creatura si confondono

EMMA RICHLERscarpa sul dietro della gamba tesa. La-scia perdere i tacchi. È troppo difficile ela gente non presta molta attenzione aitacchi a meno che non abbia l’occhiodavvero fino e ti stia guardando mentreti allontani, ma allora te ne sarai già an-dato e quindi chi se ne frega. Lo strofina-mento funziona meglio di tutto con ipantaloni, ma anche le calze e i collantandranno bene. Un altro suggerimentodi papà riguardo alle scarpe casca a fa-giolo quando stai uscendo per andare ascuola e sei in preda all’agitazione op-pure quando sei a scuola e da dentro vaifuori. Non allacciarle troppo strette.Tutto lì. Ora puoi far scivolare il piededentro e fuori senza bisogno di allaccia-re o slacciare, proprio come se le scarpecoi lacci fossero scarpe che s’infilano!Sta’ attento a non compiere questa ope-razione davanti a Suor Meschina, la qua-le ti detesta, altrimenti ti dirà, come feceuna volta: «Weiss! Weiss! Slacciati quellescarpe e riallacciale immediatamente!

tarsi i capelli se non hai una gran passio-ne per i pettini e ti trovi in una situazionedove c’è bisogno di essere in ordine.Mettiti nascosto e allarga le dita a petti-ne, tipo forcone da giardino, per così di-re. Tieni le dita rigide e spingile attraver-so i capelli dal davanti fino al dietro, an-dando piano perché devi considerare gliostacoli imprevisti. Troppo veloce e tiverrà un gran male al cuoio capelluto.Puoi usare entrambe le mani. 2) Se nonsei in vena di affettare roba da mangiaree quindi di maneggiare la coltelleria, ec-co come farti un panino veloce veloce.Distendi quello che vuoi su una fetta dipane, burro d’arachidi, formaggio,ecc… Ora RIPIEGA il pane su se stesso.In questa maniera c’è un bordo in menofuori dal quale può uscire la roba e il tuopanino è pronto in fretta, e ti serve uncoltello solo, uno per spalmare. Da ulti-mo, usa il palmo della mano o un fazzo-letto al posto del piatto, oppure mangiafuori, così avrai ridotto le operazioni dipulizia. 3) Come strofinare le scarpe incaso di emergenza. Rimani in piedi suuna sola gamba e pulisci il davanti della

La figliaMio padre non dà lezioni

di molte cose, o si potrebbedire che non dà molte

lezioni di niente, e quandolo fa non durano granché,forse otto minuti o giù di lì

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Da Date da mangiareai miei amati canidi Emma Richler(Fandango Libri)

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sa che comporta che quasi tutti i riquadridel fumetto siano spazi bianchi, fatta ec-cezione per Black Bob e il Mountie chesbirciano attraverso la neve, e per lineesottili che raschiano la pagina di traversoa indicare la furia dei venti, così non misembra che il disegnatore abbia tutto‘sto lavoro da fare quando sullo sfondoc’è soltanto neve.

Il Mountie ha un problema. Soffre dicecità da neve, e la cosa mi preoccupaanche se sembra che sia una specie di ce-cità temporanea, che succede solo nellebufere. C’è il Mountie, improvvisamen-te cieco, che cerca di dare la caccia ai cri-minali con le braccia tese in avanti comeHarriet quando fa la scena della mum-mia egizia, e adesso spetta a Bob occu-parsi di tutto, catturare i criminali, pren-dersi cura del Mountie, tutto quanto. Lacosa non mi sorprende perché Black Bobè sempre l’eroe principale in tutte le av-venture, perché ha un unico desiderio,più le qualità della calma e della mode-stia, il che lo rende un eroe ancora piùgrande. Niente conta di più per Bob delfatto che il suo padrone sia al sicuro e chei criminali no. In Canada, poi, finisce tut-to bene, con il Mountie che sorseggia unabuona bibita, magari un cognac, e gli oc-chi fasciati con cura finché non potrà ve-derci bene di nuovo, mentre un cami-netto scalda la casa di tronchi. In nessunriquadro si mostra come riesca a fare tut-to questo, andare brancolando verso lacasa e tutto il resto, e quindi deve essereBob a versare il drink, accendere il foche-rello e bendare l’occhio del Mountie ac-cecato dalla neve. Non c’è nessun altro.Nei fumetti le storie non sono sempremolto realistiche. Ma fa niente.

È possibile che io abbia bisogno diimparare a boxare a causa dei crimina-li che girano nascosti dalle tormente dineve con cattive intenzioni, per quan-to ne dubiti. Penso che questa sia sol-tanto un’altra lezione da cowboy chemio padre mi ha dato, un ulterioresegnale della sua preoccupazioneper me e per la mia vita al college edell’effetto d’infiacchimento chequest’ultimo può avere su di me.Non preoccuparti, papà.

Luogo dove è avvenuta la miaprima lezione di boxe, alla fine diuna giornata di cronache sporti-ve di papà: la cucina. Ecco per-ché. Quando si stufa, stanco diinsegnare, può voltarsi e, guar-da! c’è la mamma che prepara lacena, mamma, il suo sollievosuperpreferito che tutto ridi-mensiona, la scrittura sporti-va, le lezioni, le chiacchiere coifigli. E dopo una lezione ha bi-sogno anche di questo: undrink. Mi accorgo che se ne ègià versato uno, che lo aspet-ta là sul tavolo della cucina.

Mio papà mi ferma men-tre attraverso la stanza.

«Ehi, Jem. È ora della tuaprima lezione di boxe. Do-vrai sapere come tirare diboxe quando saremo làda dove vengo io!». E poigiù: «Ah ah ah!». Però io laprendo molto sul serio,sono fatta così.

«Ok, papà». Appoggio il mio libro

sul tavolo di querciabianco, ben lontanodal suo bicchiere discotch, tenuto contoche con lui le bibiterovesciate sono lanorma. In quel mo-mento comprendoche la lezione nondurerà a lungo eche potrei anchedargli una chan-ce, come inse-gnante, e non faretroppe domande.Localizzare il bicchiere ecompiere questi calcoli temporali èun lavoro da detective, una cosa chepuoi fare con le persone man mano chele frequenti e vieni a conoscenza dellecose che le riguardano. Puoi anche pedi-nare gli estranei, anche se non sempresei certo di dove gli indizi ti condurran-no. Molto interessanti sono Le avventu-re di Sherlock Holmes, scritte da SirArthur Conan Doyle, che prima era undottore e poi uno scrittore, e poi un tizio

cia. Fa’ il pugno e tienilo lì. Per proteg-gerti la faccia. Molti combattimenti fini-scono con ferite alla testa. Usa la manocon cui non scrivi. Avanti! Io tiro di man-ca e quindi tengo su la destra. È chiaro?».

«Di manca?». Non posso farci niente,devo chiedere. Se ha intenzione di usaretermini tecnici dovrò pure capirli, è cosìche funziona nell’insegnamento.

«Mancino, sono mancino!».«Quindi io sono destrina, eh? Uhm,

uno si definisce in base alla sua mano piùforte? O tutti hanno una manca e una de-stra? Funziona solo negli sport? Oppurecosa?».

«No no no! Tirar di manca è un’e-spressione per quelli che usano solo esoltanto la mano sinistra, ok?», spiegamio papà passandosi le mani tra i capel-li e respirando rumorosamente.

«Non è che mi sembra tanto giusto,papà. Ne sei sicuro?».

Penso a Horace, Lord Nelson, inclineprobabilmente per nascita all’uso dellamano destra, e ritrovatosi improvvisa-mente senza scelta, e mi domando seconti, se non sia diventato mai un veromancino perché nella sua mente cerca-

va di prendere le cose sempre conla mano che non c’era, la de-

stra, cercando al suo fiancoun amico che non ci potràmai più essere, il suo bracciodestro.

«Jem! Allora, ti sto inse-gnando, dannazione! Smetti-la di startene là come una ton-tolona».

«Ok, scusa».Tiro su la mia mano sinistra,

la mia manca che non è unamanca perché io uso la manodestra, il che fa sì che io usi la ma-no giusta, credo, la stringo a pu-gno davanti alla faccia. Muovo ipiedi, mi lascio lavorare alle cor-de, porca miseria, lo faccio permio padre che adesso sembra feli-ce.

«Meraviglioso. Partiamo. Cercadi proteggerti, ricordi? Adesso —TIRA!».

Poi mio papà spinge dritto sullamia faccia il mio pugno sinistro, chemi sta proteggendo da ferite alla testa.

«Ehi!», urlo. «Non puoi farlo! È scor-retto! E fa male!».

«Ah ah ah! Lo stavi tenendo troppomolle! Non ti ho fatto male per davve-ro, no?», dice lui, e mi scompiglia i ca-pelli. «Ti ho detto tieni su il pugno manon dimenticarti che ce l’hai, o ti succe-derà tutte le volte. Non ho neanche avu-to bisogno di colpirti! Ti sei messa fuoricombattimento da sola! Fine della lezio-ne!», aggiunge, e si volta per raccogliereil bicchiere, poi si avvicina alla mammae si piazza vicino a lei con la schiena con-tro il bancone della cucina e le caviglieincrociate, e mi richiama alla memoriauno dei ragazzi dai capelli scuri nelle fo-tografie di Lisa, appoggiati con aria di-sinvolta contro muri bianchi pieni disole. Penso che mio padre mi abbiaimbrogliato, con aria disinvolta, e ab-bia fatto un salto dritto dritto all’in-fanzia.

«Non è corretto, papà», gli faccio,mentre mi sistemo al tavolo col miolibro di Tintin. Non sono arrabbia-ta, però.

«È vero, Jem! Non è corretto!»,ribatte lui, tutto compiaciuto.

«Così gira il mondo?», chiedoio.

«ESATTO!», risponde, e fapassare un braccio intornoalla mamma stringendolaforte.

Traduzionedi Francesca Valente

(Feed my Dear Dogs ©Emma Richler 2005

Publishedby arrangement withRoberto Santachiara

Literary AgencyDate da mangiareai miei amati cani

sarà pubblicatoda Fandango Libri

nel novembre 2007)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 12 AGOSTO 2007

che morì d’infarto. Mi domando se se losia visto arrivare, con il suo acume me-dico, e se sia stato meglio o peggio, ve-derselo arrivare. Sherlock Holmes è ilmigliore dei detective non ufficiali, e fa-re il detective è la sua preoccupazioneprincipale, mentre Tintin, altro detecti-ve non ufficiale, ha anche un cane, e inseguito incontra un capitano di mare, egrazie alla compagnia di Le Capitaine edi Milou, credo, Tintin comincia ad ave-re modi più affabili e un carattere menospigoloso. Ok.

«D’accordo. Adesso, prendi il centrodel ring!», annuncia papà, saltellandomiattorno.

Fisso mio padre. Di che cosa sta par-lando? Dovrà fare qualcosa di meglio.Insegnare non è proprio la sua specia-lità. Si vede.

«Che vuoi dire, papà? Dove?». Mi guar-do intorno per capire che cosa intenda,per cercare questo ring.

«Mettiti in guardia, Jem. Stai sciolta,

rilassa la spalla, piega le ginocchia, inquesto modo sei un bersaglio in movi-mento, difficile da colpire, capito?».

«Oh, ok». Piego le ginocchia e tengo sui pugni esattamente come Daniel Men-doza, il pugile ebreo sul il mio Blocchet-to delle Domande. Mi sento un po’ stu-pida col mento all’aria e le ginocchia chepuntano verso direzioni opposte.

Mio papà sta ridendo di me, ride dellamia posizione, ah ah ah!

«Jem, ti ricordi di Cassius Clay? L’ab-biamo visto in tv, ricordi?».

«Sì», rispondo.«Sul ring lui danza! E si lascia lavorare

alle corde per sfinire l’avversario. D’ac-cordo? D’accordo!».

«Oh, papà, è talmente ridicolo, lavora-re alle corde, ma cosa vuol dire?».

«Fallo e basta, Jem! Muovi i piedi, sta’morbida, dai!».

Si sta un po’ scocciando. Il suo drinksta aspettando e il mio tempo è quasi fi-nito, piantala con le domande, Jem. «Ok,allora!», dico io, muovendo i piedi.

«Ora. Molto importante. Tieni sem-pre, sempre, una mano davanti alla fac-

Il padre- E dai papà. A sentir teKate non fa mai nientedi male. È sempre stata

la tua cocca- Questo non è vero,

risposi mentendo

‘‘

IL LIBRO

Emma Richler è la terza dei cinque figli del celebreMordecai. Dopo aver lavorato per il teatro, il cinema e la tv è approdata alla letteratura. Date da mangiareai miei amati cani è il suo primo romanzo. Raccontala storia di Jem, come l’autrice terza figlia di cinque,costantemente impegnata a puntellare le fragilitàe insicurezze dei familiari e a cercare di trovare una spiegazione all’universo che le gira intornoIl libro, di cui anticipiamo uno dei capitoliche ha per protagonista il padre, sarà pubblicatoda Fandango Libri a novembre

ALLO SPECCHIOA sinistra,Emma Richler;a destra, il padreMordecai

Da La versione di Barneydi Mordecai Richler

(Adelphi)

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gio di sole (la raganella disidrata sul vetro, lainaridì il sangue verde. Il falco gira e gli attri-buiscono infamie, e arriva l’acqua, come sem-pre in ritardo». È l’unico appunto rimasto diquella che sarebbe stata la nuova opera di Fa-brizio De André. «Sì, era la sua ultima idea», con-ferma Dori Ghezzi guardando assorta il foglio:«Evidentemente dettato dal suo stato d’animo,dal suo inconscio, c’era il desiderio di lavorare suquesti quattro Notturni, chiamiamoli anche Re-quiem, cercando di vedere i vari aspetti del buio, siail fenomeno atmosferico, sia la cecità, il non volercapire le cose, ogni notturno aveva un suo modo dirappresentare il buio, compresa la morte, ma è ri-masto tutto nella sua testa, non è riuscito a comin-ciare, sono rimasti solo questi brevi appunti. Avevain mente di chiedere a quattro compositori di scrive-re quattro diverse musiche su cui avrebbe messo deitesti. Sicuramente uno doveva essere Mauro Pagani,pensava a uno in chiave jazz, l’altro più classico. For-se inconsciamente già presagiva la fine, chissà, poi èandata com’è andata, c’era il tour ma si sentì male,dovette interrompere e l’idea è rimasta lì». Dori èuna splendida custode, un’appassionata vedovagenerosamente convinta che il “suo” Fabrizio siain realtà di tutti, che le cose che lui ha lasciato deb-bano essere condivise, che in qualche modo ap-partenga a tutti quelli che l’hanno amato. Non ègelosa, se non dei privatissimi ricordi che, quel-li sì, tiene per sé, accuratamente nascosti. Unavolta Fernanda Pivano, scorgendo un velo ditristezza sul volto le disse: «Non essere gelo-sa, quell’uomo ti ha amato enormemente,anche adesso sarà lassù che ti pensa».

Quando rivede i fogli, i libri fitti di note,alcune delle quali sono diventate canzoni,

(seguedalla copertina)

«La musica non è simbolica» c’èscritto in rosso su un fogliettinoquadrettato, «la musica rap-presenta se stessa — È un feno-meno protomentale, anticipala ragione — evoca, ma non

simbolicamente». Tracce dell’uomodi pensiero, maniacale, riflessi-

vo, dell’uomo che prediligevala notte per scrivere o leggere

e che la mattina dormiva fi-no a tardi, tanto che, come

racconta Dori Ghezzi,nella casa in Sardegna

c’era un gallo che alla fi-ne si era piegato a can-

tare a mezzogiorno. Sul retro bianco

di un libro leggia-mo un’annota-zione che fa sob-balzare i presen-ti: «Notturnodelle raganelle,

notturno delvento», e poi

continua:«Un in-

t e r orag-

Il Centro Studi De André, all’Università di Siena, sta vagliandoe catalogando tutto il materiale lasciato dal cantante-poeta: lettere,appunti, idee per nuove creazioni. Siamo andati a frugare dentro questa

massa di carte inedite con una guida d’eccezione, Dori Ghezzi. Scoprendo, scatola doposcatola, che in questa miniera di ricordi c’è una specie di mappa del tesoro da decifrare

Fabrizio

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

GINO CASTALDO

De André

Notturno di vento e raganelleecco le parole mai cantate

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Idue album Non al denaro, non al-l’amore né al cielo e Storia di unimpiegato li registrammo a Roma,

negli studi di piazza Euclide che allo-ra si chiamavano Ortophonic e cheoggi si chiamano Music village. Equesto è uno dei tanti gesti di gene-rosità e di fiducia che Fabrizio De An-dré ebbe nei miei confronti: mi per-mise, trasferendosi a Roma, di lavo-rare con i miei musicisti e collabora-tori fidati.

Ricordo poi i primi piccoli conflittifra me e i produttori discografici, Ro-berto Danè e Sergio Bardotti. Io eromolto giovane, forse troppo, ed eroun po’ spigoloso, diffidente, pronto avedere insidie, trappole e compro-messi in qualunque proposta degliimprenditori discografici. Il temadella discordia si presentò il primogiorno di registrazione, quando unafolta orchestra di carattere sinfonicoeseguì la partitura che avevo scrittoper La collina, il prologo dell’Antolo-gia di Spoon River. La maggior partedei discografici di allora era abituataa tutt’altro metodo: in genere si regi-stravano pochi strumenti alla volta,si sovrapponevano le piste ad una aduna, e ad ogni sessione di registrazio-ne si aprivano dibattiti e si arrivava almissaggio con cento opzioni, fradubbi, perplessità e ripensamenti.

Quel giorno, ascoltare tutto insie-me l’arrangiamento d’orchestra, labase su cui Fabrizio avrebbe cantato,era un cambio di rotta troppo bruscoper le abitudini dei produttori: pole-mizzammo forte, io non volevo scen-dere a compromessi, e il lavoro fu so-speso. Fu proprio Fabrizio a ricucirelo strappo, una settimana dopo, con-vincendo Bardotti — Danè nel frat-tempo si era convinto da solo — e in-vitandomi nel contempo a una mag-

giore elasticità. Riprendemmo illavoro da dove lo avevamo la-sciato, registrammo La collina

in tre fasi — ritmica, archi e fiati— ma nella stessa versione di una

settimana prima: il tragitto era cam-biato, il risultato era lo stesso, ma era-

vamo tutti soddisfatti.Nel seguito del lavoro, durato tan-

te settimane, avendo acquisito mag-giore fiducia reciproca, adottammoelasticamente diversi criteri di regi-strazione. L’ottico, per esempio, erauna partitura piena di effetti speciali,e fu montata in studio ricorrendo atecniche che per quegli anni mi sem-bravano ipertecnologiche — comead esempio l’ingenuo espediente difar girare un nastro alla rovescia e poimontarne l’effetto su una pista al drit-to —. Era un pezzo che, eseguito al so-lo pianoforte, risultava incomprensi-bile, e solo una volta registrata la baseorchestrale De Andrè e Bentivogliopoterono stendere il testo definitivo.

Nell’album seguente, Storia di unimpiegato, accanto a momenti forte-mente sinfonici — Fabrizio per sfot-termi li chiamava wagneriani — si al-ternavano pezzi di carattere moltodelicato, come una canzone che regi-strammo quasi totalmente in diretta,canto e pianoforte: e io conservo unricordo molto toccante di quel po-meriggio a piazza Euclide in cui ac-compagnavo al pianoforte Fabrizioche cantava Verranno a chiederti delnostro amore. Fu una registrazionevelocissima: non fu buona la prima,ma forse la seconda, massimo la ter-za. Poi aggiungemmo un po’ di stru-menti — chitarra, basso, flauto dol-ce... — che si sovrapponevano condiscrezione a quella versione, senzaalterare l’andamento fragile del clas-sico canto e pianoforte.

Tutti gli esperimenti messi in cam-po per realizzare quei due album —oggi cd — furono possibili perché la-vorava con noi un fonico geniale, unmago del suono naturale: SergioMarcotulli, padre di Carla e Rita. Nelsuo curriculum spiccava fra le altre laregistrazione dell’ultimo Chopin diRubinstein. A questo artista riservatoe discreto, a questo artigiano dellamagia sonora quei due dischi, e iopersonalmente, dobbiamo moltissi-mo. Anzi, vorrei cogliere l’occasioneper mandargli un saluto affettuoso.

MONUMENTONella foto grande,Fabrizio De Andrénel parco di VillaBolzano a Sarissola-Busalla (Genova)Immagine trattadalla copertinadel libro 1958-1968

Fabrizio De André(Edizioni

La Lontra, 2006)

TALENTO PRECOCEAccanto, una foto della classe

di Fabrizio nell’anno scolastico1947-48 alla scuola elementare

Armando Diaz di GenovaSono gli stessi anni in cui inizia

a studiare musica; a destra,Fabrizio suona una fisarmonicanel 1945 alla Cascina dell’Orto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 12 AGOSTO 2007

agguerrito gruppo di studio lavora alla catalogazio-ne di questo infinito materiale. Gianni Guastella eStefano Moscadelli sono a capo del progetto. Usanoun sistema molto sofisticato che si chiama Dam (Di-gital Assett Management), l’unico installato in Italia,e che rispecchia il lavoro dell’archivista, diviso in cin-que sezioni: 1) Lettere ai genitori. 2) Corrispondenza(carteggi). 3) Atti e documenti, ovvero varie eventua-li. 4) Manoscritti di lavoro, fogli sciolti, agende, unquaderno-raccoglitore ad anelli con tutto Anime sal-ve. 5) Materiale librario. C’è la schedatura, la digita-lizzazione, e poi l’inventariazione: brutta parola che,come ci spiega Moscadelli, il capo archivista, un pro-fessore che si è preso un anno sabbatico per dedicarsia questo lavoro, non è come la catalogazione che ten-de a individuare ogni singola parte come un ele-mento a se stante. «Inventariare significa riunire tut-te le informazioni e correlarle», spiega, «rendere pos-sibile la consultazione, organizzare percorsi, link,connessioni tra le diverse tipologie. Per esempio, al-cuni materiali sono semplici, ma possiamo imbat-terci in un foglio in cui c’è un frammento di un testodi una canzone, degli appunti, magari un prome-moria di qualcosa: in quel caso è più difficile». Ognisingola scatola è come una miniera, una mappa deltesoro.

A gettare l’occhio in questa rigogliosa cornucopiadi parole sembra di essere indiscreti, di violare la tra-ma segreta dei documenti che compongono un’esi-stenza, a partire dall’atto di nascita, foto scolastiche,una commovente letterina indirizzata a Gesù Bam-bino, destinazione Paradiso, datata Natale 1946, incui chiede soldatini e attrezzi da falegname o, inmancanza, il libro L’alba, meglio conosciuto comeLa storia di Allegretto e Serenella, di Virgilio Brocchi.

(segue nelle pagine successive)

NICOLA PIOVANI

Quel pomeriggioal piano con Fabrizio

GESÙ BAMBINONatale 1946Il piccolo Fabrizio inviauna letterina a GesùBambino. Nell’altrapagina in alto, la bustaindirizzata al Paradiso;nella lettera quiaccanto chiede dischidi favole e soldatiniIn alternativa, ferrida falegname,due automobilinee il libro L’albadi Virgilio Brocchi

si perde, si vede che l’emozione le stringe la pancia,ma non cede, solo gli occhi per un momento si vela-no, si intuisce lo sforzo, la voglia di far di tutto perscindere la sua immagine privata dal patrimonio chedeve diventare collettivo, da cui la voglia di lavorare,di non lasciar cadere nulla. «Mi piacerebbe che iquattro Notturni venissero comunque scritti, ora ve-dremo se riusciamo a riprendere l’idea». Ma era pursempre il suo uomo, il suo amato compagno di vita,e il viso si distende in un sorriso quando le ritorna inmente l’umorismo sottile e lucido che Fabrizio spar-geva intorno a sé: «Con Berio avevano deciso di scri-vere il nuovo inno italiano», ricorda, «poi però eranotutti e due liguri, e quando hanno scoperto che co-munque non avrebbero beccato una lira come auto-ri, dissero, ma allora belìn... Ma no, magari l’avreb-bero fatto davvero, chissà? Di sicuro era stato un in-contro di quelli che capitano quando due persone sipiacciono e vogliono fare qualcosa insieme, così dis-sero: e perché non l’inno d’Italia?».

Ci troviamo all’Università degli studi di Siena, do-ve è stato creato il Centro Studi De André. Nel 2003 laFondazione costituita in suo nome ha deciso di affi-dare il materiale disponibile al Centro. Tutto è statochiuso nella grande cassaforte in quella che i tecnicichiamano “la capanna”, una grande stanza che si al-lunga nel giardino come una protuberanza moder-na delle antiche mura dell’Università. E da allora un

ISPIRAZIONIAppuntiper un progettosul Guerrinmeschinorivisitatoda Bufalinoe una riflessionesulla musica

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Domani nella tenuta dell’Agnata,l’amatissima casa sarda

dove Fabrizio e Dori si rifugiavano e dove furonosequestrati, si tiene la serata che il Festivaldi Berchidda promuove sui temi di De AndréUna casa dove lui, che scriveva di sé “mi considerola minoranza di uno”, poteva coltivarenel modo più creativo la passione per la solitudine

DISORDINEIl testo quasi definitivo, con alcune varianti,di Disamistade e in primo piano altri appuntipreparatori sulla canzone presi sull’ultimapagina di un libro di Álvaro Mutiscon una misteriosa dedica: “A L. con tuttoil disordine del mio affetto”

De AndréFabrizio

GINO CASTALDO

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

(seguedalle pagine precedenti)

Da un’altra scatola escono fogli a righee quadrettati, zeppi di versi e annota-zioni. C’è un frammento de La dome-nica delle salme, la più spietata e ag-ghiacciante delle sue canzoni politi-che, un ritratto impietoso e tragica-

mente profetico dell’Italia che si affacciava agli anniNovanta, con frasi diverse dalla versione definitiva:«Voi che avete cantato per i longobardi e per i socia-listi», e «socialisti» diventò poi «centralisti», oppure«sotto le falci e i martelli e ai matrimoni degli Agnel-li», al posto di «nei palastilisti e dai padri Maristi», ec’è un segno che cancella «gole taglienti» preferendo«voci potenti», che rimarrà nella versione definitiva.Sul retro di un libro, Summa di Maqroll il gabbiere,diAlvaro Mutis, ci sono versi che poi finiranno in Disa-mistadee alla fine una dedica: «A L. con tutto il disor-dine del mio affetto». Neanche Dori Ghezzi può direcon certezza a chi fosse riferita. Forse alla figlia Luvi?

Uno dei problemi che stanno affrontando quellidel Centro Studi è proprio questo: capire, attribuire,riportare nel giusto solco il disordine naturale di unintellettuale che prendeva appunti dovunque, emolto spesso non si preoccupava di denunciare fon-ti e paternità. «Leggiamo una frase», spiega Guastel-la, «e non sappiamo dire con assoluta certezza se è diFabrizio o se aveva appuntato una frase di qualcunaltro che l’aveva colpito. Per questo il lavoro è lungoe laborioso». Del resto da questi fogli emerge un me-todo di lavoro che sembra divorare spunti e citazio-ni prese da ogni parte. Ci sono ritagli di giornali, sot-

SACCHEGGIOIl messaggio

di ringraziamentoche Fabrizio

scrisse a Mutisper il “saccheggio”

della sua opera

IN CONCERTO. Alla Bussola nel 1975 davanti al regista Marco Ferreri

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RITRATTI DI FAMIGLIA. Il cantautore accanto a una foto con il padre e la madreAI CARAIBI. Fabrizio De André durante una vacanza a fine anni Sessanta

VARIAZIONIVariazioni sul temadel “saccheggio”

alle operedi Alvaro Mutis

A destra,la traduzionedi una frasein francese

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 12 AGOSTO 2007

tolineati. Una pagina di Repubblica sugli scontri aGerusalemme, il resoconto di cronaca dell’omicidiodi un viados. L’appunto di De André sottolinea comefosse rimasto colpito dalla spettacolarizzazione del-la vicenda, ed è un tema che puntualmente ritornanei versi di Princesa.

Se già si poteva intuire la sua vorace e molteplicecultura, a vedere questi fogli si rimane impressiona-ti. E questa aura da intellettuale d’altri tempi era per-cepita anche dai suoi colleghi. «Spesso venivano dalui a chiedere consigli», ricorda Dori Ghezzi, «a sen-tire un parere su quello che facevano. Negli ultimi an-ni Antonello Venditti veniva a casa a fargli ascoltare isuoi pezzi». C’è un’intera sezione di libri, portati quial Centro perché zeppi di annotazioni. Era uno diquelli che i libri li brutalizzava, li sciupava, ci scrive-va dentro come fossero cibo per nutrire la sua aviditàintellettuale. Ci passano tra le mani un’edizione diPerché leggere i classici di Italo Calvino, poi Il vicerèdi Ouidah di Bruce Chatwin, e tutte le opere di Al-varo Mutis. Tra le quali scopriamo annotazioni di-vertenti. De André era molto preso dai libri delloscrittore colombiano e la lavorazione del suo ul-timo disco, Anime salve,ne fu condizionata. Conl’accordo di Mutis, al pun-

to da formulare un messaggio per lui: «Grazie perl’autorizzazione al saccheggio. Ci limiteremo all’ar-genteria». Ma anche questa frase è provata e ripro-vata, con molte varianti, come se dovesse essere ilverso di una canzone. E la forza di Mutis dietro al la-voro di Fabrizio si avverte soprattutto in Smisuratapreghiera,l’ultima canzone del disco e l’ultima in as-soluto della vita artistica di De André, considerata aragione il suo testamento spirituale. C’è un ampioblocco di appunti legato alla composizione di Disa-mistade, preziosissimo per comprendere quella suamaniacale attenzione alle parole: il senso di respon-sabilità che sentiva su ogni parola, il peso del signifi-cato, in fin dei conti il ruolo stesso del cantautore.

Le scatole sono come cilindri da prestigiatore. C’èuna lettera della madre di Fabrizio, che sbirciamocon inevitabile pudore. Leggiamo solo l’inizio ed èun meraviglioso squarcio di vita: «Fabrizio nacquenello stesso momento in cui sul giradischi suonava ilvalzer campestre di Gino Marinuzzi». È anche que-sta una rivelazione perché De André, chissà se in de-bito a questo battesimo musicale o inconsapevol-mente, rimase affezionato a quel valzer carico di pro-messe contadine e molti anni dopo ci scrisse soprauna delle sue canzoni più famose, Valzer per un amo-

re, quella che comincia con «Quando carica d’an-ni e di castità, tra i ricordi e le illu-

sioni...». Da

un’altra scatola spunta un foglio intitolato «il Pupa-ro». Né Dori né gli archivisti sanno dire di cosa si trat-ti esattamente, ma tutto fa credere che siano varia-zioni sul tema del Guerrin Meschino, il poema caval-leresco scritto nel Quattrocento da Andrea Barberi-no, o, più verosimilmente, uno sguardo rivolto allarivisitazione immaginata da Gesualdo Bufalino co-me opera di pupi. Ma ci sono anche occasioni persorridere. Da vari fogliettini emergono ricette culi-narie, risultati della giornata calcistica e perfino leformazioni del Genoa.

Il materiale manoscritto è copioso soprattutto perquanto riguarda gli ultimi anni di vita. «Una spiega-zione c’è», racconta Dori Ghezzi, «e si capisce anchedalla corrispondenza, che era tanta e c’è solo dal1994, e questo vale anche per molti manoscritti. Per-ché, quando la tenuta dell’Agnata in Sardegna daabitazione privata è diventata agriturismo, e io c’eroe non c’ero, lavoravo, lì hanno cercato di togliere tut-to ciò che era personale, e allora secondo me lì, pur-troppo, hanno eliminato un sacco di roba». L’Agna-ta era la amatissima casa in Sardegna dove lui e Doripassavano gran parte del tempo. A volte De André la-vorava solo per guadagnare soldi da riversare in quelpozzo senza fondo che era la tenuta. Fu lì che furonosequestrati dai banditi e Dori ricorda un momento incui riuscirono perfino a riderne: «Fabrizio si arrabbiòmolto perché i sequestratori gli dissero che, oltretut-to, come cantautore preferivano Guccini. E lui disse:belìn, allora perché non avete preso Guccini?».

Una volta l’anno l’Agnata si apre al pubblico. Il fe-stival jazz di Berchidda, diretto da Paolo Fresu, orga-nizza una serata nei campi della tenuta, con genteche viene da tutte le parti, e si fa musica, jazz, sui te-mi di De Andrè. Domani, 13 agosto, è il giorno pre-

REQUIEML’unico frammentorimasto del lavoroche Fabrizionon ha fatto in tempoa realizzare. Dovevaintitolarsi I notturni,una riflessionesul buio e sulla notte

scelto per quest’anno e ci saranno Fresu, GianmariaTesta e Lella Costa. È una delle tante iniziative che sisvolgono nel nome di De André. Forse troppe? «Sì,forse sì, ma molte non siamo in grado di fermarle, enon sarebbe neanche giusto. Più che altro ci preoc-cupiamo di stimolare cose che ci sembrano interes-santi. Per esempio la Fondazione patrocina due ra-gazze, Eleonora D’Urso e Maria Pierantoni Giua:vanno in giro con uno spettacolo magnifico che si in-titola Volammo davvero,tutto dedicato alle canzonidi Fabrizio. E poi c’è il lavoro del Centro. Il sogno è chepossa diventare un luogo accessibile a tutti».

Cosa in parte già possibile. C’è un sito, consultabi-le, e l’archivio è aperto agli studenti per le tesi univer-sitarie. «La cosa più singolare», nota Moscadelli, «èche la maggior parte sono incentrate su La buona no-vella, sembra il disco più amatodai giovani». Ma pra-ticamente tutti i suoi dischi sono pietre miliari. Frut-to di attente meditazioni, di sguardi brucianti e indi-screti sul mondo circostante. Uno sguardo affinatoda una lunga abitudine alla solitudine, e qui ci piacericordare questa vocazione grazie a un foglio bianco,manoscritto, trovato tra i suoi appunti. Si intitola «lasolitudine»: «L’unico status mentale, spirituale e tal-volta necessariamente fisico, in cui si riesca a ottene-re un contatto con l’assoluto, dentro di sé e fuori di sestessi. Intendo la solitudine come scelta, non l’isola-mento che è sinonimo di abbandono e quindi di unascelta operata da altri. Personalmente mi considerola minoranza di uno e spesso trovo nella solitudine ilmodo migliore, forse l’unico, per preservarmi da at-tacchi esterni tesi anche inconsapevolmente ad in-terrompere il filo dei pensieri o a disturbare le semprepiù rare vertigini di qualche sogno».

PAURESul retro del libroPerché leggerei classici di Calvino,una riflessionesulla paura

IL LIBRO

Le foto di queste pagine- con l’eccezione di quella di copertina, quella grandenelle pagine precedentie questa accanto a destra -sono tratte dal libroUna goccia di splendore,una biografia per immaginie documenti a cura di GuidoHarari che usciràper Rizzoli entro il 2007

L’APPELLO

Il Centro Studi De André lanciaun appello ai privatiper raccogliere documentie foto appartenuti al cantautoreL’acquisizione può avvenireanche in formato digitale con ognigaranzia per i proprietari. Info:Centro Studi De André, Universitàdi Siena, Dipartimento di storiavia Roma 56, 53100 Siena;[email protected]

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Polpo,purpo,puppu,v u r p e ,fulpo: i ten-tacoli dell’oc-

topus vulgaris si allunganosul vocabolario della cucinaregionale a reclamare uno spa-zio indipendente. Perché pochiabitanti del mare hanno la sua stessacapacità di farsi amare dal Friuli allaSardegna, con ricette esili o sontuose, per-fette per i dannati della dieta e per scarpettegolose, in ascetica solitudine o avvinghiato a in-gredienti rustici, perfetto per l’antipasto più frescoo per il più caldo degli umidi.

L’estate è il suo momento di massima gloria, come te-stimoniano le decine di feste e sagre che si inseguono tra Li-guria e Sicilia, ognuna fiera delle proprie preparazioni doc: allabrace o in insalata, con pasta o patate, ridotto a salame o in un trionfodi tentacoli arricciati (merito della tripla sbollentatura pre-cottura).

Se la biologia ittica lo archivia tout court come mollusco cefalopode ottope-de, gli etologi marini ne raccontano l’intelligenza assolutamente inusuale, a partire dal-l’utilizzo degli otto tentacoli — contro i dieci di seppie e calamari — più o meno robusti a se-conda dell’habitat (sabbia o scoglio). Capace di costruire vere e proprie barriere davanti alla sua tanae di accoccolarsi sopra l’apertura per ingannare gli avversari (murene, gronghi, cernie, dentici), ma anche di ag-gredirli fiondando loro contro gli stessi ciottoli usati come chiusura. È giocherellone e avido di piccoli pesci, molluschi, crostacei:chiudendo una piccola aragosta in bottiglia, gli scienziati hanno scoperto ammirati che il polpo svitava il tappo per agguantarla e man-giarla, utilizzando il suo possente becco corneo. A tradirlo, è proprio la sua natura gourmand: spesso, per scoprire l’ubicazione della suatana, basta seguire la scia di gusci delle prede dimenticati vicino all’imboccatura…

Dal mare alla tavola, il polpo (e non polipo, che è un altro celenterato o un’escrescenza, a scelta!) piace per lesue carni, consistenti e gustose, pronte a far ben figurare cuochi in erba e grandi chef. Una facilità di utilizzo cheha contribuito a ridurre pesantemente la popolazione mondiale, tanto da indurre molti governi a limitarne lapesca in termini di dimensioni. Nei mari d’Europa, per esempio, dove il numero dei grandi polpi (detti anchepiovre) sopra i cinque, sei chili si è drasticamente ridotto, vengono considerati sotto tutela gli esemplari sotto ilmezzo chilo di peso. E in Italia, che negli ultimi quattro anni ha visto ridurre addirittura di un terzo le quantità dipolpi pescati, sono state accelerate le ricerche per realizzare la riproduzione in cattività.

Del resto, il polpo è buono a 360 gradi: la bassa percentuale di grassi, la notevole salinità e il contenuto acquo-so ne fanno un alimento a ridotto impatto calorico e naturalmente saporito, la ricchezza in sali minerali — cal-cio, potassio e fosforo in primis — lo rendono prezioso per l’equilibrio nutrizionale, l’alto contenuto di collage-ne (nei tentacoli) significa salse naturalmente addensate e possibilità di trasformarlo facilmente in terrine.

Come sempre, vale la pena sceglierlo bene e trattarlo meglio. La doppia fila di tentacoli garantisce la varietà“di scoglio”, più saporita, il colore grigiastro lo distingue dalla polpessa, meno pregiata, il nero di aspetto granu-loso svela irrimediabilmente il recente scongelamento. Altra accortezza, non coprire mai la pentola dove bolle, per evitare che la schiumadi cottura debordi.

Se invece del fai-da-te, vi stuzzica la cucina altrui, prenotate dai fratelli Roca, a Girona, Spagna, terra di grandi amanti del pulpo (esalta-to nella gloriosa ricetta alla gallega): la parmentier di polpetti con fumo di paprika vi accompagnerà nella più goduriosa cena dell’anno.

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

i saporiBrutto ma buono

L’estateè il momento di massima

gloria dell’octopusvulgaris: sagre e festelo celebranodalla Sardegna

al Friuli

PolpoLa tentazioneha otto tentacoliLICIA GRANELLO

MoscardinoL’eledone cirrosaè un mix curioso:

piccolo, con una sola filadi ventose sui tentacoli e

colore grigio-rosso. Vive sufondi fangosi e ha un sentoremuschiato. La varietà biancaha un odore meno gradevole

e la sua carne risultapoco gustosa

LE VARIETÀ

SabbiaDi dimensioni ridotte

e di colore simile a quellodi scoglio, si riconosce

per i tentacoli meno potentie con una sola fila di ventose,

che vanno lavate con curaperché trattengono sabbia

Il suo ambiente sonoi fondali sabbiosi

e le praterie di posidonia

ScoglioLa varietà di octopus vulgaris

che vive negli anfrattiscogliosi è considerata

la più prelibata per gustoe consistenza. A distinguerla,

oltre al colore grigio-verdastro, due file di ventoseparallele sui tentacoli robusti.

I più grandi prendonoil nome di piovra

PolpessaSpesso venduto come polpo

comune, l’ octopusmacropus non è la femmina

del polpo ma un molluscodiverso, meno saporito

e pregiato. Due degli ottotentacoli sono lunghi e sottili,

la testa è allungatae di colore rossastro,

punteggiata di bianco

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itinerariEstroverso e talentuoso, l’emiliano Bruno Barbieri guida la cucinadell’“Arquade”, il ristorante del Relais “Villa del Quar”a pochi chilometri da Verona. Nella golosa tavolozza di profumi e saporidi terra e di mare, spicca una deliziosa insalata di piovra e porri

L’ex base navalebizantina PortusVeneris, battezzatadal tempio di Venere(ora chiesadi San Giorgio),è Patrimoniomondialedell’umanità

Davanti all’isola-gioiello di Palmaria,in frazione Le Grazie, il polpo è festeggiatoa inizio settembre

DOVE DORMIRELOCANDA LORENA (con cucina)Via Cavour 4, Isola PalmariaTel. 0187-792370Camera doppia da 130 euro, con colazione

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Porto Venere (Sp)Affacciata sul marea sud di Bari,è impreziositadal bel castelloangioino e dal borgoantico. EduardoDe Filippo lavorò quicome direttoredel teatro

Van Westerhout. La tradizione marinararivive ogni anno dopo Ferragostonella Festa del polpo

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DOVE MANGIARERISTORANTE NICCOLÒ VAN WESTERHOUTVia De Amicis 3Tel. 080-4744253Chiuso martedì,menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMERCATO ITTICOVia Lungomare (Porticciolo)Tel. 080-4741322

Mola (Ba)Accoccolatain collina, tra l’Etnae il mar Jonio, vantauna parata trionfaledi monumentibarocchi e lo storicoimpianto termaleAllevamenti,agricoltura, pesca:

la zona è ricca di produzioni alimentariIn agosto, il polpo viene celebratocon feste e sagre su tutta la costa

DORMIREPALAZZO PENNISI DI FLORISTELLAPiazza Lionardo Vigo 16Tel. 095-7633079Camera doppia da 60 euro, con colazione

MANGIARELOCANDA DEL VINATTIEREVia Fontana 10, ValverdeTel. 095-7211865Chiuso martedì e la settimana di Ferragosto,menù da 35 euro

COMPRAREMERCATO COMUNALEDELLA PESCHERIAPiazza Pardo

Acireale (Ct)

UbriacoBase di extravergine

in cui far rosolare a piacereaglio, alloro e peperoncino

Tolti gli aromi e aggiuntoil polpo a pezzi, si fa prendere

sapore. Coperto di vinorosso giovane e non troppo

strutturato, cuocein 45 minuti (circa). Servire

con pane abbrustolito

La cottura perfetta“O purpo se coce dint’ alla’

acqua soja”, dice uno

dei comandamenti

della cucina napoletana

Per evitare che la cottura

in umido sia troppo salata,

va messo in un coccio

coperto con carta oleata

o carta-paglia chiusa

con un cordino intorno

al bordo della pentola

a fuoco basso per sette,

otto minuti. Buttata via

quest’acqua, piuttosto

salata, si procede

con la ricetta scelta

Per renderlo morbido

durante la bollitura, invece,

si va dal tappo di sughero

alla parziale congelatura

in freezer, fino alla tripla,

rapida sbollentatura prima

dell’immersione definitiva

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 12 AGOSTO 2007

7000100

InsalataIl polpo cotto in acqua

bollente (pulito prima o dopola bollitura, a scelta) fino

a essere tenero ma sodo,va lasciato raffreddare nella

sua acqua, e poi tagliatoin rondelle. Condimento

con extravergine, limone,pepe, prezzemoloe patate a piacere

CarpaccioBen pressato, ancora caldodopo la bolliturain un contenitore (lattinao bottiglia di plasticatagliata), grazie al collagenedei tentacoli, doporaffreddamento in frigosi trasforma in un salameda tagliare sottile e condireC’è anche la variante crudala lunghezza massima

di un esemplare in cm

le tonnellate pescateogni anno in Italia

Il più alto quoziente intellettivo di tutto il regnoanimale? È quello del polpo, senza nulla toglierealla volpe. Che sarà pure una furba di tre cotte ma,

come insegnano le favole, finisce spesso vittima deisuoi raggiri. E comunque, al confronto del Machia-velli degli abissi, fa la figura dell’ingenua. Sì, perchél’octopus vulgaris a dispetto del suo cognome nonha nulla di grossolano. Al contrario, è un tale model-lo di astuzia, di dissimulazione, di trasformismo dafare invidia al più scafato dei nostri politici.

Da tempo immemorabile la tentacolare scaltrez-za del polpo è il simbolo stesso di una forma parti-colare di intelligenza. Quella che i Greci chiamava-no Metis, dal nome di una dèa particolarmente do-tata di sale in zucca. Il celebre naturalista Oppianodi Anazarbo, autore dell’Alieutica, il più importan-te trattato sulla pesca dell’antichità, sostiene che ilvero uomo di mondo deve prendere a modello leabitudini di questo mollusco dalle mille risorse. Ca-pacità di adattamento, accorta prudenza, abilitànel mimetizzarsi negli ambienti e nelle situazionipiù diverse, imprevedibilità delle mosse, velocitànell’afferrare al volo le occasioni. E soprattutto maiabbassare la guardia. Proprio come fa il polpoconfondendosi con i fondali per trarre in inganno lapreda. Che realizza la situazione solo quando è or-mai in trappola.

Per riuscire a catturare un cervellone del genere civuole, ça va sans dire, un pescatore alla sua altezza.Capace di farsi polpo a sua volta, di prenderlo in con-tropiede. Di cuocerlo letteralmente nel suo brodo.

Se l’octopus si nasconde dietro il nero, chi gli dà lacaccia lo incanta col bianco. Fino a qualche anno fagli abitanti di Santa Lucia, il popolare quartiere ma-rinaro di Napoli, ne prendevano quantità indu-striali con una classica furbata partenopea. Calava-no in mare anfore di creta dipinte di bianco e riem-pite di pietre dello stesso colore. Sedotto da quelcandore, il polpo vuotava il vaso e ne faceva la suatana. Le pietre sparse sul fondale erano il segnaleinequivocabile che l’animale era caduto in trappo-la. Così dalla bianca mummarella di creta finivadritto dritto nel nero pignatiello di coccio dove ve-niva affogato nel pomodoro, cucinato alla lucianaappunto.

E d’estate, nella dolcezza delle notti chiare e sen-za vento, ogni baia del Mediterraneo si riempie diluci più di un cielo stellato. Sono le lampare cheinondano l’acqua di un fulgore argenteo che, comeil canto delle sirene, attira irresistibilmente i polpiverso il loro destino. Morale della favola: chi d’astu-zia ferisce d’astuzia perisce.

Non a caso Odisseo, al secolo Ulisse, l’uomo piùfurbo di tutti i tempi, veniva paragonato proprio altestone più scaltro di tutti i mari. E il grande storicoPlutarco raccomandava a tutti quelli che rincorre-vano il successo e la fama di tenersi in esercizio conla pesca del polpo. Una sorta di sudoku per svilup-pare l’intelligenza e perfezionarsi nell’arte delladissimulazione. Considerando evidentementequella del politico e quella dell’invertebrato due vi-te parallele.

A questo animale che è tutto un simbolo, nonpoteva mancare la virtù delle virtù, il potere di ri-svegliare l’eros in declino. Pare che un consommédi piovra fosse in grado di ridare slancio all’aman-te più demotivato e in più di accendere fantasie diinimmaginabile lussuria. Un viagra allucinogenoinsomma. Forse era proprio questo potere afrodi-siaco a rendere onnipresente l’immagine del pol-po nel mondo antico. Dai mosaici di terme e lupa-nari alle decorazioni dei piatti da banchetto. Per-ché mercanti e senatori sfibrati dagli anni e dallefatiche del successo potessero almeno continua-re a sognare.

Quel trasformistaastuto come Ulisse

MARINO NIOLA

LE PREPARAZIONI

le calorie contenutein 100 grammi di polpo

LucianaPorta il nome dei pescatoridel borgo napoletanodi Santa Lucia. O’ purpocuoce nel coccio con olioextravergine, aglio, pepe,pelati e niente sale. A finecottura, si addensa la salsaa pentola scopertaÈ un meravigliosocondimento per gli spaghetti

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no fatto la storia sono i “malle aereo”, bauli ul-traleggeri nati assieme ai primi aerei, modelliche a pieno carico pesavano solo ventisei chili.

Per i canoni di un tempo erano dei pesi piuma.Nell’età dell’oro dei transatlantici di lussonascevano i “malle cabine”, ideali per essereriposti sotto la cuccetta della cabina. Nel1905 la rivoluzione: arrivavano “le sacchauffeur”, pensati per essere impilati tra ipneumatici di riserva delle macchine. Le va-

canze di massa nei paradisi esotici e i viaggiorganizzati, che richiamano milioni di turisti,

erano un pensiero impensabile. La tribù dellevaligie in plastica, per chi allora caricava in un

baule la propria vita, una visione inimmagi-nabile. Legato alla figura dei bauli è anche

un personaggio ormai scomparso: quellodel facchino che accoglieva i viaggiatori

in tutte le stazioni ferroviarie e tra-sportava, su un carrello a due ruo-te, uno o più bauli. Pochi centesi-mi di mancia e liberava le signoredal pesante fardello.

Per celebrare il mito risorto, inegozi di Louis Vuitton sono statiultimamente impacchettati e ri-vestiti proprio secondo la foggiadel più famoso dei bauli france-si. A Parigi come a Roma i turi-sti guardano l’inusuale im-

palcatura un po’ sbalorditi,ma poi non resistono. En-

trano nel negozio attrattida un richiamo antico

che, a quanto pare, èentrato a vele spie-

gate nella mo-dernità.

Avolte ritornano, si dice. E nel casodei bauli, compagni insostituibi-li per i viaggiatori di un paio di se-coli fa, la frase calza a pennello.Tra il 1780 e il 1930 ne furono pro-dotti migliaia. Fu un vero boom.

Ora, sotto forma di contenitori casalinghi, riap-paiono nelle nostre case. Nuovamente cool. Ri-spuntano dalla storia come ottimo escamotageper chi, costretto a vivere in micro abitazioni,non ha lo spazio per armadi veri.

Designer e progettisti si sono dati da fare perridare ai bauli il fascino di un tempo. Ma con ri-trovati di ultima generazione. Quelli di un paiodi secoli fa, per i più poveri, furono anche in car-tone. Gli altri erano in legno, in pelle e qualchevolta in metallo. Verdi o talvolta blu, bastavaguardarli per annusare l’odore del viaggio. Perintuire la commozione degli abbracci e delle la-crime che accompagnavano saluti spesso senzaritorno. Avevano sempre e comunque un’atten-zione quasi maniacale alle rifiniture, alle serra-ture e alle etichette. Piuttosto che a delle maxivaligie sarebbe stato giusto paragonarli a dellecase su due ruote. Nascevano dopo un metico-loso disegno preparatorio, quasi un esercizio diarchitettura. Erano legati ai grandi fenomenidelle emigrazioni e dei dopoguerra. E furono,con le loro forme un po’ rigide, i protagonisti diun aspetto della vita ora dimenticato. Veri e pro-pri armadi da viaggio, nascondevano cassetti,appendiabiti e scomparti segreti.

Esattamente come i loro discendenti del2007. I bauli dei nostri giorni sembrano tagliatiperfettamente per le case degli italiani che, se-condo l’ultimo censimento Istat, concedononon più di trentasette metri quadri di spazio vi-tale per ciascun inquilino. Nascondono conastuzia scrittoi, librerie e cassetti. Una casanella casa. Sono progettati in materiali mo-

derni, tecnologici e di gran praticità. «Evocanolo spirito delle crociere di un tempo», spiega ladesigner francese Andrée Putman che ne ha re-centemente ideato uno per Poltrona Frau, «so-no bauli da camera dove riporre oggetti, capid’abbigliamento e accessori». Ma c’è anche chi,proprio sui bauli, ha fondato la propria fortuna.È il caso di Louis Vuitton. Fondatore della mai-son francese, nel 1837 arrivava a Parigi per lavo-rare come apprendista da Monsieur Marechal,un celebre leyetier-emballeur, termine con ilquale all’epoca erano indicati i fabbricanti dibauli che imballavano gli effetti personali dichi partiva per lunghi viaggi. Da allora idesigner della casa parigina ne han-no pensati per tutte le esigenze:bauli porta libri, baulettiblindati con mille casset-tini porta gioielli e minibar (con tanto di botti-glie e bicchieri). Maanche preziosissi-mi, in pelle, conpiccoli scompar-ti per i collezio-nisti di orolo-gi.

Q u e l l iche, piùdegli al-t r i ,h a n -

le tendenzeOggetti ritrovati

Gli armadi da viaggio tornano a casaIRENE MARIA SCALISE

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

Sono stati per quasi due secoli le enormi valigie di cartonedegli emigranti, i raffinati compagni di crocierasui transatlantici di lusso, l’incubo dei facchini delle stazionischiantati sotto il loro peso. Ora, con gli italianisempre più alle prese con problemi di spazio,si trasformano in moderni contenitori dal fascino anticoMARI DEL SUD

Ricorda i viaggisui transatlanticiquesto Oceanodi Poltrona Frau

Mosaico di cassettiniarricchito

da uno scrittoioribaltabile e accessori

in metallo cromato Bauli

INDIE ORIENTALII vivaci bauli Maison Coloniale,catena specializzata nell’import

dall'Asia, si adattanoa tutte le esigenze

con varie dimensioni e disegni

CLASSICOIntramontabile il baule

in pelle marrone di HermèsSimbolo di libertà

e del gusto della vacanzaè un pezzo storico

della casa parigina. Da tenere in casaanche solo come cimelio

COME MARCO POLOLo Shanghaidi Coincasaè decorato

con ideogrammicinesi e arricchitoda una serratura

gioiello

Nascondonoscrittoi, librerie

e cassettiSono progettaticon materialitecnologici

IL DISEGNOL’illustrazione

di L. Fellowsdel 1910,

dal titolo WealthyCouple, raffigura

una coppiain partenza

tra i bauli

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DARIA GALATERIA

Truffaldino, goldoniano servitore di due padroni, haconfuso i loro bauli, e deve aver combinato un pa-sticcio, perché i due piangono e si disperano; «no

voria averghe svejà l’ipocondria», si preoccupa: qualcheoggetto dentro al baule sbagliato «gh’a fatto mover i ver-mi» (III,3). Il baule infatti non è solo strumento del viag-gio; raccoglie e stipa memorie. Già nella Gomena diPlauto un pescatore trova nella rete un baule con i gio-cattoli della bambina del suo padrone, rapita e diventa-ta schiava di un lenone; e in una delle più lunghe e gra-ziose scene di agnizione della commedia attica la giova-ne enumera a memoria i suoi giocattoli infantili, per es-ser riconosciuta dal ricco padre: un pugnaletto d’argen-to, una pallina d’oro — tutto punteggiato dai commentisboccati del pescatore, che vede sfumare il bottino: par-ticolarmente salaci quando la ragazza evoca «sucula»,una maialina (IV, 1170).

Nelle vite degli scrittori, il baule rappresenta spesso lascoperta della letteratura. A dodici anni Gorkij si imbarcacome sguattero in un battello sul Volga: il cuoco Smouryha un intero baule di libri, e se li fa leggere ad alta voce dalragazzo; Taras Bulbadi Gogol fa piangere sguattero e cuo-co. Curiosamente, sia Isabel Allende che Stephen King,affetti da un padre che partendo per una passeggiatascompare per sempre, scopriranno in soffitta, in un bau-

le paterno, i libri che rivelano a entrambi i piaceridella lettura; la narrativa come dono e compen-sazione della figura del padre, assente dalla suacassa. Capita infatti che il baule funga da cassa damorto: come nell’attacco della Vedova scalza diSalvatore Niffoi: «Me lo portarono a casa una mat-tina di giugno smembrato a colpi di scure come unmaiale»; la donna lo lava e lo ricompone come può:«prima una metà poi l’altra, a mani nude e a forza dibraccia, lo infilai dentro il baule». E quando la “pic-ciotta” della Vampa d’agosto di Camilleri fa girare latorcia «supra le pareti, gli infissi incellofanati, il baul-lo», è per lei una «discesa agli inferi». Il baule che con-

tiene da tanti anni il cadavere della sorella, dentro a unavilletta seminterrata nella sabbia per nascondere unabuso edilizio, mostra la sua natura di riserva della me-morie rimosse, che è meglio insabbiare.

Eppure c’è una specie di euforia del disvelamento, inAmin Maalouf, che in Origines trae da un baule le carteche gli raccontano gli ultimi duecento anni dei suoi: an-che per chi come i libanesi ama le strade, è importantesondare nelle stratificazioni di una famiglia, delle suemille religioni, e le tante diaspore. A volte, scopre, i do-cumenti contraddicono le leggende familiari; però le«fioriture mitologiche, come i sogni, raccolgono ele-menti della memoria per costruirsi un’immagine di coe-renza». Privato e grande storia congiunti, perché, «inmateria di disillusioni», è impossibile separarli. Eccoche allora Vikram Seth, in Due vite, spogliando l’archi-vio degli zii trovato in soffitta, scopre la Shoah familiare,e ne sente il respiro storico — nell’architettura della ca-sa, la soffitta ha il ruolo del ripostiglio polveroso, comefosse una zona dell’inconscio; la letteratura ne segnalale istruzioni per l’uso.

E anche quando il baule riscopre la sua funzione pri-maria, e serve per gli spostamenti, perlopiù si trova a con-tenere un uomo. È il caso di Cimbelino di Shakespeare(II,2): «Send your trunk to me», dice incautamente la vir-tuosa Imogene al perfido Iachimo, che le chiede di tene-re un suo baule in camera da letto. Nottetempo, Iachimoesce dal baule, osserva la stanza, memorizza i quadri, spiala bella addormentata — sul seno, un neo incantevole;servirà a simulare di averla posseduta, e vincere unascommessa col marito della donna (tutto fedelmente ri-preso dal Boccaccio, Decamerone II, 9).

J.K. Rowling, nel quarto Harry Potter, Il calice di fuoco,assembla le varie funzioni del baule. Il suo ha sette serra-ture: aprendolo con la prima chiave, contiene libri; con la

seconda, penne e pergamene, e via via fino a quando lasettima chiave apre un baule-pozzo “sotterraneo” do-ve giace, «apparentemente immerso in un sonnoprofondo, il vero Malocchio Moody». Per il poeta Pes-soa (il nome significa “persona”) l’io è «un baule pie-

no di gente»: gli piace «distribuire il panico dell’esi-stenza» tra diversi pseudonimi e personalità; e co-

s’è la letteratura, se non vivere tante vite?

Da Plauto a Harry Potterscrigno di segreti e magia

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 12 AGOSTO 2007

ESPLORATORIIl concettodel viaggionel Diciannovesimosecolo secondoAlviero Martini:un baule armadio“avvolto” da unacarta geograficaantica

LA CASA DELLE BAMBOLEPensato da Effanbee Dollper le bambole è però perfettoper i grandi. Con rifiniture in pelle e oroe fantasia scozzese su toni fucsia

PORTAGIOIEIn pelle bianca,con interni rossi,ha mille cassettiper nasconderei gioielli. ModelloLouis Vuittonda tenere sempresotto controllo

STUDIO PORTATILESembra soloun baule,in realtà è ancheuna preziosascrivania. Di Fendi,oltre a diversicassetti incorpora una poltroncinain pelle

SCRIPTORIUMCassettiera, scrittoio,portaritratti, cartellaper i documentie poltroncinaIl baule The Bridgeè in pelle marronecon interni a scacchinei colori bruciati

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 12 AGOSTO 2007

l’incontroMiti dello schermo

BERLINO

«Non mi guardo mainello specchio, nonmi piace quel che ve-do. Non mi è mai pia-

ciuto e non è falsa modestia». LaurenBacall a ottantatré anni, portati con ma-gnifica eleganza, resta una donna in-nanzitutto dura con se stessa. L’alta fi-gura conserva snellezza, il portamentotradisce gli esordi da indossatrice negliatelier della Settima strada di New York.Soprattutto, lo sguardo. Vivido, ora co-me allora. Penetrante. Il sopraccigliodestro alzato e lo scintillio ironico degliocchi sono gli stessi che ne fecero “TheLook”, oltre sessant’anni di cinema fa.Nel 1944 iniziò le riprese di Acque del suddi Howard Hawks, il suo esordio. Il regi-sta, colpito dall’immagine sulla coperti-na di Harper’s Bazaar, era certo di avertrovato in quella modella dallo sguardosfrontato la creatura giusta da plasmaresecondo i suoi intenti: costruire una sor-ta di Humphrey Bogart al femminile. Einvece fu proprio “Bogie” a sfasciargli iprogrammi, trasformando quella crea-tura nella sua compagna e poi nella suavedova. Aveva diciannove anni, BettyBacall, quando comprò il biglietto perLos Angeles e iniziò un viaggio verso unavita lunga cinquanta film, due mariti, trefigli. «Sono stata immensamente fortu-nata, ma anche sfortunata, insieme.Perché a vent’anni ho avuto il megliodella vita senza sapere che mai più, do-po, sarebbe stato come allora».

La sua carriera ha conosciuto lunghepause e molto teatro. Da qualche tempola signora Bacall è tornata con conti-nuità al cinema, anche se sceglie le par-ti con parsimonia. «Lavorare aiuta a re-stare vivi. Non cerco il grande ruolo, l’hoaspettato fin troppo. Ho realizzato checi sono dei limiti e li accetto. Conti-nuerò, finché le parti non saranno noio-se o non mi daranno solo cammei. Nonvoglio finire la mia carriera perdendominei cammei». Ha le idee chiare sui mec-canismi dello show business, LaurenBacall, che ha vissuto le tante ere della

meravigliosa tradizione di caratteristi.Walter Bennan, Eugene Pallette, Syd-ney Greenstreet. Attori straordinari, og-gi non esistono più. E, sinceramente,non si scrivono neppure grandi film.Sceneggiature come Il mistero del falcodi John Huston». Anche quando un au-tore di successo come Steven Soderber-gh ci prova, firmando Intrigo a Berlino,simil noir anni Quaranta nel quale ogniinquadratura è un omaggio, da Il TerzoUomo a Casablanca, il risultato si rivelaun disastro, rigettato da pubblico e cri-tica. «Peccato, era un film ben fatto, inuno splendido bianco e nero. Ottimi gliinterpreti. È straordinario che un attorefiglio della tv come George Clooney, noneccezionale ma neanche così male, di-mostri di avere cervello scegliendo filmnon convenzionali. Come Good Nightand Good Luck, il suo film da regista, l’hoapprezzato moltissimo per il forte sensomorale. E poi Cate Blanchett, lei è l’attri-ce contemporanea che preferisco». Sor-prende che in cima alla lista non ci siaNicole Kidman, con la quale Lauren Ba-call ha girato Dogville di Lars Von Trier,e Birth-Io sono Sean.

Di Marilyn Monroe, con cui inter-pretò Come sposare un milionario, ri-corda l’insicurezza nel girare le scene.Così diverse, le due dive. Marilyn unadelle prime a ricorrere, nei Cinquanta,alla chirurgia plastica, la Bacall ostina-

parabola produttiva di Hollywood. «Ne-gli anni Quaranta, quando ho iniziato,gli Studios erano in condizioni migliori.I divi non avevano compensi da ventimilioni di dollari, per fare un esempio. Emolti di questi, oggi, non sono neancheattori. Il problema è chi è disposto a pa-garla, questa cifra, lasciando le bricioleal resto del cast. Credo sia osceno paga-re venti milioni di dollari. Tutti oggi ra-gionano in dollari e centesimi, non fan-no altro. Lo trovo nauseante». Da giova-ne attrice, Lauren Bacall combatté la ti-rannia degli Studios. «Avevamo con-tratti capestro, se non li onoravi venivisospeso, è successo anche a me. Ruppigli accordi. Jack Warner pensava di aver-ti in pugno: io ti pago e tu fai quel che vo-glio. Spesso dovevamo girare film tre-mendi. Jack mi proponeva copioni conRonald Reagan, che rifiutavo, come Lavalle del sole e La foglia di Eva. Io tenta-vo di farlo ragionare: Jack, ti prego,muoio dalla voglia di lavorare, ma noncredo che questi siano adatti a me. Luimi portava vicino alla finestra del suo uf-ficio e guardando giù ripeteva: «Che cel’ho a fare tutto questo se poi non riescoad averne il controllo?».

L’attrice, anche su consiglio diHumphrey Bogart, diventato nel Nata-le del ‘45 suo marito, lasciò la Warner:«Ma sono ancora convinta che il siste-ma funzionasse meglio di oggi. La War-ner Bros era la casa di produzione deifilm più importanti, aveva sotto con-tratto i registi più talentuosi: John Hu-ston, Jean Negulesco, Howard Hawks.Grandi produttori, come Henry Blankeo Jerry Wald. Una splendida galleria diattori: Errol Flynn, che era molto me-glio di quanto si possa immaginare, inalcuni film impressionante. E il mio mi-to Bette Davis, Barbara Stanwyck, Ja-mes Cagney, Edward G. Robinson,Humphrey». L’espressione di rimpian-to lascia pensare che per l’attrice, oggi,sia difficile incontrare colleghi altret-tanto capaci. «Non vedo questo grandetalento in giro. Forse perché tanti diquelli che io considero star, HumphreyBogart, Clark Gable, James Stewart,Henry Fonda, hanno iniziato con il tea-tro, hanno imparato il mestiere primadi approdare al cinema».

Anche Lauren Bacall faticò. A quindi-ci anni, prima del successo da modella,visse alcune stagioni — in povertà — lo-gorando i marciapiedi di Broadway allaricerca di un ruolo, macinando provinie lavorando come indossatrice, ma-schera, strillona per le riviste di teatro.Un’esperienza, messa nero su bianconella prima autobiografia, Io, chetrent’anni dopo le avrebbe permesso ditornare a trionfare sul palcoscenico ri-cevendo dalle mani di Walter Matthau ilTony, l’oscar del teatro, per il musicalApplause. «Oggi chiunque può essereuna celebrità. Tutti possono andare intv, diventare stelle, avere il nome sulparcheggio. Non è che spazzatura. Cosìgli attori non maturano mai, non mi-gliorano mai. È stata spazzata via una

tamente contraria. Compariva con fre-quenza sulle copertine delle riviste dimoda, eppure si pettinava i capelli dasola. «Ero decisa a restare com’ero. Vo-levo che l’onda della mia frangia fosseal posto giusto». E quando il truccato-re ai provini di Acque del sud tentò di al-leggerirle le folte sopracciglia, lei feceuna scenata chiamando in causa diret-tamente il regista. Naturalmente snel-la, non ha avuto bisogno della chirur-gia per assottigliare la figura. «Vedocerte foto di ragazze ridicole, sciupate,con un aspetto orribile. Tutto per unpaio di curve. Lo trovo sinceramentepoco etico».

Cresciuta, dopo il divorzio dei geni-tori, da una madre e una nonna ebreenon praticanti, Lauren ha sempre avu-to alto il senso della morale. E certoHoward Hawks rimase sorpreso quan-do la maliarda immortalata dalle cele-bri foto di Diana Vreeland che lui con-vocò a Hollywood si rivelò una giovaneingenua. «Mi ripeteva: ti voglio inso-lente con gli uomini, spavalda con hu-mour». Fu lui a cambiarle il nome daBetty in Lauren, lui a costruire una divache i critici, all’uscita di Acque del sud,definirono «un incrocio tra Greta Gar-bo, Marlene Dietrich e Mae West». Ad-dirittura, e ben prima di Jessica Rabbit,Lauren Bacall fu celebrata incendiariaseduttrice in un cartone della Warnerche citava la famosa scena del “fi-schio”. Avventuriera dei mari del Sud,irretiva Bogart così: «Se hai bisogno diqualcosa non hai che fischiare. Lo saicome si fa? Unisci le dita davanti allabocca e poi fischi, così». Quella fu an-che la scena che consacrò il suo celebresguardo da sotto in su, espressione che,avrebbe poi rivelato, nacque dalla ne-cessità di bloccare il mento sul collo perimpedire che tremasse di paura.

Fu quello il momento in cui la bambi-na s’innamorò del primo divo conosciu-to sul set, Bogart appunto, più vecchio diventicinque anni e sposato, al tempo,con l’alcolizzata attrice Mayo Methot. Ilregista Howard Hawks non avrebbeperdonato a Humphrey lo scippo diLauren e dopo Il grande sonno avrebberotto il contratto con lei. «Bogie presecontrollo della mia vita e della mia car-riera. Sono stata fortunata ad avere ac-canto lui e non un altro. Era una grandepersona e si è sempre preso cura di me enon solo del mio incantevole e intattocorpo», racconta Lauren Bacall. La bra-va ragazza divenne l’ottima moglie di unmito: «È ancora uno dei più grandi almondo, da non credere. Non ci avrebbecreduto neanche lui. Ma se gli studentidi Harvard si appassionano ai suoi film,ai suoi personaggi e al suo modo di reci-tare è perché è stato un attore unico».

Madre di due figli, poi vedova in diffi-coltà economiche, la trentenne LaurenBacall cercò un nuovo compagno nel-l’amico di famiglia Frank Sinatra. Chenon si rivelò all’altezza. Neanche il se-condo matrimonio, con l’attore JasonRobards, fu molto felice, soprattutto per

i problemi di alcol di lui. «Mi ha regalatoil terzo figlio, che adoro». Gli unici flirt,la fedele Lauren, se li è concessi con lapolitica. Fin da quando fu immortalatanella celebre foto in cui sdraiata sul pia-noforte ascolta suonare il futuro presi-dente degli Stati Uniti, Harry Truman,Lauren Bacall è stata una fervente attivi-sta democratica. Fu lei a trascinare il piùmoderato Bogart a Washington con ilgruppo dei “Dieci di Hollywood” perprotestare contro il nascente maccarti-smo, spiegando il proprio atto in un ar-ticolo sulla prima pagina del DailyNews. Qualche anno dopo si sarebbe in-tensamente impegnata nella corsa allaCasa Bianca di Adlai Stevenson, battutoda Eisenhower. Non è un caso che il filmpiù recente di Lauren Bacall, The Walkerdi Paul Schroeder, presentato all’ultimoFestival di Berlino, sia ambientato nelmondo corrotto dei faccendieri di Wa-shington: «La capitale degli Stati Uniti èpiena di gente che è stata eletta o co-munque ha pagato per far parte di Con-gresso, Senato, Camera, o per correre al-la Casa Bianca. È un problema tuttoravivo. Guardate il nostro governo e il di-sastro che ha realizzato in sei anni». Ba-rak Obama, Hillary Clinton? «Devo sen-tire ancora molto di quel che hanno dadire. Lei, certo, è eccezionale. Ha fattoun ottimo lavoro come senatrice. Hauna mente acuta ed è tagliata per la po-litica. Ma non riuscirà a diventare presi-dente degli Stati Uniti».

«Spero che al cinema qualcuno pen-si ancora a me. Ma, certo, punto al me-glio: vorrei Martin Scorsese e Pedro Al-modovar. E Clint Eastwood, straordi-nario. A chi sarebbe venuto in mente unfilm come Lettere da Iwo Jima con laprospettiva giapponese sulla battagliadel Pacifico? Clint è un bravo attore, unottimo regista, un produttore, un com-positore, un buon musicista jazz. E so-prattutto — sfodera uno sguardo da ra-gazzina maliziosa — Clint è l’uomo piùbello del mondo, non trova?». Scoppiain una risata e spiega: «Come ho scrittonella mia seconda autobiografia, Now,nella vita il senso dell’umorismo è fon-damentale. Tanto il tempo vola anchequando non ti diverti».

Ai miei tempi i divinon guadagnavanoventi milionidi dollari a filmCredo sia oscenopagare queste cifrelasciando le bricioleal resto del cast

A ottantatré anni, dopo sessantatrédi cinema e molto teatro, “The Look”continua a non guardarsi allo specchio:“Non mi piace quel che vedo,non mi è mai piaciuto, e non è falsa

modestia”. Si proponedi lavorare “finchénon mi daranno solocammei” ma dichiarala sua nostalgia: “Sonostata immensamentefortunata ma anchesfortunata. Perché

a vent’anni ho avuto il megliodella vita senza sapere che mai più,dopo, sarebbe stato come allora”

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ARIANNA FINOS

Lauren Bacall

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