Cultura Commestibile 111

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N° 1 11 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia W la FCA “Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne” Matteo Renzi

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N° 111

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

W la FCA

“Sono gasatissimo dai progetti di Marchionne”Matteo Renzi

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Da nonsaltare

interrogare i dati statistici è sempre complesso perché non è mai una operazione

neutrale: si cercano conferme a tesi che si hanno in mente oppure si estrapolano risposte a domande che invece l’elabora-tore statistico non aveva posto. Appena pubblicato il rapporto annuario dell’Istat 2015, “Noi Italia”, può essere utile un primo sommario confronto fra i dati relativi al comparto “cul-tura” dell’anno 2014 con quelli dell’anno precedente (anche se, occorre precisare, l’annuario 2014 è molto più articolato del rapporto “Noi Italia” 2015 e quindi solo in alcuni punti comparabile).La prima “notizia” è che, con 38 milioni di visitatori nel 2013, i musei, monumenti e aree archeologiche continuano a “tirare”. Infatti, nel nuovo rapporto 2015 relativo ai dati del 2014, segnala che aumenta-no i visitatori rispetto al 2013 passando dal 25,9%% al 27,9% degli italiani che ne hanno visitato almeno uno nell’anno di riferimento. Stesso trend di aumento per siti archeologici e monumenti: dal 20,7% al 21,9%. Ma di quali musei stiamo parlando? Soltanto dei musei statali: 431 in Italia (in calo dello 0,5 rispetto al 2012) che però sono solo un decimo di tutti i musei italiani. Nel 2011, secondo una ricerca del Mibact e delle Regioni italiane, i musei erano 4.588, fra pubblici e pri-vati. E’ pur vero che gli statali attraggono il 40% degli ingressi registrati, ma se volessimo sapere quale sia l’atteggiamento degli italiani verso questi beni culturali o, ancora più difficile, qual è il loro stato di salute dovremmo comprendere gli altri 9/10 dei musei italiani nell’indagine. Non è impossi-bile: Regione Toscana pubblica ogni anno un Rapporto sui Musei della Toscana (www.regione.toscana.it/documen-ts/10180/320308/Rapporto+-Musei+2014) che offre dati molto articolati sull’insieme degli istituti museali toscani.

Musei, perconservareo per educare

di BarBara Setti e Simone Silianitwitter @[email protected]

Nella settima edizione da poco online, il Rapporto propone anche un focus su alcune buone pratiche, come la relazione sulla soddisfazione del pubblico del Museo “Enrico Caruso” di Lastra a Signa (una campagna di ascolto dei visitatori che evidenzia un’area della soddi-sfazione per l’esperienza della visita nel suo complesso molto ampia); il Museo della Città e del Territorio di Monsummano Terme (una innovativa tipologia di eco-museo, che nel maggio 2001 ha ottenuto un ambito riconoscimento internazionale da parte dell’European Museum Forum); l’analisi di customer satisfaction dei visitatori dei musei di Massa Marittima. Questo per dire che è possibile una indagine più completa dei musei italiani e anche, che è la cosa forse più importante, di come i visitatori li vivono. Infatti, uno dei dati che più ci hanno colpito fra quelli com-presi nell’Annuario ISTAT è il dato sui giovani. E’ in queste fasce d’età che si registrano il maggior numero di visitatori: sono i ragazzi di 11-14 anni che più visitano mostre e musei (46,8%) e i ragazzi di 18-19 anni che visitano monumenti e aree archeologiche (30,6%). Ma poi, quando andiamo a vedere l’assiduità, cioè quante volte si recano in questi luoghi di cultura, oltre l’80% di chi ha meno di 15 anni ha dichia-rato l’affluenza più bassa. Se possiamo tradurre questo dato in termini crudi, i giovani che entrano di più nei musei, dopo la prima visita difficilmente tornano in un altro museo. E, ovviamente, perché visitano il museo portati dalla scuola e poi non ci tornano più. Problema che dovrebbe preoccupare gli operatori della scuola, oltre che, ovviamente, i curatori muse-ali, piuttosto che gli statistici. Può essere che i musei statali italiani siano concepiti - nel loro allestimento, negli apparati e nella loro stessa concezione museologica – come musei per conservare opere invece che per offrire una esperienza educativa, sociale ed estetica attraente, coinvolgente, appassionante? Noi crediamo proprio di sì. Più volte in questa sede ne abbiamo parlato, recensendo musei pieni ?

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Da nonsaltare

di straordinarie opere d’arte ma completamente incapaci di offrirsi all’attenzione, all’interes-se dei visitatori, in particolare quelli giovani. Sarebbe questo il tempo della qualità piuttosto che della quantità, del rinnova-mento della concezione stessa dei musei piuttosto che della loro redditività economica. Insomma, basta retorica sul nostro petrolio, sulle classifiche in cui l’Italia figura al top per la percentuale di beni culturali detenuti, sul record di affluenza di visitatori ai musei nelle feste comandate: diteci piuttosto come escono i visitatori dai nostri musei. Si sentono di aver imparato qualcosa, oppure si accontentano di riportare a casa il selfie con sullo sfondo il David? Hanno voglia di andare a visitare un altro museo dopo l’imprescindibile (e forse delu-dente) visita agli Uffizi, oppure penseranno che visto uno li hai visti tutti? Questi sono i proble-mi che Ministri, curatori, storici dell’arte, media dovrebbero affrontare, concretamente.Non molto diverso è il pro-blema che emerge dall’osser-vazione dei dati statistici sulle biblioteche che, però, troviamo solo nell’annuario 2014. Anche in questo caso si ha il sospet-to (perché il dato non è reso esplicito) che si parli di biblio-teche e archivi di competenza statale: le biblioteche pubbliche e private censite dall’Annuario 2014 sono 12.936 (21,5 unità ogni 100.000 abitanti) e dob-biamo immaginare che vi siano comprese anche le biblioteche di pubblica lettura dei Comuni. Mentre gli archivi considerati sono solo gli Archivi di Stato (101 in tutto) che nel 2012, hanno consentito l’accesso ai materiali e ricerche a circa 282.000 utenti, poco meno di 2.800 per istituto: veramente un’inezia, ma il dato è poco significativo perché, se consi-derassimo correttamente gli archivi storici dei Comuni e gli archivi di fondazioni, associa-zioni e privati, sicuramente avremmo una percezione più realistica del patrimonio, della sua capacità di attrarre pubblico e del significato culturale, ma anche economico e sociale degli archivi italiani. I dati che ci restituisce l’Annua-

Intervista a Izzedin Elzirpresidente dell’Ucoi

con la media nazionale: nel Piemonte 75.500 visitatori e poco meno nella Lombardia, in Toscana e Lazio il nume-ro medio degli utenti delle biblioteche statali è fra i 31 e i 33 mila. Cosa che, a nostro av-viso, pone una questione quasi “ontologica” alle biblioteche statali del Centro: come quelle di Lombardia e Piemonte, anche queste sono biblioteche di conservazione (e fra queste vi sono le due biblioteche naziona-li), ma quelle del nord svolgono anche una funzione di apertura al pubblico, mentre al centro questa funzione è evidente-mente posta in secondo piano. Resta, comunque, un problema di efficienza nella gestione di queste biblioteche statali.Sì, perché anche alle biblioteche statali, oltre soprattutto a quelle di pubblica lettura dei Comuni, spetta contribuire ad alimentare l’interesse per la lettura negli italiani. Che dall’Annuario ISTAT risulta essere ancora in calo: nel 2014 solo il 41,4% degli italiani da 6 anni in su hanno letto libri per motivi non strettamente scolastici o profes-sionali. Meglio le donne degli uomini (il 48% contro il 34,5% degli uomini), ma soprattutto meglio i giovani: il 53,5% degli 11-14enni e oltre il 51% dei 15-19enni. Diminuiscono i let-tori deboli e restano stazionari quelli forti (che leggono almeno 12 libri l’anno), fatto ancor più preoccupante. Si legge di più nelle aree metropolitane (50,8% e tra questi si registra la quota più elevata di lettori “forti” con il 17,9%): è evidente che questo è legato alla maggiore presenza in queste aree di biblioteche e di librerie (che, curiosamente, non sono considerate e censite dall’I-STAT nella sezione “cultura”). Non pare che nella valutazione dell’ISTAT siano presi in consi-derazione i lettori su ebook e in-ternet, cosa che invece avrebbe un senso dal momento che l’Annuario si sofferma anche sul calo dei lettori di quotidiani che potrebbero essere passati alla lettura su supporto digitale. Il punto è che il generale calo di lettori è assolutamente coerente con la mancanza di una strate-gia di sostegno alla lettura da parte del governo che riguarda le biblioteche come le librerie.

rio ISTAT su biblioteche e ar-chivi ci parlano di una diseguale distribuzione degli stessi nelle varie regioni italiane (di più al Centro e al Nord, di meno al Sud, con l’eccezione della Sar-degna): nelle regioni del Nord, dove insistono complessivamen-te 6.417 biblioteche, il rapporto tra il numero di strutture e gli abitanti è pari a 23 ogni 100 mila abitanti, nel Sud, invece,

con 3.748 biblioteche il rap-porto scende a 17 istituti ogni 100 mila abitanti. E questa non ci pare una novità. Tuttavia è significativo, invece, che mentre nel Centro insistono 22 delle 46 biblioteche statali considerate nell’Annuario, sono le statali del Piemonte e della Lombardia che hanno il maggiore successo di pubblico mentre quelle di Toscana e Lazio sono in linea

Un paiodi riflessionisu rapportoIstat 2014

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riunione

difamiglia

Vicenda spinosa quella dei vitalizi dei Consiglieri Regionali: un sistema che consente, con pochi anni di versamenti, di godersi una buona pensione a spese delle finanze regio-nali, avvertito dai più come un in-sopportabile privilegio. Tanto che è in corso un ripensamento in più regioni, soprattutto in vista delle elezioni. Così in Toscana dove, dopo la rinun-cia al vitalizio da parte di alcuni consiglieri è in atto una discussione e molti spingono in questa direzione. Ma, paladino senza macchia e senza paura del vitalizio si erge su tutti, con il suo petto poderoso e intre-pido, il nostro Eugenio Giani. Al gruppo consiliare in Regione hanno cercato di spiegargli che, per dare un “segnale politico”, sarebbe opportuno

“rinunciare” al vitalizio. Ma lui non ha inteso. In senso letterale, non ha capito la frase: il verbo “rinunciare” non è nel suo vocabolario. E lo ha spiegato in una intervista al Corriere Fiorentino del 18 febbraio scorso: “Faccio politica da quando avevo 31 anni... con un impegno praticamente di 24 ore su 24; ho 56 anni... e quando arriverò a 65 anni incasserò 1.300 euro lordi.... La parola rinun-cia non è corretta”. Eugenio vuol dire proprio questo: la parola “rinuncia” lui non la capisce. Cosa vuol dire? Assolutamente niente per uno che non rinuncia ad una carica da decenni e infatti ne cumula a decine. Tanto che neppure Renzi è riuscito a fargli “rinunciare” alla candidatura

in Regione in cambio della pro-messa della presidenza del Credito Sportivo. Al gruppo PD in Regione, per superare questo gap linguistico, gli hanno organizzato un incontro finanche con il Presidente dell’Acca-demia della Crusca, prof. Claudio Marazzini: dal tête-à-tête durato un’ora, non solo non ne è uscito un Giani acquisito alla causa “rinun-ciataria”, ma addirittura il nostro Eugenione ha formalmente avanzato la sua candidatura alla presidenza della prestigiosa Accademia. Non c’è niente da fare, Giani non rinuncia... anche perché quando avrà 65 anni lui sarà ancora lì, seduto in Consiglio Regionale, oltre che naturalmente all’Accademia della Crusca.

Da ladylike a cowlike pare essere questa la strategia degli spin di Alessandra Moretti, la bella candidata alla pre-sidenza della regione Veneto per il PD. Una campagna elettorale calata prepotentemente nel territorio quella della Moretti passata dagli studi televi-sivi, dove pareva aver preso residenza, a un giro ossessivo di mercati, aziende e comizi. Molto coraggiosamente e coerentemente Moretti ha presentato le proprie dimissioni da Europarla-mentare e, dice lei “ correrà senza paracadute” cosa che, visti i sondaggi

che danno in vantaggio il leghista Zaia, le sarebbe forse servito. Pare infatti che il cambio di strategia della Moretti sia proprio conseguenza di sondaggi che la danno indietro sempre e comunque al presidente in carica. Un cambio di strategia per avvicinarla all’elettorato e, malignamente, allontanarla da qualsi-

asi contentuto e confronto. Basta infatti seguire il profilo twitter della candidata per accorgersi che oltre a scomparire dai media nazionali sono scomparsi qualsiasi accenni a temi, proposte e cose da fare, susseguendosi appuntamenti, agende di incontri e rassicurazioni che le richieste dei cittadini saranno ascol-tate. Anche il look è cambiato in con-seguenza. Via il glamour, dimenticati i tailleur avvitati e le camicette attillate, sostituiti da un abbigliamento comodo, country elegante. Da donna che non si cura se un po’ di fango le si deposita sullo stivale marrone alto. Anche i selfie hanno mutato soggetto: da Giletti alle mucche. In questo caso probabilmente nel cambio ci ha pure guadagnato.

Una notizia che appare sul prestigioso sito di Repubblica, ci si immagina sia una “notiziona”. Ma ad una prima lettura, quella apparsa il 19 febbraio a firma di Geraldine Schwarz “A pranzo da Google, dove si mangia a suon di musica e ogni cibo ha un suo colore”, era una notizia da commentare con un sonoro “‘sti cazzi!”. In effetti l’articolo rafforza per certi aspetti questa prima impressione: “come mangiano i creativi? Quelli che sfornano innovazione per professione mangiano pasti leggeri diverse volte al giorno...”: complimenti, e chi se ne frega! Ancora, la Schwarz ci informa che Michiel Bakker, responsa-bile di Google Food (a Roma per il suo tour di “Reinvent Food”, minchia!), so-stiene che “mangiare insieme al proprio

team e incontrare gli altri in ambienti piacevoli con la musica di sottofondo è un’esperienza non solo alimentare che aumenta gli scambi relazionali e la circolazione delle idee”: caspita! E come potevamo vivere senza questa trovata creativa! Addirittura, Mr.Ba-kker avrebbe l’obiettivo di “rendere le verdure deliziose e fare delle ricette che non abbiano nulla da invidiare a quel-le a base di carne e pesce”: accipicchia! Ma questo è un genio! O dove lo hanno trovato quelli di Google? E’ un ex ma-nager della Starwoods, ma soprattutto è un olandese che ha sposato un’america-na e dunque è facilmente comprensibile che nella sua vita non abbia propria-mente gustato delle cucine raffinate e quindi abbia avuto dei traumi difficili da superare; cosa che potrebbe spiegare questa conversione al cibo sano. Ma ciò che preoccupa, in verità, è l’ideologia googleiana applicata alla cucina, che sembra piuttosto che stampo stalinista.

Infatti i dipendenti Google quando vanno a mensa (ops, scusate, loro li chiamano “snack points”) hanno menù con etichette colorate da scegliere: rosso, bannato, da mangiare solo raramente; verde ok, se ne mangi a volontà e spesso; giallo va bene, ma con moderazione. La dittatura del menù non si ferma ai propri dipendenti, ma avrebbe la pretesa di estendersi all’intero globo terracqueo: Bakker vorrebbe “creare dei regimi alimentari, creati ad hoc sul nostro Dna, secondo il gruppo sangui-gno e le esigenze e caratteristiche diverse per ognuno di noi e con i nuovi device sempre più precisi che continuano ad uscire sul mercato prima o poi riusci-remo a creare menù sani, consapevoli e personalizzati”. E qui da “‘sti cazzi!” si passa all’andate in culo: gradiremmo continuare a scegliere di mangiare come cavolo ci pare senza dover dipendere dall’ultimo app che Google creerà per noi, a 5,99 euro. Grazie!

Quando li ha visti arrivare, non gli sarà sembrato possibile che tra tanta gente si accorgessero di lui. Probabilmente è iniziata così quella che si preannuncia una lunga storia d’evasione e non d’a-more tra Gino Paoli e la Guardia di Finanza. Il Presidente della SIAE, cantautore genovese, un passato anche da parlamentare da indipendente nel PCI, è infatti indagato secondo l’accusa per aver portato 2 milioni di Euro in Svizzera senza dichiararli al fisco. Certo le indagini sono in corso ma colpisce l’ennesimo caso di VIP italiano a cui viene contesta-to o di eleggere residenza fiscale all’estero o di distrarre fondi, alla vecchia maniera, e metterli al “sicuro” in Svizzera. Poco tempo fa, per restare al campo canoro, era toccato a Gianna Nannini. Prima a Briatore e Valentino Rossi. Immaginiamo che la prassi sia piuttosto diffusa tra i nostri concittadini abbienti e che per ogni VIP che finisce in copertina ci siano almeno 10 imprenditori o professionisti nelle medesi-me condizioni (spesso almeno parzialmente legittime) segno che in un mondo ormai interpolato la barriera doganale non serva a gran che nemmeno in campo fiscale. Ma quella di Paoli ha, nel racconto dei giornali, “il gusto un po’ amaro di cose passate”. Magari spunterà persino un classico spallone, cioè colui che si infagottava di denaro contante per passare la dogana, o vista la proverbiale parsimonia dei liguri, forse lo stesso Paoli avrà provveduto alla bisogna, magari nascondendo le banconote tra un borderò SIAE e l’altro. Già perché di tutta la faccenda la cosa che più ci fa innervosire è che Paoli, da presidente SIAE, svolge la funzione di esattore delle tasse. E lo fa con una società che quasi sempre vessa chi vuol fare musica e spettacolo dal vivo. Una società ogni giorno sempre più rigida con l’ultimo gruppetto di periferia che non può permettersi lo studio professionale con affaccio in Svizzera.

le Sorelle marx

la StiliSta di lenin

lo Zio di trotZky

i Cugini engelSLe rinunce di Giani

Da ladylikea cowlike

La cucinadi Google

Una lunga storiad’evasione

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La stazionedei libriLa stazione di Santa Maria

Novella fu una delle prime stazioni italiane ad avere al

suo interno un ristorante. Chi an-cora oggi percorre la grande strada urbana costituita dalla galleria di testa della stazione può vedere la scritta “Ristoratore”. La facciata principale della galleria di testa era stata concepita infatti come un pannello di segnalazione di di-mensioni gigantesche (106 metri di lunghezza per oltre 7 di altezza) dove si aprivano le aperture per l’accesso alle principali funzioni ospitate dalla stazione. E ad ogni apertura nella parete, rivestita di lastre di travertino di Rapolano, corrispondeva, e corrisponde ancora oggi, una scritta in lettera scatolari in rame patinato.Da alcune settimane nei locali che ospitavano il ristorante è stata aperta una libreria del gruppo Feltrinelli. L’intervento, curato da Giuseppe Alberto Centauro, è stato anche l’occasione per un completo restauro dei locali e degli arredi realizzati nel 1934-1935.I locali del ristorante erano stati infatti oggetto di particolari inter-venti di arredo, di “interior desi-gn” si direbbe oggi, con l’aiuto di Ottone Rosai, che aveva dipinto i due “dipinti parietali” sulla parete di destra dell’ingresso dalla gal-leria di testa, e di Mario Romoli che aveva dipinto un affresco nella sala del ristorante, oltre che da mobili realizzati appositamente. Le grandi sale del ristorante erano inoltre rivestite da una “boiserie” in multistrato nobilitato (im-piallaciato) di noce nazionale e i pavimenti erano stati realizzati in Marmo Bianco Apuano e, in alcune parti, con fasce trasversali di Verde Alpi. Il buono stato di conservazione dei pavimenti e di buona parte della “boiserie”, dove si è potuti intervenire con operazioni di ripulitura e, solo in alcune parti, con sostituzioni (utilizzando gli stessi materiali) o ripristini (come per l’orologio che è stato riparato), ha consentito di porre la maggiore attenzione al re-stauro degli affreschi. I due grandi dipinti di Rosai “Campagna toscana” e “Case di Villamagna” sono, come dice Centauro, “tappa fondamentale per un significativo rapporto fra la parte decorativa e quella architettonica.... progettata dagli architetti nei minimi detta-

gli. Rosai attenendosi alle richieste (ricevette l’incarico nel 1935) re-alizzò delle vedute che rendessero con chiarezza un’idea di Firenze e della Toscana, del paesaggio consueto, mediante semplifica-

zione delle forme, e con la ripresa del chiaroscuro trecentesco di tono monocromatico. La tecnica adottata, riportata da alcuni testi, è quella, probabilmente, di una tempera grassa, utilizzando un le-gante proteico naturale e olio con

cui applicare i colori direttamente sulla superficie preparata”.L’affresco di Romoli vinse invece un concorso nel 1935 e rappre-senta un paesaggio lacustre dai toni spenti, circondato da colline, e con scene di caccia.Gli interventi di restauro hanno teso ad eliminare alcuni elemen-ti di degrado, dovuti anche ad interventi precedenti. In partico-lare i due dipinti di Rosai hanno subìto, negli anni settanta, il distacco della pellicola pittorica e la sua ricollocazione su pannelli multistrato.L’intervento di restauro dell’intero spazio architettonico, di fatto una generale manutenzione dei mate-riali di finitura e degli arredi delle grandi sale, ne ha consentito un riutilizzo completo con funzioni diverse e in sostanza una completa rilettura degli spazi che, proprio attraverso l’intervento di restauro, ha potuto adattarsi alla modifica-zione d’uso richiesta. Oggi si può ammirare l’unitarietà della composizione formale delle grandi sale attraverso gli occhi di chi cerca un libro o prende un caffè nel bar della libreria, e che può godere di una vista del passato vivendo dentro la contem-poraneità. E’ questo alla fine il senso dell’intervento di restauro, e anche il significato del processo di metamorfosi che, attraverso il progetto di restauro, i grandi complessi edilizi sono in grado di sopportare, per essere desti-nati a funzioni diverse da quelle originarie. Emblematico di questo concetto è il recupero, che si può ammirare, forse per la prima volta da parte del grande pubblico, dell’uso della scala di accesso al piano interrato, scala che prima fungeva da accesso alla zona dei bagni e delle docce della stazione.L’intervento di restauro pittori-co dei dipinti e degli affreschi è stato eseguito da restauratori (i “ragazzi di Piero” come vengono amichevolmente chiamati) che si sono formati, sotto la direzione dell’Opificio delle Pietre Dure, con i lavori di restauro dell’affre-sco della “Leggenda della Vera Croce” di Piero della Francesca, nella chiesa di San Francesco ad Arezzo, avvenuto nei primi anni novanta del secolo scorso, anche sulla base degli studi di Gieseppe Alberto Centauro. Una buona notizia per la scuola di restauro toscana.

di John Stammer

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Oltrelo sguardoLadislav Novák

L’impero artistico dei segni è in grado di aprirsi a scenari inediti, fantastici e

sofisticati. Non a caso con l’im-maginazione creativa è possibile correre là dove gli occhi non riescono a giungere, privi degli elementi necessari a percepire e comunicare ciò che la mente “vede” e contempla. Dagli esordi poetici e surrealisti alla vera e propria sperimen-tazione sui giochi fonici, le cancellature frammentarie e gli incongrui assemblaggi, Ladislav Novák si è inserito nell’attuale panorama delle arti contem-poranee recuperando il senso della parola e dell’immagine, in una dimensione inverosimile e visionaria. Nelle sue opere la tecnica si unisce alla ricerca estetica per sondare gli even-ti probabili e possibili della sperimentazione. Affidandosi al caso, in una razionalità tesa a oltrepassare qualsiasi tipolo-gia di confine, l’artista ha fatto della rarefazione e della sintesi i propri strumenti comunica-tivi. La struttura cromatica e costruzione formale dilatano e attenuano gli elementi rappre-sentati, vertendo a una resa astratta fra accumulo e occulta-mento: modus operandi di una vena artistica dotata di un’ele-ganza contrappuntistica degna di nota, nel momento in cui la rappresentazione stessa diviene una similitudine del visionario e dell’astratto. Ladislav Novák si muove nel nome dell’enigma, poiché l’Arte non è altro che un mistero da svelare e rendere visibile, tangibile e concreto agli occhi dello spettatore. Formare significa, dunque, rendere mani-festo un inconscio collettivo che solo la sensibilità del singolo può comunicare, svelandone meccanismi e procedimenti in nome di una prassi estetica tesa all’eccesso e ai limiti della sperimentazione inesauribile. Qualsiasi direzione è possibile nell’espressività di Ladislav Novak e l’opera si qualifica come una grammatica visiva provvisoria, nella cui semplicità è leggibile un intero mondo. La rarefazione è la rappresen-tazione di un’universalità, così, allo stesso modo, la sovrapposi-zione di piani linguistici mette in discussione il dato sensibile

In alto a sinistraSalomè?, 1970Tecnica mista su carta stampatacm. 29x23,5A destra Senza titolo, 1973.Tecnica mista su carta stampatacm 33,5x26Al centro Foureur poètique, 1997Tecnica mista su cartoncinocm. 50x32,2A destra Après le solstice, 1974.Tecnica mista su cartacm 34,5x51Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

e fenomenico, al fine di creare un punto di partenza dal quale ristabilire un valore di senso a un ordine che non può essere più preso in considerazione come tale. Quella dell’artista è un’Arte che fonda le proprie radici nelle infinite possibilità della creazione estetica alla ricerca di nuovi sensi, ma nella consapevolezza che la comunicazione non si è esaurita e che l’artista necessita di uno sforzo maggiore per varcare i limiti imposti da una sistematicità prestabilita e che non lascia spazio alla nascita di nuove armonie.

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ogni fotografo, come ogni pittore, narratore, musici-sta o altro, finisce per essere

identificato con i principali temi della propria opera. Così accade, nel bene o nel male, che a molti fotografi vengono assegnate delle etichette: fotografo ritrattista, di paesaggio, di nudo, di animali, di architettura, di mostri, e più nello specifico, di nudi maschili o femminili, di animali domestici o selvaggi, di architetture moderne o antiche, e scendendo ancora, di situazioni, momenti o luoghi particolari. L’elenco sarebbe lun-ghissimo. Come tutte le etichette, anche queste possono essere por-tate con insofferenza oppure con orgoglio. Essere classificati come fotografi della rivoluzione, e della rivoluzione messicana in partico-lare, deve essere stato certamente motivo di orgoglio per Agustìn Vìctor Casasola (1874-1938). Nato a Ciudad de Mexico, orfano di padre, Agustìn comincia giovanissimo a lavorare in tipo-grafia e come giornalista presso il giornale “El Imparcial”, ma collabora anche con “El Globo”, “El Popular”, “El Universal” ed “El Tiempo”, diventando fotografo nel 1894 e fondando la prima Agenzia Fotografica Messicana, poi trasformata nella Agenzia Messicana di Informazio-ne Fotografica. Nel 1903 fonda l’Associazione Messicana dei Giornalisti e nel 1911 la Società dei Fotoreporter. A partire dal 1900 inizia ad organizzare, da solo e poi con l’aiuto del fratello Miguel, il proprio archivio foto-grafico storico, documentando la vita e gli avvenimenti del suo tempo. Primo fra tutti segue, per “El Imparcial”, i fatti della rivoluzione messicana contro il presidente/dittatore Porfirio Diaz fra il 1910 ed il 1911, ed alterna-tivamente pro o contro quelli che diventeranno i nuovi dittatori, da Madero fra il 1912 ed il 1913 a Huerta fra il 1913 ed il 1914, ed a Carranza fra il 1915 ed il 1920, partecipando da osservatore e testimone al primo vero movi-mento rivoluzionario del Nove-cento, movimento che suscita gli entusiasmi e la partecipazione di molti personaggi romantici che in questa rivoluzione vedono la rivolta dei poveri contro i ricchi, ma anche degli intellettuali libe-

maniera profonda, ma eccessiva-mente superficiale ed impregnata di pregiudizi estetici, come Tina Modotti che vi soggiorna per vent’anni dal 1922 fino alla sua morte nel 1942, o di Edward Weston che vi si trattiene solo dal 1923 al 1927.Il ricchissimo archivio Casasola, aggiornato fino al 1970 dai figli, fra i quali Gustavo Casasola Zapata, anch’egli fotografo, ed in-tegrato con le opere di numerosi altri fotografi messicani, diventa un elemento centrale della storia del Messico moderno, un vero e proprio monumento visivo, e viene conservato nella Fototeca Nacional Mexicana.

Il fotografo di Pancho VillaCasasola

rali che si schierano contro tutte le dittature. Nel corso dei suoi reportages Agustìn si trova alter-nativamente a fianco di Pancho Villa nel Nord e di Emiliano Za-pata nel Sud del paese, fotografa i presidenti, i generali governativi ed i comandanti rivoluzionari, così come fotografa i guerriglieri rivoluzionari ed i soldati governa-tivi, le “adelitas”, le “soldaderas” ed i “ninos soldados”, le azioni militari e le fucilazioni, seguendo le sorti alterne e gli spostamenti dei diversi fronti, fino alle tragi-che conclusioni della rivoluzione, costata oltre un milione di morti e soffocata simbolicamente nel sangue con gli assassinii di Zapata

nel 1919 e di Pancho Villa nel 1923. Negli anni che seguono Agustìn continua a fotografare la vita del suo paese, dei villaggi e dei campesinos, ma soprattutto della sua città, di cui raffigura i diversi volti, da quelli assolati del giorno a quelli oscuri della notte, dalle manifestazioni politiche alle feste laiche o religiose, dai viali del passeggio elegante ai vicoli della prostituzione, dalle celebra-zioni del potere ai fatti di cronaca nera. L’opera di Agustìn scava a fondo nella società messicana, in maniera molto più pregnante di quanto abbiano potuto fare i fotografi stranieri che hanno vissuto l’esperienza messicana in

di danilo [email protected]

“Popular entre la tropa era Adelitala mujer que el sargento idolatraba

que ademas de ser valiente era bonitaque hasta el mismo coronel la respetaba.”

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Direi che è imbarazzante che un simile obbrobrio sia stato accolto dalla

critica con tripudio (vincitore perfino del “Sundance Film Fe-stival”). Raramente sono uscito da una sala cinematografica così nauseato. “Whiplash”, opera prima di Damien Chazelle, è un vero e proprio pasticcio, un film denso di contenuti grevi, rozzi e volgari, promulgatore di un’idea di musica e di estetica da caserma. Tuttavia è un film che occorre vedere, se non altro per constatare il livello della vo-ragine in cui è sprofondata ogni parvenza idiomatica di senso, entro cui si è entropizzata ogni forma di relazione tra il jazz e questo “oggetto estetico alieno”. Questo oggetto OGM è la mera quintessenza d’una prassi senza indice di rapporto storiografico, letterario e stilistico con l’uni-verso delle musiche afroame-ricane che pur pretenderebbe di rappresentare. “Whiplash” è sostanzialmente un film cafone, una sottospecie di adattamento cinematografico di “Full Metal Jackets” (con tanto di “Palla di Lardo”) in chiave “jazz”. La qual cosa risulterebbe oltremodo comica (e chiaramente sono stati parecchi i momenti di ilarità du-rante la visione, tra mani piene di ferite, urla, occhi iniettati di sangue, forsennate ricerche di velocità da centometrista sullo strumento ecc.) se non fosse, viceversa, l’aspetto drammatico della vicenda ad essere cen-trale nell’evoluzione di questo guazzabuglio. Riportiamo a riprova di ciò alcuni frammenti di recensione tratti dalle riviste specializzate e di settore: “La po-sta in gioco è diventare il miglior batterista in circolazione, oppure soccombere”, “Un film che regala inaspettati colpi di scena, come fosse un thriller. Invece, è il miglior film musicale degli ultimi anni”, “...per non portare mai il jazz allo spettatore ma lasciare che accada il contrario, mantenendo così un’integrità e una serietà da applausi”. In veri-tà il mondo del jazz di Chazelle è un mondo finto, irreale, im-maginario, ideologizzato. Grot-teschi, senza essere ironici, sono i rapporti da caserma fra musicisti (ci mancava solo il gavettone di

denso di pulsioni romantiche, più consone ad uno “Sturm und Drang”, con tanto di musici-sta-eroe-titano. In altre parole, è il solito tributo che il jazz paga alla musica classica e che oramai potremmo paragonare alla mai risolta “questione meridionale”. L’apologia dell’arrivismo legata ai luoghi-feticcio, ai templi posti lassù, in un irraggiungi-bile Olimpo (“Figliolo potresti arrivare al Lincoln Center”), il nominalismo (“e’ diventato la terza tromba di Marsalis”)  sono forse gli agganci più tristemente veritieri del film con la realtà miserabile di queste musiche, sempre più preda del delirio so-lipsistico da infante prodigioso, della fenomenologia da “Amici”. La storia del ragazzino batterista di jazz e del suo tiranno per-secutore Fletcher, che sotto le mentite spoglie di “Insegnante del Conservatorio” (la scuola ha un altro nome ma è la “Juilliard” di New York) esercita la sua sadica tortura, è un pretestuoso artificio utilizzato da Chazelle per fare “spettacolo” e non è motivata da alcuna urgenza espressiva. Perfino il curling avrebbe potuto assicurare una migliore ambientazione di trama e sceneggiatura. Un film alta-mente diseducativo, nel senso più letterale del termine.

Full Metal Jazzpiscio tipico del nonnismo d’un tempo), la metodologia didattica à la “Guantànamo”, la visione performativa della musica in perfetto stile da “body builder”, il concetto competitivo di “vit-toria” applicato alla musica, per non dire delle abluzioni delle mani nel ghiaccio a lenire le ferite provocate dallo studio for-sennato (il pluricitato Philly Joe Jones avrebbe volentieri tirato una “piattata” a Chazelle) ecc. Le ingenuità insomma proprio non si contano (perché poi mai ‘sto ragazzo sfigato si allena

a quel modo non si capisce. Suona “free” in casa sforzandosi come in preda ad un attacco epilettico, quando ciò gli viene rimproverato è semmai la man-canza di precisione, di “timing”, di controllo ecc.). Sorvolando poi anche su questa sciagurata idea di jazz, vincolata agli anni Quaranta del be-bop, ad una mitica arcadia afroamericana che non trova riscontro poi nella prassi medesima dell’evoluzione di questo benedetto idioma, appare chiaro che il film di Cha-zelle è un maldestro polpettone

Il miglioredei Lidipossibili

Direzione Tripoli

Disegno di Lido CantemoriDidascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

di FranCeSCo [email protected]

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Il bacio rubato

Si inaugura il 14 marzo al musée Rodin in rue de Varenne 79 a Parigi la

mostra dedicata al fotografo Robert Doisneau. Sarà questa un’interessante opportunità per conoscere più da vicino i due artisti, spesso associati e confron-tati per una delle loro opere più famose nel contesto dell’ Hotel Biròn, fastosa villa settecentesca dal 1919 sede del museo. Rodin (1840/1917) ci aveva abitato negli ultimi anni della sua vita e al suo interno e nel magnifico giardino che la circonda sono esposte molte delle sculture che dovevano fare parte di una grande porta monumentale commissionata all’artista per il musée des Arts Decoratifs al tempo ancora in progettazione. I lavori che si sarebbero dovu-ti concludere entro il 1885 si protrassero invece per anni (il museo fu inaugurato nel 1905) e l’opera non fu mai completa. Ispirata alla Divina Commedia, doveva rappresentare la Porta dell’Inferno con180 figure. Rodin ci lavorò ininterrotta-mente dal 1880 al 1890, per poi abbandonare e riprendere a tratti l’ opera. Le sculture, ormai non più destinate ad essere imprigio-nate dentro il telaio di una porta, acquistarono così un loro valore artistico individuale. Tra queste le più conosciute sono Il Pensa-tore, che nella Porta dell’Inferno avrebbe rappresentato Dante e il Bacio, appassionato intreccio di corpi ispirato a Paolo e France-sca, o, più probabilmente, alla storia d’amore tra lo scultore e la sua musa, amante e discepola Camille Claudel.L’immagine di un altro bacio, ha reso famoso al grande pubblico Robert Doisneau (1912/1994), uno dei più importanti fotografi del 900, collaboratore della fa-mosa agenzia fotografica Rapho e di riviste come Life e Vogue. Doisneau cercò con i suoi scatti di raccontare un’ “altra Parigi”, lontana dai fasti e dalla gran-deur, fatta di gente comune, di semplici gesti di vita quotidiana, di piccoli accadimenti nell’in-tento di mostrare, come diceva, “un mondo dove mi sentivo bene”. I sobborghi di Parigi dove nacque e abitò per tutta la vita, segnarono profondamente la sua

estetica, quel modo particolare di tradurre la realtà in una rappre-sentazione carica di sentimento e di empatia, che lo portò ad essere considerato il maggior rappresentante della cosiddetta fotografia umanista. Il “pescato-re d’immagini”, come Doisneau stesso si definiva, amava anche documentare il “dietro le quinte” della nascita di opere d’arte,

esplorando con il suo obbiettivo gli atelier di artisti come Picasso, Braque, Giacometti, César che coglieva nei momenti delle loro creazioni. La mostra al musée Rodin presenta parte di questi reportages tra i quali quello rea-lizzato durante una delle fusioni del Pensatore nei laboratori della fonderia Rudieront. Il bacio davanti all’Hotel de Ville del

Scavezzacollodi maSSimo [email protected]

di Simonetta [email protected]

1950 è l’immagine più famosa di Doisneau. Un bacio molto diverso da quello sensuale e segreto dei due corpi nudi fusi nell’abbraccio di Rodin. Nel suo stile, Robert Doisneau ritrae il gesto comune di due giovani che in un improvviso momento di tenerezza si baciano per la strada tra l’indifferenza dei frettolosi passanti. La foto, pubblicata su Life, ritenuta per molti anni un’istantanea, un “bacio rubato” da uno scatto fortunato, era in realtà un’inquadratura costruita con i protagonisti in posa. Un trucco quindi che, tuttavia, non ha offuscato la nostra curiosità di sapere cosa si erano detti i due giovani per provocare questo festoso gesto d’amore.

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Se lo spazio, all’atto della scrittura, transita dal vissuto al rappresentato,

dobbiamo ipotizzare la presenza di un movimento duplice, teso a creare una rete di rapporti dove uomo e ambiente entrano l’uno nell’orizzonte dell’altro. Si tratta di un vero e proprio con-con-stituirsi, attraverso cui la parola e l’atto narrante pongono, sull’immagine del luogo, un ulteriore strato di significati, tale da rendere la creazione lettera-ria il punto d’incontro fra due realtà: testuale (la pagina scritta) e pre-testuale (l’ambiente). Con fare quasi da metronomo, l’esperienza del mondo oscilla tra spazio interiore e spazio esteriore, in un continuo so-vrapporsi di prospettive, acuito e portato allo spasimo in quella che è la nostra contemporanei-tà, dove i ‘nonluoghi’ – utiliz-zando la formula introdotta da Marc Augé – sembrano avere il sopravvento. Nell’abdicare allo sfruttamento umano del terri-torio, lo spazio naturale fugge e recalcitra – quasi per proprietà intransitiva – alla presa dei sensi e dello sguardo. Se dunque è impossibile, per l’uomo contemporaneo, ‘au-scultare’ la natura (nel senso di

in resistenza verso l’esterno, ma in sinergia con esso, tale da rivelarne il divenire continuo. In tale ottica, la natura non sarà più semplice ‘testo’ (o un libro, come l’aveva già definita Gali-lei), bensì un ‘ipertesto’, dove ciascun ecosistema è pronto a ri-mandare a livelli biotici sempre più ampi e complessi: una rela-zione, questa, di tipo metonimi-co dove la parte vale per il tutto e finisce per abbracciare l’intera biosfera. Ecco che la natura diviene quasi una ‘letteratura al terzo grado’ (volendo far nostro, modificandolo, il sottotitolo dei “Palimpsestes” di Genette): una testualità presente, implicita, ma certamente possibile, in attesa di essere scritta e narrata, per entrare a far parte dello spazio letterario. Uno spazio, quest’ultimo, in procinto di farsi aperto, connesso, quasi alla stregua dei vasi comuni-canti, per rispecchiare a tutti gli effetti gli equilibri e le strutture ambientali. Ancora una volta, torniamo al punto di partenza: alla continua osmosi tra Natur e Kultur, mediante cui corpo e mente, biologia e intelletto, s’incontrano, in nome di una prossimità debordante, dove l’aquila e Prometeo – quasi per assurdo – s’ibridano in un’unica e pacifica forma, la vita stessa.

foto di Aldo Frangioni

penetrarne il significato pro-fondo), l’opera letteraria dovrà immergersi in queste spinte continue, lasciandosi attra-versare dai flussi trasformativi dello spazio e del tempo. Per tale motivo, il legame tra libro e contesto non sarà più binario o oppositivo, bensì pluriverso:

una messa a fuoco multipla che tenga conto anche di queste mutazioni costanti e del loro potere trasformativo. Se la Terra è prossima a narrarci le sue storie, è giocoforza rendere il linguaggio (ovverosia lo stru-mento che media tale rapporto) il più diretto possibile: non più

L’ipertestodella natura

di diego [email protected]

La storia del Caffè Al Bicerin inizia nel 1763 quando l’acquace-dratario Dentis apre una piccola bottega proprio di fronte all’in-gresso del Santuario della Conso-lata a Torino. Cedrata, limonata e suggestivi prodotti arrivati da lontano quali caffè, tè, cioccolata.All’inizio dell’800 tutto il palazzo viene ristrutturato e il locale prende l’aspetto che possiamo ammirare tutt’oggi. Il successo del Caffè arrivò grazie alla creazione del Bicerin, evolu-zione della bavareisa (caffè, ciocco-lato, latte e sciroppo): caffè espres-so appena fatto, cioccolata e fresca crema di latte. I tre ingredienti venivano serviti separatamente sempre molto caldi e in piccoli bicchieri (bicerin) senza manico. Le varianti erano tre: pur e fiur (l’odierno cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), ‘n poc ‘d tut (ovvero “un po’ di tutto”), con

tutti e tre gli ingredienti miscelati. La formula che ha prevalso, dando il nome al locale e diffondendosi in tutta la città fino a divenirne uno dei simboli. Il Bicerin divenne un locale origi-nale per diversi motivi. Le piccole dimensioni e l’assenza delle sale tipiche degli altri caffè facevano sì che fosse frequentato da nobili e gente del popolo. Soprattutto poi la conduzione che presto diven-ne, novità assoluta per l’epoca, al femminile.I caffè erano infatti dominio degli uomini che vi si ritrovavano per bere, fumare, parlare e le donne “rispettabili” non potevano fre-quentarli. Quando la gestione pas-sò a delle signore il Caffè divenne

adatto per essere frequentato dalle dame e ottenne quell’impronta di garbo e delicatezza che si ritrova tutt’oggi. Dal 1910 al 1975 il locale è stato gestito dalle signore Cavalli (Ida poi la sorella e la figlia Olga) divenute un’istituzione della città. Hanno raccolto la loro eredità la signora Maritè Costa e la figlia Eleonora che hanno

restaurato il Caffè e lo hanno promosso a livello internazionale.I personaggi noti che hanno frequentato il Bicerin sono numero-si. Alexandre Dumas padre, Silvio Pellico, Friedrich Nietzsche, Maria Josè e Umberto II, Guido Gozzano, Italo Calvino, Mario Soldati. Giacomo Puccini abitava nella vicina via S. Agostino in una soffitta che disse

di aver usato come modello per La Bohème forse scritta proprio ai tavoli del Bicerin.E’ facile poi immaginare seduto a uno dei tavoli il Conte di Cavour mentre sorseggia un bicerin e dà uno sguardo al giornale. Ogni tan-to abbassa gli occhialetti per guar-dare verso la Consolata in attesa dell’uscita della famiglia reale.

di SteFano [email protected]

ecoletteratura

Caffè LetterarioIl Bicerindi Nietzsche

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Quando si dice filiera a km zero normalmente pen-siamo che sia un modo

di dire. Ci crediamo fino ad un certo punto. Quando va bene pensiamo che l’insalata che compriamo venga prodotta a due o tre km di distanza da dove la stiamo comprando. Ma non sempre è così. A Firenze c’è un luogo dove quando si dice che il prodotto è a km zero si sta addirittura esagerando. Ma per eccesso. Basta andare il martedì, il giovedì e il sabato mattina dalle 8,30 alle 13,00 all’Istituto Tecnico Agrario delle Cascine per scoprire un mondo di fiori, di ortaggi, di frutta di stagione, di uova, tutti prodotti dai ragazzi dell’Istituto nei campi che stanno alle spalle degli edifici che fronteggiano via delle Cascine. L’istituto Tecnico Agrario fu istituito nella seconda metà del secolo XIX, e da allora, dopo aver dato vita anche alla Facoltà di Agraria dell’Università della città, contribuisce non poco alla qualità dei prodotti agricoli della Toscana. In realtà la data di inizio dell’attività dell’Istituto non è univoca. Il sito dell’Istituto la colloca il 5 febbraio del 1882 con il nome di Regia Scuola Agraria di Pomologia e di Orticoltura, men-tre su altre pubblicazioni, e anche nelle informazioni fornite nel museo dell’Istituto, si parla del 17 maggio del 1860. Comunque sia le Cascine dell’Isola, come veniva-no chiamate allora a ricordare che l’intera area dello storico parco cittadino costituiva appunto un isola delimitata dall’Arno e dal Fosso Macinante, e da un punto di vista idraulico una cassa di espansione del fiume, iniziarono ad ospitare la scuola di agraria nell’edificio delle Pavoniere dove oggi è presente la piscina comuna-le. La storia dell’Istituto coincide con la storia dell’agricoltura in Toscana e in Italia ,e consolidava una tradizione nata proprio a Firenze dove nel 1753 Ubaldo Montelatici fondò l’Accademia dei Georgofili, la prima Accade-mia di agricoltura del mondo.Oggi l’Istituto ospita oltre 1200 allievi e vi insegnano oltre 120 docenti. Un’istituzione che ha visto in questi ultimi anni crescere in modo esponenziale le richieste di iscrizione da tanti ragazzi che vedono nel mondo dell’agricoltu-ra uno sbocco occupazionale, ma

grande spazio a terra per il pascolo degli animali, dove le persone cieche possono orientarsi con gli odori nel giardino odoroso. Il Museo, ospitato nella casa da contadino che fino ad alcuni anni addietro era abitata proprio dai

contadini della fattoria dell’Isti-tuto, è costitutito dai reperti che un tempo ornavano i corridoi e le aule scolastiche. Collezioni di uccelli, rettili, minerali e rocce, strumenti di misura agronomi-ca, modelli in ferro e gesso che illustrano modalità di coltivazio-ne delle diverse colture e alcuni sistemi di irrigazione, fotografie e documenti della storia dell’Isti-tuto. Un patrimonio di cono-scenze purtroppo disponibile per pochi e che la direzione vorrebbe valorizzare e rendere disponibile per la città, insieme alla grande bi-blioteca. Un patrimonio anche di strutture ormai in disuso, ma che segnano la storia dell’agricoltura, come il grande edificio ottagonale posto in asse con l’ingresso prin-cipale, e con il collegamento con il giardino storico, dove i muli, girando intorno all’asse della pompa, traevano dal sottosuolo l’acqua per l’irrigazione che deflu-iva nei canali che irrorano l’intera distesa dei campi, e che ancora sono ben visibili camminando nei vialetti dei campi. Un Istituto che ha voglia di aprirsi alla città. Sperando che la città lo accolga.

Km 0di gianni [email protected]

anche una scelta di vita. La visita del pubblico durante la 3° Mostra Avicola regionale ha permesso di fare comprendere un mondo vicino, ma ancora troppo separato e poco conosciuto della città. Ha consentito non solo di vedere i galli e le galline del Valdarno, una specie che si era quasi perduta e che, grazie anche al lavoro di professori e ragazzi dell’Istituto, ora fa bella mostra di sè (è proprio il caso di dirlo) in uno dei locali disseminati negli oltre 17 ettari dell’azienda agricola dell’Istituto, ma anche di percepi-re le difficoltà e le potenzialità di

un luogo straordinario. L’Istituto è ospitato negli edifici inaugurati nel1936 e di fatto occupa il parco della Villa Reale delle Cascine, oltre a un’ampia area agricola alle sue spalle. Un’area punteggiata di edifici e spazi attrezzati dove si svolgono alcuni dei corsi, dove si fa ricerca applicata come nel labo-ratorio di Meristematica, dove ha sede il Museo, dove si coltivano in serra ortaggi e fiori (aiutati da una colonia felina che tiene lontani i roditori dai tuberi e dai germogli), dove si allevano polli (specie Si-ciliana, Livornese e Ancona oltre che Valdarno) in un pollaio con

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alla lira compaiono infatti il rabab, il saz e il tarhu. Fin dal primo LP, Dreamlands (1982), i suoi lavori alternano brani tradizionali a nuove composizioni. Non si accontenta di ricercare e suonare, ma crea una struttura didattica per formare nuovi musicisti. Si chiama appunto Labyrinth il laboratorio musicale che nasce nel 1982: il nome sottolinea la sua incessante

ricerca sonora. Questa ricerca lo porta a costruire un nuovo strumento nel quale fonde elementi della lira cretese, di quella

bizantina e del sarangi indiano. Così, diversi anni prima che il termine world music diventi di uso comune, l’artista irlandese ha già deciso di dedicare la propria vita allo studio e alla promozione della diversità musicale.Grazie alla vastità dei suoi oriz-zonti Daly diventa il fulcro di una comunità musicale e umana che spazia dalla Spagna all’Iran.

Alcuni musicisti riescono a sviluppare una forte fami-liarità con le culture diverse

dalla propria. In certi casi si tratta di una vera simbiosi: modalità espressive e strumenti inizialmente estranei diventano il fulcro della loro parabola artistica. Pensiamo a Barbara Casini, totalmente immersa nella musica brasiliana, oppure ad Antonio Breschi, altrettanto legato alla tradizione celtica. Un caso meno noto in Italia, ma degno della massima attenzione, è quello di Ross Daly, un irlandese che vive sull’isola di Creta. Nato in Gran Bretagna nel 1952, interessato fin da giovane alla cultura greca, all’età di 23 anni si trasferisce su Creta. Questa non è una qualunque isola ellenica, ma la sede della civiltà minoica (3600-1000 a.C.), una delle prime che si sono sviluppate nel Mediterraneo. Inoltre è legata a riferimenti storici e mitologici, come il Monte Ida e il Labirinto di Cnosso. Davanti a questo passato un musicista raf-finato e sensibile come Daly non può restare indifferente. Mentre si sviluppa un forte legame con la cultura cretese, l’artista visita varie parti dell’Europa e dell’Asia, approfondendo la conoscenza di molte tradizioni musicali. Questo spiega perché la varietà strumenta-le diventa subito un tratto distinti-vo delle sue composizioni: accanto

Il cercatoredi suoni

Il frutto di queste collaborazioni è un ricco mosaico fatto di influenze arabe, andaluse, balcaniche, india-ne, mediorientali.In questo ambiente gravitano mu-sicisti di rilievo come il polistru-mentista spagnolo Efrén López, il percussionista israeliano Zohar Fresco e Kelly Thoma, allieva greca di Daly. Questi, insieme ad altri, lo affiancano in The Other Side, il nuovo CD autoprodotto che è uscito dopo una lunga pausa. Il disco propone 9 pezzi strumenta-li, tutti scritti e arrangiati da lui. Dominano gli strumenti a corda (ghironda, lira, liuto, rebab, tar, ‘ud), affiancati da un consisten-te apparato ritmico. All’iniziale “Aşkefzâ Sâz Semai”, lenta e triste, segue la trascinante “Earpigon”. La lunga “Isios Choros”, caratte-rizzata da una melodia struggente, è introdotta dal saz dell’autore. Come “Makrinitsa”, di tratta di un vecchio brano che viene proposto in un diverso arrangiamento. Oggi Daly ha 63 anni, 40 dei quali li ha vissuti su Creta. Questa è stata una tappa intermedia, ma comunque decisiva, del lungo viaggio che l’ha portato dalle isole britanniche a quelle mediterranee e oltre. Un viaggio che continua: la sua valigia è sempre pronta, piena di strumenti, scritti e ap-punti, perché esistono ancora tanti luoghi che custodiscono suoni antichi, ignoti o dimenticati. Lui li troverà.

di aleSSandro [email protected]

Oggetti artistici forse non si possono definire, deliziosi però sì. Piccola collezione di appun-talapis degli anni ‘50, alcuni hanno una foggia e costumi che fanno pensare a paesi del Nord Europa, altri invece hanno facce e modi orientali, lo gnomo in primo piano non solo è più vecchio, anni ‘30, ma è fatto anche con un diverso materiale, è di gesso mentre tutti gli altri sono di pasta di legno. La pasta di legno è una pasta modellabile realizzata con finissima farina di legno,colla, olio vegetale e solventi che asciuga rapidamen-te e che, dopo la essiccazione, assume consistenza simile al vero legno e può essere quindi carteggiata, scolpita, verniciata o decorata con qualsiasi tipo di pittura, smalto o colore.

Il termine appuntalapis è un toscanismo, l’italiano corretto parla di temperamatite. Lapis e matita sono comunque sinonimi ed hanno comune etimologia, si chiamava “lapis haematitas” la sanguigna “certa spezie di terra rossa, detta da’ Toscani Rubrica, la quale si sega in pezzetti sottili e bislunghi, e con essi resi acuti si scrive.....» (Gaetano Volpi, 1756). (Rubrica da ruber, rosso, ocra rossa). La matita, più simile a come la intendiamo oggi, fu inventata a metà ‘500, dopo la scoperta della grafite, minerale grigiastro e solido in grado di tracciare linee visibili, usato

inizialmente per segnare il bestia-me, ridotto a bastoncini, puro o mescolato con altre sostanze coloranti fu poi inserito all’inter-no di “fuscelli” di legno, pioppo per lo più, ed usato per scrivere e disegnare. Poiché disegnando

e scrivendo la punta si consumava rapidamente si rese neces-sario l’uso di una qualche lama per riaffilare via via l’abusata anima di co-tanto prezioso strumento. Da allora l’appuntalapis ne ha fatta di strada! Questi

di Rossano sono graziosissimi nella loro colorata varietà, hanno le lame, con il consueto spazio per inserire il lapis, al loro inter-no o sotto, alla base. Oggi ve ne sono di tutti i tipi e materiali, per chi volesse collezionarli.

a Cura di CriStina [email protected]

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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Tra le le belle riletture proposte val la pena ricordare “Volvano For hire” (Weather Report) e “Three view of a Secret” (Jaco Pastorius).Un Trio che si muove sulle massime vette tecnico/espres-sive consentite dai propri

strumenti, sprigionando energia e divertimento in ogni nota e che ha visto nella data valdarne-se un Christian Meyer davvero stellare.Meyer, al centro del palco con un set di batteria minimale, è stato instancabile nel dialogare

con il pubblico e nel produrre “groove” di un potenza ed origi-nalità davvero incredibili. Non posso che consigliare a tut-ti gli amanti della musica di fare questa esperienza: il trio Bobo offre un concerto unico per tec-nica, feeling e…divertimento!

il Valdarno Jazz Winter Festival, manifestazione di jazz internazionale giunta

al traguardo della 25a edizione, ha saputo coniugare negli anni attenzione alla qualità artistica e valorizzazione del territorio.Guardo dunque sempre con interesse alle proposte in pro-gramma, giusto mix di atten-zione alle nuove tendenze ed al rispetto per la tradizione Jazz come per gli ospiti di quest’an-no trai i quali ho trovato con piacere il “Trio Bobo”. Si tratta di un trio Jazz-Rock, attivo dal 2002, e composto dalla sezione ritmica di Elio e Le Storie Tese (Faso - basso elettrico e Chri-stian Meyer – batteria) ed il chitarrista Jazz Alessio Menco-ni.Date la caratura dei musicisti ed il genere da loro omaggia-to, quel jazz-rock che ha nei Weather Report di Joe Zawinul la punta di diamante ed il co-stante riferimento compositivo per il trio, si potrebbe temere un concerto in cui la tecnica offusca il feeling.Il Trio invece ha proposto uno spettacolo completo, dove l’in-trattenimento e la qualità musi-cale si sposano alla perfezione.Molte infatti le esilaranti gag proposte da Faso e Mayer tra un pezzo e l’altro, a cui si è aggiunta anche l’inattesa special guest Paola Folli (storica corista degli Elii), che li ha raggiunti sul palco per improvvisare un brano di Joni Mitchell.Da consumati istrioni da palco quali sono, Faso e Meyer riescono sempre a coinvolgere l’eterogeno pubblico (in sala l’età variava dai 6 ai 70 anni!) come quello accorso all’Audito-rium Le Fornaci di Terranuova Bracciolini.In questo clima Menconi rappresenta l’ancoraggio alla tradizione Jazz, sia in termini di stile che di atteggiamento su palco: un musicista di grande spessore che si diverte in ma-niera compassata, sciorinando una impressionante qualità di fraseggi be-bop nelle variegate composizioni del trio.Il concerto si è snodato con perfetto equilibrio tra com-posizioni originali e doverosi omaggi ai grandi del genere;

di Claudio [email protected] Trio Bobo

jazz stellare(Ma non chiamateci Elii...)

BoBo

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il tubicino trasparente, il serbatoio, la punta e il suo cappuccio - con

siffatto apparato, elementare ma anche un po’ esoterico, da dove viene la cara vecchia penna Bic? Dal mondo delle idee - verrebbe da rispondere -, quello di Platone. Se mai il filosofo si dispose a pensare al concetto di penna (biro), nel-la sua immaginazione dovette figurarsi un ‘ente’ che non si sarebbe materializzato se non qualche millennio più tardi, qualcosa che giustappunto assomigliava ad una Bic. Un’intuizione premonitrice, dunque. Ma la Bic, in realtà, ‘era’ già. Si ipotizza che quando, dopo aver acquistato da Laszlo Biro il brevetto di un inchiostro ineditamente viscoso, il baro-ne Marcel Bich concepì (e ini-ziò a produrre) la Bic Cristal (per tutti, semplicemente, “la Bic”) – di cui sarebbero stati venduti nel mondo miliardi di camionate di esemplari – egli non l’avrebbe ‘inventata’, ben-sì ‘scoperta’. Non un genio creativo, dunque, quanto un grande ed occhiuto esplora-tore del cosmo ideale. La Bic non è solo una (o la) idea di penna. E’ anche e proprio ‘la’ penna, la sua immanenza, il suo esserci hic et nunc - ma

Ode(e lode)alla pennaBic

anche ieri, eppoi anche doma-ni. In un oceano di precarietà ad ogni livello (psicologico, esistenziale, culturale, profes-sionale) essa è e sta a tempo indeterminato, perché risale al tempo che fu e ci sarà nel tempo che sarà. Quando finisce una, del resto, ce n’è subito un’altra pronta a rim-piazzarla e l’avvicendamento è infinito. La Bic usa-e-getta è il segno che l’eterno non è necessariamente una nozione di durata ma una dimensione interiore, in cui si insediano - e restano ad libitum - le cose che hanno un valore.La Bic esiste non solo per quelli che scrivono ma soprat-tutto per coloro che amano abbandonarsi alla scrittura, volare sulla carta sfiorandola con levità e liberare un’ispira-zione sconosciuta, una forza che sprigiona da una necessità interiore (come direbbe Kan-dinsky), in latino diremmo vis cui resisti non potest.La Bic permette alla mano di allinearsi al cuore, all’idea, allo stato d’animo del mo-mento. In inglese si utilizza il termine “fit” per indicare questa ottima aderenza. E’ sempre lì, sul tavolo, pronta e discreta, rigida e maneggevo-le, ieratica e dinamica, tradi-zionale e futurista, funzionale ma a suo modo elegante.

di davide [email protected]

Popolazione di artemia salina: genere di crostacei branchipodi dell’ordine Fillopodi, rossi di colore per presenza di emoglobina nell’emolinfa e che si moltiplicano in gran numero nelle acque sovrasalate. Schiuma persistente formata dall’attrito del vento sulla superficie dell’acqua a causa della sua alta densità provocata dall’elevata concentra-zione salina.

di Paolo [email protected]

San Firenze e Sant’Orsola: un buco grigio e un buco nero, nel cuore della città. Vi si inseguono, serrate, le ipotesi di “rigenerazione”, come vuole ora il lessico urbanistico più alla moda (che ha esattamente lo stesso significato di riuso, restauro urbano, recupero). Si “rigenera” verbalmente, inseguendo gli umori che tirano. Zeffirelli qua, Zeffirelli là, Zeffirelli su, Zeffirelli giù. Ma intanto, come la mettiamo con l’obbligo testamentario che riguar-da il palazzo liberty di piazza Sa-vonarola, secondo cui, il Comune ha l’obbligo “di ordinare al pian terreno un museo per Rinaldo Carnielo (che lo donò al Comune) e di adibire il resto a studi per arti-sti” ? E per Sant’Orsola ? Si naviga a vista deresposabilizzandosi dal demanio al comune, dal comune alla provincia, dalla provincia alla città metropolitana... Ma tutto questo, per l’appunto, non è fare i balocchi con i buchi neri ?

di BurChiello 2000

PasquinateFarei balocchi con i buchi neri

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Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della bella

ScottexNei prodotti, definibili artistici, si stabili-sce un rapporto diverso a seconda se pre-vale la lettura, la vista, l’udito, l’odorato o il gusto. Mentre leggiamo un romanzo, per esempio, cerchiamo di immaginare luoghi e protagonisti e in loro spesso ci rispecchiamo. Invece, guardare un’opera materiale, ci da sensazioni diverse: ci può attrarre a farci sognare di entrare dentro il dipinto o la scultura o ci immobiliz-ziamo ipnotizzati dai colori, o dalle luci. Nell’ammirare Scottex 9 ci siamo sentiti assopire dolcemente trovandoci adagiati nella nota posizione Shavasana (nell’Ha-tha Yoga una delle posizione supine) godendoci un soporifero abbiocco di qualche minuto.

Sculturaleggera

in giro

9

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

Caro fratello lupo, se mi dai la zampa con dolcezza bene, altrimenti ti do un calcio dove non batte il sole

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L

Per dirla con il titolo di questa pagina questa è “l’ultima immagine” della piccola serie sui “migrant workers”, i cottimisti della raccolta della frutta nei molti “ranch” della San Joaquin Valley. Molto lavoro, molta fatica, pochi soldi e anche lavoro di minori. Questa era la condizione diffusa in questa parte del mondo benedetta dal sole e dalla natura. Consiglierei la lettura di alcuni libri di Steinbeck che

di questi luoghi e di questi protagonisti, anche se in altri tempi, ha tracciato nei suoi romanzi dei ritratti eccezionali e commoventi.

Patterson, California, 1972

Dall’archiviodi Maurizio berlincioni

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