Tiroide, tiroiditi autoimmuni e dieta - Wanda Rizza...in questo contesto, equivale a dire “a basso...
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Tiroide, tiroiditi autoimmuni e dieta SALUTE DELLA TIROIDE, SOLUZIONI NUTRIZIONALI E ALTERNATIVE AI FARMACI
Nicola Triglione, Wanda Rizza
Introduzione 3 La ghiandola tiroidea e i suoi ormoni 3 Breve classificazione dei disturbi tiroidei 5
Prima parte: inquadrare il problema 6 Connessione tiroide-metabolismo glucidico 6 Connessione tiroide-intestino 10 Connessione tiroide-asse ipotalamo-ipofisi-surrene: risposta sistemica allo stress 12 Tossicità ambientale 16
Seconda parte: mettere in pratica 18 Test di Barnes 18
Come si esegue il test di Barnes? 18 Procedimento 18 Precauzioni 19
Come si interpreta il test di Barnes? 19 Valori normali 19 Considerazioni 19
Alimentazione per la salute della tiroide 20 Alimenti goitrogeni 20 L’apporto di iodio e selenio da garantire attraverso la dieta 22 La corretta gestione dei carboidrati 24 Il consumo di alimenti che possono potenzialmente scatenare una risposta di natura auto-immunitaria 26 I rischi legati alla pratica del digiuno intermittente 27 Caffè: amico o nemico della tiroide? 28 Strategie nutrizionali a confronto 30
Paleodieta 30 Dieta di eliminazione (o Food Sensitivities Diet) 31 Protocollo Paleo autoimmune (AIP) 31
Alimenti da includere nel protocollo dietetico autoimmune 32 Alimenti da evitare nel protocollo dietetico autoimmune 32
Dieta Low FODMAPs 33 Dieta senza glutine 34
Strategie terapeutiche 35 Ipotiroidismo - alternative all’Eutirox 35
Tiroide secca 35 LIOTIR 35 IBSA 36
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Ipertiroidismo 36 Sindrome da basso T3 37
Integrazione e supplementazione 38 Iodio 38 Selenio 38 Zinco 39 L-tirosina 39 DHEA 39 Vitamina D 40 Vitamina C 40 L-carnitina 40 Curcumina 40 Coleus, Guggul, Ashwagandha 41 Tiamina 41
Conclusioni 42
Riferimenti bibliografici 43
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Introduzione Questa guida fornisce gli elementi per affrontare in maniera critica gli stati di alterata
funzionalità tiroidea, il cui primum movens è da ricercarsi nell’ambiente. Sicuramente la
predisposizione genetica gioca un ruolo importante, ma ciò che ci circonda e soprattutto come
noi ci rapportiamo ad esso rappresenta spesso la prima causa di malattia… ma anche di
guarigione dalle malattie autoimmuni.
Questo gruppo di patologie, di cui l’ipotiroidismo da tiroidite è il più frequente, riconoscono una
patogenesi autoinfiammatoria in cui siamo letteralmente “aggrediti dall’interno”. Tuttavia
questa strana fisiopatologia non deve confonderci, perchè nella maggior parte dei casi
l’ambiente che ci circonda gioca un ruolo fondamentale: tutto ciò che mangiamo, respiriamo o
tocchiamo è in apparenza innocuo, ma nasconde insidie e segnali che possono scatenare una
reazione autoimmune.
Tutto questo non deve farci paura, ma renderci consapevoli del fatto che uno stile di vita
salutare rappresenti non solo il modo migliore di far prevenzione, ma anche un validissimo
supporto terapeutico per queste temute patologie.
L’obiettivo di questa guida, inoltre, è quello di sensibilizzare la popolazione riguardo alle terapie
ed agli esami di laboratorio convenzionali, spesso prescritti in maniera (solo) parziale o
interpretati in maniera assolutamente acritica. In questo tipo di patologie, il racconto del
paziente spesso guida molto di più il clinico rispetto ai dati di laboratorio, ed è proprio questo
aspetto della medicina che ci auguriamo venga recuperato perché parte fondamentale non solo
della diagnosi ma anche della terapia.
La ghiandola tiroidea e i suoi ormoni
La tiroide, ghiandola endocrina situata nella parte anteriore del collo, gioca un ruolo
importante per il corretto funzionamento dell’organismo, e lo fa attraverso la produzione di
specifici ormoni che regolano il metabolismo energetico e controllano moltissime attività
funzionali. Ogni cellula del nostro corpo, infatti, è dotata di recettori per gli ormoni tiroidei.
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Per questo motivo, quando questa ghiandola funziona “troppo” o “troppo poco”,
l’organismo risente della perdita dell’equilibrio tiroideo, e di conseguenza possono
manifestarsi dei sintomi più o meno marcati. Non sempre, tuttavia, si tratta di patologie
gravi, bensì di condizioni passeggere che possono essere risolte senza ricorrere ai farmaci.
Gli ormoni tiroidei in circolo sono rappresentati da T4 e T3, rispettivamente nella loro forma
totale e libera. Il T3 circolante deriva per l’80% dalla desiodazione di T4 in periferia,
soprattutto a livello di fegato e reni. T4 e T3 circolano legati a proteine plasmatiche: TBG
(thyroxine-binding globulin), TTR (transthyretin - trasporta anche il retinolo) e albumina. La
forma attiva a livello cellulare è rappresentata dal T3, derivato per metabolizzazione dal T4,
cui viene tolto un atomo di iodio sull’anello esterno da parte di enzimi chiamati desiodasi.
Azioni degli ormoni tiroidei:
● Azione termogenica
● Effetti sul metabolismo glucidico
● Lipolisi e lipogenesi
● Sintesi proteica
● Effetti sul sistema nervoso centrale
● Effetti sul sistema cardiovascolare
Inoltre questi ormoni:
● Aumentano la motilità intestinale
● Favoriscono l’assorbimento della vit. B12 e del ferro aumentano la sintesi di
eritropoietina
● Aumentano il flusso renale e la filtrazione glomerulare
● Regolano il trofismo della cute e degli annessi
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● Stimolano la produzione endogena di altri ormoni (GH) ed hanno un ruolo
permissivo sulle funzioni riproduttive
Breve classificazione dei disturbi tiroidei
Le malattie tiroidee rappresentano le patologie endocrinologiche più frequenti, e la loro
diffusione è molto ampia. Si stima infatti che ne sia affetta una persona su venti, con una netta
prevalenza del sesso femminile.
Esse comprendono:
- patologie di natura benigna, di tipo normo-, ipo- o iper-funzionanti, in base alla quantità
di ormoni tiroidei che viene prodotta;
- patologie infiammatorie (tiroiditi acute o croniche), tra le quali rientra la tiroidite di
Hashimoto, forma più frequente di tiroidite cronica linfocitaria;
- tumori maligni.
Il gozzo tiroideo rappresenta invece la prima manifestazione clinica della carenza nutrizionale di
iodio. Un tempo era frequente riscontrarlo nelle zone collinari e montane, dove i livelli di questo
elemento nel suolo sono molto bassi, ma l'introduzione di alimenti ricchi di iodio e la sua
aggiunta nell'acqua potabile hanno permesso di sradicare quasi del tutto questo problema.
Nota: in questa guida non si parlerà di tumori della tiroide.
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Prima parte: inquadrare il problema
In questa prima parte della Guida approfondiremo la relazione tra la ghiandola tiroidea ed alcuni
specifici organi o assetti endocrini del nostro organismo.
Connessione tiroide-metabolismo glucidico
Potrebbe sembrare strano, ma la funzionalità tiroidea e la regolazione glicemica sono in realtà
strettamente connesse.
Se a voi o a qualcuno dei vostri pazienti è mai capitato di riportare uno o più fra i sintomi
elencati nel box, la causa potrebbe risiedere proprio nella connessione tiroide-glicemia.
● voglia incontrollata e/o frequente di zuccheri o di pane, pasta & co.
● food addiction e/o overeating compulsivo
● irritabilità quando manca un cibo o in attesa di un pasto al ristorante
● sensazione perenne di nervosismo o agitazione
● stanchezza, affaticamento o sonnolenza dopo i pasti
● forte necessità di mangiare qualcosa di dolce dopo ogni pasto
● candidosi recidiva
● diuresi aumentata
● sete eccessiva
● aumento del grasso addominale
Avere valori di glicemia non ottimali - in un senso e nell’altro - può tradursi in una
down-regulation dei recettori tiroidei, così come diversi squilibri tiroidei possono contribuire
all’alterazione della regolazione glicemica, predisponendo l’organismo all’insulino-resistenza.
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In molti studi si è infatti riscontrato un aumento dei disordini tiroidei nei soggetti diabetici, e al
tempo stesso una maggior prevalenza di obesità e sindrome metabolica tra gli affetti da
patologie tiroidee. Come si spiega questa correlazione?
Semplice: se la tiroide funziona bene, contribuisce al mantenimento della glicemia entro il range
fisiologico, e al tempo stesso se manteniamo un buon valore di glicemia (attraverso
l’alimentazione e non solo), supportiamo la funzionalità tiroidea.
Valori troppo elevati o troppo bassi di glicemia possono infatti affliggere la tiroide.
La condizione di iperglicemia cronica spesso si accompagna alla presenza di sovrappeso o
obesità (soprattutto quella addominale), ipertensione, insulino-resistenza, dislipidemia e
infiammazione sistemica. Questo quadro, comunemente definito “sindrome metabolica”, altro
non è che il risultato di una dieta troppo ricca di carboidrati.
Il punto è che le ripetute impennate di insulina da parte del pancreas, tipiche
nell’insulino-resistenza, favoriscono la perdita di funzionalità della tiroide, e questo determina
una ulteriore riduzione della sintesi di ormoni tiroidei. Ciò avviene soprattutto nelle persone
affette da un disturbo tiroideo auto-immunitario, ma non è escluso che possa verificarsi anche
in individui sani.
Di contro, anche un valore di glicemia perennemente sotto soglia può dar fastidio al delicato
equilibrio tiroideo. In seguito ad abbassamenti repentini e/o frequenti della glicemia, infatti, si
osserva un aumento del rilascio di cortisolo da parte delle ghiandole surrenali, il cui scopo è
quello di aumentare la sintesi epatica di glucosio. Se questo meccanismo cronicizza, si
manifesta un effetto secondario del cortisolo, e cioè la soppressione della funzionalità ipofisaria.
Poiché, come già detto, l’ipofisi stimola la tiroide a sintetizzare T3 e T4 mediante l’azione del
TSH, va da sé che questo non può più avvenire nel modo fisiologico, e il risultato è un netto
rallentamento della funzionalità tiroidea.
Gli effetti negativi dell’iper- e dell’ipoglicemia, del resto, non riguardano solo la tiroide, ma
coinvolgono anche intestino, sistema nervoso, ghiandole surrenali e sistemi endogeni di
detossificazione, con un forte impatto negativo sul metabolismo in generale.
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E se fosse la tiroide ad influenzare la glicemia?
Ebbene sì, può avvenire anche il contrario di quanto detto finora, e cioè se la tiroide funziona
male può intaccare negativamente l’equilibrio glicemico, attraverso i seguenti meccanismi:
● riduzione dell’uptake di glucosio da parte delle cellule;
● minor assorbimento di glucosio a livello intestinale;
● soppressione dell’azione ipoglicemizzante dell’insulina;
● riduzione della clearance di insulina dal circolo ematico, con il risultato che il valore può
rimanere alto molto più a lungo del dovuto.
Quindi, nonostante i livelli di glucosio nel sangue possano essere normali o addirittura elevati, i
sintomi che si manifestano sono quelli tipici dell’ipoglicemia (fatica, fame, mal di testa,
irritabilità, etc.), poiché le cellule non ricevono il glucosio che occorre loro per svolgere le normali
funzioni interne. In parallelo, ciò comporta un aumento del rilascio di cortisolo, come visto prima,
e ciò favorisce l’instaurarsi di una “risposta alla stress cronico” che sopprime ulteriormente la
funzionalità tiroidea.
Un labirinto senza via d’uscita? No, se si riesce a riequilibrare la glicemia. Il ripristino, o il
mantenimento, di valori glicemici normali diventa quindi il primo step quando si vuole
recuperare o supportare la funzionalità tiroidea. In apparenza si tratta di un consiglio banale,
ma talvolta sono proprio le cose semplici quelle che vengono tralasciate.
Senza ricorrere subito all’utilizzo di farmaci e/o integratori, quindi, occorre chiedersi se
l’alimentazione, intesa sia come apporto equilibrato dei macronutrienti sia come ripartizione
degli stessi tra i pasti e nei diversi momenti della giornata, sia adeguata. L’aggettivo “adeguata”,
in questo contesto, equivale a dire “a basso indice e carico glicemico”, ma al tempo stesso non
si identifica con una dieta totalmente priva di carboidrati, poiché la ghiandola tiroidea necessita
di glucosio più di molti altri organi, e questo aspetto è particolarmente delicato nelle donne.
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Prima di approfondire gli aspetti dietetici, per i quali si rimanda alla sezione pratica,
assicuriamoci di aver compreso cosa s’intende per “euglicemia” e vediamo quali sono i valori di
riferimento.
I due parametri da considerare sono la glicemia a digiuno e la glicemia post-prandiale. Benché il
range di “normalità” per la glicemia sia compreso tra 70 e 100 mg/dl, un valore superiore a 90
mg/dl è spesso predittivo dell’insorgenza di diabete. In generale si dovrebbe puntare a un valore
inferiore ai 90 mg/dl, ancor meglio se compreso tra 75 e 85 mg/dl. Per una più fine
interpretazione di questo dato, inoltre, è utile conoscere il valore dell’emoglobina glicata
(Hb1Ac), che esprime il valore medio della glicemia in un arco temporale di 80-90 giorni.
Ancora più importante della glicemia basale è il valore di glicemia post-prandiale, che può
essere misurato una o due ore dopo il pasto. Molti studi hanno infatti dimostrato che questo
parametro rappresenta il più accurato predittore di futura insorgenza di diabete e il primo
marker di disglicemia. Il valore ideale è sotto i 100 mg/dl, anche se fino a 120 mg/dl si può
parlare di “normalità”.
Questi numeri, da non considerare come “valori assoluti”, possono altresì rappresentare un utile
strumento per la corretta gestione dei carboidrati nella dieta.
Nei casi di ipoglicemia è importante garantire un apporto di carboidrati da basso a moderato, e
non necessariamente elevato come si potrebbe pensare, ma ben distribuito nel corso della
giornata, in modo da evitare fluttuazioni glicemiche. Questo secondo aspetto è del resto il più
importante e giustifica il ricorso a pasti piccoli ma frequenti (ogni 2-3 ore) per garantire la
stabilità glicemica e il corretto apporto di glucosio alla tiroide.
Di contro, in presenza di iperglicemia si deve puntare a un valore inferiore ai 120 mg/dl entro
due ore dal pasto. E l’unico mezzo per raggiungere quest’obiettivo è la restrizione glucidica,
quantitativa prima ancora che qualitativa.
Qui la domanda sorge spontanea: quanto “low-carb” bisogna andare? La risposta è diversa per
ciascun caso, poiché dipende dalla presenza o meno di insulino-resistenza, e soprattutto dalla
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tolleranza individuale ai carboidrati. Persone diverse avranno infatti risposte glicemiche
diverse nei confronti dello stesso cibo.
Come si può riconoscere la propria tolleranza glucidica, e di conseguenza prevenire o risolvere
l’iperglicemia? Per molti è sufficiente ricorrere al glucometro, e testare il valore della glicemia
dopo pasti di diversa natura. Un valore di glicemia superiore ai 120 mg/dl due ore dopo un
pasto significa che i carboidrati di quel pasto sono ancora “troppi”, indipendentemente da tipo e
quantità di eventuali grassi, proteine o fibre contenuti nello stesso pasto.
Connessione tiroide-intestino
Le alterazioni della funzionalità tiroidea possono nuocere alle funzioni intestinali riducendo la
peristalsi e la produzione di enzimi digestivi, oltre che diminuendo il tasso di produzione di
muco protettivo per le giunzioni che mantengono integro l’epitelio intestinale. Tuttavia anche la
presenza di una flora batterica in salute è essenziale a mantenere l’equilibrio tra tiroide e
intestino, poiché solo alcuni microorganismi sono capaci di produrre l’enzima responsabile della
conversione a livello intestinale dell’ormone tiroideo T4 nella sua forma attiva T3.
La tiroidite di Hashimoto è la più comune malattia autoimmune in tutto il mondo. Cosa dire di
questo crescente fenomeno? Le ultime evidenze scientifiche ci suggeriscono che l’autoimmunità
sia uno squilibrio alimentato in maniera primaria dall’intestino. La tiroide, così come le
articolazioni, il sistema nervoso, etc. rappresentano solo il target secondario
dell’auto-infiammazione comune a tutte queste patologie, che nasce in seguito alla
disregolazione del sistema immunitario ed è dovuto alla eccessiva permeabilità della mucosa
intestinale.
Negli ultimi anni, inoltre, sempre maggior interesse è stato riservato al fenomeno della
contaminazione batterica dell’intestino tenue, aka SIBO. Normalmente la porzione superiore del
piccolo intestino è sterile, ma lo sviluppo di alcune patologie tra cui l’ipotiroidismo può
rappresentare una delle cause che scatenano il loop di maldigestione e malassorbimento, con il
perpetuarsi dell’infiammazione come risultato finale. L’ipotiroidismo, infatti, si caratterizza per la
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scarsa produzione di enzimi digestivi, la presenza di stipsi e gonfiore addominale, tutte
condizioni che alimentano il malfunzionamento del tubo intestinale.
La funzionalità e la salute dell’apparato digerente possono influenzare molteplici funzioni
organiche. Un intestino che funziona male, infatti, si accompagna spesso alla traslocazione di
endotossine dal lume intestinale al circolo sanguigno con conseguente cronica attivazione del
sistema immunitario ed instaurarsi di infiammazione. A sua volta, una tiroide mal funzionante
può contribuire all’aumento dell’infiammazione a livello intestinale, fino alla manifestazione della
sindrome da intestino permeabile (leaky gut syndrome). Circa il 20% della forma attiva
dell’ormone tiroideo viene prodotta nel tratto gastrointestinale. Alcuni particolari
microorganismi componenti il microbiota influenzano la conversione dell’ormone T4 in T3. Uno
squilibrio della flora batterica intestinale, presente nella maggior parte delle malattie croniche,
riduce il tasso di conversione.
Per far funzionare bene la tiroide bisogna avere un intestino in salute e viceversa. Per
mantenere in equilibrio questa sottile connessione è opportuno agire su più fronti, tuttavia il
primo step è sempre la ricerca della causa scatenante. Alla base dell’alterata funzionalità
intestinale possiamo avere l’ipotiroidismo ma anche condizioni come disbiosi, ipocloridria,
infezioni, intolleranze alimentari. Una cosa è certa: vista l’influenza degli ormoni tiroidei sul
benessere di tutti gli altri organi, la terapia ormonale sostitutiva in caso di ipotiroidismo
conclamato accelererà la guarigione dell’intestino. In tutti gli altri casi, invece, è possibile
ripristinare l’equilibrio tra i vari organi ed il sistema immunitario attraverso un’adeguata
combinazione di alimentazione e integrazione.
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Connessione tiroide-asse ipotalamo-ipofisi-surrene: risposta
sistemica allo stress
L’asse HPA è un network complesso di interazioni tra ipotalamo, ipofisi e surreni, in grado di
regolare temperatura corporea, digestione, sistema immunitario, umore, sessualità ed utilizzo di
energia. Questo sistema è inoltre responsabile della nostra reazione allo stress: quando l’asse
HPA è continuamente messo alla prova da stress cronico - per intenderci: situazioni che
estendono a giorni, mesi, anni il meccanismo di “fight or flight”, biologicamente predisposto per
intervenire acutamente - è probabile che nel lungo termine ne risentano le normali funzioni
ipotalamiche ed ipofisarie che riguardano la produzione di ormoni. Questo rappresenta il motivo
principale per cui tutto quello che “sconvolge” l’asse HPA porterà a soppressione della funzione
tiroidea. Numerosi sono gli studi che dimostrano come la produzione ipofisaria di TSH e la
conversione periferica T4 → T3 siano alterate in condizione di cronica produzione di citochine
infiammatorie, IL-6 e TNF-alfa.
Il cortisolo è uno degli ormoni secreti dalle ghiandole surrenali in risposta allo stress, ma cosa
succede negli altri organi quando le concentrazioni ematiche di questo ormone sono
frequentemente alterate e vanno a configurare un processo cronico?
Ad esempio, sarà minore la capacità del fegato di detossificare il circolo sistemico da estrogeni
in eccesso, portando come conseguenza un’aumentata concentrazione circolante di thyroid
binding globulin (TBG). Cosa succede quando gli ormoni tiroidei circolanti sono
persistentemente legati a queste proteine? Risulteranno inattivi, dovendo infatti “sganciarsi”
dalla globulina legante la tiroxina (TBG) per diventare frazioni free (fT3 - fT4). Degno di nota è
sottolineare come oltre allo stress anche l’assunzione cronica di estroprogestinici (pillola
anticoncezionale, terapia ormonale sostitutiva, etc.) porti ad un’aumentata concentrazione
ematica di TBG, causando quindi la diminuzione delle frazioni libere circolanti di ormoni tiroidei.
È dunque opportuno capire cosa causa ed alimenta cronicamente lo stress in modo tale da
interrompere un circolo vizioso che ha come inevitabile risultato l’insorgenza di malattie
croniche. Le cause possono essere sia fisiche che psicologiche, e tra le più frequenti ritroviamo:
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anemia, intolleranza glucidica, infiammazione intestinale, intolleranze alimentari, tossine
ambientali, sindromi ansioso-depressive.
Dopo aver visto l’importanza dell’asse HPA capiamo come il TSH, se dosato e valutato
singolarmente, rappresenti un pessimo biomarcatore dello stato di funzionamento della tiroide.
Sarebbe opportuno valutare non solo gli ormoni direttamente prodotti dalla tiroide ma anche la
cortisolemia al mattino e alla sera o, meglio ancora, il cortisolo salivare.
Fondamentale è poi prestare attenzione al livello di ormone T3, il cui valore ottimale è nella
seconda metà del range di normalità. Avere buoni valori di T4 non vuol dire nulla se la
conversione è scarsa o inibita: valori sufficienti di T3 assicureranno energia metabolica, buona
digestione e lucidità mentale.
Qui elencati alcuni motivi per cui la conversione T4 → T3 può essere deficitaria:
- Carenze nutrizionali: vitamina A, vitamine del gruppo B, vitamina D, cromo, selenio,
zinco, iodio, ferro, rame.
- Farmaci: Estroprogestinici, beta bloccanti, litio, corticosteroidi.
Quali esami di laboratorio eseguire per valutare il funzionamento della tiroide?
Sicuramente è sempre opportuno eseguire almeno il pannello basale, che è composto da: TSH,
fT3, fT4. Il TSH (Thyroid Stimulating Hormone) è un ormone ipofisario e la sua produzione
dipende dai livelli circolanti di ormoni tiroidei. Inoltre un ruolo fondamentale riveste il dosaggio
degli anticorpi diretti contro la ghiandola tiroidea, tra i più comuni troviamo: Ab anti TPO
(Thyroid peroxidase antibodies), Ab anti TG (thyroglobulin antibodies). Perché è così importante
andare alla ricerca di questi segnali auto-infiammatori? Il motivo è semplice: gli anticorpi
anti-tiroide spesso circolano per anni prima che si osservi una variazione nel valore del TSH.
Questo è il motivo per cui è necessario misurare la concentrazione di queste sostanze in
presenza di sintomi tipici di alterata funzionalità tiroidea anche se gli altri esami risultano
normali e, soprattutto, bisognerebbe ripetere l’analisi ematica frequentemente per monitorare le
modalità di “auto-aggressione”.
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Una frase che spesso ci sentiamo ripetere dai nostri medici è: “È inutile controllare
continuamente l’andamento degli anticorpi circolanti, tanto quelli resteranno per sempre
elevati”. Non c’è frase più scorretta, dal momento che la più recente letteratura scientifica ha
ormai dimostrato che una supplementazione con dosaggi adeguati (adeguati!) di alcuni
elementi possa portare alla negativizzazione degli anticorpi circolanti.
Ormoni tiroidei Medicina
convenzionale
Med. Funzionale: OK Med. Funzionale: Ottimale
TSH 0.45 - 4.50 mU/L 1.0 - 2.5 mU/L 1.0 - 2.0 mU/L
fT4 9 - 23 ug/dL 12 - 23 ug/dL 15 - 23 ug/dL
fT3 2 - 4.4 ng/dL 2.8 - 3.2 ng/dL 3.2 - 4.4 ng/dL
Inoltre crediamo profondamente che i sintomi rappresentino il test migliore per la diagnosi dei
disturbi tiroidei e che debbano promuovere l’affannosa ricerca di una soluzione. Nell’immagine
viene presentata una rapida carrellata:
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Qui presentiamo alcuni tra gli scenari clinici più frequentemente fraintesi:
Laboratorio:
TSH - Normale / fT3 - Normale / fT4 - Normale / Ab anti TPO/TG - Negativi
Se i valori rientrano nei range ottimali ma sono ancora presenti sintomi è raccomandabile il
dosaggio di rT3 (alcuni laboratori che li eseguono: Merigen a Napoli; Bios a Roma) e
l’esecuzione di un’ecografia tiroidea.
Laboratorio:
TSH - Normale / fT3 - Normale / fT4 - Normale / Ab anti TPO/TG - Positivi
Tiroidite di Hashimoto eutiroidea: ghiandola tiroidea sotto attacco, ma ancora in grado di
produrre normali quantità di ormoni. Non un buon motivo per non intervenire cercando di
dimunuire il segnale autoinfiammatorio.
Laboratorio:
TSH - Normale / fT3 - Normale / fT4 - Normale / Ab anti TPO/TG - Positivi o negativi
Ipotiroidismo subclinico: la tiroide sta perdendo la capacità di produrre ormoni tiroidei in
sufficienza. Differentemente dal messaggio che in genere passa questa condizione è da
trattare.
Le linee guida europee (2013 ETA Guideline: management of subclinical hypothyroidism)
consigliano di non “supportare” una ridotta funzionalità tiroidea con valori di TSH fino a 10
mU/L, e questo è il motivo per cui molte persone non trattate o trattate parzialmente continuano
ad avere intolleranza al freddo, stanchezza cronica, difficoltà a perdere peso e perdita di capelli.
Schematicamente con queste due affermazioni si possono racchiudere gli errori della moderna
endocrinologia:
1) affidamento sul solo TSH per monitorare la funzionalità tiroidea (Bianco, 2016);
2) terapia sostitutiva eseguita solo con Levotiroxina (Gullo, 2011).
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Le strategie di intervento, come vedremo, devono essere altamente personalizzate.
Tossicità ambientale
Sicuramente, come a lungo descritto in questa guida, la correzione dei fattori di rischio
unitamente ad uno stile di vita salutare rappresentano le alternative terapeutiche migliori per la
prevenzione e la terapia di questi disturbi. Tra le “pratiche di buona salute”, oltre ad
alimentazione, supplementazione e stress management, ci sembra necessario annoverare
l’eliminazione delle sostanze tossiche, che nella vita moderna stanno raggiungendo
concentrazioni eccessive. Tra i componenti sicuramente da riconoscere (sono ovunque) e da
evitare ritroviamo i cosiddetti interferenti endocrini.
Gli interferenti endocrini sono un eterogeneo gruppo di sostanze (contaminanti persistenti,
composti utilizzati nella filiera agricola, composti industriali, fitoestrogeni) caratterizzate dal
potenziale di interferire con il funzionamento del sistema endocrino attraverso svariati
meccanismi (recettoriali, metabolici). L'omeostasi degli steroidi sessuali e della tiroide
rappresenta il principale bersaglio di queste particolari sostanze. Come risultato si ottiene uno
stato di disregolazione: una serie di alterazioni molecolari che impediscono alla cellula di
rispondere in modo corretto ai normali stimoli esercitati da ormoni, agonisti recettoriali, fattori di
crescita ed altri agenti. Queste sostanze producono raramente una tossicità franca se non a
dosi molto elevate, inoltre, proprietà comuni a molti distruttori endocrini presenti nell’ambiente
sono l’elevata persistenza e la lenta eliminazione dalla dose assorbita nell’organismo. Tali
sostanze tendono perciò a concentrarsi e ad accumularsi nei tessuti, potendo raggiungere e
mantenere per lungo tempo concentrazioni cellulari “critiche” anche quando vengono assunte a
piccole dosi.
Di seguito un elenco degli interferenti endocrini con cui più frequentemente entriamo in
contatto:
● Bisfenolo A (BPA): si trova nella plastica e nei prodotti conservati in scatola
● Triclosano: presente dei detergenti antibatterici
● Parabeni: conservanti presenti nei cosmetici
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● Ftalati: composti chimici usati nell'industria delle materie plastiche come agenti
plastificanti
● Sodium lauryl sulfate: tensioattivi comunemente presenti nei prodotti da bagno
● Diossina
● Pesticidi
Cosa possiamo fare per difenderci da queste sostanze?
● Acquistare frutta e verdura da agricoltura biologica quando possibile
● Evitare detergenti antibatterici a base di tensioattivi aggressivi
● Consumare acqua in bottiglie di vetro
● Eliminare utensili di teflon
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Seconda parte: mettere in pratica
Approfondiamo in questa sezione le strategie nutrizionali, diagnostiche e terapeutiche che
possono essere applicate in presenza di un disturbo tiroideo. È bene ricordare che ciascun
intervento deve essere adeguatamente personalizzato.
Test di Barnes
Iniziamo la sezione pratica presentando un test di facile esecuzione, costo zero e affidabilità
elevata: il test della temperatura basale di Barnes. Si tratta di una metodica non sfruttata
abbastanza dalla medicina convenzionale, ma ampiamente diffusa tra i professionisti di
medicina integrata.
Questo test è realmente utile e affidabile per la diagnosi dell’ipotiroidismo, poiché misura la
temperatura corporea “basale”, cioè a riposo, di una persona, consentendole di capire se si
trova in uno stato ipo-, normo- o iper-metabolico.
Dal momento che la tiroide svolge un ruolo cruciale nella termoregolazione corporea, è intuitivo
capire che se la temperatura basale è molto bassa, le possibilità che la persona sia ipotiroidea
aumentano.
Come si esegue il test di Barnes?
Procedimento ● Munirsi di un termometro classico in vetro, “scaricandolo” la sera prima di andare a
dormire e lasciandolo sul comodino.
● Per almeno 3-4 giorni consecutivi, ogni mattina al risveglio, prima di alzarsi e senza
fare movimenti bruschi, misurare la temperatura corporea ponendo il termometro nel
cavo ascellare.
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● Prendere nota delle temperature misurate giorno dopo giorno.
Precauzioni - Bambini, uomini e donne in menopausa possono eseguire il test in qualsiasi giorno,
mentre le donne in età fertile dovrebbero eseguirlo il secondo, terzo e quarto giorno
dall’inizio del flusso mestruale.
- Il test dovrebbe essere effettuato dopo una notte di sonno regolare, senza spuntini
notturni, agitazione o esercizio fisico per almeno 12 ore.
- Non si deve essere eccessivamente coperti a letto, in quanto il calore delle coperte
potrebbe falsare il risultato.
Come si interpreta il test di Barnes?
Valori normali ● I valori normali dovrebbero essere compresi tra 36,5°C e 36,8°C.
● Valori inferiori sono potenziali indicatori di ipotiroidismo.
● Più bassi i valori, più alta la possibilità di essere ipotiroidei. Ci sono persone con
temperature basali più basse di un grado centigrado (35,5°C – 35,8°C) rispetto al
range di normalità.
Considerazioni
La sola presenza di temperature basali molto basse, senza altri sintomi suggestivi di
ipotiroidismo, non è sufficiente per fare diagnosi.
Tuttavia, questo dato rappresenta un indicatore prezioso quando si associa ad altri sintomi
tipici dell’ipotiroidismo, e può altresì essere un elemento discriminante per la diagnosi finale
sia della forma conclamata sia di quella subclinica.
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Alimentazione per la salute della tiroide
Dal punto di vista nutrizionale, il professionista che si occupa di disturbi alla tiroide deve ben
conoscere i seguenti aspetti:
1. L’assunzione di cibi goitrogeni, che potrebbe danneggiare la ghiandola o aumentare il
fabbisogno di iodio.
2. L’apporto di iodio e selenio da garantire attraverso la dieta.
3. La corretta gestione dei carboidrati.
4. Il consumo di alimenti che possono potenzialmente scatenare una risposta di natura
auto-immunitaria.
5. I rischi legati alla pratica del Digiuno Intermittente.
6. Caffè amico o nemico della tiroide?
Approfondiamo uno per uno questi punti.
Alimenti goitrogeni
L’aggettivo “goitrogeno” viene usato per descrivere un anti-nutriente o una sostanza chimica in
grado di inibire la funzione tiroidea attraverso un’alterazione nel metabolismo dello iodio.
Vi sono, in particolare, sostanze goitrogene che inibiscono l'assorbimento dello iodio nella
ghiandola tiroidea, e sostanze che inibiscono la formazione di composti di iodio organico. Anche
un’importante carenza di iodio può tradursi in un effetto goitrogeno, tanto più se attraverso la
dieta si assumono alimenti che ne intaccano il corretto metabolismo.
L’effetto goitrogeno di alcuni alimenti è stato associato sia ad ipo- e ipertiroidismo, sia alla
tiroidite di Hashimoto e al morbo di Graves.
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Tra gli alimenti “lievemente goitrogeni” rientrano la soia, il miglio, le patate dolci, la manioca,
tutte le crucifere (sia cavoli, broccoli, cavoletti di Bruxelles, sia cavolo, cavolo nero, etc.) e altri
alimenti inseriti nel box sottostante.
Vegetali
● Bok choy
● Broccoli
● Cavoletti di Bruxelles
● Cavolfiore
● Cavolo verde
● Cavolo nero
● Cavolo cinese
● Olio di colza
● Rafano
● Rape
● Ravanelli
● Senape indiana (verdura a foglia verde)
● Verza
Altri alimenti
● Soia, tofu, farina di soia, latte di soia
● Lecitina di soia
● Arachidi
● Pinoli
● Manioca
● Patate dolci
● Miglio
● Spinaci
● Pere
● Pesche
● Fragole
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C’è da dire che a basse concentrazioni, l’effetto di questi alimenti non influisce
significativamente sulla funzionalità tiroidea, e può essere facilmente compensato mediante il
corretto apporto e/o l’eventuale supplementazione di iodio. È piuttosto l’esposizione a grandi
quantità di goitrogeni che causa l’incapacità della tiroide di usare correttamente lo iodio, e in
questi casi va da sé che anche l’integrazione esterna diventa inutile.
Il consiglio più importante che si possa dare in questi casi è quello di consumare gli alimenti
citati in quantità e frequenza non esagerate, ma soprattutto di cuocerli. In base al metodo di
cottura, non solo si può ridurre la percentuale di sostanze goitrogene dal 30% al 90%, ma si
abbassa nettamente anche il contenuto di nitrili, tossine naturali presenti nelle crucifere e
potenzialmente più dannose degli stessi elementi goitrogeni. Invece la fermentazione (per es.
dei crauti) riduce maggiormente la quantità di nitrili più che dei goitrogeni.
Non è necessario, se non in condizioni particolari come la gravidanza o qualora si stesse
seguendo un protocollo dietetico specifico, ridurre eccessivamente o addirittura eliminare tutti
gli alimenti goitrogeni dalla dieta. Per individuare il numero di porzioni settimanali da consigliare
al paziente, infine, sarebbe opportuno valutare l’intake di iodio.
L’apporto di iodio e selenio da garantire attraverso la dieta
Sembra paradossale, ma la carenza di iodio è ancor oggi molto diffusa, e non solo nei Paesi in
via di sviluppo. Il fabbisogno per l’adulto è pari a 150 mcg/die, e aumenta fino a 250 mcg/die
per la donna in gravidanza e allattamento. In entrambi i casi, il limite massimo di assunzione
ammonta a 600 mcg/die. Tuttavia, in medicina funzionale si consiglia di garantire un intake di
800 mcg-1 mg/giorno in tutti i casi di apporto insufficiente con la dieta. E come vedremo più
avanti, anche questo dosaggio potrebbe essere insufficiente.
Gli alimenti più ricchi di questo elemento sono il sale iodato, il pesce, le alghe, molti latticini della
grande distribuzione (perché in fase di produzione e confezionamento viene spesso impiegato
iodio) e alcuni tipi di pane. La carenza di iodio è tuttavia indipendente dall’assunzione di questi
cibi, e la prevalenza è altissima e sottostimata. Un altro problema è che molti di questi cibi (sale
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e prodotti da forno) oltre allo iodio contengono e dunque veicolano sostanze tossiche come il
bromuro, dalle quali l’organismo non trae alcun beneficio.
Le alghe rappresentano la fonte di iodio più importante, seppur in quantità variabile in base alla
specie (Kelp e Kombu ne contengono più di tutte, Wakame e Nori meno di tutte).
Bisogna però fare i conti con la sicurezza del prodotto, che rischia di essere contaminato da
tossine e altre sostanze pericolose, e con la cottura. Quando un’alga viene sottoposta a cotture
anche brevi, subisce una drastica riduzione nel contenuto di iodio, dal 40 al 100%. Per esempio
l’alga Kombu, una tra le più diffuse nel nostro Paese e spesso consigliata in aggiunta ai legumi,
perde il 99% di iodio dopo soli 15 minuti di bollitura. Tuttavia, proprio la Kombu e la Kelp,
poiché contengono più di 1300 mcg/1 grammo, possono contribuire ad aumentare l’apporto di
iodio anche da cotte.
Tra i suggerimenti per inserire le alghe nella propria dieta, vi è quello di usare l’alga kelp al posto
del sale, aggiungendola sotto forma di fiocchi alle zuppe o alle uova. Anche la già citata
aggiunta di alga Kombu ai legumi, ma anche in zuppe o stufati, è un buon consiglio, purché
venga aggiunta al massimo 15 minuti prima che la cottura sia finita, in quantità pari a 5-6
grammi.
Per chi ama il cibo etnico, poi, ci sono molti altri modi per incorporare le alghe nelle proprie
ricette, sempre dopo averle reidratate. Ricordiamo che anche le uova, il merluzzo, i gamberetti e
il tonno sono tutti alimenti contenenti buone quantità di iodio.
Una cosa che non si deve assolutamente fare quando si decide di aumentare l’intake di iodio è
quella di farlo tutto d’un colpo, soprattutto se attraverso alimenti mai consumati prima come le
alghe.
Questo discorso chiama in causa anche l’apporto di selenio, che se adeguato dovrebbe
prevenire gli effetti collaterali, ma è senz’altro più sicuro iniziare con una piccola dose,
preferibilmente dalle alghe a minor contenuto di iodio (Wakame, Dulse, Nori), e aumentare
gradualmente nel corso delle settimane.
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Se dovesse però sorgere qualsiasi sintomo sospetto (mani e piedi molto freddi, stipsi o diarrea,
giramenti di testa, insonnia, etc.), è bene sospendere l’assunzione di questi cibi e verificare che
l’intake di selenio sia corretto.
Riguardo a quest’ultimo, c’è da dire che la carenza è molto più rara rispetto a quella di iodio, ma
al tempo stesso si è visto che sia l’aumento dell’apporto con la dieta, sia la supplementazione
mediante integratori, sono strumenti di fondamentale importanza in moltissimi casi di disturbi
tiroidei.
Il fabbisogno di selenio per gli adulti è pari a 70 mcg/die, ma la dose consigliata a chi soffre di
problemi alla tiroide va da 100 a 200 mcg/die. Tra gli alimenti, le noci brasiliane sono in assoluto
le più ricche di questo elemento, seguite da tonno, halibut, sardine, carni (maiale, manzo, pollo,
tacchino) e uova.
Nella sezione dedicata all’integrazione, vedremo quali altri elementi possono rivelarsi molto utile
nel trattamento dei disturbi tiroidei.
La corretta gestione dei carboidrati
Come accennato nella sezione sulla glicemia, in presenza di disturbi tiroidei di varia natura è
fondamentale curare l’apporto dietetico dei carboidrati, principalmente per due motivi:
1) I carboidrati regolano il rilascio di insulina, che gioca un ruolo importante nel
metabolismo degli ormoni tiroidei, promuovendo la conversione del T4 in T3. Quando i
livelli di insulina sono cronicamente bassi, come accade nei protocolli “very low-carb”
(ma anche nei regimi “very low-protein”), si ha una riduzione nel tasso di conversione T4
→ T3, e ciò peggiora ulteriormente il grado di funzionalità tiroidea. In altre parole, la
tiroide ha bisogno di carboidrati, il che non significa dover necessariamente adottare un
regime high-carb, ma garantire almeno il 25-40% di cho al giorno. Minori sono i livelli di
T3, maggiore dovrà essere l’apporto di carboidrati, almeno in fase di ripristino della
funzionalità tiroidea, laddove ciò sia possibile. Il discorso cambia se la persona è
sovrappeso e soprattutto insulino-resistente o anche solo in perenne stato di
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iperglicemia. In questi casi, un apporto tra i 10 e il 20% può essere più che sufficiente
per garantire il fisiologico tasso di conversione e al tempo stesso correggere lo stato di
squilibrio glicemico.
2) Il secondo aspetto riguarda la correlazione tiroide-surrene, approfondita in un paragrafo
della Prima Parte. Un apporto troppo basso di carboidrati, oltre a indurre gli effetti sopra
descritti, mette sotto eccessivo sforzo anche le ghiandole surrenali. Quanto più l’apporto
è mantenuto basso, come nei regimi low-carb, tanto più questo effetto si inasprisce, e
concorre a peggiorare la salute della tiroide, poiché quest’ultima trae supporto e
giovamento dai livelli fisiologici degli ormoni surrenalici. La condizione di affaticamento
surrenalico, inoltre, innesca - o amplifica, laddove già presente - una risposta
infiammatoria sistemica, e può dunque vanificare qualsiasi altro tentativo di ripristino
della funzionalità tiroidea. In questi casi, dunque, è fondamentale risolvere come prima
cosa lo stato di adrenal fatigue, e di conseguenza sarà più facile agire anche sulla tiroide.
Dopo aver compreso l’importanza del giusto apporto di carboidrati, vediamo alcuni
consigli pratici, elencati di seguito.
● Stabilire la quantità di carboidrati da assumere giornalmente, in base al disturbo tiroideo
in corso (auto-immunitario o meno), alla composizione corporea, all’equilibrio glicemico e
insulinemico e al livello di attività fisica praticata.
● Se si è normopeso e con tutti i parametri metabolici nella norma, l’apporto di glucidi può
variare dal 30 al 50-60% dell’intero fabbisogno giornaliero, distribuendo gli alimenti
glucidici preferibilmente nella prima parte della giornata (a colazione e a pranzo) e
curando l’aspetto qualitativo dei carboidrati scelti.
● Se si è sovrappeso e/o i valori di glicemia e insulina sono cronicamente elevati, si può
valutare una restrizione glucidica fino al 10-20% di cho/giorno, da applicare anche in
modo ciclico (per es. 10 giorni al mese, o 5 giorni a settimana). In questi casi è ancora
più importante limitare l’apporto di zuccheri semplici al minimo indispensabile, almeno
fin quando non si sia recuperato un buon livello di sensibilità all’insulina.
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● Pianificare il timing di assunzione dei cho, in base all’attività fisica svolta e alla presenza
di una buona circadianità o meno (sonno regolare, livelli di cortisolo, etc.).
● Soprattutto se si sospetta o si è certi della presenza di sovraffaticamento surrenalico,
l’ideale sarebbe distribuire i carboidrati nella prima parte della giornata, ancor meglio se
dopo una sessione d’allenamento. In questi casi, è inoltre importante non scendere sotto
i 150 g di cho/die, prevalentemente sotto forma di carboidrati complessi non raffinati
(riso semintegrale, cereali in chicco, tuberi ammessi) e solo in minima parte semplici
(frutti di bosco, frutta di stagione, evitando zucchero, snack e dolci).
● In tutti i casi, non scendere al di sotto degli 80-100 g cho complessi/die, scegliendo non
solo le fonti integrali. Non è infatti necessario mangiare al 100% integrale, poiché
l’eccesso di fibra vegetale potrebbe limitare l’assorbimento di micronutrienti importanti.
Via libera quindi a riso basmati, carnaroli, Acquerello, nero e rosso, e all’alternanza tra
farro mono- e dicocco (integrali) e perlato, orzo decorticato e perlato, grano saraceno,
quinoa, miglio, etc.. In tutti i casi, si consiglia la scelta del biologico per un motivo di
maggiore qualità e sicurezza.
Il consumo di alimenti che possono potenzialmente scatenare una
risposta di natura auto-immunitaria
Quando si parla di tiroide e alimenti, non basta conoscere e tenere sotto controllo i cibi
goitrogeni. Esistono infatti altri alimenti che possono esacerbare le patologie di natura
auto-immunitaria, come la tiroidite di Hashimoto o il morbo di Graves.
Tra gli alimenti in questione rientrano pomodori, melanzane, peperoni, peperoncini rossi, patate,
uova, latte e derivati (con l’eccezione del ghee), pepe di Cayenna (non il pepe nero) e paprika. Al
banco degli imputati figurano anche glutine e cereali in generale, ma la cosa interessante è che
il livello di tolleranza è altamente variabile da individuo ad individuo.
Una strategia nutrizionale sempre più diffusa nel trattamento delle tiroiditi e di altre patologie
su base auto-immunitaria è la “Dieta Paleo Autoimmune”, che prevede la totale eliminazione di
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questi cibi per almeno trenta giorni, seguita dalla loro graduale reintroduzione, per verificare se
e quale tra essi dia effettivamente problemi o meno.
È importante che la reintroduzione avvenga un cibo alla volta, per capire se ci sia una
correlazione o meno tra un determinato alimento e la manifestazione di uno o più sintomi.
L’ordine suggerito è: prima le uova (dapprima solo il tuorlo, poi anche l’albume), in seguito i
vegetali citati, sempre uno ad uno, i derivati del latte, dai più stagionati ai più freschi, ed infine i
cereali contenenti glutine.
A proposito di quest’ultimo, c’è chi tollera bene i cereali che lo contengono, purché sottoposti ad
ammollo o fermentazione. Tuttavia, considerando la particolare azione pro-infiammatoria del
glutine, è consigliabile limitarne l’apporto, prediligendo i cereali aglutinati e alcuni tuberi (batate
e topinambur in primis) come fonte principale di carboidrati complessi.
Un’altra categoria da tenere sotto controllo è quella degli oli vegetali industriali - girasole, soia,
mais, cotone, cartamo, etc. - tutti potenziali agenti pro-infiammatori.
Infine, anche nei casi in cui gli alimenti citati siano ben tollerati, occorre tenere presente che
potrebbero alimentare lo stato infiammatorio cronico tipico delle condizioni auto-immuni, ed è
pertanto doveroso consumarli con moderazione.
I rischi legati alla pratica del digiuno intermittente
Il digiuno intermittente (IF) rappresenta uno degli strumenti più potenti per la salute, e in
numerosi articoli ne abbiamo descritto i benefici, le diverse varianti e i potenziali rischi. Tuttavia,
quando si ha un disturbo alla tiroide, sia esso conclamato o subclinico, la pratica dell’IF non
rientra tra le strategie utili, anzi può diventare controproducente. Vediamo perché.
Nello stato di digiuno prolungato (con “prolungato” intendiamo un arco di tempo superiore a
12-14 ore), si osserva un calo progressivo dei livelli di T3 ed un parallelo aumento dei livelli di
rT3. TSH e T4 rimangono invece a lungo invariati, poiché una minor quantità di T4 è trasportata
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ai tessuti periferici, viene dunque prodotto meno T3 e l’eccesso di T4 rimane in circolo, anche
perché ne diminuisce la clearance.
Oltre alla riduzione di tutti gli effetti a livello dei vari organi bersaglio, la riduzione dei livelli di T3
induce un calo del consumo di ossigeno e della frequenza cardiaca. Si osserva, cioè, un
“rallentamento” generale, che a sua volta non aiuta una tiroide in difficoltà.
Ciò equivale a dire che il digiuno intermittente non vada mai praticato da chi ha problemi di
tiroide anche lievi? Non è detto, occorre valutare prima di tutto la funzionalità ormonale: se
conservata, l’IF potrebbe danneggiarla; se persa, l’IF potrebbe peggiorare il setting di un
organismo che sta già mettendo in atto diversi meccanismi di compenso. In questo secondo
caso, tuttavia, se la persona assume ormoni sostitutivi e la terapia può definirsi consolidata, si
potrebbe valutare una semplice compressione della finestra temporale in cui assumere i propri
pasti (per es. 10 ore su 24), misura semplice ma utile soprattutto nei casi di sovrappeso e/o
iperglicemia.
La pratica dell’IF è sicuramente da evitare in presenza di un disturbo auto-immunitario
importante, soprattutto in fase acuta o d’esordio. In questi casi è invece fondamentale adottare
una strategia nutrizionale anti-infiammatoria, come quelle descritte più avanti.
Infine, la buona notizia è che in molti casi le alterazioni a carico degli ormoni tiroidei possono
essere ripristinate a seguito dell’assunzione di quantità anche piccole di carboidrati (non di lipidi
o proteine, per tutti i motivi visti nel paragrafo sulla regolazione glicemica). In questi casi,
dunque, si possono prendere in considerazione forme di IF che prevedano l’assunzione di una
quota glucidica, sempre secondo uno specifico timing.
Caffè: amico o nemico della tiroide?
Non tutti sanno che l’assunzione di caffè in concomitanza ai farmaci per la tiroide può alterarne
l’assorbimento. Si tratta di una scoperta confermata una decina d’anni fa da un gruppo di
Ricercatori italiani, secondo la quale il caffè ridurrebbe notevolmente l’assorbimento intestinale
di T4, come del resto fa con molte altre sostanze organiche e inorganiche.
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Le ricerche in tal senso non si sono però fermate, e si è visto che il Tirosint, uno tra i farmaci più
utilizzati, è l’unico a non risentire della contemporanea assunzione di caffè, forse per la peculiare
forma di levotiroxina in capsule gelatinose. Un’altra forma che in teoria non dovrebbe subire
interferenza è la levotiroxina liquida, ma è tra quelle meno diffuse.
Anche per chi assume tiroide secca è consigliabile attendere almeno mezz’ora se non un’ora
prima di bere il tanto amato caffè.
A questo punto il dubbio sorge spontaneo: se non si assume alcun farmaco per la tiroide, il caffè
rappresenta comunque uno stressor per la ghiandola o può essere assunto senza limiti? Studi
passati avevano attribuito al caffè un potere protettivo nei confronti dei tumori tiroidei, ma
questi dati sono stati smentiti da metanalisi più recenti.
Appurato poi che il caffè di per sè non causi patologie o disturbi della funzionalità tiroidea, è
giusto ipotizzare che in alcuni casi si possa giovare dall’astensione della caffeina, sia a breve sia
a lungo termine. Questo discorso vale soprattutto per chi è ipertiroideo, ma anche per chi soffre
d’ansia, tachicardia, insonnia o iperdiuresi, e per chi potrebbe trovarsi in una condizione di
adrenal fatigue. Perfino chi soffre di emicrania, poiché l’abuso di caffè causa una deplezione di
magnesio, può solo giovare dall’allontanamento della caffeina, ovviamente non solo di quella
contenuta nel caffè, bensì in molti tipi di the e di bevande gasate, con una soglia di tolleranza
individuale altamente variabile.
Addio caffè, dunque? Non per forza. Dopo un periodo di astensione, si può provare a
reintrodurlo gradualmente e in quantità limitata, oppure a sostituirlo o alternarlo con il
decaffeinato, o ancora a renderlo meno aggressivo nei confronti della tiroide e dell’organismo in
generale attraverso un’azione di “estensione” dell’assorbimento della caffeina. L’aggiunta di
grassi, infatti, permette di rallentare lo spike indotto dalla caffeina, ed è anche semplice da
mettere in pratica: basta aggiungere al caffè qualche goccia di MCT oil o un po’ di olio o di latte
di cocco. Chi non ha problemi con i derivati del latte può anche provare il burro chiarificato o il
ghee, ne basta davvero una piccola quantità.
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Infine, per chi soffre di ipotiroidismo o di tiroidite di Hashimoto, non ci sono evidenze sulla
necessità di evitare il caffè, naturalmente se non si hanno altri disturbi che potrebbero giovare
dell’assenza di caffeina nella dieta.
Strategie nutrizionali a confronto
Vediamo ora alcune strategie nutrizionali che possono essere adottate in presenza di un
disturbo tiroideo. L’efficacia dei protocolli descritti è piuttosto variabile da individuo a individuo,
anche se i maggiori risultati sono stati osservati nelle patologie auto-immunitarie come
l’Hashimoto e in molti casi di ipotiroidismo.
1) Paleodieta
2) Dieta di eliminazione (o Food Sensitivities Diet)
3) Protocollo Paleo autoimmune (AIP)
4) Dieta Low FODMAPs
5) Dieta senza glutine
Paleodieta
Si tratta di un protocollo molto diffuso, che prevede l’esclusione di tutti i prodotti industriali e di
intere categorie alimentari (latticini, legumi, cereali). Eliminando alla base tutti questi alimenti, e
quindi il glutine, le caseine, le lectine, etc., si ottiene una dieta decisamente anti-infiammatoria,
al tempo stesso caratterizzata da una drastica riduzione dei carboidrati in favore di grassi e
proteine. Perfino l’intake di frutta va limitato in termini di tipo, frequenza e quantità. Si tratta
dunque di un protocollo piuttosto restrittivo, difficile da adottare soprattutto in una fase iniziale.
Okay - Si può mangiare Non ok - Da evitare
Frutta Latticini
Verdura Grano e derivati
Carne magra Alimenti e zuccheri raffinati
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Pesce, molluschi e crostacei Legumi
Noci e semi Cibi amidacei
Grassi salubri Alcool
Per chi soffre di disturbi tiroidei, il rischio maggiore di questo approccio è dunque l’eccessiva
restrizione glucidica, per i motivi che abbiamo visto nei paragrafi precedenti. In questi casi,
tuttavia, è possibile apportare alcune modifiche, come l’inserimento più frequente di tuberi e
cereali in chicco senza glutine, così da poter trarre i benefici associati a tale dieta.
Dieta di eliminazione (o Food Sensitivities Diet)
Come dice la parola stessa, si tratta di escludere diversi gruppi di alimenti. Il punto di partenza è
duplice: si può prima fare il dosaggio ematico di specifiche IgG per individuare gli alimenti verso
i quali si è allergici, o anche solo “sensibili” (nel senso che l’organismo in quel dato momento
mette in atto una reazione, pur non essendo allergico all’alimento in questione), oppure si
possono direttamente eliminare per 30-90 giorni gli alimenti cui la maggior parte delle persone
è sensibile, reintroducendoli uno alla volta dopo il periodo prestabilito, per valutare se e quanto
facciano star male. I gruppi alimentari in questione includono: alimenti contenenti glutine, soia,
latte e derivati, zucchero, mais, uova, crostacei, arachidi, dolcificanti artificiali. Anche questo
protocollo è molto restrittivo, ancor più della Paleodieta, ma in alcuni casi è il migliore per
ottenere una rapida riduzione dei livelli di auto-anticorpi. Un altro limite riguarda la
reintroduzione dei singoli alimenti, che dev’essere necessariamente lenta e graduale e richiede
dunque molto tempo. Chi sceglie di provare questa dieta, inoltre, deve mettere in conto il costo
dei dosaggi anticorpali, e al tempo stesso ricordarne i limiti.
Protocollo Paleo autoimmune (AIP)
Non è altro che un’appendice della Paleodieta, ancora più restrittiva, in quanto esclude anche
uova, frutta secca a guscio, semi oleosi e alcuni vegetali. Sembra però che sia tra tutte la più
efficace, con una riduzione dei livelli di anticorpi anti-tiroide fino al 43%. I cibi ammessi sono:
vegetali - eccetto quelli esclusi -, piccole quantità di frutta, cocco e suoi derivati, olio d’oliva,
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strutto, olio di cocco, cibi fermentati, carne bianca e rossa grass-fed, pesce, brodo d’ossa, the
verde, aceto.
Alimenti da includere nel protocollo dietetico autoimmune
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Alimenti da evitare nel protocollo dietetico autoimmune
Sicuramente si tratta di un protocollo molto difficile da adottare e mantenere, sia per le
numerose restrizioni, sia per la difficile reperibilità di alcuni alimenti, specie di quelli poco
utilizzati in Italia (brodo d’ossa, cibi fermentati, organi, cocco e derivati). Potrebbe però
rappresentare la carta vincente soprattutto nei casi di auto-immunità multiple.
Dieta Low FODMAPs
Questo protocollo prevede la riduzione o l’esclusione dei cibi ricchi in polioli, mono-, di- e
oligosaccaridi, cioè quegli zuccheri che vengono facilmente fermentati a livello intestinale,
causando disturbi gastrointestinali di vario tipo. Tra i FODMAPs rientrano lattosio, fruttosio,
fruttani e galattani, e i cibi che ne sono più ricchi sono i legumi, il frumento, i latticini, i
dolcificanti, molte varietà di frutta, aglio, cipolla, miele e inulina.
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Si tratta di un protocollo piuttosto efficace in presenza di SIBO o candida, condizioni spesso
riscontrabili in chi soffre di disturbi auto-immunitari a carico della tiroide. Anche in questo caso,
si è infatti osservata una riduzione degli auto-anticorpi di circa il 30%.
Dieta senza glutine
È forse la più nota, e sicuramente la più efficace in chi soffre di tiroidite di Hashimoto,
indipendentemente dall’essere celiaco o meno. L’eliminazione del glutine, come del resto si
osserva per diverse patologie, si traduce infatti in una riduzione dello stato infiammatorio e
dell’auto-immunità. È fondamentale non rimpiazzare gli alimenti classici con versioni gluten-free
piene di ingredienti artificiali e processati. In altre parole, neanche in questo approccio sono
ammessi junk-foods. Mangiare “gluten-free” non comporta effetti collaterali e si associa a una
riduzione degli auto-anticorpi tiroidei del 35%, ma non in tutti i casi può essere sufficiente.
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Oltre alle strategie nutrizionali più efficaci, vi sono invece alcune diete da evitare, soprattutto
quando si soffre di tiroidite di Hashimoto o di ipotiroidismo. Si tratta delle diete low-fat, very
low-carb, chetogeniche e molto ipocaloriche in generale, inclusa la restrizione calorica cronica.
Questi regimi sono infatti potenzialmente dannosi in quanto possono peggiorare la funzionalità
tiroidea e inasprire la down-regulation del metabolismo di T3 e T4.
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Strategie terapeutiche
Ipotiroidismo - alternative all’Eutirox
Il trattamento di scelta nell’ipotiroidismo prevede la diretta somministrazione di T4 (levotiroxina
- “Eutirox”). In realtà, utilizzando esclusivamente T4 la conversione nella forma attiva T3 non
sempre è efficace. Al contrario, somministrare solo T4 può aumentare la conversione in rT3 (che
pertanto è necessario dosare), con una ulteriore riduzione del T3 e un peggioramento dei
sintomi.
Vediamo dunque alcune alternative terapeutiche.
Tiroide secca
È prodotta a partire dalla tiroide di maiale essiccata, polverizzata e formulata in compresse, e
contiene dunque tutti gli ormoni tiroidei, oltre a fattori minori non ormonali naturalmente
contenuti nella ghiandola stessa. Si intuisce quindi il perché la somministrazione di tiroide secca
possa compensare meglio della sola tiroxina. Tale sostanza è inoltre assolutamente sicura,
rientrando regolarmente nella categoria dei farmaci, nonostante dal 2011 la sua reperibilità in
Italia sia diventata molto difficile, e occorra dunque ordinarla tramite le poche farmacie che la
importano dagli USA, previa ricetta medica. L’etichetta del prodotto riporta l’esatto contenuto
degli ormoni, variabile in base alla marca. Le più diffuse sono Nature-Thyroid, Armour ed Erfa.
LIOTIR
Contiene il principio attivo liotironina sodica (T3), un ormone tiroideo di origine sintetica, la cui
struttura ed azione sono identiche all'ormone tiroideo naturale.
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IBSA
Contiene T4 e T3 (levotiroxina e liotironina in terapia combinata) e come, la tiroide secca, può
essere utile in tutti quegli stati in cui persistono i sintomi dell’ipotiroidismo nonostante
l’assunzione di Eutirox.
Come visto nel paragrafo sul caffè, è bene assumere qualsiasi farmaco tiroideo a digiuno, con
sola acqua, e attendere almeno mezz’ora o un’ora prima di bere caffè o the e di mangiare.
Ciò non esclude la possibilità di somministrazione serale degli ormoni tiroidei, come dimostrato
da diversi studi. Questa scelta può anzi rivelarsi la più vantaggiosa, perché evita di dover
attendere per poter mangiare garantendo al tempo stesso un effetto sulla funzione tiroidea in
molti casi migliore rispetto alla somministrazione mattutina. Inoltre, è possibile che fare la prima
colazione entro 45 minuti dal risveglio attivi in modo naturale la funzione tiroidea, in particolare
attraverso la produzione di leptina, mentre ritardare l'assunzione di cibo potrebbe rallentarne la
funzione.
Prima di cambiare l’orario di somministrazione del farmaco è comunque importante consultarsi
con il proprio endocrinologo.
Ricordiamo infine che i cibi che maggiormente interferiscono con l’assorbimento dei farmaci
tiroidei sono la soia, le noci e il succo di pompelmo.
Ipertiroidismo
L’ipertiroidismo invece colpisce circa l’1-2% della popolazione; purtroppo non disponiamo di
alternative terapeutiche così efficaci come nell’ipotiroidismo. Solo nei casi più lievi possiamo
controllare la malattia usando esclusivamente prodotti naturali (integratori, fitoterapici).
Naturalmente, se questa condizione è già stata trattata chirurgicamente o con iodio radioattivo
(e quindi si è passati ad una fase di ipotiroidismo), è possibile ricorrere alle alternative elencate
nel paragrafo precedente.
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Sindrome da basso T3
La Sindrome da basso T3 (low T3 syndrome), è caratterizzata da una serie di modificazioni
dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide che intaccano il metabolismo e il trasporto degli ormoni
tiroidei. Il quadro ormonale è caratterizzato da ridotti livelli di T3, aumento del valore di rT3
(reverse T3) e, nei soggetti gravemente compromessi, riduzione del T4. Il TSH sierico è di solito
normale o inappropriatamente basso, nonostante i ridotti livelli di T3.
I meccanismi fisiopatologici alla base di questa sindrome sono molteplici e complessi:
● Alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisario: citochine proinfiammatorie come
l’iInterleuchina 1 e 6, il TNF-alfa e l’IFN-beta agirebbero sui nuclei paraventricolari
dell’ipotalamo, riducendo la produzione di TRH;
● Riduzione delle proteine di trasporto degli ormoni tiroidei (TBG, prealbumina e
albumina), soprattutto in fase acuta;
● Riduzione dell’attività deiodinasica a livello dei tessuti periferici.
In questi casi, poiché non esiste una terapia d’elezione, è opportuno adottare una strategia volta
a risolvere lo stimolo infiammatorio sistemico di basso grado ed aumentare la conversione T4 →
T3.
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Integrazione e supplementazione
Vediamo ora gli integratori che possono essere utilizzati per migliorare la funzionalità tiroidea.
Alcuni di essi, nel giusto dosaggio e talvolta in combinazione tra loro, possono prevenire
l’assunzione di farmaci, o permettere di ridurne il dosaggio anche in modo definitivo.
Iodio
Come visto nel paragrafo su iodio e selenio nella dieta, secondo la Medicina convenzionale il
fabbisogno per l’adulto è pari a 150 mcg/die, mentre il limite massimo di assunzione ammonta a
600 mcg/die. In Medicina Funzionale si parla di 800 mcg-1000 mcg/giorno. Tuttavia, secondo
gli studi del dottor Abraham, uno dei più importanti ricercatori al mondo sullo iodio, e del suo
allievo dottor Brownstein, il fabbisogno giornaliero è molto più alto, dell’ordine di milligrammi.
Questo dipende dalla capacità dell’organismo di trattenere lo iodio nei tessuti che più lo
utilizzano, tiroide in testa, seguita da seno, prostata, fegato, milza e altri tessuti ghiandolari. In
altre parole, secondo Abraham e Brownstein il fabbisogno per mantenere il giusto livello di
saturazione ammonta a 12-15 mg al giorno (6 mg destinati alla tiroide, 5 mg al seno, il resto
agli altri tessuti), e la supplementazione terapeutica, che va stabilita in base allo stato di carenza
iniziale, varia da 12 a 100 mg/giorno. Il dosaggio può poi essere aggiustato in modo graduale e
sintomo-dipendente, oltre che monitorando i livelli di iodio e degli ormoni tiroidei.
In quest’ottica, anche la forma di assunzione dello iodio diventa discriminante ai fini di
garantirne il corretto assorbimento: secondo i medici sopra citati, lo iodio assunto con il sale
iodato è del tutto inutile, e l’unica formulazione corretta ed effettivamente bio-disponibile si
basa sulla combinazione di iodio e ioduro di potassio in soluzione acquosa o in pastiglie.
Questo filone stravolge la linea di pensiero radicata ormai da decenni, ma a nostro parere
fornisce una potenziale chiave di lettura per molti dei casi in cui le terapie ormonali, di
integrazione e alimentazione non riescono a far ottenere i risultati sperati. La domanda da porsi,
infine, riguarda la possibilità di valutare sin dall’inizio il livello di saturazione dello iodio
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nell’organismo, piuttosto che tenerla come ultima chance. E di questo si parlerà in un articolo
dedicato.
Selenio
Già alcuni decenni fa, lo studio della biochimica e della fisiologia umana ha permesso di capire
quanto questo elemento sia importante per la funzione della tiroide. Numerosi enzimi, tra cui
quello responsabile della conversione T4 → T3, utilizzano infatti il selenio come cofattore. Vi
sono inoltre le cosiddette selenoproteine, che richiedono il selenio quale componente
strutturale, e comprendono la glutatione perossidasi (GPx), la iodiotironina deiodinasi (ID) e la
tioredoxina reduttasi (TR).
L’integrazione di questo elemento dovrebbe dunque rappresentare la prima mossa in presenza
di qualsiasi disturbo tiroideo, sia esso di natura auto-immunitaria o meno. In particolare, la
forma maggiormente biodisponibile è rappresentata dalla selenometionina, che in dosaggi pari
a 200 mcg/die e dopo almeno tre mesi di integrazione si è dimostrata efficace nella riduzione
dello stimolo infiammatorio e dei livelli di anticorpi circolanti. Questo tipo di supplementazione è
da ritenersi sicuro fino a dosaggi di 400 mcg/die.
Zinco
Spesso dimenticato, questo elemento è in realtà indispensabile sia per la sintesi degli ormoni
tiroidei sia per la conversione di T4 in T3. Anche in questo caso, è stato dimostrato che la
supplementazione migliora la funzionalità tiroidea. Il dosaggio raccomandato è pari a 20 mg/die,
preferibilmente sotto forma di zinco picolinato o glicinato, le due forme maggiormente
assorbibili.
L-tirosina
Precursore non solo dell’ormone tiroideo tiroxina ma anche di adrenalina, noradrenalina e
dopamina, questo aminoacido rappresenta un supporto ottimale per la funzionalità della tiroide
e la regolazione dello stress. Grazie alle proprietà di molecola adattogena, la supplementazione
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di l-tirosina mostra infatti ottimi risultati per contrastare affaticamento, insonnia, ipotiroidismo e
stress di varia natura. Il dosaggio iniziale consigliato è pari a 500 mg/die, preferibilmente la
mattina a digiuno.
DHEA
La somministrazione di questo ormone, i cui livelli calano fisiologicamente a partire dai 25 anni,
è consigliata soprattutto nei casi di affaticamento surrenalico, che come abbiamo visto si
accompagna spesso a uno squilibrio tiroideo. In alcuni casi il DHEA può essere prescritto
insieme al cortisolo e alla melatonina, ma si tratta di terapie da eseguire sotto controllo
endocrinologico. Il dosaggio del solo DHEA può variare da 20 a 50 mg/die.
Vitamina D
L’importanza di questa vitamina è nota, ed anche nel caso delle patologie tiroidee la sua
presenza si rivela a dir poco necessaria, soprattutto nelle condizioni di auto-immunità. A livelli
adeguati, la vitamina D contribuisce infatti alla regolazione del sistema immunitario, e non è un
caso se la carenza di tale sostanza sia stata espressamente associata ai disordini tiroidei
auto-immunitari, motivo per cui è sempre indicato controllare i livelli ematici nei pazienti con
malattie tiroidee. Si è visto inoltre che la supplementazione è efficace sia nella riduzione degli
auto-anticorpi sia nel miglioramento della funzionalità ormonale. Il dosaggio dipende da
numerosi fattori, e può variare da 2.000 UI/die a 10.000 UI/die.
Vitamina C
In presenza di disturbi tiroidei, la supplementazione di vitamina C è utile per migliorare
l’assorbimento dello iodio. Dose: 1-2 g/die.
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L-carnitina
Questo aminoacido va usato solo nei casi di ipertiroidismo, in quanto a dosaggi maggiori di
quelli fisiologici è in grado di inibire l’entrata degli ormoni tiroidei nelle cellule, agendo dunque
come antagonista del TSH. Il dosaggio va da 2 a 4 g/die.
Curcumina
Gli effetti anti-infiammatori e anti-ossidanti di questa molecola possono essere molto utili in
presenza di malattie tiroidee su base auto-immunitaria, a dosaggi maggiori di 100 mg/die. Di
fondamentale importanza è la forma in cui la si assume, che ne determina assorbimento e
biodisponibilità. Ci sono infatti pochissimi integratori validi in commercio.
Coleus, Guggul, Ashwagandha
Queste sostanze naturali possono essere molto utili in tutti i casi di ipotiroidismo. Agendo sia
sulla tiroide che sul fegato, non solo riducono la perossidazione lipidica e i danni dei radicali
liberi, ma sono anche in grado di aumentare la conversione T4 → T3. I principi attivi del Coleus
e del Guggul sono, rispettivamente, la forskolina e i guggulsteroidi. L’ashwagandha ha ottime
proprietà anche nei confronti dell’equilibrio surrenale. L’assunzione di queste erbe naturali può
avvenire mediante infusi o capsule, a dosaggi e combinazioni variabili. Anche l’edera, grazie al
contenuto di ederacoside-C, α-ederina e glucosidi, rientra nella categoria degli stimolanti
tiroidei.
Tiamina
La stanchezza rappresenta un sintomo comune nei casi di tiroide ipofunzionante, tuttavia
rappresenta una manifestazione associata anche ad insufficienza surrenalica, intolleranze
alimentari e carenza di nutrienti. In quest’ultimo gruppo rientra una condizione che molto
spesso viene trascurata: la carenza di vitamina B1 (tiamina). La tiamina svolge numerose
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funzioni tra cui alcune relative al metabolismo dei carboidrati e alla secrezione di acido cloridrico
nello stomaco durante la digestione. La deplezione di questa vitamina è relativamente frequente
in diete restrittive, condizioni di stress e malattie autoinfiammatorie incluse quelle a carico della
tiroide, ed è ritenuta tra i maggiori responsabili di maldigestione e stanchezza cronica. Si
consiglia un dosaggio pari a 100-600 mg/die, in base alla serietà dei sintomi.
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Conclusioni
L’universo riguardante la tiroide è quanto mai vario e complesso, la sua cura è molto più
articolata di una semplice pastiglia.
Si tratta di prendersi cura dell’intera persona che ci sta di fronte, saperne individuare eventuali
squilibri energetici o metabolici. Per far questo serve una fase diagnostica molto accurata e poi
un percorso terapeutico idoneo, personalizzato e quindi diverso per ciascun individuo.
Ci auguriamo che con questa guida risulti più semplice la sensibilizzazione della comunità
scientifica, oltre che della popolazione generale, riguardo ad un argomento molto spesso
sottovalutato.
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