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3 /13 SETTEMBRE MENSILE DI DIVULGAZIONE CULTURALE - WWW.DECARTA.IT Speciale Macchina di Santa Rosa

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Speciale Macchina di Santa Rosa

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3/13SETTEMBRE

M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E - W W W. D E C A R TA . I T

SpecialeMacchinadi Santa Rosa

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DECARTAScripta volant

Mensile di divulgazione culturaleNumero 3/2013 – Settembre

Distribuzione gratuita

Direttore responsabileMaria Ida Augeri

Direttore editorialeManuel Gabrielli

RedazioneMartina Giannini, Gabriele Ludovici,Claudia Paccosi,Martina Perelli

Redazione web e photo editorSabrina Manfredi

DesignMassimo Giacci

EditoreLavalliere Società Cooperativa

Via della Palazzina, 81/a01100 VITERBO

Partita Iva [email protected]

Iscrizione al ROCNumero 23546 del 24/05/2013

StampaUnion Printing SpA

Pubblicità348 5629248 - 340 7795232

Foto di copertinaSergio Galeotti

Stampa su carta uso mano riciclata Igloo offsetChiuso in tipografia il 27/08/2013

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editoriale

Ho appena 22 anni, mio padre ha 43 anni più di me e qualche volta ci è capitatodi fare calcoli sul futuro: “caspita, quando avrai 37 anni io ne avrò 80”. Ci sonoopinioni discordanti sull’avere un figlio in un’età non più giovanissima, per

qualcuno legittimo, per altri impensabile. Io, da figlio non posso lamentarmi, oggipercepisco questa differenza di età come una fortuna, la fortuna di essere cresciuto inquesta epoca potendo integrare ciò che imparo ogni giorno con i valori e le consape-volezze appartenenti ad una generazione sotto molti aspetti lontana dalla mia.

Mio padre, nato nel ’48, è un uomo cresciuto nelle condizioni umili di un paeseuscito ferito da un disastro bellico, apprezza per questo il mangiare bene ma è sag-giamente parsimonioso nelle spese di tutti i giorni. Come molti altri suoi coetanei havissuto una gioventù tranquilla anche se testimone di quel grosso cambiamento chesono stati gli anni ’60. Prima però c’era il dovere (e il piacere) della famiglia, l’obbligodella cravatta in ufficio e per quanto sia stata proprio la generazione di mio padre arivoluzionare e in alcuni casi stralciare molte delle convenzioni dell’epoca, questastessa generazione è rimasta legata chi più chi meno al dopoguerra. Non sono loro ifigli del ’68, questi ultimi sono infatti i genitori della maggior parte dei miei coetanei,persone che hanno vissuto da giovani e giovanissimi il cambiamento, il boom econo-mico, l’informatizzazione e in generale quella già citata rottura e rivoluzione delleconvenzioni. Quindi oggi del ’68 rimangono le tante libertà trasmesse dai nostri ge-nitori, qualcosa che oggi è diventato così tanto una consuetudine da aver perso valore.E più passano le generazioni più ci si allontana dal periodo che ha reso il mondo oc-cidentale come è oggi.

La rivoluzione maggiore è stata la velocità, uno dei pilastri del nostro stile di vita,velocità nei trasporti, nella comunicazione, nella produzione, nel pensare; abituati inquesto modo si aspetta con altrettanta velocità un cambiamento che in un altro pe-riodo storico sarebbe dovuto arrivare nel giro di centinaia di anni e che invece adessoè richiesto nell’immediato.

Io questo cambiamento lo attendo e lo cerco, vorrei farne parte senza farmi trovareimpreparato, ma nessuno può dire con esattezza di cosa si tratterà. Guardo mio padre,ciò che mi ha insegnato e penso che sia proprio necessario, soprattutto per la mia ge-nerazione, dare di nuovo uno sguardo al grande cestino del ’68, capire cosa è statobuttato, il motivo, ed eventualmente ritirare fuori una parte del suo contenuto.

Manuel GabrielliPresidente Lavalliere Società Cooperativa

Il grandecestino del ’68

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erasmus & co.Repetita iuvantMartina Giannini

5 campusL’esperienza all’esterodell’Ausf ViterboF. Marini, D. Saccoccia, F. Salatino

Sergio Galeottifotografo

www.sergiogaleotti.com

università6

storiaQuella sera del treMartina Perelli

10 iconsTutti d’un sentimentoSabrina Manfredi

ippocampospeciale Santa Rosa

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memorieTrasporto e vicissitudiniManuel Gabrielli

18 incontriQuel momento magicoClaudia Paccosi

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incontriL’unione fa la forzaGabriele Ludovici

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acido lattico

incontriAl di là del ParadossoGabriele Ludovici

26 insidePrima puntata (as it began)Lorenzo Rutili

nota bene28

caos letterarioStorie di una libreria disordinataClaudia Paccosi

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carta stampata

reportCome in un mondo idealeManuel Gabrielli

30 incontriIncontro con Tano D’AmicoManuel Gabrielli

eventi31

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Una ripetizione è una figura retoricache serve a rafforzare un concetto,un’idea. Se la ripetizione è detta

con foga, un po’ di quell’emozione che fatremare la voce e alla fine si ha un sor-riso stampato in faccia, di quei sorrisicontagiosi, allora vuol dire che quelloche ci viene fatto non è uno di quei di-scorsi degni di finire nel dimenticatoio.

Quando ho chiesto a Giorgio Gra-ziotti cosa vorrebbe dire a chi decide dipartire in Erasmus, la sua risposta è statachiara e semplice “Provate, provate, pro-vate”. Una ripetizione, appunto. Una ri-petizione che ha reso perfettamentel’idea dell’importanza che questa espe-rienza ha avuto per lui, ma forse dovreiessere più chiara.

Giorgio Graziotti è un ragazzo disa-bile, iscritto all’Università degli Studidella Tuscia, che ha vissuto, partendo perl’Erasmus, sei mesi a Siviglia. Per il suocoraggio e la sua risolutezza, lo scorso 10maggio, ha ricevuto un premio specialein occasione del Festival d’Europa, tenu-tosi a Firenze. Quella tra me e Giorgio èstata una chiacchierata tra studenti chesi incontrano tutti i giorni, o quasi, peri corridoi o davanti alle macchinette infacoltà. È stato bello scoprire di avere da-vanti una persona che non si vergogna dicondividere le proprie emozioni. Proprioparlando del premio mi ha spiegato diessere stato, in un primo momento, scet-tico. Scettico perché non gli sembrava diaver fatto nulla di che, alla fine dei contistava solo vivendo la sua vita, solo doposi è reso conto di essere un Esempio, lo èper tutti quei ragazzi disabili che cre-dono di non essere adatti, che non rie-scono a superare lo scoglio.

La prima forte emozione provata èstata nel momento dell’accettazione dellasua domanda Erasmus, Giorgio l’ha de-finita una “vera e propria doccia fredda”,

denti con disabilità, il professor SaverioSenni. Giorgio mi ha spiegato che è pro-prio al professor Senni, al professorGrego e alla dottoressa Felicetta Ripa chedeve buona parte della sua gratitudine,perché queste persone si sono mobilitateaffinché non incorresse in alcun intral-cio; i suoi ringraziamenti vanno anche alsuo accompagnatore e a sua madre.

Ripartire da zero non è stato facile,ma sua mamma lo ha spinto a viverequesta forte esperienza e si è impegnatanel cercare qualcuno che potesse aiutarloe sostenerlo. La sua forza Giorgio l’hatrovata, anche, in questo accompagna-tore, un ragazzo di cui all’inizio non sa-peva nulla, che aveva visto una sola voltasu Skype e poi il giorno della partenza.Giorgio ha superato lo scoglio, ha vissutoun’avventura, è più coraggioso ora, eprima di salutarci mi rivela che ha inten-zione di fare domanda anche per l’Era-smus Placement.

ha ammesso di aver avuto paura, di es-sersi chiesto, più volte, cosa avrebbe po-tuto fare. Le sue aspettative eranopiuttosto buie, credeva che avrebbeavuto numerose difficoltà, negli sposta-menti, con la lingua, nel comunicare congli altri, fortunatamente una volta a Sivi-glia è stato smentito.

Giunto a destinazione Giorgio si ètotalmente ricreduto, grazie allagentilezza della sua professoressa

di Arte e Società che, alla prima lezione,gli chiese se riteneva l’aula fosse idoneaalla sue difficoltà, alla completa disponi-bilità di alcuni suoi coetanei che si offri-rono spontaneamente di aiutarlo nellostudio, alla mancanza di barriere archi-tettoniche in “una città a misura di per-sona disabile” e grazie al suo accompa-gnatore; mentre a Viterbo gli capita diincorrere in alcune difficoltà. Le esigenzedei ragazzi disabili devono essere segna-late dal delegato del Rettore per gli stu-

università erasmus & co.

Repetita iuvantMartina Giannini | [email protected]

Affrontare le proprie paure premia.

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DECARTA SETTEMBRE 2013

Quest’estate, nell’agosto 2013, tregiovani studenti dell’AssociazioneUniversitaria Studenti Forestali

(Ausf) hanno partecipato ad un progettocofinanziato dall’Unione europea deno-minato Sviluppo del sistema di supportodecisionale transfrontaliero da remoto econ il metodo degli alberi modello per ladeterminazione della biomassa forestalenella Regione Pomerania, a cui hannoaderito diversi paesi quali Germania, Po-lonia e Turchia. Argomento del progettoriguardava la determinazione della bio-massa legnosa di particelle forestali dipino silvestre attraverso nuove tecnolo-gie satellitari che sfruttano informazionibasate sulla localizzazione di GPS (Glo-bal Positioning System) sub-metrici, ov-vero ad alta precisione. Territorio ospitedel progetto è stata la Polonia, nella re-

tedeschi, successivamente la sua parteorientale è stata annessa al nuovo statopolacco ed i suoi abitanti originari sonoquasi tutti emigrati in Germania. Dei 23parchi nazionali presenti in Polonia,quello relativo alla regione Pomerania faparte del distretto di Drawno, presso ilfiume Drawa; parco fondato nel 1990 egrande circa 115 km². Tutti gli studi sonostati effettuati all’interno della foresta diDrawno.

Le attività svolte durante la settimanasono state molteplici e ben suddi-vise tra workshop, attività di

campo, convegni e momenti ricreativi disocializzazione e scambi culturali. Inparticolare, i lavori di gruppo hanno ri-guardato lo sviluppo e l’utilizzo delle co-noscenze basate su nuovi software adalta tecnologia per la localizzazione e iltelerilevamento: GPS, GIS, LIDAR e lecorrispettive applicazioni come ArcGis,ArcMaps, Lastools, ecc. Questi studisono stati fatti all’interno della strutturache ha ospitato gli studenti, provvista dicomputer; a fare da guida a questi lavoric’era il dottor Martin Isenburg che, met-tendo a disposizione le sue conoscenzeha consentito l’apprendimento base deisopracitati programmi.

Parallelamente a questi studi sonostati effettuati lavori di campo presso unaparticella forestale situata all’interno deldistretto di Drawno, dove gli studentihanno preso parte attivamente al lavorosul calcolo della biomassa legnosa, i cuidati saranno successivamente comparaticon i risultati ottenuti dal telerileva-mento. Questo ha lo scopo di verificarel’efficienza delle tecnologie satellitari. In

gione della Pomerania appunto, e in par-ticolare vicino la città di Poznan, nellalocalità di Wrzosy. Il progetto si artico-lava in campi di studi settimanali distri-buiti durante l’estate, a cui hanno presoparte studenti forestali e non, da tutto ilmondo. Si è alloggiato presso una splen-dida struttura chiamata Palac Wrzosy,che in lingua polacca significa “palazzodelle eriche”.

La Pomerania, parola che in linguapolacca significa “vicino al mare”, è unaregione storica e geografica situata nelnord della Polonia e della Germaniasulla costa meridionale del mar Baltico.Nei secoli passati è stata prima un’im-portante provincia del Regno di Prussiae poi della Germania Imperiale; fino al1945 è stata prevalentemente abitata dai

università campus

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L’esperienza all’esterodell’Ausf ViterboFrancesco Marini | Diana Saccoccia | Francesca Salatino

Il lavoro è condivisione e la condivisione diviene conoscenza.

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campo, le attività erano ripartite in piùfasi: abbattimento degli alberi presi comemodello per l’intera particella, suddivi-sione dei rami nelle diverse parti dellachioma (cimale, mezza chioma e ramid’ombra), pesatura di aghi, rami e tron-chetti sezionati a partire dal fusto abbat-tuto. Per ognuna di queste attività glistudenti hanno potuto utilizzare gli stru-menti messi a disposizione, sotto la su-pervisione di giovani esperti; tra leoperazioni più importanti ci sono statel’abbattimento di alcuni alberi con lamotosega, la misurazione dell’altezzadell’albero con ipsometri, la misurazionedel peso delle diverse parti della piantacon apposite bilance, la divisione ma-nuale degli aghi dai rametti, e la ricercadelle coordinate dei vertici dell’area di ri-ferimento con GPS.

Durante l’esperienza di questocampo non sono state acquisitesoltanto conoscenze tecniche ma

anche quelle relative al territorio: l’orga-nizzazione del programma prevedeva in-fatti anche la visita alle diverse strutturedirigenziali appartenenti alla Riserva diDrawno, al vivaio forestale, al laborato-rio di analisi dendrologiche, e la verificadei punti di controllo per la protezioneda incendi boschivi dalla torre di osser-vazione, alta 38 metri. Queste visitehanno consentito la critica osservazionedi realtà gestionali totalmente diversedalle nostre, e ciò è dovuto sia a diffe-renze strutturali che relative alle speciepresenti a causa di un differente clima euna differente orografia.

Nota comune di tutte le esperienzedel progetto è stata comunque la condi-visione e il continuo scambio di opinionitra i ragazzi provenienti da paesi diversiche ha consentito di trascorrere dellepiacevoli serate intorno ad un falò, dipercorrere tutti insieme il fiume Dry(che, dall’inglese, significa “asciutto”) inkajak, di divertirsi durante una rappre-sentazione di costumi e armi medievalidel luogo. Così ciò che i giovani ausfinihanno appreso maggiormente da questocampo è la consapevolezza che il lavorocomune può avvicinare lo scambio tra lepersone: il lavoro è condivisione e la con-divisione diviene conoscenza.

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Avete mai sentito la voce del bosco?

Ogni senso è toccato, l’animo diventa pacifico, si distende e ogni inquietudine passa.

Quando ti lasci toccare i sensi, quando hai la percezione del legno secco che scricchiolasotto i tuoi piedi, del profumo di resina che emanano le cortecce degli alberi, della lieve luceche passa tra le chiome e illumina il muschio morbido, del vento che corre tra le chiome eti sembra di sentire il mare…

Quando provi tutto questo, tu ascolti la voce del bosco.

Esso ti parla, ti racconta la sua storia trasformata in emozioni che suscita dentro di te.

Quieto è il bosco come quieta la gente che lo vive, così se ascolti la storia del bosco ascoltila storia della gente, e ancora una volta capisci come sia un tutt’uno.

L’aria che sa di legno e pesa come piombo, così la gente trasmette senso di casa, di fami-glia, di protezione, qualcosa che profuma e riscalda.

Quando il sole cala e le stelle illuminano il cielo, una fiamma e una nota uniscono tutte le di-versità in un’unica nuvola di fumo che si diffonde nell’aria e si espande tanto quanto il cielo.

Così della terra avrai ricordi felici e duraturi, ormai entrati nei polmoni e nel sangue, quindiindelebili.

Così della gente porterai un loro pezzetto dentro di te, e la tua storia si incontra con la loroe si crea una sola strada, percorsa da tutti e che un giorno, forse, porterà a incontrarci dinuovo.

La voce del boscoè la voce della gente

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Speciale

Macchinadi Santa RosaFoto di Sergio Galeotti

Si ringrazia il Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa e il suo presidente Massimo Mecarini.

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Capita a tutti di provare sensazionispiacevoli. Sono sensazioni spiace-voli quelle particolari situazioni in

cui sai che non sta accadendo niente difondamentale, che non è un problema,eppure quell’amaro in bocca proprio nonse ne va. Tra le più spiacevoli delle sen-sazioni, almeno per me, ce n’è una: il fareritorno ai luoghi d’infanzia.

Un flashback che, nella maggiorparte dei casi, comporta grandi delu-sioni: basta partire alla volta di un luogodei nostri ricordi, ripercorrere con lamente le sensazioni che quel luogo cidava e l’impressione visiva che ne ave-vamo. Questi posti nel nostro immagi-nario erano sempre sterminati, infinitiloro e piccoli noi. Poi, una volta giunti,ecco la triste verità: quel prato che ricor-davamo enorme non è che un cortile,l’albero che sovrastava tutti gli altri non èche un arbusto striminzito e gli altri, be’,neanche ve lo sto a dire. Anche l’allora

che ammirarne l’imponenza, restarneammaliati, quasi intimoriti; dall’altro citroviamo a vivere un momento di pro-fonda condivisione.

La macchina è emozione condivisa:passare la giornata assiepati, spalla aspalla con degli sconosciuti, tutti lì a pro-curarsi un posto, a guadagnarsi unabuona visuale sul percorso, ad aspettare.Che tu sia un viterbese doc o meno,quando vedi il “cupolino” della macchinaspuntare dai tetti, non puoi che emozio-narti. Perché sta per sfilare un campanilesorretto solo dalla forza di duecento epiù braccia, cento e più corpi che sosten-gono la loro Santa. E ognuno non puòche riscoprirsi un po’ credente e un po’viterbese. Se poi sei uno di quelli duri acedere e non facile alle emozioni, sappiche comunque la si voglia mettere SantaRosa resta Santa Rosa.

Possiamo accantonare la religione esminuire il pathos, ma a dare impor-tanza alla manifestazione resterà co-

enorme corridoio di nonna ora appareuna strettoia angusta e in casa non cisono più cantucci per nascondersi per-ché in quei cantucci, date le dimensioni,non c’è proprio modo di entrare.

Eppure, a Viterbo, una scappatoia c’è.È un rito, una manifestazione, un culto,chiamatelo come volete: il trasporto dellamacchina di Santa Rosa è anche questo,la possibilità di far ritorno a un cantucciosicuro senza restarne delusi. Gli annipassano, la sensazione nel vederla sfilareresta la stessa, e non è mai spiacevole.Che a mirarla siano gli occhi di una bim-betta di cinque anni o quelli di suamadre non cambia molto: un filo con-duttore lega le loro sensazioni. Sensa-zioni che, a sentire un passante o ilnostro amico di sempre, non sono di-verse da quelle di molti altri.

L’emozione nell’assistere al trasportodella macchina per un viterbese ha du-plice valenza: da un lato non possiamo

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Quella sera del treUna storia tra romanzo e realtà.Martina Perelli | [email protected] - Foto di Sergio Galeotti

Una suggestiva e rara immagine del corpo di Santa Rosa portato a spalla dai Facchini

storia

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munque la cronaca, il vero cui si poggia,la storia che fa da sfondo agli eventi e allanascita del culto, un Medioevo lontanoeppure sempre vivo tra i vicoli di Vi-terbo.

La storia, tra romanzo e realtà, cinarra di una giovinetta che nascenel 1233 e muore solo diciotto anni

più tardi. Riesumazioni postume cidiranno che Rosa soffriva di una raramalattia, quella che oggi chiamiamo“agenesia dello sterno” e che sappiamoportare a morte prematura. Non è facilespiegare come la ragazza abbia raggiuntoil diciottesimo anno di età. La miracolataRosa professa con veemenza la sua reli-gione, la diffonde tra i viterbesi e diventaun personaggio scomodo, così scomododa essere esiliata prima a Soriano e poi aVitorchiano. Farà ritorno a Viterbo dopola dipartita di Federico II per morire an-ch’ella poco dopo, nel marzo del 1251.

Miracolata e mirabolante in vita,continua a stupire post mortem: il suocorpo resta incorrotto nei secoli nono-stante nel corso del tempo non sianosempre state prese misure preventive perconservarlo adeguatamente: fu seppellitonella nuda terra, poi riesumato e traslatonel 1258; nel Trecento rimase coinvoltoin un incendio che si limitò ad anne-

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rirlo. A quell’episodio dobbiamo l’aspettobruno della Santa così come siamo abi-tuati a vederla oggi, incorrotta e accessi-bile agli occhi di tutti.

Da quella prima riesumazione del1258 e alla relativa traslazione da SantaMaria in Poggio alla chiesa delle Cla-risse, cui fu affidata la cura, i viterbesinon hanno mai smesso di celebrare laloro santa rievocando quel primo tra-

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SPECIALE SANTA ROSA

Piazza delle Erbe gremita di pubblico fin dalle prime ore del pomeriggio del 3 settembre

Il giorno che precede il trasporto della Macchina si svolge la processione religiosa con il cuore della Santa e il corteo storico

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sporto della salma. Prima con altari, poicon baldacchini poco pretenziosi finoalle straordinarie macchine.

Il museo civico di Viterbo conserva ibozzetti delle prime creazioni, a fare dacapostipite il disegno della macchina del1690, attribuita a Giovan Vincenzo Cal-mes e patrocinata da Giuseppe France-schini. Da questa prima raffigurazione,la storia ci dà testimonianza di un rito

segna, la storia insegna sempre e ci diceche, forse per natura, noi uomini siamopiù inclini a curare che a prevenire. Levicende della macchina non ne sonoesenti: qualsiasi viterbese venga inter-pellato, al nome di “Volo d’angeli” nonfarà che dirci: “Che bella, che bei ricordi,quella sì che era una macchina!”.

Io a quei tempi non c’ero, stiamo par-lando del 3 settembre 1967 e dell’esordiodi quella che sarebbe stata una macchinanel cuore di tutti per molto tempo. Unesordio sicuramente sfortunato: il tra-sporto è costretto ad interrompersi al-l’altezza di via Cavour, i facchini nonsono in grado di proseguire sotto il pesodi un apparato che sembra avvitarsi su sestesso. Facile immaginare il rammaricoe il dispiacere di non aver portato a ter-mine quella missione: per la prima voltai devoti erano costretti ad abbandonarela loro Santa.

Spesso sono proprio le storie iniziatemale quelle a finire meglio e, in barba aquello spiacevole episodio, “Volo d’an-geli” sfilerà per le vie di Viterbo per bendodici anni consecutivi. Per prevenirequesto ed altri inconvenienti ed assicu-rare l’incolumità dei partecipanti sotto lamacchina e non, dall’anno successivo, il1968, venne istituita la “prova di portata”cui ogni facchino deve sottoporsi primadi prender parte al trasporto.

Se l’inconveniente della prestanza fi-sica del facchino è risolto, qualcosatorna di nuovo a mettere i bastoni

tra le ruote: il 1986 è l’anno di “Armoniaceleste”. Anche per lei un infausto esor-dio: prima urta un cornicione lungocorso Italia poi sfiora la tragedia quandoè ormai in dirittura d’arrivo: davanti lagradinata della chiesa di Santa Rosa s’in-clina pericolosamente, subito è rimessanella giusta posizione, poi torna a sban-dare. Si verifica un unicum nella storiadel trasporto: la macchina è depositatacon la statua della santa che mostra laschiena alla basilica. Quasi un affrontoper gli stessi facchini che decidono diprendere in mano la situazione e “bis-sare il fermo” per dare a Rosa il giustorispetto: la macchina torna a sollevarsie la statua è deposta nella posa abituale.

che si perpetua negli anni e nei secoli,imperituro.

Una manifestazione che nasce dalladevozione e poi, nel tempo, si forgia disuoi rituali e regole. D’altronde, stiamoparlando di un manufatto pesante circacinquanta quintali ed alto ventotto metri:la regola è precauzione, prevenire signi-fica non dover curare dopo. La storia in-

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storia

A pochi metri dall’arrivo davanti al Santuario di Santa Rosa

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Qualche curiosità

� La Macchina di Santa Rosa concorreper essere riconosciuta dall’Unescocome bene intangibile dell’umanità, ladecisione definitiva sarà presa a di-cembre.

� Lo statuto del Sodalizio non fa distin-zioni di genere, nulla vieta a una donnache ritenga di essere idonea di acce-dere alla prova di portata per entrarenella formazione dei Facchini di SantaRosa.

� Nella storia della macchina non man-cano nomi di donna: Rosa Papini prima,Maria Antonietta Palazzetti dopo: è lei arealizzare “Spirale di fede”, trasportatadal 1979 al 1985.

� “Spirale di fede” è anche la protago-nista dei due trasporti eccezionali del 9luglio 1983 e del 27 maggio 1984. Ilprimo avvenuto per celebrare il 750°anniversario della nascita di SantaRosa, il secondo in occasione della vi-sita di papa Giovanni Paolo II.

Specialità tipiche della tradizione popolare

� Nei giorni dei festeggiamenti è facile trovare i cibi della tradizione popolare ai quali, ancoraoggi, molti viterbesi non sanno rinunciare: la porchetta e l’anguilla marinata su tutti.E poi i dolci tipici come la torta “Rosa della pace” del forno artigianale a porta della Verità o il“pane di Santa Rosa”. Per i più piccoli lo zucchero filato, un vero protagonista del settembreviterbese.

Un pericolo scampato, quello dell’86,che porta con sé conseguenze decisive:fino ad allora il peso delle varie mac-chine era conosciuto solo in modo ap-prossimativo, ora è forte l’esigenza diconoscerne le dimensioni reali e, se ne-cessario, adottare misure restrittive.

Negli anni a seguire la macchina saràsempre pesata la mattina del 2 settembrecon appositi mezzi forniti dall’Esercito e

anno di diventare per una notte l’eroedella città e vivere nell’attesa di quellagiornata. Immagino il procedere solennedella macchina come una poesia, la ca-denza dei passi del facchino suonanocome un verso. Passo, a capo, passo, acapo. Parole festose e la stessa melodia,quella dell’inno “Quella sera del tre”, chetorna a ripetersi. Ora e ancora, la mac-china di Santa Rosa non la ferma nes-suno.

saranno stabilite le misure massime chequesta dovrà avere: l’altezza non dovràsuperare i 28 metri e il peso i 55 quintali.Inoltre, il trasporto fino ad allora affidatoal costruttore, ora è nelle mani del Soda-lizio dei Facchini di Santa Rosa.

Chi meglio di coloro che portanoquel peso ogni anno può guidare l’avan-zata? Non so bene immaginare cosa si-gnifichi essere lì sotto, aspettare ogni

SPECIALE SANTA ROSA

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Tutti d’un sentimentoIl motore umano della macchina: i Facchini di Santa Rosa

Sabrina Manfredi | [email protected] - Foto di Sergio Galeotti

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Wordsworth nella prefazione alleLyrical Ballads, il suo capola-voro, si riferiva con queste pa-

role al poeta romantico ma io vorreitranslarne il significato per parlare diuna figura che, nel nostro territorio, hauna forza poetica notevole: il facchinodi Santa Rosa.

E sono proprio entusiasmo e senti-mento le forze motrici che, ogni anno,spingono questa figura a compiere unsacrificio fisico e psicologico enorme,frutto di preparazione, abnegazione edevozione verso la patrona della città,Santa Rosa.

Rimanendo in tema di Romantici-smo definirei Sublime la forza che spingeognuno di questi uomini a mettersi ci-clicamente in gioco per far sì che l’Asso-luto possa giungere ancora una voltanella sua dimora storica.

Ma usciamo dal titanismo e dal Sehn-sucht per entrare più da vicino e ancheun po’ più “prosaicamente” nelle vesti diquesta figura, senza la quale a Viterbo

siva responsabilità del Capofacchino.Nella stessa sede, la mattina dell’ul-

tima domenica di agosto si tiene una riu-nione per definire la formazione eassegnare i compiti con la rituale conse-gna delle tradizionali protezioni.

La divisa e i ruoliI facchini direttamente chiamati a

portare la Macchina devono indossare iltradizionale costume: camicia bianca amaniche lunghe arrotolate sopra i go-miti, pantaloni bianchi fermati sotto leginocchia alla “zuava”, fascia rossa invita, fazzoletto bianco annodato alla cor-sara, scarponcini neri alti e calze bianchelunghe fin sopra il ginocchio.

La prima parola che viene in menteguardandoli è “candore”: il bianco delladivisa è infatti il simbolo della purezza dispirito della Santa, mentre il rosso dellafascia ricorda il porpora dei cardinali,protagonisti della traslazione del 1258.

Il Capofacchino e le Guide si distin-guono perché indossano pantaloni neri

non potrebbe svolgersi l’evento più im-portante dell’anno.

I Facchini sono il “motore umano”della Macchina di Santa Rosa, l’altro ter-mine di un binomio indissolubile: senzai Facchini non ci sarebbe il Trasporto,così come senza Macchina la figura delfacchino non avrebbero motivo di esi-stere.

La selezioneOgni anno, l’ultima settimana di giu-

gno, si svolgono presso la ex chiesa dellaPace le selezioni per essere ammessi a ri-coprire il ruolo di facchino.

Non bastano ovviamente le pur ne-cessarie attestazioni mediche di buonasalute. Si deve superare una “prova diportata” che consiste nel sostenere sullespalle una cassetta di 150 chili, per circa90 metri, lungo un tracciato che segueil perimetro della navata e che richiedetre giri. La prova deve essere sostenutasia dai veterani che dai nuovi aspirantie la valutazione dell’idoneità è di esclu-

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Un uomo che comunica ad altri uomini: un uomo, vero,dotato di una più acuta sensibilità, di maggiore entusiasmo e sentimento,

che ha una maggiore conoscenza della natura umana e un’anima più grande…William Wordsworth

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e la fascia trasversale con i colori di Vi-terbo: giallo e azzurro.

Diversi sono i ruoli previsti all’in-terno della formazione ma tutti rive-stono uguale importanza e responsa-bilità per la sicurezza e la buona riuscitadel trasporto: Guide, Ciuffi, Spallette,Stanghette, Leve, Cavalletti.

I facchini di maggiore esperienza siposizionano sotto la base della macchinae prendono il nome di Ciuffi dal copri-capo in cuoio imbottito che indossano aprotezione della cervicale. Sono dispostiin sette file di nove uomini ciascuna perun totale di 63 elementi.

Ai lati, lungo i due sostegni sporgentiintegrati nel telaio della base, si dispon-gono due file di otto Spallette che so-stengono la macchina appoggiandola suuna spalla. All’esterno di queste entranoin formazione, quando i tratti più larghidel percorso lo consentono, altre due filedi spallette, dette appunto “aggiuntive”,da 11 facchini ciascuna.

Sul fronte e sul retro della Macchinasi trovano infine le Stanghette, sei perlato, che facendo leva sui sostegni chesporgono dalla base contribuiscono a bi-lanciare le oscillazioni.

Questa è la formazione “standard” di113 uomini che porta la macchina lungola prima parte del percorso fino alla se-conda fermata a piazza del Comune. Peril tratto successivo di via Roma e quasitutto il Corso, dove si deve fare a menodell’apporto delle aggiuntive, la forma-zione si riduce a 91 facchini. Ma neipunti più stretti di questo tratto, quandola base della Macchina passa radente aimuri, anche le Spallette fisse devono mo-mentaneamente mollare la presa e pro-teggersi spostando la testa e le spalleall’interno dei legni: per alcuni istanti laformazione “utile” può contare soltantosu 75 portatori.

Ci sono poi le Guide, facchini dispo-sti ai vari angoli della base che hanno ilcompito di coadiuvare il Capofacchinoper direzionare la Macchina nella ma-niera ottimale. E infine, nella parte con-clusiva del percorso, quella della difficilesalita in corsa verso il Santuario, inter-vengono le Leve e le Corde a spingere etirare.

Il raduno e il giro delle chieseL’interminabile giornata del 3 set-

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sporto i facchini si raccolgono in silen-zio attorno al Capo che li saluta e li in-cita a dare ancora volta il meglio di sécon entusiasmo, per la Santa e per laCittà. Concluso questo momento di so-lenne raccoglimento la formazione siavvia verso la chiesa di Santa Rosa.Quando i Facchini passano davanti al sa-grato del Santuario ripetono la bella tra-dizione del saluto ai propri familiari, lìraccolti, alzando ciuffi e spallette. Poi,compiendo il percorso del trasporto insenso contrario, sfilano abbracciati versola Macchina tra le ali della folla che li ac-clama calorosamente.

Verso la “mossa”Quando i Facchini raggiungono la

piazza del Comune si incontrano con ilSindaco e le altre Autorità presenti che siuniscono al corteo per precederli versola salita a San Sisto. Appena le prime filedi facchini arrivano in prossimità dellamonumentale Fontana Grande la Mac-china, fino a quel momento oscurata dalbuio, viene improvvisamente illuminata,come a salutare ed accogliere i propriportatori.

Giunta a San Sisto, la formazioneentra all’interno della Chiesa dove i fac-chini si raccolgono in preghiera. Uno deiveterani del trasporto legge la poesia dalui stesso scritta, poi il Vescovo imparti-sce ai Facchini la benedizione “in arti-culo mortis”.

Da alcuni è stata ripristinata un’an-tica tradizione e la cerimonia della bene-dizione viene ripetuta anche all’esternocon tutti gli uomini in ginocchio ai piedi

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I Facchini nella chiesa di San Sisto

tembre inizia per i Facchini dal primis-simo pomeriggio con il raduno e i salutidelle Autorità civili e religiose. Al ter-mine dell’incontro, la formazione schie-rata si avvia verso la rituale visita allesette chiese sfilando per le vie della città.Il lungo giro si conclude al Santuario diSanta Rosa dove i Facchini sfilano lenta-mente davanti alla grata che proteggel’urna con il corpo della santa soffer-mandosi in preghiera.

Il ritiroQuindi si spostano al boschetto del

convento dei Cappuccini a San Crispinoper riposare e intrattenersi con le propriefamiglie. Quando si avvicina l’ora del tra-

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“Facchini di Santa Rosa, sollevate efermi!”

L’impeto dei Facchini è tale che lamacchina balza verso l’alto di colpo,come a prendere il volo, quasi più in altodi quanto volessero spingerla e infattisembra ricadere leggermente verso ilbasso, assestandosi sulle schiene e lespalle dei facchini e oscillando lieve-mente.

Il Capofacchino verifica che sia tuttosotto controllo, qualche secondo di at-tesa per riassorbire la botta della “mossa”e finalmente dà l’avvio al trasporto algrido di “per Santa Rosa, avanti!”.

della Macchina. Infine, il Sindaco “con-segna” ufficialmente la Macchina nellemani del costruttore, il quale affida il tra-sporto al Capofacchino.

Il sollevate e fermiI Facchini sono pronti, schierati nella

loro divisa bianca e rossa, armati diforza, coraggio e determinati a far sì cheanche quest’anno il trasporto della Mac-china di Santa Rosa si svolga nel migliormodo possibile. È il momento di dare il“motore” alla macchina, il Capofacchinoinizia a chiamare gli uomini in posi-zione, a partire dalle stanghette poste-riori, via via fino a quando tutta laformazione è al completo, ciascuno alproprio posto.

La piazza è gremita, ogni finestra eterrazzo dei palazzi stracolmi di gente.

Alla fine nel buio dell’aria settem-brina sale il silenzio, tutti trattengono ilfiato nell’attesa della voce del Capofac-chino che risuona potente il tradizionale:“Siamo tutti di un sentimento?”

Il “sì” esplode come uno scoppio dasotto la base della Macchina, anticipatomentalmente da tutti i presenti e repli-cato all’infinito dagli schermi dispostinelle piazze e da quelli nelle case.

È il via per una sequenza di comandiche chiunque abbia assistito a un tra-sporto conosce ormai a memoria:

“Sotto col ciuffo e fermi!”“Fermi!”

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Una fila di Ciuffi si avvia di corsa a prendere posizione sotto la Macchina

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Parte dell’atmosfera che caratterizzala sera del trasporto è dovuta al pe-riodo dell’anno. Per quanto la tem-

peratura sia spesso ancora permissiva eancor più spesso anche gradevole peruscire la sera, Settembre è un mese ditransizione stagionale. Le piogge pos-sono essere improvvise come quelleestive ma anche durature come quelleautunnali.

La luce poi è il cambiamento più im-pattante, le giornate cominciano ad ac-corciarsi in maniera evidente e risultairrilevante quante volte si sia stati testi-moni di questi cambiamenti, all'appe-renza eterni ed immutabili se paragonatialle nostre vite; inutile perché in ognicaso ci si ritroverà sorpresi nel constatareche la giornata è già finita e che insiemealla luce se ne sta andando anche ciò cherimane dell’estate. Da secoli quindi, la

sosta a piazza Fontana Grande) esistecosì come la conosciamo dal 1721, annoin cui venne aperta per volere di Inno-cenzo XIII. È quindi ovvio che il per-corso oggi noto è stato definito con ilpassare dei secoli.

Esistono varie ipotesi di cui nessunaè certa sulla nascita del trasporto dellamacchina, sappiamo però con sicurezzache c’è una vera continuità a partire dal1664, probabilmente per festeggiare lafine della pestilenza che aveva colpito Vi-terbo nel 1657. È quindi a partire da que-sto momento che rinvii a parte si sonodate il cambio molte serate di settembree sono state molto rare le situazioni chehanno portato a obbligati cambiamentidi percorso.

Partendo dai casi più lontani, tra il1845 ed il 1846 a causa del rifacimentodella facciata del Santuario di Santa Rosae dell’inagibilità del piazzale antistante,venne dirottato il percorso fino a piazzadella Rocca nel 1845, e fino al vicinopiazzale dell’Oca l’anno seguente. Altrocambiamento più recente avvenne in-vece nel 1952, quando per festeggiare iltrasporto della prima macchina conce-pita nel dopoguerra si decise di farla sfi-lare lungo via Marconi con sosta alSacrario, per poi tornare indietro e com-piere ugualmente la salita al santuario.

Un fatto isolato e fin da subito maldigerito sia dai tradizionalisti che ovvia-mente dai facchini stessi.

Interruzioni del trasportoLa pausa più lunga si ebbe a partire

dal 1802 e durò fino al 1810, anno in cuivenne ripristinato grazie alle pressionidei cittadini viterbesi. Risale infatti al1801 l’incidente più grave che sia avve-nuto durante un trasporto. Durante gli

sera del 3 settembre, alle ore 21 del solerimane appena un tenue bagliore nelcielo, poi lo spegnersi delle luci lungo levie del centro e l’improvvisa oscurità av-vertono riguardo l’imminenza di unevento eccezionale.

Per noi Viterbesi l’appuntamento del3 settembre è così tanto una consuetu-dine da apparire un evento immutabile,come le stagioni appunto.

Origini del percorsoIl tragitto compreso dalla chiesa di

San Sisto a quella di Santa Rosa è quantodi più consolidato possa esistere, da nonmolti anni delle placche bronzee ci ri-cordano 365 giorni l’anno le soste diquella sera di vigilia. Basti però pensareche via Garibaldi (per chi non fosse diViterbo la via che porta dal luogo di par-tenza della macchina fino alla prima

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Trasporto e vicissitudiniCenni storici di una volontà popolare.Manuel Gabrielli | [email protected] - Foto di Sergio Galeotti

memorie

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anni si sono succedute varie descrizionidel fatto, con bilanci che vanno dai 10 ai30 morti. Oggi tra le ipotesi più accredi-tate c’è quella di una folla caduta nel pa-nico a causa dell’imbizzarrimento deicavalli della processione e il conseguentetravolgimento di alcune persone che nonpoterono fare largo alla macchina. Acreare scompiglio fu sicuramente anchel’incendio della macchina stessa, altra di-sgrazia che costrinse i facchini all’abban-dono a piazza delle Erbe. Fu quindi acausa di questo fatto che, attraverso undelegato apostolico, il papa proibì la ce-lebrazione.

Al riprendere del trasporto nel 1810questo grave incidente servì per l’intro-duzione di nuove norme, tra cui la sostasu cavalletti a piazza Fontana Grande. Adimostrare la bontà delle misure di sicu-rezza adottate nel corso degli anni, l’ul-

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tima morte durante la ricorrenza del 3settembre fu quella di un facchino nel1926, non è ben chiaro poi se per un in-cidente o per un malore dello stesso.

Anche se più brevi della famosapausa di 9 anni, nel ’900 ci furono altredue grosse interruzioni coincidenti coni due conflitti mondiali. La prima duròdal 1915 al 1918, e grazie alle insistentirichieste del costruttore Virgilio Papinifu addirittura possibile ripristinare il tra-sporto prima del finire della guerra.

Furono meno fortunate le richiestedello stesso costruttore nel 1944, infattinon si considerò prudente far muoverenell’oscurità della guerra una torre illu-minata, il tutto ad appena 150 km dallaLinea Gotica dove il combattimento eraancora vivo. Nel ’45 si pensò subito di ri-proporre il trasporto della macchina di

Papini, il telaio era però sparito miste-riosamente durante i bombardamentidel ’44. Si dovette quindi aspettare il1946 per tornare a vedere la macchinasfilare per le vie della città, anche se conuna grossa variante. Le bombe del ’44avevano lasciato il segno, la chiesa di SanSisto era divelta e da via Garibaldi apiazza Fontana Grande era rimasto inpiedi solo il palazzo del Conte Fani. Cosìsi decise di assemblare la stessa mac-china di Papini sul muro dell’oramai ex-tribunale e di iniziare da quel punto iltrasporto.

Dal dopoguerra ad oggi non si sonoverificate altre interruzioni e il culto diSanta Rosa è oggi più vivo che mai, con-tinuando a radunare la sera del 3 set-tembre persone di ogni provenienza,credo ed età.

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Nella foto di apertura, i Ciuffi indossano gli omonimi copricapi predi-sponendosi al trasporto. Qui di lato, un’immagine che coglie lo sforzoe la concentrazione delle Spallette. Sopra, il passaggio attraverso unodei punti più stretti del percorso, fino a sfiorare i muri, impone alleSpallette di lasciare momentanemante la propria posizione per pro-teggersi dentro la base. Sotto, nella salita finale le leve posteriori spin-gono verso l’alto per constrastare la pendenza della Macchina.

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Grazie alla cortese mediazione diRomolo Tredici, uno degli oltrecento facchini che trasformano il

miracolo del trasporto della macchina diSanta Rosa in faticosa realtà, raggiun-giamo Giorgio Capitani nella sua abita-zione per un’inusuale intervista: il registaoltre ai suoi successi cinematografici e te-levisivi è infatti ormai anche un ben notoe amato personaggio viterbese; proprioper l’affetto della città verso il suo lavoroe la sua persona è stato insignito dellacittadinanza onoraria e della carica diAmbasciatore dei Facchini di Santa Rosae nutre una particolare affezione per lacittà e la sua grande festa.

Perché, dopo la sua nascita a Parigi e levarie esperienze vissute ha scelto diabitare nella nostra città?«Vorrei dire per combinazione. Per girareIl maresciallo Rocca cercavamo una cittàvicino Roma, grande, ma non troppo eViterbo ci è piaciuta subito. Io non la co-noscevo, ma dopo cinque serie è diven-

contro con Santa Rosa. Quando sono di-ventato Ambasciatore dei Facchini hoassistito all’intero trasporto vicino allamacchina camminando all’indietro, fati-cosissimo. Sono stato affascinato dallafede e dal coraggio dei facchini, ho vistodei miei amici con le lacrime agli occhi,questo entusiasmo, questo “Viva SantaRosa” della popolazione è molto toc-cante, suona nelle orecchie tutti i giorni.»

Qual è l’aspetto, il momento, la tradi-zione legata a Santa Rosa che la emo-ziona di più?«Tutti i momenti, mi emoziona l’alzata emi emoziona il fermarsi alle varie sta-zioni e la ripartenza. Mi stravolge quandopassano per il corso vicinissimi ai palazzie buttano giù i laterali. È un atto di fidu-cia davvero molto commovente.»

Visto il contributo che ha dato alla co-noscenza della città di Viterbo, qualepotrebbe essere, a suo parere, un modoper incentivare la conoscenza della tra-dizione del trasporto in Italia e nelmondo?«Mi sembra molto conosciuta. Un gior-no alle terme ho incontrato una coppiamilanese che dopo aver visto Il mare-sciallo Rocca ha deciso di trascorrere levacanze a Viterbo. Effettivamente il miolavoro è servito a qualcosa.»

Ultima curiosità: qual è il luogo piùsuggestivo da cui ha assistito al tra-sporto?«Viterbo mi piace tutta. Non esistestrada, piazza o angolo dove non abbiagirato; ho creato persino una strada diIstanbul per Callas e Onassis a San Pelle-grino. Non so, sono molto combattuto, èmolto bello vederla dalla piazza del Mu-nicipio, vederli scendere e poi ripartire,anche vedere l’ultimo tratto mi piacemolto, con tanti amici intorno, proprioda casa mia, da via Santa Rosa.»

tata una succursale di casa. Mi sono in-namorato della città, dei viterbesi e i vi-terbesi di me. Anche per gli altri film(Papa Giovanni, Edda) ho trovato ilmodo di girare a Viterbo, ne ho giratoogni pietra e ogni angolo, è una città chesi presta a molte cose. Ho sentito ungrande calore che mi ha colpito molto, lacittà mi ha anche voluto premiare facen-domi cittadino onorario, poiché avevoaiutato a diffondere nel mondo l’imma-gine di Viterbo. Quello che sento di più èproprio l’affetto, per la strada mi salutanopersone che nemmeno conosco, questomi ha davvero gratificato. Io non solo vo-glio bene a Viterbo, ma sento che la cittàne vuole a me.»

Poiché a breve Viterbo sarà palcosce-nico della festività e del trasporto dellamacchina di Santa Rosa desideravamoconoscere quali sentimenti, ricordi edemozioni le suscita questo evento.«Ne Il maresciallo Rocca ho girato un tra-sporto, questo è stato il mio primo in-

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La testimonianza di due spettatori d’eccezione in un’intervista “a specchio” a Giorgio Capitani, regista,che da fuori ha deciso di venire ad abitare a Viterbo, e a Claudio Brachino, giornalista,

che per le esigenze della sua professione si è invece allontanato da Viterbo per abitare altre città.

Quel momento magicoClaudia Paccosi | [email protected]

Viterbo e Santa Rosa attraverso gli occhi di chi è arrivato e di chi è partito.

incontri

Giorgio Capitani, regista e sceneggiatore

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Abbiamo raggiunto telefonicamenteClaudio Brachino al rientro dalleferie, nel pieno della febbrile atti-

vità della testata Sport Mediaset di cuirecentemente è diventato direttore gior-nalistico. Ci hanno fatto da tramite col-leghi della redazione di Decarta, che conlui hanno condiviso gli anni del liceo edell’università e ben conoscono il suoprofondo legame affettivo con la città econ il settembre viterbese.

Da viterbese che vive altrove, cosa an-cora la lega alla città?«Non vivo più a Viterbo non per colpamia, ma semmai per colpa di Viterbo, seè lecita una piccola forzatura. Nel sensoche faccio un mestiere, uno dei mestieriche avrei voluto fare, che a Viterbo a uncerto livello non potrei fare. Si cominciacon l’università, si prosegue con il postodi lavoro, si finisce con il fatto che tuo fi-glio nasce a Milano a novembre in ungiorno di nebbia… Come tutti gli emi-grati, è ovvio che soffro di nostalgia.»

Poiché a breve Viterbo sarà palcosce-nico della festività e del trasporto dellamacchina di Santa Rosa desideravamoconoscere quali sentimenti, ricordi edemozioni le suscita questo evento.«L’ho scritto qualche anno fa in un arti-colo, tutto della mia infanzia parla dellamacchina di Santa Rosa. Dalla prepara-zione, ai facchini, al trasporto, al rischio,al correre come pazzi per trovare la vi-suale migliore, meglio, l’emozione este-tica migliore. Ora che faccio il direttoremi invitano, qualche volta, in tribunama dopo vent’anni sono tornato a ve-

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derla nel 2010 e ho preferito andare aSan Sisto e seguire la macchina a piedinel buio, improvvisamente uomo delMedioevo.»

Qual è l’aspetto, il momento, la tradi-zione legata a Santa Rosa che la emo-ziona di più?«L’alzate e fermi, all’inizio, con la macchinache vacilla un attimo prima di assestarsisulle spalle dei facchini. C’è l’omaggio alSacro, c’è la fatica, c’è il rischio, c’è il fanta-sma della morte, c’è la disciplina fisica e in-gegneristica. Quel momento, prima chetutto inizi, è magico.»

Quale potrebbe essere, a suo parere, unmodo per incentivare la conoscenzadella tradizione del trasporto in Italia enel mondo?«La comunicazione, in senso lato, non è ilmassimo per i viterbesi. Basti pensare aicollegamenti stradali e alle altre vie di tra-sporto. Ma dal materiale al digitale con-temporaneo, basterebbe semplicementeparlarne di più nel modo giusto nei ca-nali più diversi. Bisognerebbe, nel conte-sto, parlare del “brand Viterbo” che èstraordinario e ancora poco conosciuto.È una questione turistica e insieme unaquestione filosofica.»

Ultima curiosità: qual è il luogo piùsuggestivo da cui ha assistito al tra-sporto?«In parte ho già risposto, in tutti i luoghie in nessun luogo, come il Dio medie-vale. E il Medioevo c’entra molto con Vi-terbo.»

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Giorgio Capitani nasce nel 1927 a Parigi,comincia a lavorare come regista e sce-neggiatore di film già a partire dai primianni ’50, poi di fiction e serie di successodalla fine degli anni ’80 tra cui Papa Gio-vanni (2002), Puccini (2009), Callas eOnassis (2005) il recentissimo EnricoMattei – l’uomo che guardava al futuro(2009) oltre alle amatissime diciotto pun-tate ambientate nella nostra città andatein onda tra 1996 e 2005 de Il marescialloRocca.

Claudio Brachino è nato a Viterbo il 4 ot-tobre 1959. Nel 1978 si trasferisce aRoma dove si laurea con Walter Binni inLetteratura Italiana con una tesi su Am-brogio Viale. Nel 1988 approda al GruppoFininvest, dove inizia come consulentecreativo per Domenica Più, con Rita DallaChiesa, in onda su Retequattro. Passaquindi a Videonews seguendo Dentro laNotizia, il notiziario sperimentale di Rete-quattro. Dal 1995 assume la carica di vi-cedirettore di Studio Aperto e conduce peranni l’edizione delle ore 18,30.Nel settembre 2007 diviene direttore dellatestata giornalistica Videonews e firma econduce con Barbara d’Urso la prima sta-gione di Mattino Cinque. Sotto la sua te-stata nascono anche altre produzioni tracui Pomeriggio Cinque,Domenica Cinquee Storie di Confine e continuano la loroesperienza marchi storici come Top Se-cret, Verissimo e Matrix.Dal giugno 2013 è direttore giornalisticodi Sport Mediaset, la testata più longevadel Gruppo Mediaset.

Claudio Brachino, giornalista, direttore di Sport Mediaset

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acido lattico

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L’unione fa la forzaIntervista alla scoperta della nuova società rugbystica viterbese.Gabriele Ludovici | [email protected]

Secondo la leggenda, il rugby ebbeorigine da un gesto di “ribellione”da parte di uno studente inglese

della Rugby School che un giorno, du-rante una partita di calcio, prese la pallacon le mani e la condusse fino a fondocampo, realizzando la prima meta dellastoria. All’epoca le regole degli sport disquadra erano ancora in fase embrionaleed ogni scuola aveva le proprie: tuttavia,il destino volle che quella cittadina delWarwickshire restasse legata indissolu-bilmente alla palla ovale, grazie alla follecorsa di William Webb Ellis.

A Viterbo, poco prima del secondoconfilitto mondiale, nacque un movi-mento rugbystico che nel 1952 venneconsolidato con la nascita dell’UnioneSportiva Rugby Viterbo. Questa squa-dra ha vissuto la propria storia tra alti ebassi, ma gli alti sono di quelli da ricor-dare: sotto la presidenza di Sauro Sorbinigiunse in Serie A (1961-62) e, dopo unsali-scendi tra le categorie, la dirigenzaguidata da Roberto Pepponi riuscì a rin-novare i fasti societari centrando la SerieA2 (1997-98). Dopo l’avvicendamentosocietario del 2001 per il Rugby Viterboinizia un periodo in chiaroscuro, culmi-nato con la discesa in Serie C.

La stagione 2013-14 si è già apertacon il gradito ritorno di Roberto Pep-poni, che raccoglie il testimone di AldoPerugini alla presidenza e cambia de-nominazione al club in Union RugbyViterbo 1952, scelta che richiama forte-mente le origini. La notizia ha suscitatoun rinnovato entusiasmo negli amantidella palla ovale e cogliamo l’occasioneper parlare del futuro del club con Ales-sandro Pepponi, vicepresidente della so-cietà: «Gli eventi che accadono nella vitanon sono duplicabili. Sono contento che ilnome della mia famiglia sia legato alle

vette raggiunte dal rugby cittadino maquesto da solo non basta. In me c’è la con-vinzione che la gestione oculata di una so-cietà – di qualunque società – possaportare buoni risultati, in primis sportivie poi anche economici. Gestire un club hadei costi rilevanti: siamo grati al vecchiopresidente per aver riportato la squadrain Serie B, ma la situazione che abbiamotrovato è disastrata».

Nel nuovo progetto c’è un assioma,ovvero coinvolgere più personepossibili: «Il rugby non è come gli

altri sport… gli incontri internazionali

riescono a coinvolgere il grande pubblico,ma i campionati locali no. Si tratta di unadisciplina complicata da capire, ma lamissione della nuova dirigenza saràquella di riportare gli appassionati a se-guirci dal vivo. Ovviamente per questoscopo saranno necessari dei risultati ma ilproblema della passata gestione, di cui hofatto parte per un breve periodo, era pro-prio quello di non riuscire a coinvolgere lepersone».

A questo proposito, la nuova diri-genza sembra voler ampliare le figure so-cietarie con numerosi referenti, persinotra i tifosi ed i genitori dei piccoli rugby-sti. In fondo, come ci ricorda Alessandro,il rugby si basa proprio sulle relazioniumane: «Lo spirito di gruppo è fonda-mentale quando si tratta di scendere incampo e prendere un sacco di botte!».

Nello specifico, la nuova società haristrutturato il direttivo dividendolo inaree ben definite: la prima squadra, legiovanili (Under 16 ed Under 18), il mi-nirugby (dagli Under 8 agli Under 14) ela club house, il cuore pulsante del centrosportivo che peraltro sforna eccellentipizze fritte e supplì per la gioia dei visi-tatori. Inoltre, al centro del progetto c’èla voglia di rilanciare l’appeal verso ilmovimento: «Noi vogliamo curare gli in-teressi degli atleti e divenire un punto diriferimento per l’Alto Lazio, la Bassa To-scana e l’Umbria: la collocazione geogra-fica ce lo permette e siamo la società piùcredibile dal punto di vista sportivo edistituzionale. Dobbiamo preoccuparci digiocare bene in Serie B e puntare alla SerieA in 4-5 anni, per diventare attraenti agliocchi delle piccole società di provincia edoltre. Con i numeri della prima squadrapossiamo dimostrare come giocare con noipossa rappresentare una possibilità di cre-scita per arrivare più in alto. Noi sfor-niamo talenti e non li fermiamo, se una

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persona può esprimersi deve farlo e perquesto ci occorrono canali preferenzialicon squadre di serie superiori. In cambiodi giocatori con del potenziale chiediamoprincipalmente supporto tecnico. Chi con-tribuisce alla nostra crescita potrà co-glierne i frutti in futuro. Questa è la baseche vogliamo imporre al movimento».

Già in passato il Rugby Viterbo halanciato giocatori arrivati fino alla Na-zionale. Tra gli ultimi citiamo Simon Pi-cone e Riccardo Bocchino, che oragiocano rispettivamente nel Calvisano enella Capitolina, squadre del massimocampionato. Per chiarire meglio le idee,l’Union Rugby Viterbo parte dalla terzaserie nazionale: le categorie superiorisono la Serie A e l’Eccellenza, oltrequeste ci sono poi due franchigie chegiocano in un torneo internazionalechiamato PRO12.

La difficoltà nel reperire risorseumane può frenare la crescita delrugby nei paesi più piccoli, ma il

club sta lavorando anche per questo:«Sono favorevole a creare poli di mini-rugby nei paesi limitrofi, a livello strate-gico sarebbe importante e permetterebbea tanti giovani di avvicinarsi a questosport senza dover venire due pomeriggi asettimana a Viterbo. Inoltre si formerebbeun bacino di utenza a nostro favore, maper farlo occorre che dietro ci sia una so-cietà con le spalle forti. Il rugby non hal’attrattiva del calcio, ma in passato ab-

biamo provato a reclutare nuove leve nellescuole mediante il supporto di alcuni al-lenatori, ed i risultati sono stati positivi.La priorità ora è quella di consolidarsi perpoi avviare progetti come questo».

Dal punto di vista tecnico, c’è qual-che novità che riguarda l’Union RugbyViterbo: «Il direttore tecnico sarà Cri-stiano Notarangelo ed il suo incarico ri-guarda tutti i livelli, dal minirugby agliOld (la formazione degli over, ndr), men-tre il responsabile della prima squadrasarà Marco Lanzi. Il progetto tecnico ri-guarderà i piccoli e i grandi, per dare unaimpronta ed un’idea di gioco univoca.Michele Fabiani invece sarà l'allenatoredella prima squadra, è un tecnico con ot-time credenziali ed esperienze a Roma eCivitavecchia. Per quanto riguarda i gio-catori, l’organico sarà formato dagli ele-menti della passata stagione e da alcuniinnesti che stiamo trattando. Affronte-remo un girone duro, quello del Centro-sud: ci attendono trasferte a Roma, inPuglia ed in Sicilia». Anche la divisa èstata modificata, con il ritorno al tradi-zionale nero-verde in sostituzione delgiallo-blu. Un tocco vintage che rievocaproprio la stagione dell'ultima promo-zione in Serie A2.

La nuova stagione inizierà ad ottobre,ma oltre al campionato l’Union RugbyViterbo organizzerà come di consueto al-cuni eventi paralleli. A fine settembre sisvolgerà il Torneo del Capitano, doppio

memorial dedicato ai giocatori Dome-nico Gasperini ed Eraldo Gabrielli, men-tre ad aprile è previsto il Torneo Cittàdi Viterbo, che ruota attorno al mini-rugby.

Prima di salutare Alessandro, ex-rugbysta, ci tengo a chiedergli cosa si-gnifichi per lui questa nuova avventuranella dirigenza della squadra: «Il rugbyper me è una famiglia. Dopo l’incidentestradale che mi è accaduto ho trovato ungruppo di persone pronte a supportarmied a fidarsi di me. Per me questo è un ri-torno a casa: io e tutta la nuova dirigenzavogliamo dare lustro ad uno degli sportpiù longevi e titolati della città. E non di-mentichiamoci che il rugby è cultura, edesprime il valore della solidarietà umana».

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Mi presento: sono una libreriamolto disordinata, sui miei cin-que ripiani in legno di pino i

libri si accatastano, si stringono, sischiacciano, sgomitano l’un l’altro perfarsi notare e alcuni ci riescono davverobene, quel libro fotografico su Doisneauad esempio è proprio un gran vanitoso,

metterlo, sono una libreria disordinata,confusionaria, impolverata e caotica, manon mi mancano mai nuovi arrivati,nuovi libri da accogliere fra i miei ospiti,libri di cui poter sentire per alcune setti-mane l’odore della carta nuova, fresca distampa, libri di cui poter studiare la co-pertina, il peso, la simpatia.

Oggi quindi debutto su Decartacome la prima libreria che scrivedi se stessa, che racconta dei pro-

pri libri, che non dimentica nemmenoquelli dell’ultimo scaffale e tenta, a fatica,di rendersi simpatica ai lettori, non comealcuni romanzetti fin troppo spocchiosiche si credono romanzi intellettuali,scritti con cura, magari davanti ad unatazza di tè in un elegante chalet, macome quei libri belli, interessanti, nuovied esaltanti, scritti con dedizione, sudoree fatica, scritti da qualcuno che la nottedoveva alzarsi dalle comode e calde co-perte del suo letto per correre a fissare sucarta i suoi pensieri.

Questa prima volta voglio quindiconsigliarvi La verità sul caso HarryQuebert di Joël Dicker, un romanzo di775 pagine (non spaventatevi o “scanta-tevi”, come direbbe Camilleri) che viterrà con il fiato sospeso fino alla fine,che vi farà continuare a sfogliare le suepagine anche mentre cucinate la cena oimboccate vostro figlio con terribilizuppe.

È un abile intreccio di generi e filoniche possono interessare vari tipi di let-tori: è un thriller, un giallo, un romanzod’amore e un utile consigliere per chisogna di scrivere un capolavoro.

con la sua scritta a caratteri cubitali fa ca-dere gli occhi di ogni visitatore occasio-nale su di lui (tirarlo fuori dal ripiano èpoi tutta un’altra storia). Poi ci sono ilibri nascosti, che la mia padrona nean-che ricorda di avere in camera, celati die-tro elastici per capelli ormai esausti ditirare, dietro bracciali, cioccolatini sca-duti, cavi caricabatterie, addirittura die-tro una scatola che anni fa contenevauna macchina fotografica, ma io michiedo, perché tenere quella scatola lì,davanti a capolavori come Il barone ram-pante e Decameron?

L’ultimo ripiano viene da me chia-mato “il cimitero dei libri dimenticati”:(va bene lo ammetto, per questo nomemi sono ispirata a Zafón, d’altronde hotutti i suoi libri sulle spalle e con il tempoho imparato a conoscerli e a sfruttarel’incredibile inventiva dello scrittore spa-gnolo) e vi campeggia in bella vista unaraccolta mai conclusa dell’enciclopediaper ragazzi, libri sulla danza, romanziletti e abbandonati alla sedicesima pa-gina, tomi di esami odiati (storia dellalingua italiana) e qualche trofeo velicovinto (im)meritatamente.

Non sono però di certo qui per farpolemiche sull’ordine e la pulizia tenutidalla mia padrona, la polvere ormai mientra nelle narici ogni volta che lei aprela finestra (anche se effettivamente leinon sa che io possa avere naso, braccia etutto il resto) e il peso da sorreggere co-mincia ad essere un po’ eccessivo; ma pertirare fuori, per quanto sia possibile, ognimese un libro dalla sua strettoia e pre-sentarlo a voi, perché, questo devo am-

carta stampata caos letterario

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Storie di una libreriadisordinataUn omicidio nascosto per trent’anni, un amore impossibilee 31 “semplici” regole per scrivere un capolavoro.

Claudia Paccosi | [email protected]

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Joël DickerLa verità sul caso Harry Quebert

Tit. orig. La Vérité sur l’Affaire Harry QuebertTraduzione di Vincenzo VegaBompiani, 2013pagine 775 - euro 19,50

Nola è la vittima della storia tessutada Dicker, è una ragazzina, forse ancorauna bambina, che all'età di quindici anniscompare misteriosamente e trenta annidopo viene ritrovata morta, seppellita inun giardino; Harry è lo scrittore più fa-moso d’America, con Le origini del maleha raggiunto l’apice della sua carriera,ma forse anche l’abisso più profondodella sua vita, Marcus è invece il narra-tore della vicenda, del mistero, dell’abileintreccio di bugie e finzioni creato daipersonaggi, che cerca una soluzione, nonsolo per il caso, ma anche per la sua vita:vuole scrivere un capolavoro e verrà aiu-tato dalle 31 regole che Harry dispensa alui e a noi nel corso del romanzo.

Si tratta di un romanzo interessante,a mio parere differente, lo scrittoreè inoltre molto giovane e in Fran-

cia, prima nazione in cui è stato pubbli-cato, ha ottenuto il Grand Prix du romande l’Acadèmie Française nel 2012 ed è incorso di traduzione in oltre 25 paesi.

E dato che io sono una libreria che dà

molta fiducia ai giovani non posso checonsigliarvi un romanzo di un ragazzodi 27 anni, un romanzo meditato, stu-diato, ma anche d’impulso, scorrevole ericco di colpi di scena.

Joël inoltre non può che lasciarsiamare, farvi scorrere il sangue sotto pellerapidamente fino a raggiungere il cuorecon una piccola e piacevole emozione,quando conclude il suo grande romanzocon queste parole: “Un bel libro, Marcus,non si valuta solo per le sue ultime pa-role, bensì sull’effetto cumulativo di tuttele parole che le hanno precedute. All’in-circa mezzo secondo dopo aver finito iltuo libro, dopo averne letto l’ultima pa-rola, il lettore deve sentirsi pervaso daun’emozione potente; per un istante,deve pensare soltanto a tutte le cose cheha appena letto, riguardare la copertina esorridere con una punta di tristezza, per-ché sente che quei personaggi gli man-cheranno. Un bel libro, Marcus, è unlibro che dispiace aver finito.”

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nota bene incontri

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Al di là del ParadossoIntervista ad un trio di viterbesi Honoris Causa.Gabriele Ludovici | [email protected] - Foto di Alberto Scaglietta

Il cosiddetto mainstream, inglesismoche indica tutto ciò che fa parte della“cultura di successo”, pervade gran

parte della nostra esperienza culturale: ilcirco mediatico detta senza appello leleggi di ciò che deve piacere o non puòpiacere. Eppure, lontano dai singultidello show-business (altro pedante ingle-sismo), può capitare che tre amiche ed excompagne universitarie incappino in unpomeriggio di noia, decidendo di creareuna band musicale pur non avendo si-gnificative esperienze alle spalle. Puòanche capitare che sempre più personeascoltino i loro brani, rimanendo colpitida attributi che ormai non vengono piùassociati alle canzoni: originalità, ironiae genuinità. Il gioco è fatto: nel giro dipochi mesi le Tuttattaccate diventanouna realtà apprezzata in tutta Viterbo enon solo, attraverso quello che lorostesse definiscono cantautorato paesisticoeclettico (approfondiremo).

Con Emilia Olivieri a Brighton permotivi di lavoro, ho l’occasione di inter-vistare Barbara Ruggiero e FrancescaOcchiogrosso. La prima cosa che mi in-curiosisce è la nascita del loro progetto:«Era l’8 Marzo del 2011 e a Roma si te-neva unamanifestazione per i diritti delledonne… tuttavia ci stavamo annoiando,così decidemmo di andarcene a bere unabirra. Proprio in quell’occasione but-tammo giù il testo di una canzone che poiregistrammo a casa di Barbara ed Emi-lia». Il pezzo in questione è Bluescarano,un omaggio ad un quartiere storico vi-terbese: «Per noi Pianoscarano è impor-tante, rappresenta paradossalmente unafuga verso qualcosa di intimo. Se Viterboè una città a dimensione umana, Piano-scarano lo è ancora di più e questo ci piacemolto, a partire dalla classica vecchiettaaffacciata alla finestra. Dopo aver incisoil pezzo sul computer, ci siamo riascoltate

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esclamando: “Hei, ma siamo davveronoi?”. I nostri amici hanno subito ap-prezzato e per loro Bluescarano era di-ventato quasi una mania. Per noi invece,da quel momento vederci tutte le dome-niche e suonare è diventata un’esigenza, aprescindere dai nostri impegni di lavoro».Inventano anche un linguaggio tutto loroper comunicare durante la composizionedei brani, che avviene sempre all’uni-sono: da questo deriva il nome del trio.

L’originalità e la ricerca di un lin-guaggio legato al territorio viterbesesono fattori che contraddistinguono iloro brani. Emilia è di Vitorchiano, Bar-bara e Francesca sono rispettivamente diToro e Bari, ma trovano subito il bandolodella matassa: «Noi cerchiamo di descri-vere il vissuto quotidiano in chiave viter-bese, come ad esempio abbiamo fatto inFranz citando il famoso detto “il lago diVico ogni anno si fa un amico”. Il nostroè un cantautorato paesistico eclettico; can-tautorato perché i brani sono nostri, pae-sistico perché descriviamo situazioni eluoghi, ed infine eclettico in quanto tutte etre abbiamo una formazione musicale dif-ferente… anche se abbiamo iniziato can-ticchiando sotto la doccia!». La loro è unascelta che rispecchia il forte legame conViterbo. Il loro primo vero live avvienein occasione di un evento di beneficenzaal Razzmatazz di Roma. «Non ci aspetta-vamo un’accoglienza così positiva, la genteriempì i pullman per arrivare da Vi-terbo!» rivela Barbara.

La volontà di espandersi arriva benpresto: «Sul sito Bandcamp abbiamopubblicato due EP (L’anno ventuno e

Faccallo perché, ndr) e tramite internetsiamo entrate in contatto con una radio

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cate sono coinvolte in due progetti tra-sversali. Attraverso un consorzio diaziende agricole è nato il progetto Le fat-torie vanno in città, da cui è scaturito unbrano in cui il trio ha collaborato con deibambini. Inoltre, le Tuttattaccate hannoattirato l’attenzione dei Poeti della TusciaDialettale, con cui è in fase di lavora-zione una rilettura delle poesie viterbesiin chiave musicale. A coronamento diquesto periodo, dopo Santa Rosa – «per-ché a Viterbo tutto riparte dopo SantaRosa!» – uscirà il loro primo ed atteso cd,intitolato Biulle: «“Biulle” in viterbese in-dica la camminata barcollante o l’impen-nata col motorino, ed è anche un branoche si potrà ascoltare… nel nostro secondodisco! In questo ci sono delle collabora-zioni con alcuni artisti viterbesi, mentreper il prossimo coinvolgeremo un soggettoimportantissimo che ora abita a Firenze».

L’immediato futuro prevede qualchenuova serata: «Ci esibiremo il 6 settembrenel castello di Roccalvecce ed il 12 all’Ar-chea Brewery di Firenze. Quando Emiliatornerà qui però sarà anche il momentodi tornare a frequentare i laghi ed il mareper scrivere pezzi nuovi».

L’intervista si conclude e rimangocon loro ancora qualche minuto, a finireil bicchiere di Falanghina e a parlare dicome Viterbo sia in grado di conquistarele persone grazie al proprio – a volte in-consapevole – fascino della semplicità.Una semplicità che rende il quotidianouno spunto perfetto per tre fije con tantavoglia di suonare e raccontare.

milanese (latrasmissione.eu, ndr) che ciha persino proposto di usare i nostri branicome jingle. Grazie a loro partecipammoad un raduno in un locale di Roma, in cuisi leggevano brani tratti da riviste indi-pendenti e noi suonavamo negli intervalli.Dopo esserci esibite a Viterbo e provincia,dove siamo state sempre accolte bene no-nostante non ci conoscessero, avevamo inprogramma un piccolo tour nel Nord Ita-lia che purtroppo ci tocca rimandare acausa degli impegni di Emilia». L’annoscorso le Tuttattaccate hanno ancheaperto la serata di Alessandro Manna-rino durante Caffeina, ottenendo un ot-timo riscontro ed un momento daricordare.

Capire cosa c’è alla base del loro suc-cesso non è difficile: «I nostri brani sonoironici e leggeri, ma anche profondi vistoche cerchiamo di sdrammatizzare la con-dizione di precarietà che in tanti vivono.C’è bisogno di musica più autentica, il pa-norama italiano è piatto e non c’è nessunoche metta in gioco la propria identità…eppure tutti sentono l’esigenza di ascoltarequalcosa di vero, concreto e tangibile, chefaccia parte della realtà. Inoltre cerchiamodi far scaturire la curiosità verso questaterra, l’ente del turismo dovrebbe pa-garci!».

Il loro eclettico repertorio piace ad unpubblico di tutte le età: si passa da unastoria d’amore rivissuta attraverso la

raccolta differenziata (Decoro urbano)all’ipocondria verso i medicinali (Bu-giardino). Anche per questo le Tuttattac-

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Alcuni di voi lettori in terra viter-bese forse mi conoscono già, altriforse no, in ogni caso mi presento:

mi chiamo Lorenzo, sono nato a Viterboin una fredda notte di ottobre del 1987, esempre a Viterbo ho passato i miei primi23 anni di vita.

Mio padre fu il batterista del primocomplesso beat della Tuscia, e in queimagici anni settanta in cui tanti giovanientusiasti mettevano su una radio libera,insieme a mia madre fondò Radio Verde,tuttora baluardo storico della radiofoniaviterbese; con dei trascorsi familiari così,era inevitabile che io venissi svezzato alatte e rock’n’roll, e che la musica finisseper diventare la mia grande passione.

A otto anni mi misero davanti a unpianoforte, con scarsi risultati, lo stru-mento non mi era proprio congeniale;ero assai più affascinato dalla chitarra,ma mi ripromisi di iniziare a studiarla adieci anni. Così fu, e da allora non misono fermato.

Poco dopo vennero le prime espe-rienze live, prima affiancando la bluesband di mio padre, poi con le primeband mie, tra cui la prima storica incar-nazione dei Rifflessi e soprattutto i Fun-ktion.

Tanti anni di concerti, registrazioni,soddisfazioni, anche qualche prima col-laborazione come session-man, ma qual-cosa ancora non mi sfaciolava, come sisuol dire dalle nostre parti.

Fu così che, alla fine del 2010, presila decisione di trasferirmi in Inghilterradall’inizio dell'anno successivo, per con-tinuare a studiare musica, e di rimanerelì per costruirmi una nuova vita e por-tare avanti la mia passione.

Perché sono arrivato a ciò? È stato fa-

dere una serata in un locale, di cui nonfarò nome, il cui capoccia mi consigliòdi tornare dopo una settimana con demoe rassegna stampa. Così feci, e dopo unasettimana esatta arrivai con il mio belportfolio sottobraccio… trovando il lo-cale chiuso. Per sempre.

Arrivati al 2010, le speranze per ungiovane musicista viterbese di trovaretante opportunità e tanti posti per potersuonare erano ai minimi storici, spaziquasi zero, eccettuando forse qualchesagra (dove a una band di quattro-cin-que elementi tendenzialmente si preferi-sce un DJ o un pianobarista che costanomeno e creano meno rogne) oppure lerare manifestazioni estive (God saveCaffeina!!!)

Viterbo versava in condizioni al-quanto squallide, insomma, ma nem-meno nelle restanti regioni d’Italia si erada meno, sia per risicare una serata intrasferta, che un qualche contatto con ilvero business musicale, ci si scontravacon ciò che dovrebbe essere il vero testodel primo articolo della nostra Costitu-zione: “l’Italia è una repubblica fondatasulla zeppa e sull’aggancio politico”.

Il nostro bello stivalotto, che untempo fu culla di tanti grandi artisti, nonsolo musicisti, ma anche poeti, scrittori,attori e quant’altro, sembrava voler rin-negare quel suo glorioso passato, la pro-mozione delle arti in genere non era alivelli eccezionali, ma soprattutto per imusicisti la situazione era scoraggianteanziché no.

Mi ero appena laureato e avevo bi-sogno di fare un’esperienza dav-vero nuova e di inserirmi in un

ambiente con molti veri sbocchi, e l’oc-casione mi arrivò sottoforma di corso di

cile? È davvero la scelta migliore da fare?A questi e tanti altri interrogativi

darò la mia personale risposta, da que-sto numero in poi, raccontandovi tuttociò che ho imparato finora, ma anche ciòche devo imparare ancora, sull’essere unmusicista italiano emigrato nell’algidaAlbione. Ma per iniziare, parlerò dicome tutto ebbe inizio.

Vorrei tracciare brevemente un qua-dro socio-economico (a dire cosìrisorgono antiche memorie dei

miei libri di geografia dove ogni santopaese era specializzato nella coltivazionedi patate e cereali… ma non diva-ghiamo!) di Viterbo quando l’ho lasciata:essere musicista a Viterbo stava diven-tando sempre più difficile, un tempoc’era un fottìo di locali dove si poteva tro-vare musica live, ma già da metà deglianni Duemila, pian piano sparivano, o allimite diventavano pizzerie, o peggio an-cora, Dio ce ne scampi e gamberetti, cipiazzavano un distributore di bibite o uncompro-oro o un kebabbaro…

Ricordo ancora quando andai a chie-

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nota bene inside

Prima puntata (as it began)Ed eccoci qua… appena nato, Decarta già si fa internazionale e accogliele confessioni e riflessioni di un musicista emigrato.

Lorenzo Rutili

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master in performance musicale allaAcademy of Contemporary Music diGuildford.

Naturalmente, non fu facile convin-cere i miei genitori a farmi prendere que-sta strada, ma d’altronde è fisiologico, perun genitore l’idea di avere un figlio nonsolo lontano da casa, ma in un’altra na-zione, non è certo di pronta digestione.

Tuttavia, potetti contare sull’appog-gio dei miei amici musicisti, compresi irestanti Funktion, che fu una sofferenzadover lasciare dopo sei anni di attività esoddisfazioni, ma che sapevano che a Vi-terbo come in tutt’Italia la situazione eraquel che era e quindi mi spronavano apuntare verso l’Inghilterra, e sull’appog-gio di una delle mie due sorelle, che inInghilterra ci vive ormai da 18 anni e saquanto sia diverso l’andazzo da quelleparti.

Così, dai che ti ridai, convinsi i mieigenitori ad aiutarmi finanziariamente el’8 gennaio 2011, data per me fatidicapoiché collegata a un mio vecchio exploitdi Youtube (cercate Esce ma non mi ro-sica e capirete di cosa parlo…) arrivai interra britannica, trovando dopo pochis-simi giorni un appartamento condivisocon altri studenti, dove rimasi fino adagosto.

Fu un’esperienza che mi aprì gliocchi su molte cose, carica di gioie,dolori, inquilini rompiballe, ispira-

zioni creative, e così via. Dopodiché, altermine del corso e del contratto dell’ap-partamento, tornai in Italia per l’estate edecisi di ripartire a settembre per stabi-

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dare origine a quella che è la mia attualeband, i Nevertones, con cui iniziai a re-gistrare demo e fare concerti, arrivandoal primo contratto con una piccola eti-chetta e a suonare in svariate occasioni,senza dimenticare tante serate, final-mente, nella tanto agognata Londra.

Ma vivere di sola musica è difficile,quasi impossibile, il vecchioluogo comune che alla frase

“faccio il musicista” vuole come risposta“sì ma di lavoro cosa fai?” rimane unatriste realtà e anche in Inghilterra trovareun lavoro non è cosa facilissima, ma qual-che possibilità c’è, ed è così che all’attivitàmusicale sono riuscito infine ad affian-care un lavoro come magazziniere in unsupermercato, a due passi da dove vivo.

Non sarà il più nobile dei lavori, maè pur sempre un lavoro, e ciò che è piùimportante, porta a casa una discretacifra che mi permette di continuare a so-pravvivere… in attesa di trovare qual-cosa di meglio.

Trovare una serata pagata è estrema-mente difficile se fai parte di una bandemergente che suona pezzi propri, certoè che di spazi dove esibirsi ce ne sono anon finire e così anche di possibilità difarsi notare, ma non mancano le ordalieda affrontare, i prezzi da pagare (a volteletteralmente!) e i tanti episodi assurdi incui ci si può trovare per poter continuarea seguire il proprio sogno.

Ma avrò modo di continuare a par-larne… alla prossima puntata e KEEPROCKIN’!

lirmi fisso in UK. Ancora una volta, miasorella appoggiava la scelta, così cometanti miei amici, ma di nuovo la cara vec-chia sindrome del nido vuoto colpì i mieigenitori. Ma ripeto, tutto ciò è perfetta-mente normale, alla fine si trova sempreun compromesso giusto, che nel miocaso fu quello di partire con un budgetdi tremila sterline fornite dai miei, dasfruttare con parsimonia mentre entroun termine ultimo di tre mesi mi sareicercato un lavoro fisso.

Funzionò su tutti i punti, tranne chesu quello del lavoro, dove dovetti aspet-tare un po’ di più e passare per svariatilavori a tempo determinato, che però misono serviti sia a integrare il gruzzolettoe a farlo durare di più, sia a formare uncurriculum di esperienze lavorative.

Inoltre, aspiravo a stabilirmi a Londra,ma avevo fatto i conti senza l’oste, non sa-pevo quanto sarebbe stato costoso, equanto il mito di Londra come metaideale per chi vuole fare il musicista sia unmito da sfatare sotto tanti punti di vista.

Così rimasi a Bracknell, nel Ber-kshire, dove tuttora mi trovo, eoltre a cercare lavoro iniziai a fare

il giro dei locali della zona dove si face-vano i cosiddetti “open mic”, ossia seratein cui chiunque può presentarsi e suo-nare quel che più gli piace. Tali seratesono ben più di una semplice jam ses-sion, non ci sono limiti stilistici e dannol’opportunità di stringere contatti conaltri musicisti.

Fu proprio una di queste serate a

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Per un cittadino di un piccolo cen-tro abitato la grande città conservail suo fascino, saranno le grandi in-

frastrutture o semplicemente perché inquanto ad attività si ha a disposizioneun'offerta molto più ampia. La fuga dallegrandi metropoli sembra però far inten-dere che più andremo avanti negli annipiù verranno rivalorizzati i piccoli cen-tri abitati, intimi, a misura d’uomo.

Il Bolsena Photo Festival ha origineproprio in un piccolo centro abitato, maè proprio nei limiti spaziali che si puòtrovare la sua forza. È un dato di fatto,nel centro di Bolsena è pressoché im-possibile perdersi e nel giro di poche oresi ha la piacevole sensazione di trovarsiin un luogo familiare. Se uniamo al tuttola bellezza intrinseca del posto e delle at-tività commerciali gestite da persone in-telligenti, capiamo perché negli anni èdiventata meta fissa di molti turisti pro-

portanti della fotografia professionaleitaliana.

Sempre come in un mondo idealeanche le attività commerciali hanno sa-puto cogliere la bontà dell’evento met-tendo a disposizione i propri spazi perpiccole mostre fotografiche. Grazie aquesto pacifico spirito di iniziativa sonostate messe da parte anche le tipicheguerre all’italiana tra associazioni ed or-ganizzazioni che operano in uno stessoluogo.

Non solo pace, ma addirittura alle-anza, questo è stato il primo anno diTemp’Estiva, un festival della culturache ha riunito sotto un unico nome ilBolsena Photo Festival, il Lacuaria Bol-sena Musica Festival, la rassegna di ci-nema ISM, Immagini dal sud delmondo, le presentazioni di libri del ClubUnesco di Viterbo, la mostra mercato diprodotti agroalimentari Di Tuscia unpo’ e 15 ore Sotto Sante ovvero un’interagiornata dedicata al benessere.

venienti dal nord Europa. Basta aggiun-gere alla ricetta un altro ingredientecome una buona organizzazione e di-venta facile capire anche perché alla se-conda edizione il Bolsena Photo Festivalha l’aspetto di un evento già ben avviato.

Le menti di questo ciclo di esposi-zioni, incontri e workshop sono Valen-tina Burla e Francesca Adami, dueragazze che in barba alle fughe di cervellihanno deciso di usare le loro capacitàper creare qualcosa per il luogo dovesono cresciute.

Come in un mondo ideale il clima diamicizia all’interno dell’organizza-zione è di immediata percezione,

tutte quante le collaborazioni prima ditutto sembrano essere mosse da questanobile causa, da citare fra tutti il foto-grafo Gianni Mercuri, il quale è riuscitoa radunare per l’occasione vari nomi im-

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eventi report

Come in un mondo idealeBolsena in dieci giorni di organizzazione e di amicizia.Manuel Gabrielli | [email protected]

Quando questo numero di Decarta verrà distribuito il Bolsena Photo Festival e Temp’Estivasaranno già conclusi, ugualmente abbiamo ritenuto giusto dare spazio a queste due realtà

per un senso di vicinanza ad altre iniziative giovani come la nostra.

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In questo momento, mentre sto scri-vendo mi posso definire soddisfattodella giornata, il tutto nonostante un

po’ di stanchezza. Sono contento di avercolto un’occasione al volo, perché incon-trare Tano D’Amico è stato per metà uncaso. È vero che il 24 agosto mi trovavoa Bolsena proprio per il Photo Festival,ma è anche vero che verso l’ora di pranzomi stavo incamminando verso casa. Poiincrociando un indaffarato Gianni Mer-curi mi unisco a lui nell’aspettare l’ospitedella giornata.

Mi vorrei soffermare sugli attimi chesi sono succeduti dopo che ho stretto lamano a Tano D’Amico; infatti quasi nel-l’immediato ho sentito lo stesso sconsi-gliare ad una mia amica l’idea di unaprofessione nel mondo della fotografia:“sei ancora in tempo per scegliere unmestiere per bene” e quindi sono pron-tamente intervenuto: “scusi, ma se po-tesse tornare indietro, lei non rifarebbele stesse cose?”, altrettanto prontamentemi sono sentito rispondere un probabilesì, ma un sicuro no nel caso avesse do-vuto prendere questa decisione nel pre-sente.

A seguito di questa risposta cosìscarna ho scoperto essere numerose edinteressanti le motivazioni di Tano. Du-rante il pranzo il destino voleva sedutodall’altra parte del tavolo anche SandroMengoni, altro fotografo ospite a Bol-sena e per questioni anagrafiche anchespettatore in prima persona di quell’Ita-lia immortalata negli scatti del D’Amicoreporter. Se in un primo momento avevopensato ad un’intervista, dopo averascoltato attentamente le loro conversa-zioni ho deciso che mi sarei trattenutonon solo a pranzo, ma anche all’incontrodelle 18, durante il quale ero sicuro lamia domanda avrebbe ricevuto risposteche non avrebbero necessitato di altre

DECARTA SETTEMBRE 2013

sullo sfondo, diventavano subito piùcomprensibili anche i discorsi che avve-nivano sul palco. Contesti, sguardi dipersone spesso ignare di essere rimastecatturate in un momento, rappresentanoun tipo di fotografia che nella suasemplicità lascia spazio alla fantasia,immagini che vivono anche grazieall’osservatore.

È con questa concezione della foto-grafia che diventa comprensibileperché per un reporter di fine anni

’60 è improponibile l’idea di accettare dilavorare come professionista al giornod’oggi. È cambiato un intero contesto, inpassato vedersi un lavoro rifiutato dauna rivista significava avere altre 50porte a cui bussare. Oggi la stampa na-zionale con il potere di acquisto è inmano a poche persone, la concorrenzaobbliga chi vuole tentare la via profes-sionale a piegarsi al volere dei potenti,obbliga a creare delle immagini che im-pongano un messaggio.

Le parole di Tano D’Amico fanno ri-flettere sulla qualità di ciò che ci vienepropinato ogni giorno dai mezzi di co-municazione, una quantità di immaginiomologate, disumanizzate, di realtà chenon ci somigliano e che quindi apparen-temente non ci riguardano. Non fannoimpressione, non commuovono le im-magini delle stragi o di un pestaggio inpiazza, perché sono incomplete, man-cano i contesti, tutto per volere di un po-tere che vuole appiattite le coscienze.

È stato un incontro che ha risvegliatoqualcosa in me, adesso ho una rispostaall'insensibilità che provo davanti ad untelegiornale o mentre leggo un quoti-diano, ho la coscienza per cercare altreimmagini, perché adesso ho qualcosa inpiù da cercare.

spiegazioni. Con una apprezzabile pun-tualità l’incontro è iniziato alle 18 nel-l’intimo Teatro Piccolo Cavour diBolsena, gli altri due interlocutori sonostati Luciano Zuccaccia e RomualdoLuzi, mentre a fare da sfondo le proie-zioni di alcuni scatti del reporter daglianni ’70 ai primi 2000.

La prima domanda, genitrice anchedi tutte le altre, è di rito “come è comin-ciato tutto?”. Ho potuto immaginare ilgiovane Tano D’Amico, insieme ad altrireporter dell’epoca, dare l’inizio attra-verso un nuovo modo di intendere la fo-tografia e nuovi formati ad una nuovacorrente del reportage fotografico. Pertutta la durata dell’incontro è trasparito ilmomento storico nel quale un uomosolo, attraverso una macchina fotogra-fica, poteva cambiare il modo di pensaredi un paese.

Mentre si alternavano le immagini

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eventi incontri

Incontro con Tano D’AmicoUna grande fede nelle immagini.Manuel Gabrielli

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