tesi europa carolingia
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1
INDICE
INTRODUZIONE…………………….. …………………………………………………….pag 6
CAPITOLO I
1. L’insediamento in Gallia……………………………………………………………………pag 8
2. L’emergere della dinastia merovingia…………..………………………………………………………pag 10
3. Il regno: patrimonio, spartizione e organizzazione……………………………………………………….………….pag 13
4. L’affermazione dei Pipinidi………..…………………………………………………………pag 16
5. Carlo Magno5.1 Sulla Nascita
……………………………………………………………..pag 185.2 Le origini mitiche: Troia
…………………………………………..………………....pag 205.3 Le conquista
……………………………………………………………...pag 215.4 L’incoronazione a imperatore
………………………………………………………………pag 255.5 Sulla famiglia
……………………………………………………………….pag 275.6 La vecchiaia
……………………………………………………………...pag 275.7 Normanni e Mussulmani
……………………………………………………………....pag 295.8 La “Divisio Regnorum” dell’806
……………………………………………………………....pag 325.9 Il testamento e la morte
……………………………………………………………....pag 34
CAPITOLO II
1. L’assetto italiano…………………………………………………………………….pag 36
2. I Franchi e il regno Longobardo: l’inizio del conflitto………………………………………………………………….…pag 38
3. Un passo indietro…………………………………………………………………….pag 403.1 La spedizione del 773 – 774
...................................................................................................pag 42
2
4. Dai primi anni di dominio alla divisione dellecorone e la nomina del Rex Langobardorum…………………………..…………………………………………….pag 465. Verso nuovi assetti ed un nuovo sovrano: l’Italia e Ludovico il Pio
…………………………………………………………………….pag 536. La lotta per il potere dopo la morte di Ludovico il Pio e il nuovo sovranoLudovico II…………………………………………………………………………pag 60
6.1 il rapporto con la Chiesa e il confronto con i Saraceni…………………………………...................................................pag 62
6.2 L’Italia di Ludovico e i suoi rapporti con la Chiesa…………………………………………………………………..pag 63
6.3 Gli ultimi anni di Ludovico: la successione,un Italia sotto un unico re e nuovi poteri…………………………………………………………………...….pag 65
7. Gli ultimi re carolingi e la nascita di un nuovo potere…………………………………………………………………….…pag 68
CAPITOLO III
1. Le guerre pagane: quadro storico…………………………………………………………………..pag 71
2. La campagna sassone………………………..…………………………………………pag 712.1 Conclusione: perché una campagna così lunga?
……………………………………………………....……….pag 822.2 Strategie militari e battaglie campali
……………………………………………………………….pag 833. Una spedizione infelice: la guerra contro gli Arabi
…………………………………………………………………...pag 854. La guerra contro gli Avari
……………………………………..…………………………….pag 864.1 I discendenti di Attila
………………………………………...……………………..pag 864.2 Tassilone e il ducato di Baviera
.................................................................................................pag 874.3 Il nuovo confine e le guerre avare
…...……………………………………………………..……pag 895. Una “congiura di famiglia”
………………………………………………………………...... pag 94
3
CAPITOLO IV
1. Un rapporto a tre complicato: Carlo – Chiesa – Bisanzio…………………………………………..…………………………...pag 96
2. Il conflitto fra Papato e Bisanzio……………………………………………………………………….pag 97
3. La chiesa e il suo nuovo “alleato”: i rapporti franco – papali……………………………………………………………………….pag 993.1 Le promesse di Carlo e Pipino e lo sviluppo della nuova allenaza
……….…………………………………………………………pag 1004. La crisi di potere a Costantinopoli e in Occidente
……………………………………………………………………...pag 1065. L’incoronazione tra simboli e varie interpretazioni
………………………………………………………………..…….pag 1086. I rapporti tra l’Impero e Bisanzio dopo l’incoronazione
……………………………………………………………………...pag 1117. I rapporti tra Chiesa e Impero
……………………………………………………………………...pag 1148. Un rapporto particolare: Carlo e il califfo Harun al-Rashid
……………………………………………………………………...pag 1159. Il Papato e l’ideologia imperiale: tre lettere per tre ideologie:
“imitatio e translatio imperii”...........................................................................................................pag 116
10. La divisione tra questioni dottrinali e attività legislativae amministrativa……………………………………………………………………...pag 124
CAPITOLO V
1. L’Europa e il concetto di Europa in età carolingia:quadro storico……………………………………………………………………pag 126
2. Chi sono questi barbari ?…………………………………………………………………....pag 128
3. Lo sviluppo del latifondo: un antenato del vassallaggio………………..…………………………………………………...pag 130
4. Un tentativo di riunificazione………….………………………………………………………...pag 131
5. Carlo Magno e l’Europa………………..…………………………………………………...pag 1345.1 L’Europa franca o tedesca?
…………………………………………………………...........pag 1346. La “Tesi di Pirenne”
…………………………..……………………………………........pag 1377. I processi di formazione dell’Europa carolingia
…………………………………………………………………..…pag 140
4
8. Conclusioni personali…………………………………………………………………….pag 145
CAPITOLO VI
1. Un impero, tante identità: un’introduzione personale…………………………………………………………..………..pag 147
PRIMA PARTE………………………………….…………………………..…… …pag 1482. Il re e il rapporto con i sudditi
……………………………………………………….…………..pag 1483. Il governo
………………………………..……………………...………….pag 1533.1 Struttura centrale
………………………………………………………………pag 1533.2 Il governo locale
…………………………………………………..………….pag 1553.3 Il ruolo governativo degli uomini di Chiesa
………………………………………………....…………...pag 1604. Le risorse dell’Impero
4.1 Il demanio pubblico……………………………………………………………....pag 164
4.2 L’inquadramento degli uomini…………………………………….………………………..pag 167
5. La giustizia5.1 I giudici
….…………………………………………………………..pag 1705.2 La procedura
……………..………………………………………………..pag 1715.3 La pluralità delle leggi
……………………………………………………………... pag 1746. Una società clientelare
…………………………………………………………….….….pag 1756.1 I potenti
……………………………………………….…………...…pag 1766.2 Il mondo contadinio
…………………………………………………...….……….pag 1787. Le facce del potere
……………………………………………………………………pag 1817.1 Il feudalesimo
……………………………………………………………….pag 1837.2 Un potere senza deleghe: le signorie
…………………………………………………………...…..pag 1888. I Poteri dei franchi nel regno Longobardo
8.1 I poteri regi…………………………………………………………….....pag 189
5
8.2 I vescovi e il potere del Papa………………………………………………………………..pag 193
9. Alcuni approfondimenti9.1 Il concetto di fedeltà
………………………………………………………………...pag 1969.2 Il vassallaggio
………………………………………………………..……….pag 1979.3 L’impalcatura politica, i capitolari, l’immunità
………………………………………………………………...pag 198SECONDA PARTE……………………...…………………………………………………..pag 20010. Una storia che parte da lontano
…………………………………………………………….………pag 20211. I “bacaudae” l’area celtica
………………………………………………………………….....pag 20412. Il mondo dei Germani
……………………………………………………………………..pag 20813. Nuovi regni d’occidente: i franchi, da federati a dominatori
………………………………………………………………..……pag 21414. Una piccola parentesi: l’Italia Longobarda
………………………………...…………………………………...pag 22015. L’impero Carolingio
…………………………………….……………………………….pag 22315.1 Un impero, tante leggi
…………………………………………..……….……………..pag 22415.2 Popoli nuovi
…………………………………………...……………………..pag 22615.3 La lingua
………………………………………………………………....pag 22715.4 Le minoranze
………………………………………………………………….pag 23116. L’Italia in età carolingia
…………………………………………………...………………....pag 23317. Verso l’Anno Mille: l’impero carolingio e le “nazioni”
……………………………………………………………………...pag 239
CONCLUSIONI……………………………………………………………………………...pag 250
BIBLIOGRAFIA………………….…………………………………………………………..pag 261
6
INTRODUZIONE
Cosa si può intendere con il termine “ambiguo”?
Se si fa riferimento alla definizione del dizionario, esso può
essere usato come sinonimo di “equivoco”, “dubbio”.
Ma è possibile trovare in un campo come quello storico, che basa
le sue notizie e le sue informazioni su dati e fonti palesemente
trasparenti, un argomento che presenta una tale caratteristica di
complessità?
E’ stato proprio questo lo scopo della mia trattazione: cercare di
individuare, fornendo notizie basate su avvenimenti storici ben
dettagliati e facendo riferimento a mie osservazioni personali, cosa
potesse celarsi dietro il titolo “d’Impero” assunto dalla dominazione
carolingia, a partire da Carlo Magno.
Dopo una piccola introduzione storica, riguardante i fatti che
portarono al cambio di vertice societario, col passaggio di consegne
dalla dinastia merovingia a quella carolingia, ho concentrato la mia
attenzione su Carlo e sulla sua ascesa, per poi riportare anche qualche
informazione sui suoi successori.
È appunto il periodo di reggenza di Carlo che ho cercato di
mettere maggiormente sotto la lente d’ingrandimento per cercare di
mostrare come è vero che il suo possa tranquillamente chiamarsi
impero, ma che comunque non si trattasse proprio di un impero “come
tutti lo conoscevano“.
Ad aggiungere peso alla “teoria” portata avanti nel mio lavoro,
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ho ritenuto opportuno concedere spazio all’argomentazione di alcune
campagne del sovrano, su tutte certamente Italia e Sassonia, per
tentare di mostrare in maniera pratica quale fosse il suo agire contro i
popoli appena sottomessi.
Dopo aver lasciato spazio, nei primi tre capitoli, a fatti per la
maggior parte storici, ma che possono generare già dei “dubbi”,
secondo me, sull’unità strutturale e sulla forza dell’amministrazione
carolingia, ho trattato, nel quarto capitolo, i rapporti che il sovrano,
simbolo dell‘Impero (almeno finché fu Carlo a detenere la corona),
aveva instaurato con le altre due grandi autorità dell’epoca: il papato e
l’imperatore bizantino.
Nel penultimo capitolo, il quinto, la mia analisi si è spostata su
un concetto un po’ più ampio, abbracciando l’idea che dava all’impero
carolingio i natali di una primitiva sensazione di Europa.
In ultimo ho cercato di delineare i fatti che portarono l’impero,
una volta disgregatosi, a formare quelli che in un futuro non molto
lontano saranno identificati come “stati nazionali“.
Ho terminato il lavoro con delle osservazioni personali ed un
indice cartografico.
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CAPITOLO I
1. L’insediamento in Gallia
Tra i popoli germanici, che attraversando il Reno, si erano
insediati, prima come alleati e poi come padroni, sul territorio
dell’impero romano d’Occidente, i Franchi avevano occupato un posto
di spicco.
Siamo a circa tre, quattro secoli prima di Carlo.
I Franchi a dirla tutta non erano nemmeno un popolo.
Erano una confederazione di tribù del bacino del Reno: Bructerii,
Cattuarii, Camavi che parlavano lo stesso dialetto germanico,
praticavano gli stessi culti religiosi, finendo poi per darsi il un nome
collettivo. Questi raggruppamenti tribali, di religione politeista,
operavano per lo più come predoni attorno alle foci di Reno, Mosella
(zone poi dove si concentrerà il loro maggior insediamento) e Schelda,
fino alla metà del IV secolo1.
“Quei barbari” così si erano impadroniti della Gallia, che
nell’Occidente impoverito del tardo impero, era forse la provincia più
prosperosa e popolosa, con l’intenzione di non spartila con nessuno:
sconfitti e cacciati oltre i Pirenei i Visigoti, che si stanziavano
nell’attuale Provenza; i Burgunti, insediati nella valle del Rodano,
avevano dovuto riconoscere la superiorità franca, sottomettendosi a
loro.
Diversa sorte tocco ai Gallo-romani che popolavano le province
1 Barbero A., Carlo Magno.Un padre dell’Europa, Ed. Laterza, Bari 2004, pag. 8.
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galliche.
Questi prima diventarono, foederati, ossia alleati, guidati da
Chiederico, discendente del leggendario Merovero, dai cui poi il
termine Merovingi. Romani e Franchi combatterono fianco a fianco,
sconfiggendo due volte i Visigoti negli anni Sessanta del secolo V,
presso la Loria.
Chiederico si pose come difensore “romano” dell’intera
provincia nord-gallica.
Franchi e Galloromani, ai quali fu consentito di restare e di
mescolarsi con i franchi, diedero vita ad una nuova stirpe.
Altro motivo importante perché i Galloromani non furono
scacciati, è che i Franchi da soli non sarebbero mai riusciti a popolare
l’intera Gallia.
I loro insediamenti restano concentrati per lo più nella parte
settentrionale, lungo il corso del Reno, della Mosa e della Mosella,
non arrivando quasi mai nelle zone del sud e lasciando a chi si
insediava nelle zone più centrali la possibilità di essere assorbiti dalla
cultura e dagli usi romani (da queste influenze nascerà ad esempio il
francese moderno). La Loria e i Galloromani della Provenza e
d’Aquitania continuano a vivere come in passato, pagando solo un
tributo ai re barbari del nord. Solo li, il nord appunto, i Franchi
restano più numerosi dei Romani, ed è li che si colloca il confine di
passaggio tra l’Europa latina a quella germanica.
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2. L’emergere della dinastia merovingia
I decenni del V secolo segnano un ulteriore progresso
nell’organizzazione e nella formazione di quello che sarà il regno
Franco.
A governare era Clodoveo (481-511), figlio di Childerico, che
intensificò il suo moto di conquista affermandosi sugli altri capi
militari. Due furono le sue importanti affermazioni:
- nel 486 pose fine alla più grande dominazione Galloromana,
battendo a Soissons le truppe di Siagrio. Il nuovo popolo si espanse
cosi verso ovest, dando vita a quella che sarebbe stata definita
“Neustria” (nuova terra dell’ovest, che coincideva con lo spazio della
Gallia nord-occidentale) e innestando il suo potere sulle precedenti
strutture romane ancora sostenute, se pur in rovina, da una colta
aristocrazia locale da cui i franchi rilevarono un gran patrimonio
fiscale;
- nel 507 a Vouillè, Clodoveo sconfisse i Visigoti di Alarico,
ricacciandoli in Spagna, allargando così il controllo anche nella
Francia sud-orientale, che riprese il nome di Aquitania. Nello stesso
anno sconfisse, di nuovo, anche gli Alamanni.
Anche se sotto un unico re, Clodoveo appunto, il regno franco in
Gallia restava sempre una pluralità di tribù.
Durante le sue operazione militari, in un anno non preciso della
fine del V secolo, Clodoveo scelse di farsi battezzare da san Remigo,
metropolita di Reims, avvertendo come il padre l’ascendente morale e
religioso dei vescovi nord-gallici.
Tale episodio anticipava la conversione dal politeismo germanico
11
al cattolicesimo, processo che avrebbe toccato prima l’aristocrazia, per
poi allargarsi a tutto il popolo franco.
Clodoveo poteva così qualificare il proprio potere nel segno
dell’adesione cattolica, un re devoto chiamato a tutelare la fede
cristiana in Occidente.
La mancanza di un episcopato, permise a Clodoveo di esercitare
direttamente il controllo sui vescovi, su coloro cioè che effettivamente
governavano la Gallia, grazie alla cultura e ad ingenti patrimoni, e a
volte anche a capacità militari.
A legittimare la nuova posizione del sovrano accorsero anche una
serie di interventi, anzi veri e propri atti di stato.
Di questi ci informa il Decem Libri Historiarum del vescovo
Gregorio di Tours, fonte principale della storia franca fino alla fine del
VI secolo.
Proprio a Tours nel 508 Clodoveo riceve dall’imperatore
Anastasio il titolo di praticiu, che significa: riconoscimento da parte
bizantina, e inserimento della provincia dell’Aquitania nella
compagine politica franca.
Dello stesso anno è la legge che fissa le norme di convivenza
della propria tribù, quella dei franchi salii, non ancora influenzati
dalla rinuncia al paganesimo.
Il Pactus Legis Salicae, insigniva Clodoveo degli attributi di un
sovrano tardo antico, come ad esempio il visigoto Teodorico.
Cosi nel 511 convocò, a Orlèans il primo concilio del regno
franco che suggerì la strada per un organizzazione ecclesiastica
fortemente influenzata dal re.
Il concilio:
- consolidò la posizione dei vescovi, quali capi monarchici
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delle loro diocesi;
- facilitò l’integrazione dei territori aquitanici, dove più
solida era la presenza della maglia vescovile.
Fino agli anni settanta del VII secolo la convocazione dei concili,
necessari strumenti per la gestione del regno, sarà prerogativa dei
Merovingi, vigili sull’elezione dei vescovi.
Se questo è l’assetto governativo, quello invece fisico risente
della tradizione di dividere il regno tra i figli del sovrano.
Questo determinò la formazione di diversi regni, uniti o separarti
in base alle contingenze.
Il regno tra il Reno e la Mosella, quello più orientale, l’unico nel
quale i franchi fossero la maggioranza, con lingua madre del ceppo
dell’est germanico, che prende il nome di “regno dell’est”, o Austria o
Austrasia. Questo regno, anche grazie alla sua posizione geografica
seppe imporre la sua autorità anche ai popoli della Germania
meridionale, incorporando i ducati di Turingi, Alamanni e dei Bavari,
nella zona d’influenza francese.
Ad occidente invece, come già menzionato nel paragrafo
precedente, nasce dopo la sconfitta a Soissons, il regno di Neustria
(regno nuovo), che comprende Parigi, Orlèans, e appunto Soissons,
con lingua prevalentemente romanza e con il confine meridionale
segnato dalla Loria.
Continuando l’analisi dell’assetto geo-politico, fra il Rodano e le
Alpi si colloca il regno di Burgundia, che formava un’ identità politica
separata, anche se ben presto dovette rinunciare ad avere un proprio re
e riconoscere l’egemonia del re franco di Neustria.
La Provenza, dove i franchi erano in netta minoranza, continuava
ad essere governata da un funzionario romano col titolo di “patrizio”.
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Questi però non rispondeva più a Costantinopoli, ma all’uno o
all’altro dei re franchi.
L’Aquitania in fine dove la popolazione Galloromana era
affiancata da un’irrequieta minoranza basca, tendeva a sfuggire al
controllo franco, restando governata soltanto da un duca, e non da un
re indipendente.
Solo la famiglia Merovingia riuscì ad unificare tutto il regno.
Simbolo della loro regalità era la lunga capigliatura, dalla quale
traevano il nome di “reges criniti”, a rappresentanza della prosperità
da garantire al popolo, alla fertilità delle donne e della terra.
Con la conversione al cristianesimo tale credenza, di ovvia
origine pagana, andò a poco a poco affievolendosi, così come
l’autorità dei re-sacerdoti merovingi.
3. Il regno: patrimonio, spartizione e organizzazione
Alla morte di Clodoveo che aveva gettato le basi del regno franco
e della sua dimensione ideologica della regalità, si poneva il problema,
ricorrente nelle dinastie carolingie, della successione tra gli eredi2.
La soluzione semplice era il dividere il regno, considerato come
patrimonio immobiliare privato.
Così nel 511 il territorio della “Francia”, e dell’ Aquitania, venne
diviso tra i quattro figli di Clodoveo, senza la prevalenza di nessuno in
particolare.
A Teodorico andò Reims, a Clodomero Orlèans, a Childeberto
Parigi, e Clotario Soissons.
2 Benigno F., Donzelli C., Fumian C., Lupo S., Mineo E.I., Storia medievale, Donzelli editore,Roma 1998. pag. 178.
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Salta subito all’occhio, vista la spartizione, che non sono più i
confini la parte importante del regno, ma le città, le “civitates”, fulcro
di una geografia politica, destinata a sopravvivere nei secoli.
Le città rappresentavano il legame con Roma, e la continuità col
passato romano, ma la monarchia continuerà a governare in modo
itinerante.
Com’ era solito accadere, alla morte di uno degli eredi gli altri
entravano in lotta per appropriarsi delle terre lasciate prive di
controllo, con interventi di regine, figli e addirittura concubine.
A differenza di quello che però poteva sembrare, questi conflitti
interni favorivano la coesione tra i franchi.
Ad esempio, durante la prima spartizione del regno, questa non
interferì con l‘ espansione territoriale che si materializzò nella
conquista dei burgunti (534), a cui fecero seguito i territori dell’attuale
Sassonia controllati dai Turingi e gran parte della Provenza tenuta
allora dai Goti (531).
La stabilizzazione del governo e la conquista della Provenza
consentiva un rapporto continuo con le potenze che si affacciavano sul
Mediterraneo, allargando le mire franche anche su quei territori e in
particolare sull’Italia.
A nutrire la politica franca sul mediterraneo fu anche lo “scontro
\ confronto” con l’imperatore bizantino.
Ciò incentivato dalla voglia dei re franchi di avvicinarsi
all’immagine dell’imperatore. Ambizione che si esplica nel caso di
Teodorico (511-534), e del figlio Teodeberto, arroganti nel coniare una
loro moneta, prerogativa monopolizzata da Bisanzio.
L’anno 561 si apre con il problema di una nuova suddivisione
dopo la morte di Clotario, il quale per pochi anni era riuscito a riunire
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nelle sue mani il regno.
La morte di uno dei tre figli del re, accese lo scontro tra gli altri
due, Chilperico e Sigiberto, rispettivamente sovrani di Neustria e
Austrasia, che intendevano accaparrarsi la sua parte, frutto anche di
una maggiore concezione monarchica.
Lo scontro andò avanti per anni, accompagnando tre generazioni
di merovingi.
Alla fine chi ne usci meglio furono le aristocrazie Galloromane e
franche, fortemente rinforzate.
Da questa nuova spartizione uscirono poi assestate i nomi di
Austrasia, Neustria e Burgundia, con l’adesione dei cittadini
merovingi ai monasteri dotati di immunità e lo spostamento di
residenze verso questi regni parziali.
L ‘apogeo del potere merovingio è realizzato da Clotario II figlio
di Chilperico e da suo figlio Dagoberto (584-639).
Circa un secolo dopo la morte di Clodoveo (613-614) e dopo la
morte di Brunilde, orientata più a favorire i territori di Burgundia e
Austrasia, il regno era di nuovo riunito.
La totalità nelle mani di Clotario II non segnò certo un’ epoca di
pace, anzi talmente soggetto ad attacchi e rivolte alla fine riuscì a
conservare solo una dozzina di “paghi” (circoscrizioni amministrative
presenti soprattutto nella Gallia settentrionale).
Risolutivo per Clotario II fu l’appoggio di Pipino di Landen e
Arnolfo, vescovo di Metz, grandi proprietari in Austrasia, da cui poi
discenderanno i carolingi.
Con il concilio di Parigi del 614 Clotario II ratificò alcune
prerogative dei sovrani precedenti, riaffermando le sue prerogative di
difensore della giustizia, anche se molte furono le concessioni di
16
potere alle aristocrazie locali.
Clotario II divise il suo regno in due parti per i suoi figli
Dagoberto e Cariberto, a occidente Neustria e Burgundia, nella parte
orientale l’ Austrasia. Questo regno tornò di nuovo nelle mani di uno
solo, quando alla morte del fratello, Dagoberto prese sotto di sè tutto il
regno.
Tale periodo coincide anche con numerose vittorie militari: Avari
bulgari, slavi vengono ricacciati; sassoni e bretoni parzialmente
sottomessi.
Ora la pressione era su Spagna e Italia.
4. L’affermazione dei Pipinidi
La morte di Dagoberto aprì un nuovo periodo di paralisi,
coinvolgendo le aristocrazie di Austrasia e Neustria, queste ultime
erano ormai organizzate dai “maestri di palazzo”. Fino al 688 tutti i
regni avevano un maestro di palazzo, che ufficialmente governava al
posto del re, ma che tendeva a soppiantarlo lasciandogli un ruolo
marginale. Più di ministri possiamo parlare di vice-re, se non di “re“,
in grado di chiamare o revocare il trono alle famiglie merovinge.
Tra le famiglie di palazzo più importanti, grossa fortuna ebbero i
Pipinidi, il cui primo esponente di rilievo fu tra il VI e il VII secolo
Arnolfo vescovo di Metz. I Pipini, discendevano dall’alleanza di due
grandi latifondisti d’Austrasia, Pipino detto il Vecchio e Arnolfo
(divenuto poi vescovo di Metz) morti entrambi nel 640.
Più precisamente il legame si creò dal matrimonio della figlia di
Pipino, con il figlio che Arnolfo ebbe prima di diventare vescovo.
Nel 687, Pipino di Hèristal, bisnonno di Carlo Magno, nato da
17
quel matrimonio, “maggiordomo unico del regno di Francia” e che
controllava la regione di Austrasia, dove governò fino al 714 (anno
della sua morte), sconfisse a Tertry i neustriani, consentendo che il
potere fosse di nuovo riunito nelle mani di Teodorico III. In realtà sia
Neustria che Austrasia furono governate dal maestro di palazzo, col re
ridotto a semplice figurante.
Ciò evitò un indebolimento dell’autorità regia, sia verso i popoli
ai margini del regno (sassoni), sia nei riguardi della crescente forza
dell’aristocrazia locale, sia verso realtà politiche come l’Aquitania che
tentava di riaffermare la propria autonomia.
Ad assumere il compito di ricostruire il potere centrale fu, nel
714, un maestro di palazzo pipinide, Carlo Martello, figlio di Pipino di
Hèristal, nonno di Carlo Magno che governava sulla Gallia
settentrionale e che creò, attingendo ai ricchi patrimoni delle chiese,
una potente forza militare. Martello appunto come “piccolo Marte”
nome dovutogli per la sua fama guerriera.
Fu questo un aspetto importantissimo nell’azione di ricostruzione
da parte della dinastia pipinide dell’aristocrazia di Austrasia.
Il re infatti non aveva ereditato una situazione stabile, tutt’altro.
Carlo Martello (716-41) ripristinò militarmente l’egemonia
austrasiana, poggiandola poi sulla base di una nuova forma di
clientela: il “vassallaggio”.
Con l’ausilio delle armi, vennero reintegrati principati divenuti
indipendenti e riassestato il potere franco sulle regioni vicine.
Inoltre Carlo Martello riportò sugli islamici, arrivati fino alla
Loria , una grande vittoria a Poitiers (732) ricacciandoli dai Pirenei
anche con l’aiuto de re longobardo Liutprando e concludendo così
l’opera iniziata da Oddone principe di Aquitania. Colpiti furono anche
18
i principi che desiderosi di liberarsi dalla dominazione franca avevano
accolto con favore i musulmani, come i capi burgundi e aquitani.
Oggi si tenta di sminuire la vittoria di Carlo Martello,
sottolineando che i musulmani si erano mossi non per conquistare, ma
per saccheggiare il ricco monastero di San Martino a Tours.
Ciò nonostante, tra i franchi e nella cristianità, resta un impresa
che valse al maestro di palazzo una gloria imperitura.
Alla sua morte, nel 741, Carlo Martello lasciò il regno ai due figli
Pipino e Carlomanno, anche se a dire il vero c’era ancora un re
Childerico III, ormai però solo un fantoccio.
Dal 751 il figlio di Carlo Martello, Pipino detto il Breve, rimasto
unico erede dopo la morte del fratello ed eletto da un assemblea dei
grandi, non governerà più con la finzione, ma assumerà la corona
franca.
Da notare però che le aristocrazie restano fedeli fino all’ultimo
alle dinastie merovinge.
Il potere passò così da chi aveva un carisma sacrale, a chi sapeva
guidare i Franchi alla vittoria.
5. Carlo Magno
5.1 Sulla nascita
Il biografo di Carlo, Eginardo scrive che Carlo morì nel gennaio
814, << nel suo settantaduesimo anno di vita e nel quarantasettesimo
di regno>>.
Da ciò un calcolo a ritroso ci porta al 742 come anno di nascita.
Ma Gli Annali Regi, la fonte più ufficiale di cui disponiamo, sono
un po’ meno precisi, benché si sforzino di moltiplicare i punti di
19
riferimento datando la morte di Carlo << circa nel settantunesimo
anno di vita, quarantatreesimo dalla conquista dell’Italia,
quarantasettesimo del suo regno, e quattordicesimo d quando fu
chiamato Augusto>>3. Il circa indica appunto che non dobbiamo
aspettarci troppa esattezza.
Ancor più generica è l’inscrizione sulla tomba di Carlo ad
Aquitania, che lo dice semplicemente <<Septuagenarius>>, cioè
settantenne, ad indicare non l’età, ma che avesse raggiunto sicuro
quella soglia.
Questo è uno degli esempi che si possono fare sulla vasta
indifferenza nei confronti del tempo che Marc Bloch riconosceva nella
mentalità medievale, anche se sarebbe meglio menzionare la difficoltà
nel misurarlo e padroneggiarlo.
Con l ‘aiuto di un'altra fonte, un manoscritto coevo, contenente
un calendario dove è notata la nascita dell’imperatore al 2 Aprile, e
sommata questa alle altre notizie, si arriva a quel “ 2 Aprile 742” che
viene comunemente indicato come data di nascita di Carlo.
Una nota alla fine: il tempo allora era scandito dal ritmo circolare
dell’ano agricolo e dell’anno liturgico e a pochi interessava
distinguere un anno dall’altro. L’abitudine di numerare gli anni a
partire dalla nascita di Cristo, si era diffusa da poco in Occidente ed
era un compito che interessava più analisti e notai, anche loro però
incapaci di tenerlo con precisione.
3 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pagg. 12-13.
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5.2 Le origini mitiche : Troia
Per gli uomini del tempo, il passato dei Franchi tendeva verso un
orizzonte mitico, ma ai loro occhi perfettamente autentico.
Erano convinti che i Franchi discendessero nientemeno che dai
Troiani.
Questa leggenda è messa per iscritto, per la prima volta, nelle
cronache di Fredegario, composte verso il 660, quasi un secolo prima
della nascita di Carlo.
Dopo di queste la “storia” comincia a circolare in forme diverse,
tanto che non si pensa più ad un invenzione dotta, ma a una voce
popolare nata già dai primi contatti tra barbari e romani.
L’origine troiana ha sicuramente come primo scopo un paragone,
se non un confronto, con Roma.
Se i Romani discendevano da Priamo attraverso Enea, fuggito nel
Lazio come racconta Virgilio, i Franchi erano convinti di discendere
da un altro principe troiano, Francione, che aveva dato loro il proprio
nome e li aveva condotti in Europa dopo lunghe migrazioni,
stanziandoli sulle rive del Reno.
Tale legame di sangue con i Romani li autorizzava a governare
sulla Gallia, se non pure a qualcosa di più visto l’indebolirsi dei
parenti figli di Enea.
Il mito però come spesso accade si mescola alla realtà e in essa
trova riscontri, non è da negare ad esempio che tra i due popoli ci
fosse una profonda integrazione.
L’insediamento franco in Gallia era avvenuto attraverso una
migrazione di guerrieri apertasi la strada attraverso i “limes” del
Reno, insediandosi pacificamente e mescolando le proprie usanze con
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l’influenza di quelle romane.
5.3 Le conquiste
Dopo la morte di Pipino, nel 768 a Carlo fu assegnata l’Austrasia
con le sue dipendenze germaniche, Assia, Franconia, Frisa occidentale
e Turingia; e in più la Neustria e l’Aquitania.
Al fratello minore Carlomanno, l’Alemannia, l’Alsazia, la
Burgundia, l’Aquitania interna, la Settimania e la Provenza.
I due fratelli si fecero consacrare sovrani in due città vicine,
Noyon e Soissons, luoghi dove il padre, Pipino, era solito soggiornare,
e dove spesso la madre Bertrada era spesso ospite di un monastero.
I rapporti tra i due erano però tesi e legati anche a
condizionamenti geopolitici.
Carlo infatti aveva possibilità di espansione illimitata verso la
Germania pagana; a Carlomanno toccavano invece i confini più
pericolosi: quello pirenaico con gli Arabi di Spagna e quello
Longobardo in Italia.
La morte prematura di Carlomanno, dopo solo tre anni di
governo e di non facili rapporti col fratello, si pensi che dopo la morte
di Carlomanno la vedova e altri seguaci preferirono scappare in Italia,
invece di restare alla corte di Carlo, portò il regno di nuovo nelle mani
di uno solo, Carlo Magno, che non riconobbe i diritti dei nipoti del
fratello.
Il suo impero, che durò trentasei anni, si giocò subito su molti
piani.
Se la politica di Carlo Martello e di Pipino, aveva coniugato un’
azione di consolidamento del potere sul territorio e una difesa dalle
aggressioni esterne, Carlo Magno intraprese, affianco a queste due,
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anche un’ iniziativa di espansione fuori dai confini tradizionali del
“Regnum Francorum”. Pochi mesi dopo la morte del fratello era già
in armi, oltre il Reno, contro i pagani del nord.
Il dispendio di forze era grande, ma grande era anche il ritorno in
termini di bottino e di terre da affidare alla sempre più esuberante
clientela (non dimentichiamo che Carlo Martello istituì il
vassallaggio).
La voglia di espansione di Carlo, era spinta da due aspetti:
- il prestigio che le conquiste davano al nuovo re;
- la convinzione del sovrano di dover cristianizzare l’Europa.
Canoni della politica espansionistica furono:
- mancanza di un programma preordinato;
- violenza impressionante, con operazioni su fronti diversi,
ponendo i popoli ai confini dell’impero in contatto con nuove culture
che andavano ad influenzare quelle presenti in quel territorio.
Ricostruendo le conquiste per aree geografiche, abbiamo diverse
vicende.
Il limite orientale costituito dal tratto settentrionale del Reno, fu
definitivamente varcato, e tali conquiste prepararono il costruirsi di
uno spazio politico a base germanica, con destino distinto da quello
dei territori a occidente del fiume.
Già prima si erano mossi contro i pagani Sassoni per contenerne
l’aggressività.
Contro questi, attivi nella zona tra il Reno ed Elba e con forte
identità etnica ma scarsa coesione politica, nel 772 si avviò una guerra
trentennale che portò tra i primi risultati positivi, la distruzione di un
santuario; nel 777 Carlo Magno costrinse i Sassoni alla prima resa e
ad accettare l’opera missionaria di un discepolo di San Bonifacio,
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Sturm.
Finalmente sotto un capo unico, Widuchindo, i Sassoni insorsero
di nuovo, costringendo Carlo a reagire con efferata violenza: a Verden,
fece decapitare migliaia di ribelli, per poi iniziare una lunga opera di
devastazione. Alla fine Widuchindo accettò la sottomissione e
ricevette il battesimo, fatto celebrare da papa Adirano I.
“L’evangelizzazione forzata” faceva parte di questo processo di
assoggettamento politico e la “Capitulatio de partibus Saxoniae” ben
ne rispecchiava il programma.
Tutto questo prevedeva che al clero cattolico fosse assegnato la
sorveglianza degli stessi conti e minacciava la pena di morte per
coloro che avessero infranto le norme del nuovo sistema politico e
religioso.
Il paese venne colonizzato con elementi franchi, con un saldo
reticolo di episcopati e nel 797 vennero emanate alcune norme per la
definitiva assimilazione dei Sassoni.
Nei territori dell’attuale Germania centrale e meridionale la
conquista, già avviata dalla fine del VII secolo, riguardava Assia,
Turinga, Alamannia.
La Baviera invece rimaneva indipendente. Il duca di Baviera
Tassilone, vassallo, ma soprattutto nipote di Pipino il Breve, si
svincolò dalla tutela franca conducendo una politica espansionistica in
Carinza e nell’Alto Adige grazie all’alleanza col re longobardo
Desiderio.
Ma alla fine anche la Baviera dovette capitolare e venne
definitivamente integrata nel regno franco, tra il 788 e il 794, con la
rinuncia di ogni suo podere da parte dello sconfitto Tissilone.
Queste terre conservarono in parte le proprie leggi e all’inizio
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sono governate da un praefectu, Geroldo, parente sia dei Carolingi sia
del duca sconfitto.
A est invece gli Avari, stanziati nel bacino danubiano, furono
oggetto di un intervento militare, causato sia per i rapporti allacciati
con il duca di Baviera Tissilone, sia per attacchi diretti portati al
regno.
La campagna fu condotta con affianco il figlio Pipino, importante
è infatti il suo apporto, e durò dal 791 al 805, con il khagan avaro che
accettò il battesimo e divenne vassallo di Carlo Magno. La campagna
fruttò grandi ricchezze, ma al tempo stesso molti avari lasciarono il
territorio.
Per quanto riguarda il Mediterraneo il primo interesse fu verso
l’Italia, a cui Carlo si rivolse nei primi anni settanta del VII secolo.
Con la conquista dell’Aquitania e della Settimania, il regno
franco era entrato in contatto con l’emiro di Cordoba e il mondo
arabo, nella parte orientale della penisola iberica.
Qui il sovrano, andando incontro alle esigenze dei potenti di
Barcellona e Saragozza che cercavano l’indipendenza dall’emiro, nel
778 attraversati i Pirenei con l’esercito conquistò Pamplona, ma fu poi
impegnato nell’inconcludente assedio di Saragozza.
Richiamato in patria per sedare una rivolta sassone, Carlo perse
la retroguardia dell’esercito al passo di Roncisvalle, massacrati da
montanari baschi e musulmani, dove perse al vita il prefetto della
marca Bretagna Rolando.
Affidato al figlio Ludovico nel 781 il regno di Aquitania e eretta
lì la base per riprendere l’espansione al di là dei Pirenei, la campagna
proseguì fino al 810, quando in virtù di un accordo tra Carlo e l’emiro,
la zona a nord dell’Ebro venne dichiarata pertinenza franca e fu
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organizzata nel limes Hispanicus.
C’era infine un problema interno alla realtà politica franca,
quello della penisola bretone, nella parte nord-occidentale della Gallia.
In risoluzione si istituì il limes Britannicus, da cui si portarono
sistematiche incursioni nella regione (780-799).
Ma già dal secondo decennio del secolo IX le scorrerie normanne
indebolirono il controllo carolingio.
5.4 L’incoronazione a imperatore
Nella notte di Natale dell’800 a Roma, Carlo Magno fu
incoronato imperatore da papa Leone III, con una cerimonia le cui
implicazioni simboliche e giuridiche rimangono ancora controverse.
Esaltato di sicuro è il ruolo legittimante del pontefice.
Due sono le scelte che vengono subito notate:
- da parte del papa la forza della corona franca, vuole dire un
potente alleato;
- da parte del nuovo imperatore si tratta di una scelta di
propaganda per il suo nuovo ruolo, riconosciuto e appoggiato dalla
Chiesa.
L’incoronazione non portò a nuove conquiste ma alla
registrazione definitiva dei confini del regno.
Con un’organizzazione del regno basata su strutture laiche ed
ecclesiastiche, l’amministrazione dello stesso aveva conosciuto un
salto di qualità rispetto ai sovrani precedenti.
Con l’800 era in atto una legittimazione, la legittimazione di un
nuovo spazio politico, concorrente a Bisanzio, autonomo da
quest’ultima, e baricentro della politica occidentale.
La presenza della Chiesa nell’incoronazione di Carlo ebbe un
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grosso peso vista la contrapposizione continua con Bisanzio, viziata
dalla questione dell’iconoclastia.
Con l’Impero d’Oriente indebolito nella seconda metà del VII
secolo, i Franchi si posero in concorrenza sul piano diplomatico e
militare.
Allacciarono rapporti con i sovrani dell’Inghilterra meridionale,
con i re iberici delle Asturie e Leon, con il califfo di Baghdad e il
patriarca di Gerusalemme, che sollecitava Carlo ad assumere la tutela
dei luoghi santi.
Inoltre sul trono di Bisanzio sedeva una donna, Irene, vedova del
imperatore Leone IV, che inadatta a guidare il regno, tentò con Carlo
un alleanza matrimoniale, proponendo in sposa ad una delle figlie
dell’Imperatore il figlio minorenne Costantino. La proposta fallì, ma
la crisi con la sede di Roma fu superata, guidando il concilio della
Chiesa orientale tenuto a Nicea nel 787.
Un simile contesto rese naturale l’attribuzione della corona
imperiale al re franco, valorizzato anche dal papa non solo come
evangelizzatore delle terre conquistate, ma anche e soprattutto come
difensore della Chiesa, in sostituzione del debole potere di Bisanzio.
Un tale atto universalizzava entrambi i poteri trovando tra essi un
incontro. Per Carlo e la corona franca fu un riconoscimento ufficiale
del suo potere, per il papa un incremento considerevole della sua
autorità politica.
Nel 812 lo stesso imperatore d’Oriente, Michele I, riconobbe la
dignità imperiale del sovrano franco, che però non si qualificò mai
come imperatore, ma come colui che governava l’Impero Romano.
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5.5 Sulla Famiglia
Paolo Diacono, intellettuale longobardo che visse alla corte
dell’Imperatore, ricorda storie sulle vicende della famiglia dei Pipini
in cui leggenda e verità si incrociano
Ricorda che Carlo in persona gli raccontò di Arnolfo, il vescovo
di Metz, che per penitenza aveva gettato un anello nella Mosella,
chiedendo perdono per tutti i suoi peccati e chiedendo di tornarne in
possesso solo una volta che Dio lo avesse perdonato: anni dopo
mentre un cuoco cucinava per lui, lo ritrovò nel pesce che stava
cucinando. Era il segno che Dio aveva perdonato i suoi peccati.
Il racconto di Carlo assumeva toni di storia vera e il miracolo di
Arnolfo riversava la sua divinità sui nipoti.
Non a caso già durante l’infanzia di Carlo, i Pipinidi venivano
indicati come la stirpe che secondo i cieli doveva governare i Franchi.
A testimonianza di ciò c’era la santità di Arnolfo e la forza
concessa a Carlo Martello.
Alla guida di un popolo eletto c’era dunque una stirpe eletta.
5.6 La vecchiaia
La situazione che si presenta negli ultimi anni di governo di
Carlo, spesso è descritta come un periodo di declino, affiancato al
progressivo deteriorare delle condizioni fisiche e mentali
dell’imperatore.
A questi si affianca anche una tragica ironia, dei tre figli di Carlo
Magno due muoiono, il primogenito Carlo e Pipino il re d’Italia,
lasciando al solo Ludovico il Pio, re d’Aquitania, tutto l’impero
paterno.
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E come se non bastasse le guerre di conquista, che per così tanto
tempo avevano accumulato consensi e ricchezze, cessano, lasciando
spazio a incursioni nemiche, vedi i normanni sulle coste, presagi di
eventi che dopo la morte dell’imperatore avrebbero portato al collasso
dell’impero e della cristianità, ritornando alla barbarie.
Tale paura era espressa da Carlo anche nei suoi ultimi capitolari.
Da li a poco si nota, anche per questo, un cambiamento della
politica franca: sul piano militare non dimostra più la stessa
aggressività.
Nel 810 le offerte di pace del basileus Niceforo e dell’emiro di
Cordova, messo alle strette dai successi di Ludovico al di là dei
Pirenei, con i confini del regno allargati fino all’Ebro, vengono accolte
subito dall’Augusto, che pur di fare la pace con Bisanzio, accettò di
consegnare la laguna veneta appena conquistata4.
Lo stesso con i Danesi che, se in passato al loro insorgere
sarebbero stati subito repressi con una campagna militare, ora scopo di
Carlo è fortificare i confini sotto attacco, i confini dell’Elba e
negoziare fino a stipulare un trattato eguale nel 811.
Affianco a queste una nuova minaccia si affacciava negli ultimi
anni di regno dell’Imperatore, quella dei pirati che, anni dopo la morte
di Carlo, misero in ginocchio la cristianità con i loro saccheggi,
facendo sembrare insufficienti le misure prese dal sovrano.
Le contromisure prese dal vecchio imperatore, non erano
insufficienti o inadatte, in base all’entità della minaccia in quel
momento, anzi appaiono più che valide per un uomo ormai
settantenne.
Da dire è però anche che Carlo, già dal 796 aveva assegnato la
4 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pagg. 371-372.
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conduzione delle campagne militari ai figli. Ad esempio al
primogenito Carlo fu assegnato, visto che il suo destino era di
ereditare il regno franco, il comando autonomo nelle operazioni contro
i Sassoni, Slavi e Danesi.
Non è da trascurare che quando fu incoronato Imperatore
nell’800, Carlo aveva quasi sessanta anni, un vecchio per il suo tempo,
impossibilitato a spostarsi dal palazzo di Aquisgrana, se non per via
d’acqua, anche se ad andare a caccia non rinunciò fino a pochi mesi
prima della morte.
Delle notizie negative che ci giungono della sua politica negli
ultimi anni, vanno analizzate le fonti.
Queste portano ai cronisti di Ludovico, su tutti Ermoldo Nigello,
che afferma che i sudditi accolsero con sommo entusiasmo il nuovo
imperatore Ludovico, pronto a raddrizzare i torti del padre, divenuto
ormai un vecchio isolato e attorniato da consiglieri corrotti.
5.7 Normanni e Musulmani
I nemici esterni più pericolosi restano i Normanni, i Vichinghi
provenienti dalla Scandinavia.
La loro prima incursione si abbatte sul monastero di Lindisfarne
situato su un isola al largo delle coste inglesi, nel 793.
La prima impressione di Carlo fu che quella strage era un
punizione che Dio aveva mandato per punire i peccati del popolo
anglosassone.
Nel 799 le incursioni si moltiplicarono colpendo Inghilterra,
Scozia e Irlanda, fino a toccare i confini franchi in Vadea, rendendo
pericolosa la navigazione nella Manica, sbocco commerciale
importantissimo per l’impero.
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La risposta di Carlo a queste invasioni fu la commissione ai porti
del nord (Gand e Boulogne sono passati in rassegna personalmente dal
sovrano) di allestire imbarcazioni da guerra.
Sul piano delle spese la flotta costò molto e non dette però i
risultati adeguati, vista anche la difficoltà che richiede allestire una
flotta.
Tutta via comunque questo era solo un aspetto di un problema
più articolato: le relazioni col regno di Danimarca.
Ma andiamo per ordine.
Dopo aver sottomesso i Sassoni e avanzato le loro frontiere fino
al mare del Nord, i Danesi si erano trovati a confinare con l’impero e
il loro re Godefrido aveva subito dimostrato di non voler accettare
intimidazioni.
Nel 804, quando Carlo in persona aveva attraversato l’Elba per
liquidare gli ultimi focolai ribelli di Sassoni, Godefrido radunò il suo
esercito sui confini dimostrando subito che non era disposto ad
accettare intimidazioni.
Da allora i franchi seppero di dover diffidare dei Danesi, visto
che questi da una semplice “prova di forza” come poteva essere visto
lo schieramento dell’esercito, iniziarono ad aggredire le tribù slave
sulle foci dell’Elba, alleate dei Franchi nella campagna contro i
Sassoni, e considerate perciò da Carlo satelliti dell’impero protetti dal
sovrano.
Nell’808 Godefrido saccheggiò il loro litorale, obbligando le
tribù sottomesse a pagare un tributo.
Carlo preferì allora, prima di agire, studiare l’avversario.
Quando nel 819 una flotta danese apparve al largo della Frisia e
da lì a pochi giorni inizò a marciare verso il palazzo di Aquisgrana,
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costringendo i popoli a pagare un tributo per evitare il saccheggio,
Carlo decise di intervenire, preparandosi a scendere personalmente in
campo.
Ma ai primi del 810 mentre si trovava a Lippeham a radunare
l’esercito arrivò il messaggio che Godefrido era stato assassinato e che
l’esercito danese era allo sbando e il regno sprofondato in una guerra
civile.
L’intervento militare fu inutile, visto che tutti i capi che di volta
in volta prendevano il comando erano felici di firmare un trattato di
pace con l’imperatore.
La notizia che un nemico così pericoloso fosse stato sconfitto
senza il bisogno di una battaglia rallegrava un pò tutto l’impero.
Se a nord erano i Normanni a preoccupare gli ultimi anni di
regno di Carlo, il versante meridionale conobbe per la prima volta le
incursioni dei pirati moreschi (incursioni che continueranno per circa
un millennio).
Nel 798 i Mori attaccarono le Baleari, l’anno seguente furono
scacciati dalle truppe franche arrivate in soccorso.
Nell’ 806 attaccarono la Corsica e sconfissero anche le truppe
franche mandate da Pipino re d’Italia, uccidendo anche il conte di
Genova che comandava la spedizione.
L’anno seguente però i Mori capitolarono con la cattura da parte
delle truppe franche di tredici navi.
Le incursioni dei Mori erano state quindi sempre sedate e tenute
sotto controllo, ma nel 812 una notizia scosse l’impero: i Saraceni
d’Africa e Spagna preparavano una grande flotta per saccheggiare
l’Italia.
Visto il pericolo e l’insufficienza navale della flotta franca per
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difendere il Mediterraneo, Carlo mandò il cugino Wala con l’incarico
di migliorare la flotta.
Le misure prese ebbero molta efficacia, la flotta musulmana fu
sconfitta al largo della Sardegna, mentre un'altra piccola parte però
saccheggiava la Corsica.
L’anno dopo i pirati furono intercettati presso Maiorca dal conte
d’Ampurias.
Il battagliare sul Mediterraneo resterà un problema per molti anni
a seguire, ma il fatto che la flotta franca riuscì a tener testa e
controbattere colpo su colpo i Saraceni ci mostra come le sue doti
fossero superiori a quelle che si era tradizionalmente creduto.
5.8 La “Divisio regnorum” dell’806
Fra le molte preoccupazioni che assorbono Carlo non mancano
quelle interne.
Tra queste la più pressante non veniva da qualche tribù nemica
ma dal suo stesso sangue: la spartizione nel regno tra i suoi tre figli.
La legge franca dava diritto a ciascun maschio di spartire
l’eredità paterna. A ciò neppure l’imperatore poteva opporsi.
Ma nell’806 alla dieta di Thionville, Carlo emanò il
provvedimento noto come “Divisio regnorum”, secondo cui dopo la
sua morte il regno su cui governava sarebbe stato suddiviso in tre
regni da attribuire ai tre figli maschi: Carlo, Pipino e Ludovico5.
A questi si dovrebbe aggiungere il primogenito Pipino il Gobbo,
rinchiuso in un monastero dopo aver cospirato contro il padre, ma la
decisione di escluderlo dall’eredità era anche precedente a questa
vicenda, in quanto considerato illegittimo vista l’unione matrimoniale
5 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pagg. 378-379-380.
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dal quale deriva (causa delle nuove regole matrimoniali predicate
dall’episcopato).
Il fatto di dividere il regno, trattandolo infondo come proprietà
privata, portò, secondo alcuni, il sovrano a contraddire ciò che aveva
detto negli anni nei suoi capitolari.
Diversa invece è l’interpretazione di chi vede la volontà di Carlo
di salvaguardare i diritti di ognuno dei suoi figli, notando che il
Divisio regnorum non distrugge l’immensa costruzione politica
pazientemente edificata.
La spartizione, per essere a pieno compresa, deve essere vista
come il punto di arrivo di una lunga sequenza di decisioni.
Già nel 781 alla sola età di quattro e tre anni, Pipino e Ludovico
vennero consacrati re d’Italia e D’Aquitania.
Al primogenito Carlo invece non fu consegnato, per ora, nessun
regno.
Egli era destinato ad ereditare il principale fra i regni paterni.
Così mentre Pipino e Ludovico si instauravano nei loro regni,
assistiti da tutori e consiglieri, Carlo rimase al fianco del padre,
operando come suo luogotenente, accompagnandolo anche
nell’incoronazione dell’800.
Insomma la Divisio regnorum era una spartizione già prevista da
molto tempo, preservando un’uguaglianza tra tutti e tre i figli. Ma la
divisione progettata così accuratamente dal sovrano subì un duro
colpo in soli due anni.
Nell’810, e nell’811 Carlo vide la fine uno dopo l’altro di due dei
suoi tre figli. Carlo, destinato a succedergli sul trono, e Pipino re
d’Italia.
Il vecchio sovrano comprese che l’unica cosa da fare era affidare
34
il regno sulle spalle dell’ultimo figlio, Ludovico.
L’11 Settembre 813 davanti all’Assemblea Generale, Carlo
riconobbe suo figlio come suo erede, ponendogli sul capo la corona e
ordinando di chiamarlo d’ora in poi Augusto.
Solo il regno d’Italia salvò la sua autonomia, a differenza del
regno di Aquitania, di cui titolare era proprio Ludovico. Carlo aveva
infatti riconosciuto l’autorità del titolo regio a suo nipote Bernardo,
figlio di Pipino, che fu incoronato nel 813 dopo Ludovico.
Il rapporto tra i regni era variabile a seconda delle esigenze della
famiglia imperiale, ma conservava la sua subordinazione al titolare
dell’impero.
Una nota merita un aspetto non di poco conto: l’usanza di
incoronare il nuovo re, con il padre ancora vivo, era un usanza che
Carlo importò da Bisanzio. Ciò simboleggiava come, nonostante i
contrasti e il riconoscimento se pur a fatica del titolo di Augusto per
gli imperatori franchi, i due regni guidavano a braccetto il popolo
cristiano, uno ad Oriente e uno ad Occidente.
Sotto tale connotazione, l’incoronazione di Ludovico non risuona
come un allarme per il mondo cristiano, ma una certezza per Carlo,
quella di aver lasciato al figlio un mondo ordinato e sicuro.
5.9 Il testamento e la morte
Oltre all’impero Carlo lasciò una cospicua eredità.
Questa però non era il regno, che se pur diviso tra i suoi figli,
restava sempre res publica e apparteneva alla corona, e perciò Carlo
non si sognò mai di disporne privatamente.
Ciò che poteva invece gestire era il tesoro accumulato durante gli
anni di regno.
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Eginardo, storico ufficiale di Carlo, ci racconta che il sovrano
intendeva dettare un testamento in piena regola, dando un lascito a
ciascuno dei suoi figli, anche a quelli nati fuori dal matrimonio.
Ma vista la tardiva decisione e il tempo che ci voleva per
realizzarla, non riuscì completare il testamento.
Nel’811 aveva però firmato un atto simile e della stessa valenza,
conservato nella camera imperiale e di cui si hanno tre parti.
Queste vennero ulteriormente divise, tra tutti quelli a cui Carlo
aveva lasciato un po’ del suo tesoro.
Ad accompagnare Carlo verso l’anno della sua morte, oltre alle
pratiche burocratiche si inserirono fatti mistici, segnali, che nel
medioevo accompagnavano l’avvicinarsi della morte dell’imperatore:
- dall’aumentare dell’eclissi al crollo del portico di Aquisgrana
(che è però più leggenda che verità,visto che il portico crollò per usura
del legno nel’817, tre anni dopo la morte di Carlo);
- la caduta da cavallo, dovuta si dice alla visione in cielo di una
torcia fiammeggiante che spaventò l’animale il quale, cadendo,
trascinò l’imperatore con lui. Siamo nel’810 durante la spedizione
contro i Danesi;
- e ancora, nello stesso periodo, la morte dell’elefante Abul
Abbas regalo di Harùn Rashid.
Carlo però sopravvisse ancora diversi anni dopo questi “cattivi
presagi”, morendo quattro mesi dopo l’incoronazione di Ludovico
imperatore, come se avesse sentito che la sua opera fosse finita.
Rispedito Ludovico in Aquitania dopo la cerimonia, andò a
caccia, hobby a cui non rinunciò mai, nella foresta di Ardenne. Li
prese freddo e si ammalò. Decise di restare digiuno aspettando che la
febbre passasse come era solito fare, ma con il corpo ormai debole e
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un dolore al fianco, quasi di sicuro polmonite, non resistette.
Morì il 28 Gennaio 814, alle nove del mattino, dopo aver
ricevuto l’Eucarestia.
Il corpo preparato fu sepolto nelle Cappella Palatina, anche se il
sovrano non aveva lasciato direttive specifiche per dopo la sua morte.
Carlo era morto, dopo quarantasei anni di regno, c’era chi si
rallegrava, perché i tempi stavano per cambiare (?), altri invece si
sentirono smarriti.
Ma non c’era motivo, la corona era nelle mani di un legittimo
erede evitando lotte e guerre di successione.
CAPITOLO II
1. L’assetto italiano
Col Divisio regnorum dell’806, che si rifaceva ai criteri della
tradizionale legge salica franca risalente al VI secolo, Carlo Magno
definì i territori a sud delle Alpi su cui governava il figlio Pipino.
Per Carlo l’Italia corrispondeva a quella parte del regno che
andava sotto il nome di Longobardia, territorio che si estendeva dalle
Alpi fino al ducato di Benevento, con alcune importanti eccezioni:
Venezia, i domini bizantini lungo la costa adriatica e il Patrimonio di
San Pietro.
Quella Longobarda è solo una delle tante forme di “Italia” che si
sviluppano parallelamente a questa. Vi era infatti: l’Italia della Chiesa
(con il centro a Roma), l’Italia dei ducati longobardi di Spoleto e
Benevento e l’Italia bizantina sparsa un po’ a macchie su tutta la
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penisola, da Venezia a Ravenna, dalla Puglia alla Campania.
Proprio da quando gli interessi papali si mescolano con quelli di
Carlo Martello comincia a crescere anche l’autorità politica dei
vescovi di Roma.
Tale autonomia è messa in pericolo dall’ambizione dei re
longobardi che miravano ad espandere i propri possedimenti anche
all’Italia centrale. A dire il vero però l’unico pericolo cui sarebbero
andati incontro i vescovi era diventare vescovi di corte.
Da qui l’idea della redazione del famoso falso della <<
Donazione di Costantino>>, documento che accertava la concessione
fatta dal Costantino il Grande al papa Silvestro I dell’intero impero
d’Occidente.
Non era solo la presenza del centro della cristianità a
caratterizzare l’assetto italiano. L’incontro di popolazioni romane e
minoranze germaniche aveva prodotto un assetto sociale che mostrava
in primo luogo un popolo unico ed unito, differente dalla coesistenza
di popoli diversi come accadeva per le popolazioni franche.
Anche il peso delle strutture ecclesiastiche era diverso tra i due
regni. La rete di rapporti tra gli apparati laici merovingi e gli
episcopati, occupati da uomini politicamente influenti, non era
riproducibile, nonostante i numerosi tentativi, dall’amministrazione
longobarda. Questo perché i Pipinidi-Carolingi avevano tratto dai
numerosi possedimenti ecclesiastici i benefici da concedere ai propri
fedeli.
Questa mancanza di organizzazione era uno dei motivi della
minor compattezza dell’aristocrazia longobarda attorno al re.
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2. I Franchi e il regno Longobardo, l’inizio del conflitto
Lo scontro tra Franchi e Longobardi non è da far risalire alla sola
chiamata d’aiuto fatta dal papa Adriano contro l’insolenza
dell’imperatore Desiderio.
Ben più profonde sono le ragioni di questo scontro.
Nei secoli precedenti infatti i Franchi, oltre che con il papato,
avevano avviato rapporti anche con il successore di Astolfo,
Desiderio, che cercò di percorrere più strade per tentare di rafforzare il
proprio potere andando ad assumere una fisionomia sempre più
minacciosa per la Chiesa.
Fra il 771 e il 772 si susseguirono tre eventi fondamentali:
- un tentativo, da parte di Desiderio, di riavvicinamento con i
Franchi. Egli cerco di riprendere la via seguita da Liutprando (712-
744), nel periodo non conflittuale tra franchi e longobardi (in quel
periodo infatti Carlo Martello, secondo antica usanza germanica,
aveva mandato il figlio Pipino alla corte di Liutprando, affinché gli
tagliasse i capelli. Questa usanza aveva creato un legame quasi
familiare, più forte di qualsiasi alleanza politica momentanea). Ma
nella realtà in cui si trovavano Franchi e Longobardi, un rapporto
come quello tra Pipino e Liutprando era improponibile. L’equilibrio
tra i poteri era profondamente alterato;
- nel periodo di instabilità dopo la morte di Pipino, quando i suoi
due figli Carlo e Carlomanno si scontravano per la corona regia, Carlo
sposò la figlia di Desiderio, Ermengarda, anche sotto la pressione
della madre Bertrada, che preoccupata dal momento di debolezza del
regno preferì instaurare rapporti di parentela con un possibile
39
antagonista.
Ma la strategia intrapresa da Desiderio, visti anche gli sviluppi
della storia della corona franca, era semplice.
Scappati in Italia e proprio alla corte longobarda, dopo che
Carlomanno era morto e Carlo aveva preso il potere, il re longobardo
cercò l’alleanza della vedova del fratello di Carlo, invogliandola a
rivendicare per il figlio l’eredità del re morto e cercando di creare così
una paralisi nella potenza franca dividendo la corte in due parti rivali.
Ma il suo piano non diede esito positivo;
- il sovrano longobardo, appariva come un pericoloso
impedimento alla realizzazione della res publica Romanorum: ideale
di chiesa universale, che muoveva la curia romana. Già nel 772-73
Desiderio aveva provato addirittura ad entrare a Roma ma era stato
bloccato dalla minaccia di scomunica lanciata da Adriano I6.
Anche da parte franca, la presenza longobarda era vista come un
impedimento alla realizzazione di un vasto regno sovranazionale,
legittimato dall’appoggio papale.
Di lì a poco Carlo sarà chiamato in Italia da papa Adriano I, così
come i suoi antenati, per mettere fine alla minaccia dei Longobardi.
Carlo però tentò prima di ricucire i rapporti tra Desiderio e il
papa senza l’uso della violenza. Chiese al ex suocero di pagare al
pontefice, come risarcimento per i danni subiti, 14.000 monete d’oro.
L’atteggiamento di Carlo sottolinea come i rapporti con i longobardi
non siano del tutto di inimicizia. Il negoziato fallì e vista anche
l’insistenza del papa, che mirava a liberarsi una volta per tutte della
minaccia longobarda, Carlo cominciò a pianificare la campagna in
Italia.
6 Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pag. 17.
40
Se queste sono le origini storiografiche, la letteratura fa originare
il conflitto con il ripudio da parte di Carlo della moglie longobarda,
per poi sposarsi con Ildegarda, figlia del duca alamanno Goffredo.
Il ripudio, la cui causa è spiegata col fatto che la prima moglie di
Carlo era pagana e questi su pressione della chiesa avrebbe dovuto
trovarsi una moglie cristiana, difficilmente poteva essere la causa
scatenate del conflitto, ma era un chiaro segno di rottura.
Quando a Carlo giungerà la richiesta di Adriano, i rapporti
franco-longobardi erano già deteriorati.
3. Un passo indietro
Nell’invocare l’aiuto del re franco Adriano I ripeteva quanto nel
754 aveva già fatto il suo predecessore Stefano II con Pipino, e ancora
prima Gregorio III con Carlo Martello.
Tutte e tre le chiamate avevano un solo obiettivo: tutelare la
Chiesa di Roma e i suoi confini dalle mire dei vari sovrani longobardi.
Nella prima, Carlo Martello, fu dipinto come il vero “re dei
franchi” agli occhi di Dio (in realtà era ancora maestro di palazzo, il re
in carica era ancora il merovingio Childerico) nel suo intervento
invocato da papa Gregorio III contro la minaccia di Liutprando.
Nel 754, il successore di Gregorio III, Stefano II, chiamò in
Italia Pipino, il padre di Carlo Magno, per respingere gli attacchi del
re longobardo Astolfo. Assediato nella città di Pavia fu costretto alla
resa, per poi nel 756 riprendere le ostilità ed essere definitivamente
sconfitto, trasformandosi da avversario a cliente. Alla chiamata si
accompagnò il riconoscimento per il condottiero franco del titolo di
patrizio dei Romani.
41
Per Pipino, questa fu l’occasione per legittimare il proprio potere
col riconoscimento papale, dopo aver deposto nel 751 l’ultimo re
merovingio Childerico III.
Le due spedizioni, con le quali nel 754 e 756 Pipino sconfisse
Astolfo, consegnando al pontefice i territori di Esarcato e la Pentapoli,
erano perciò quasi dovute al papa.
Ma le spedizioni di Pipino non anticiparono solo militarmente
quelle di Carlo.
La richiesta del papa a Pipino, come quella a Carlo Martello,
suona come l’ ordine di San Pietro di liberare la Chiesa
dall’oppressione della pessima Longobardorum gens7.
I Franchi venivano così posti come i difensori della Chiesa di
Roma, carattere che poi permetterà il successivo innalzamento al
rango imperiale per i re franchi .
I Longobardi incarnavano invece il popolo barbaro.
La lettera di Stefano II vuole inoltre rinforzare il ruolo della
Chiesa romana rispetto le altre sedi episcopali.
Le pressioni dei sovrani longobardi infatti, facevano sentire la
chiesa sempre più schiacciata dai loro possedimenti.
Il rischio che spaventava i papi, oltre a quello di essere
emarginati in un ruolo secondario, era di diventare vescovi di corte di
un governo longobardo esteso a tutta la penisola.
Non a caso è proprio della metà del secolo VIII, durate il
pontificato di Paolo I (757-767), che fu elaborata la Donazione di
Costantino: famoso falso secondo il quale l’imperatore Costantino
(312-337), dopo essere stato curato dalla lebbra dal papa Stefano I (
314-337), avrebbe ceduto l’Impero d’Occidente alla Chiesa per poi
7 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004 pag. 30.
42
ritirarsi nei territori dove fondò Costantinopoli.
“Il falso” però ebbe più successo nell’epoca successiva a quella
carolingia.
Non sapremo mai se il suo fine sia stato di rilancio dei ruoli
universali dei vescovi di Roma nei confronti dei re longobardi, franchi
o bizantini ispirati da un’ idea di res publica cristiana che si
sviluppasse nell’ambito di un impero <<romano>>.
Resta però importante da ricordare che “il falsario del secolo VIII
cercò a suo modo di ripristinare nell’immagine composita del papa-
quasi imperatore i valori di un’antica tradizione il cui vero senso era
andato smarrito, ma di cui persisteva ancora un vago sentore”.
Immagine smarrita anche a causa del distacco da Bisanzio, incapace di
ergersi a protettore della Chiesa dagli aggressori, vista anche la
lontananza e con una nuova posizione ben distinta sul piano dottrinale
favorevole all’iconoclasmo.
3.1 La Spedizione del 773-774
La spedizione franca contro Desiderio fu organizzata in due corpi
separati.
Uno con Carlo alla guida. L’altro con lo zio Bernardo.
In termini logistici il problema era semplice: superare le Alpi.
Due erano le strade romane che avrebbero permesso il passaggio
all’esercito: la più diretta era la via Francigena che da Lione
discendeva poi nella Valle di Susa verso Torino, la seconda era quella
del Gran San Bernardo.
Entrambi i confini però erano ben chiusi e controllati dai
longobardi, visto che i confini all’ora non correvano come oggi sullo
43
spartiacque alpino, ma all’imbocco della pianura.
Le Chiuse si presentavano quindi come un insieme di
fortificazioni e barriere doganali ed erano state ulteriormente
rinforzate visto l’esito delle guerre contro Pipino. Inoltre non è da
stupirsi che i Franchi una volta conquistata la Valle di Susa e la Valle
d’Aosta, conservarono gelosamente il controllo di questi due
importanti passaggi.
L’esercito fu riunito a Ginevra, posto scelto per un motivo
strategico preciso: la sua posizione geografica. Da lì era possibile
prendere entrambe le strade, e visto che per radunare l’esercito,
proveniente dal vasto regno franco, occorreva almeno un mese, il
nemico avrebbe avuto il tempo di conoscere il luogo dove si
radunavano pur non sapendo da quale lato sarebbe arrivato il colpo,
ecco perché la divisione dell’esercito in due gruppi.
L’esercito di Carlo, nell’estate del 773 valicò le Alpi orientali
dal Moncenisio, quello di Bernardo dal valico di Mons Iovis, odierno
Gran San Bernardo, per incontrarsi poi presso le Clausae
Langobardorum, corrispondenti alla futura Chiusa di San Michele.
Questa fu un impresa paragonabile a quella di Annibale.
La cronaca del monastero di Novalesa, condita di aspetti
romanzeschi, ci informa che Carlo riuscì ad arrivare a Torino anche
grazie all’aiuto di un giocoliere longobardo, sostituito dal diacono
Martino, strumento della volontà di Dio, nell’Adelchi di Manzoni.
Lo scontro tra le armate si svolse nella bassa valle di Susa (773).
Dal Piemonte, sbaragliati i Longobardi una prima volta, Carlo si
diresse a ranghi riuniti verso Pavia, capitale del regno longobardo,
dove il re Desiderio aveva organizzato la difesa. La città posta sotto
44
assedio per più di un anno, si arrese nel 7748. In quell’anno, con Pavia
ancora non conquistata ma sicuro della sua caduta, Carlo si recò a
Roma da papa Adriano per festeggiare la Pasqua. Il motivo più
importante del soggiorno però fu la ridiscussione dei negoziati tra il re
e il papa, stretti vent’anni prima fra Pipino e Stefano II. Il patto vedeva
la penisola con una sovranità così divisa: tre quarti in mano alla
Chiesa di Roma, vuoi anche per lo spirito della << Donazione di
Costantino >>, i franchi nelle zone alpine e prealpine con centro a
Pavia e un ruolo marginale a Bisanzio su Calabria, Sardegna e Sicilia.
Sembra strano che Carlo e anche Pipino stesso abbiano accettato un
impegno del genere. L’unica spiegazione può trovarsi nel fatto che
quando Carlo si recò a Roma la guerra con i longobardi era ancora in
corso e quindi gli assetti della penisola ancora da definire. Infatti
appena assunta la corona di re dei Longobardi, Carlo decise di
ripensare a quella decisione concentrando l’intero regno longobardo in
quello franco.
Se Carlo avesse accettato una simile organizzazione, questo
avrebbe significato la dissoluzione del suo nuovo impero (nel
medioevo infatti un impero non poteva essere considerato tale se in
esso non era annesso anche il regno italico). A Roma fu lasciato
l’antico ducato, accresciuto della Sabina e i territori dell’Esarcato e
della Pentapoli, assumendo, fin dal VIII secolo, il profilo più o meno
definitivo dell’attuale Stato Pontificio.
Con la presa di Pavia, Desiderio fu fatto prigioniero, mandato a
finire i suoi giorni nel monastero di Corbie e il suo tesoro diviso tra i
conquistatori; il figlio Adelchi, dovette rifugiarsi in Grecia, presso i
bizantini, diventando per anni figura della resistenza longobarda e
8 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 33.
45
assumendo un alone quasi mitico.
Anche dopo due secoli dalla sua morte, Adelchi appariva ancora
come l’incarnazione del pericolo Longobardo, restato quieto per gran
parte della dominazione franca, ma pronto a violente e improvvise
rivolte.
L’azione militare di Carlo in Italia fu veloce e incisiva, come
repentino fu anche l’abbandono per una nuova campagna altrettanto
importante, la guerra contro i Sassoni.
Intorno alla spedizione in Italia resta un punto da chiarire: qual’
era la presenza franca in Italia prima della spedizione del 774.
Presenza sporadica seppur continua, in molti casi si trattava di
pellegrini diretti verso Roma.
Alcuni monaci giunti in Italia come pellegrini, diedero vita a
importanti fondazioni monastiche lungo tutte le vie di comunicazione
o, a volte, anche in luoghi appartati.
Questi, fondate delle piccole comunità, nel 774 furono
importanti punti di riferimento durante la campagna di Carlo, mentre
prima erano stati centri di rifugio per personaggi politici franchi caduti
in disgrazia.
Ad esempio il fratello di Pipino, Carlomanno, un volta che
abbandonò la guida del regno, si ritirò fattosi monaco sul monte
Soratte, dove fondò un monastero.
Ma se come ci racconta lo storico franco Eginardo, Carlomanno
abbandonò la lotta politica per ricercare la pace dello spirito, fallì nel
suo intervento perché disturbato dia continui pellegrini franchi. Decise
così di trasferirsi a Montecassino.
Questa vicenda ci permette di capire che la presenza franca era
presente già prima della campagna del 774 e non fosse del tutto
46
irrilevante.
Essa tuttavia era legata però a vicende individuali o alla vita
monastica, in entrambi i casi però priva di un disegno politico
consapevole.
4. Dai primi anni di dominio franco alla divisione delle
corone e la nomina del rex Langobardorum
Non si hanno stime precise di quante vite umane costò la
spedizione Italiana di Carlo.
Come ogni impresa bellica fu drammatica per la popolazione
conquistata.
Carlo regolò in fretta l’organizzazione del regno perchè il suo
intervento era richiesto altrove, contro i Sassoni.
Il re mantenne inalterato l’ordinamento amministrativo, basato
sugli antichi duchi longobardi. Questi ultimi rimasero in carica anche
per un altro motivo forse più importante: all’interno del regno di
Desiderio erano infatti presenti molti dissidenti e l’elezione di questo
da duca di Tuscia a re nel 756 a scapito del duca del Friuli Rotgaudo,
non aveva fatto altro che aggravarli. I dissidenti non erano disposti a
tributargli fedeltà, ecco perché Carlo nei primi tempi, spinto anche
dall’incombenza della campagna in Sassonia, non ritenne necessario
sostituirli.
Esiliati gli oppositori, mantenne in carica quelli che gli
prestarono giuramento di fedeltà: Rotgaudo in Friuli, Stabilino a
Treviso etc.
La parziale assunzione del sistema amministrativo longobardo da
parte di Carlo sembra però più una necessità, visto che la conquista
47
franca non fu accompagnata da migrazione di popolo.
Essa fu essenzialmente un governo di occupazione.
Non demorse così chi ancora credeva nel regno longobardo,
particolarmente nell’Italia nord-orientale e nel ducato di Benevento.
Visto il debole controllo delle maglie franche, le rivolte non
mancarono ad arrivare.
Nel 775, con Carlo impegnato in Sassonia, si diffuse una
sollevazione partita dai duchi Rotgaudo e Stabilino, appoggiati dal
duca di Baviera Tassilone, preoccupato che il suo ducato diventasse
provincia franca come puntualmente avvenne nel 788.
I rivoltosi erano animati dalla speranza di ripristinare il regno
Longobardo.
Carlo allora scese di nuovo in Italia per restarci dal Natale 775
fino a Pasqua dell’anno seguente, annientando i ribelli tra il febbraio e
marzo del 776 in Friuli. Una considerazione sullo scontro va fatta
vista la diversità in cui gli annali lo raccontano: per gli annali Regi,
Rotgaudo morì in battaglia e Carlo riconquistò tutte le città ribelli,
ponendo a loro capo uno dei conti franchi e celebrando la pasqua a
Treviso; per il cronista longobardo Andrea da Bergamo, che scrive
però un secolo dopo, i duchi ribelli affrontando il sovrano franco al
ponte della Livenza fermarono il suo esercito e Carlo accettò di
lasciare i duchi al loro posto in cambio di un giuramento di fedeltà.
Dal 776, dopo la promulgazione del suo primo capitolare teso a
ridimensionare il ruolo dei potents longobardi, fu avviata una fase di
migrazione di élites di classe dirigente, composta in gran parte da
persone di etnia franca o etnie a essa strettamente collegate (Burguinti,
Alamanni e Bavari).
Ciò comunque non portò all’esclusione dei longobardi dai
48
compiti politici, amministrativi e militari. Essi però divennero sempre
meno numerosi e sempre meno legati alle rete istituzionale dei poteri,
i vassi.
Nonostante la sconfitta di Rotgaudo e dei suoi seguaci, non era
morto il sogno di restaurare il regno longobardo.
Attorno al 786 una nuova sommossa antifranca sorse nel ducato
di Benevento, rifugio dei longobardi.
I longobardi beneventani nei primi dieci anni del regno franco
avevano attuato una costante opera di disturbo, prestando le loro forze
non solo alle truppe Longobarde, ma anche a Saraceni e Bizantini che
tentavano incursioni nelle zone costiere del Lazio.
Proprio su Arechi, duca di Benevento, e su Adelchi l’imperatore
bizantino Leone IV il Cazaro contava per ostacolare l’ascesa di Carlo
e del giovane Pipino.
Ma la morte di Leone indebolì l’opposizione longobarda, visto
che la vedova dell’imperatore, la regina Irene, avviò una politica di
avvicinamento ai franchi e alla chiesa di Roma.
In questo contesto, conclusa la guerra con i Bretoni, Carlo decise
di scendere in Italia (siamo verso il Natale del 786) con il suo esercito,
formato da Franchi, Sassoni, Alamanni, Longobardi e Burgunti, e
accampatosi a Capua era pronto a invadere il ducato.
Arechi, probabilmente consapevole della differenza delle forze in
campo, mandò in pegno al sovrano franco i suoi due figli Romualdo e
Grimoaldo più un’ingente somma di denaro, in cambio di una resa
dignitosa.
Carlo accettò la richiesta, trattenne con se uno dei due figli e una
volta che ebbe ottenuto il giuramento di fedeltà tornò oltralpe.
Ma la questione del ducato di Benevento era stata solo
49
parzialmente disinnescata.
Nuove difficoltà sorgono dopo la spedizione, quando nel 787,
alla morte improvvisa di Arechi e Romualdo, si pose la questione della
successione.
Grimoaldo, l’erede più diretto, era stato preso in ostaggio da
Carlo, che ora poteva incorporare a se il ducato.
Ma le cose non andarono proprio così.
A Carlo si presentava l’occasione di demolire la figura di
Adelchi, che appoggiato da forze bizantine, decise di intervenire vista
la condizione in cui verteva il ducato.
Ma ciò al principe longobardo fu fatale.
Grimoaldo, insediato capo del ducato da Carlo, percepita come
pericolosa per la propria carica la strategia di Adelchi con un esercito
composto prevalentemente da Franchi mise fine alle mire longobarde.
Il sogno di un unico fronte longobardo, antifranco, tramonta
definitivamente perché negli stessi anni Carlo sconfigge l’ultimo
possibile alleato esterno dei longobardi, Tassilone duca di Baviera.
Con l’annessione del ducato, il regno italico confinava ora solo
con territori inseriti a pieno titolo nel regno franco.
Da questo punto proseguì l’integrazione del regnum
Langobardiae nell’ordinamento franco, sostituendo alla classe
dirigente longobarda una nuova elite franca.
Furono introdotti capitolari che introdussero misure per adeguare
la giustizia e l’amministrazione a quella degli altri domini franchi.
In questo periodo di cambiamento va menzionato un elemento
importante, ma per fare ciò bisogna tornare indietro di circa sei anni :
la separazione delle corone di Italia e Francia, con la nomina del
50
nuovo rex Langobardorum9.
Nel giorno di Pasqua del 781, papa Adriano I ribattezzò il
giovanissimo figlio di Carlo Magno, Carlomanno, in Pipino: chiaro
richiamo al padre di Carlo e alla collaborazione proficua tra Franchi e
Chiesa.
Oltre al battesimo fu celebrata anche la cerimonia dell’unzione
(rito barbaro che dava sacralità all’autorità regia).
Tra i carolingi il primo a ricevere l’unzione era stato proprio
Pipino, padre di Carlo.
Tramite questo rito, ora anche il “nuovo” Pipino è elevato a un
livello di semisacralità: sovrano scelto da Dio.
Per la prima volta dopo la caduta dell’Impero romano in Italia
veniva legata strettamente la legittimità della corona con la sacralità
del re.
Ciò portò:
- a chi ancora sperava nel ritorno di Adelchi, vedi i ducati di
Spoleto e Benevento, una sorta di resa al poter franco;
- una formalizzazione dell’asse di privilegio tra la famiglia di
Carlo e la chiesa di Roma.
Pipino mantenne la sua carica di rex Langobardorum per circa
trent’anni, ma non fu mai indipendente.
Nei primi anni di vita i compiti di amministrare il regno furono
svolti da Waldo abate dell’abazia di Reichenau, Rotchild e Adalardo di
Corbie (cugino di Carlo): i bauli (tutori del sovrano). La scelta di tre
personaggi così importanti sottolinea:
- la centralità che il regno italico aveva per Carlo;
- che anche se autonomo, il regno restava sempre diretto da
9Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pag. 25.
51
uomini di fiducia dell’imperatore.
Per quanto riguarda la vita e il regno di Pipino, possediamo
poche fonti.
Da queste viene fuori che Pipino era un sovrano che incarnava le
principali virtù del sovrano: buono, pio, bello e valoroso in guerra.
Quest’ultima era sicuramente l’arte in cui il sovrano d’Italia si
distingueva.
Infatti fu a lungo impegnato nelle campagne contro Venezia e
Benevento (in una di queste spedizioni riporta una grande vittoria e la
conquista della città di Chieti, 812) e ancora contro gli Avari nel estate
del 796. Queste vittorie contribuirono a celebrarlo come
Christianissimus princeps.
Nel primo decennio del secolo IX, l’Italia quindi si trova nel
mezzo di un periodo di assestamento, scaturito dalle lotte e dalle
trasformazioni degli anni precedenti.
Attraverso nuovi capitolari, l’ordinamento del regno italico era
condotto sempre più alla somiglianza di quello franco, con la costante
emarginazione dell’elites longobarda e la valorizzazione dei missi.
Complicato restava invece il rapporto con Benevento.
Il duca Grimoaldo, infatti, una volta consolidata la sua posizione
venne meno al giuramento fatto a Carlo.
Anche dopo trent’anni dalla vittoria di Carlo i focolai longobardi
restavano sullo sfondo del’impero Franco, sfuocati al nord, più caldi
nella parte meridionale.
Siamo tra l’806 e l’812, con Pipino re d’Italia e la morte del duca
Grimoaldo, il figlio di quest’ultimo, anche lui di nome Grimoaldo,
riconobbe la sovranità del re franco e restituiva la città di Chieti.
Non più semplice fu la situazione sul confine orientale.
52
Lì il regno d’Italia visse un periodo di conflittualità legato alla
città di Venezia che, sotto il dominio bizantino, creava le basi per il
suo futuro splendore.
Il quadro di Venezia, vista la mancanza di fonti risalenti a prima
del X secolo, mostra una situazione di continue lotte interne tra le
varie fazioni.
Caduto il regno longobardo la città ebbe una spaccatura tra chi
sosteneva il nuovo sovrano franco e chi invece era nettamente più
vicina a Bisanzio, tra questi il doge di Venezia e il patriarca di Grado.
Nel 808 Pipino, dopo una prima fase in cui sembrava che a
Venezia prevalesse il partito franco prima della reazione bizantina,
strinse una tregua con Venezia vista la momentanea debolezza
militare.
Nel 810 ripartì subito con l’offensiva, approfittando anche della
crisi di Bisanzio (l’imperatore Nicefero I Logotea, dopo aver deposto
la regina Irene, doveva far fronte a molte fazioni avverse).
La sottomissione di Venezia, così com’era toccata a Benevento,
fu sancita dal pagamento di un considerevole tributo annuale.
La morte improvvisa di Pipino, nell’810, impedì una chiusura
definitiva della questione veneziana.
La lotta però non era solo militare, politica ed economica.
Ciò è evidente dal fatto che lo stesso Carlo scese in campo, per
dirimere una controversia a lui molto a cuore: il riconoscimento da
parte bizantina del suo titolo d’imperatore.
La vicenda si concluse nel 812 con la pace di Aquisgrana,
solennemente celebrata nella chiesa di Santa Maria.
Qui gli ambasciatori di Michele I, successore di Niceforo sul
trono di Bisanzio, salutarono Carlo col titolo di basileus.
53
Venezia così tornava nell’area di egemonia bizantina,
continuando però probabilmente a pagare un tributo ai Franchi.
5. Verso nuovi assetti e un nuovo sovrano: l’Italia e Ludovico
il Pio
La morte di Pipino riaprì la questione di successione sul territorio
italiano.
L’unico figlio maschio del defunto sovrano, Bernardo, aveva
all’epoca solo 13 anni.
Vista la sua giovane età, il regno per il primo periodo fu
assegnato ad alcuni messi imperiali, tra cui di nuovo l’esperto
Adalardo di Corbie, già maestro del padre.
La designazione ufficiale di Bernardo a re d’Italia avvenne nel
corso della dieta di Aquisgrana dell’812, dopo la quale scese in Italia
alla corte di Pavia.
L’anno successivo, in una dieta che si tenne sempre ad
Aquisgrana in Settembre, Carlo compie due importati azioni:
- nomina il suo unico figlio maschio rimasto in vita, Ludovico,
discendente al trono imperiale;
- fa si che i grandi dell’Impero acclamassero Bernardo rex
Langobardorum, sanzionandolo con quel titolo regale:
nell’amministrazione del regno italico nulla veniva cambiato rispetto
all’età di Pipino.
Carlo inoltre nei mesi precedenti la sua morte, cercò di
predisporre tutto per il definitivo passaggio del trono al figlio
Ludovico il Pio (814-840).
Ma l’Italia non fu certo il luogo più tranquillo durante il regno
54
del futuro Imperatore. La rottura col passato, e quindi con Bernardo,
non fu immediata.
Anzi, lo zio invitò il nipote a partecipare all’assemblea generale
di Aquisgrana, del Luglio 814, dove prestò giuramento al nuovo
sovrano per poi dirigersi a Roma e agire come vicario dell’imperatore
in aiuto di papa Leone III alle prese con dei rivoltosi.
Negli stessi panni, e qualche anno dopo, Bernardo apparve
quando scortò in Germania il nuovo pontefice Stefano V sino ad
Aquisgrana, dove questi celebrò la cerimonia d’incoronazione di
Ludovico.
L’assemblea di Aquisgrana nel Luglio dell’817 approvò un
documento di estrema importanza: l’Ordinatio imperii, atto con il
quale Ludovico volle ridisegnare gli impianti dei territori a lui
soggetti.
Tre le nuove disposizioni, una prevedeva che alla morte del
sovrano il regno fosse così diviso:
- la sovranità sull’intero impero sarebbe passata nelle mani di
Lotario: il primogenito;
- Ludovico e Pipino, i figli minori, avrebbero ricevuto col titolo
di re, i territori tedeschi ( Baviera, Marca orientale e al Carinza) e
quelli francesi (Aquitania, Guascogna, Marca di Tolosa e parte della
Settimania e della Borgogna).
Nelle divisioni però non si faceva nessun riferimento all’Italia e a
Bernardo, assenza non casuale.
Sulla rivolta di Bernardo, possediamo due gruppi di fonti:
- la cronachistica ufficiale, di parte imperiale, scritta da Eginardo
(gli Annales), le biografie di Ludovico o gli Historiarum libri di
Nitardo. Questi enfatizzano il ruolo negativo dei consiglieri di
55
Bernardo, attenuando le colpe del giovane re;
- una cronachistica schierata al fianco di Bernardo, che vede le
azioni del re opposte agli intrighi di corte pianificati dall’imperatrice
Ermengarda10.
Gli Annales regni Francorum, prima di riportarci come andarono
le vicende, ci informano come gli alleati di Bernardo fossero
personaggi di cui conosciamo solo i nomi.
Ciò si nota anche nelle vicende. Ludovico infatti fu informato
delle azioni di bernardo dal vescovo di Verona, Rataldo, e dal conte di
Brescia, Suppone, che, drammatizzando un po’ le vicende,
informarono il sovrano che il re d’Italia stava rafforzando le difese dei
valichi alpini e che tutte le città appoggiavano il suo piano.
Dopo tali notizie, in parte vere e in parte false come ci ricorda
Eginardo, Ludovico era pronto a mobilitare tutto l’esercito.
Ma prima che la guerra avesse davvero inizio, Bernardo e i pochi
che lo appoggiavano, spaventati, si consegnarono all’imperatore
sperando nella grazia.
Processati dal tribunale di Aquisgrana, i rivoltosi furono
condannati a morte.
Ma Ludovico cambiò loro la pena in accecamento, diversamente
da Carlo che in casi simili optava per la clausura in monastero.
La sorte di Bernardo però fu ben misera, accecato in modo
cruento sentì dolori talmente lancinanti da morire dopo tre giorni.
Ma la rivolta di Bernardo ha una significato particolare, viene
infatti vista come la rivolta dei “legittimisti” italici che vedevano in
Bernardo l’erede designato da Carlo, quindi legittimo detentore della
corona italica.
10 Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pagg. 33-34.
56
A muovere la guerra fu una legittimità ritenuta infranta, ma
questi sono aspetti che approfondiremo più avanti.
Un’ultima cosa sulla rivolta di Bernardo: questa non fu di
connotazione nazionalista, ma una presa di posizione di quegli
ambienti bruscamente emarginati da Ludovico nei suoi primi anni di
governo.
Dopo la morte di Bernardo, prima che il regno italico fosse
assegnato da Ludovico al figlio Lotario, che già da un po’ divideva col
padre la guida dell’Impero, si aprì una piccola fase di vuoto o
intermittenza del potere nel regno d’Italia che lasciò spazio alle
iniziative autonome di conti e vescovi.
La prima storica rivolta di un carolingio contro il suo imperatore
fu scatenata in gran parte proprio dal nuovo assetto dell’impero da
poco prefigurato da Ludovico, inoltre proprio per il suo stretto legame
con l’impero,la presenza di Lotario in Italia non fu costante.
L’Italia restava legata all’impero più delle altre provincie, visto
che il re d’Italia spesso coincideva con l’Imperatore.
In Italia più che negli altri regni è perciò osservabile il
mutamento della forma stessa del potere imperiale.
Lotario giunse in Italia la prima volta solo nell’822, ma fino
all’830 la sua azione fu subordinata a quella del padre. Il suo operato
era di semplice esecutore del volere paterno.
La scarsa presenza del re, diede modo ai marchesi e ai duchi di
rafforzare le loro posizioni.
Ad affiancare Lotario nei primi anni di regno fu chiamato Wala,
cugino di Carlo Magno, caduto in disgrazia dopo le epurazioni
dell’Ordinatio imperii.
Nella Vita, Wala presenta una situazione allo sbando, con le
57
concessioni fatte per creare coesione intorno all’imperatore che
avevano alimentato la formazione di dominazioni locali le quali
andavano erodendo il significato delle circoscrizioni pubbliche.
Le questioni italiane tra l’830 e l’840 sono legate alle continue
tensioni che scossero il regno durante il governo di Ludovico.
Qui di nuovo storia e legenda vanno a mischiarsi.
Gli Annales regni Francorum narrano che Ludovico, rimasto
vedovo dopo la morte di Ermengarda, medita l’idea di ritirarsi in
convento, cosa che avrebbe portato conseguenze disastrose in un
regno già non troppo stabile. Per far si che il pensiero del sovrano non
si realizzasse i dignitari di corte escogitarono uno stratagemma: alla
dieta di Aquisgrana dell’ 819 fecero si che Ludovico incontrasse delle
fanciulle sperando che tra una di loro e l’imperatore scoccasse la
scintilla. I loro desideri furono esauditi e Ludovico si innamorò di
Giuditta, appartenente a una delle maggiori famiglie aristocratiche
della Germania meridionale: i Welfen.
Che sia realtà o leggenda, Ludovico davvero si risposò dopo
essere rimasto vedovo, con conseguenze rilevanti negli anni
successivi.
Infatti nell’823 Ludovico e Giuditta ebbero un figlio che allertò
la base sulla quale si fissavano le successioni dell’impero, sancite dall’
Ordinatio dell’ 817.
Al figlio fu dato il nome di Carlo, con un programma che
sembrava chiaro.
Una cosa accumuna le due mogli di Ludovico: entrambe
ricalcano il clichè della regina perfida (a Ermengarda è imputata la
colpa ad esempio della fine del giovane Bernardo), autrice di torbide
manovre, secondo il modello che Procopio Cesarea fece di Teodora la
58
moglie di Giustinano nelle sue Carte segrete.
Le modifiche non tardarono ad arrivare, e nell’Agosto dell’ 829,
nella dieta convocata a Worms, Ludovico procedette a modificare
l’Ordinatio assegnando al figlio Carlo di soli sei anni: Svevia, Alsazia,
il distretto di Coira e parte della Borgogna.
Il procedimento fu lecito, ma danneggiava Lotario, ripercorrendo
quasi le vicende di Bernardo.
Lotario però era in una posizione più solida, proprio grazie alla
norma dell’817.
Ma le preoccupazioni non finivano lì per il sovrano d’Italia.
Giuditta aveva sistemato con propri uomini di fiducia la corte di
Ludovico.
Ciò portò Lotario e gli altri come lui legati alla tradizionale idea
di impero, i cosiddetti imperialisti, a cercare di ostacolare le nuove
disposizioni mettendosi anche contro il padre Ludovico.
La “guerra” fu combattuta non sul campo ma dietro le quinte.
Dopo un iniziale vantaggio di Lotario, Ludovico tornò ad avere
in mano la situazione presentandosi alla dieta di Nimega dell’830 con
l’appoggio degli altri due figli, Pipino e Ludovico e quindi in una
posizione di forza.
Lotario fu costretto a giurargli fedeltà pubblicamente, vedendo la
sua posizione sempre più indebolita.
Le cose cambiarono però già un anno dopo.
I tre figli del re, accolto in malo modo il progetto di una nuova
Ordinatio, si allearono contro il Padre sfidandolo nella battaglia di
Kolmar (831).
Più che una battaglia, questa fu un rincorrersi di promesse,
lusinghe, tradimenti che portarono Ludovico il Pio ad arrendersi
59
perché il suo accampamento era praticamente vuoto.
Il trono imperiale così vacante fu affidato a Lotario, anche se la
carica del nuovo sovrano durò poco.
I fratelli si allearono contro di lui, obbligandolo a consegnare il
regno di nuovo al vecchio padre, “purificato” dalla pubblica ammenda
fatta nella cappella di Santa Maria, presso Soissons.
Dopo alcune trattative, Lotario riuscì ad ottenere di nuovo il
regno italico, con la promessa di non oltrepassare mai più le Alpi.
Con Lotario giunsero in Italia anche personaggi importanti per
l’ultimo ventennio di sorti della corona e caduti in disgrazia, come ad
esempio Wala. Alcuni dei nuovi immigrati accettarono importanti
cariche pubbliche ed ecclesiastiche, sostituendo quei grandi che si
erano schierati con Ludovico il Pio.
L’837 il regnum Langobardorum fu colpito da una grande
epidemia, in cui molti di questi funzionari che speravano in un ritorno
in Francia persero la vita. Nonostante le perdite l’aristocrazia rimase
al fianco di Lotario per aiutarlo in questo difficile momento.
Con la riconferma di Lotario sul trono d’ Italia si ha il definitivo
passaggio del ceto dominante. Se all’inizio della campagna di Carlo
Magno questo era di maggioranza longobarda, ora si presenta
composto per sua maggior parte di Franchi d’ “immigrazione”11.
11Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pag. 43.
60
6. La lotta per il potere dopo la morte di Ludovico il Pio e il
nuovo sovrano Ludovico II
Le lotte e le controversie caratterizzano questo periodo.
Tre sono le fazioni che troviamo schierate:
- Ludovico il Pio, che cercava di far valere la sua autorità tra
continui ripensamenti;
- Giuditta, che cercava di garantire al figlio Carlo un destino non
inferiore a quello dei fratelli;
- Ludovico il Germanico, Pipino e Lotario uniti solo in caso in
cui venissero minacciati interessi comuni, se no sempre l’uno contro
l’altro.
Gli schieramenti cominciano a mutare quando, dopo una rivolta
di Ludovico il germanico, Giuditta riesce a guadagnare alla propria
causa Lotario.
Da ciò si arriva ad un nuovo atto di divisione promulgato a
Worms nel giugno dell’839. A Ludovico veniva assegnata la Baviera,
a Carlo tutti i territori ad ovest del Rodano, della Saona e della Mosa e
a Lotario l’Italia più i territori orientali lungo i medesimi fiumi.
Ma lo status quo decretato da Worms si rivelò effimero, visti gli
argomenti che si stavano per verificare.
Il 20 Giugno a Ingelheim morì Ludovico il Pio. Lotario rivendicò
allora il suo diritto alla successione secondo l’Ordinatio dell’817,
professando quell’idea di unità d’impero che trovava il suo seguito nei
“imperialisti”.
Accanto ai vecchi sostenitori di sempre, Lotario poteva contare
su nuovi alleati come il Drogo di Metz o il figlio di re Bernardo.
Tali pretese però non furono accettate dai fratelli e così il
61
giudizio fu messo nelle mani di Dio: battaglia.
Gli eserciti di Lotario, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico si
affrontarono a Fontenoy-en-Piusaye il 25 Giugno 841 dando vita ad
una battaglia cruenta che lasciò sul campo centinaia di persone.
Nonostante il campo avesse dichiarato Lotario sconfitto, questi
non si arrese e lo stesso fecero i fratelli. Questi il 14 Febbraio del 842
sancirono col famoso giuramento di Strasburgo un’alleanza.
Il giuramento fu importante sotto il profilo culturale perché fu
redatto in duplice versione, antico francese e antico tedesco.
Sotto l’aspetto delle successioni sanciva il legame tra i due
fratelli, ma rimandava la delicata questione del titolo imperiale.
La questione comunque non tardò a risolversi.
Fiaccati dalle guerre, i tre fratelli si riunirono nell’estate dell’842
presso Macon per trovare un accordo.
Il risultato:
- Carlo ottenne i territori franchi ad ovest della Mosa;
- Ludovico i territori ad est del Reno e a nord delle Alpi;
- Lotario i terreni dalla Frisia alla Borgogna, lungo i corsi della
Mosa e della Mosella, la provenza e il regnum Italiae.
Questo è il risultato del trattato di Verdun, agosto 843.
Questo lungo periodo di trasformazione del regno aveva tenuto
quindi Lotario lontano dal suolo italiano.
Il re in persona aveva però dato compito di amministrazione del
regno sempre più al figlio Ludovico, che divenne suo vicario.
Dopo Verdun, Lotario rinuncerà a svolgere qualsiasi funzione in
Italia, lasciando tutto nelle mani del figlio.
Ma andiamo per ordine. Alla morte di Lotario nell’855 il regno
centrale fu così diviso:
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- i fratelli Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, ereditarono i
regni che spettavano al figlio di Lotario, Lotario II, dopo la sua morte
nell’869, e cioè la Frisa e la Lorena;
- a Carlo, altro figlio di Lotario, andò il regno di Provenza e il
bacino del Rodano;
- il primogenito, Ludovico II, ricevette l’Italia e il titolo imperiale
ormai sempre più di significato simbolico.
Ludovico nell’844 fu incoronato da papa Sergio II rex
Langobardorum.
Il nuovo re era un sovrano atipico. Nato e cresciuto nel cuore
della Langobardia, cercò di frenare il processo di disgregazione del
regno, venutasi a creare durante gli scontri tra Lotario e fratelli,
opponendosi ai vassalli regi come il marchese di Friuli o Spoleto e alle
prevaricazioni di altri grandi proprietari.
6.1 Il rapporto con la chiesa e il confronto con i Saraceni.
Il primo compito di Ludovico fu subito il confrontarsi col papato
e il pretesto fu fornito dall’elezione del nuovo pontefice: Sergio II.
Su volontà del padre Ludovico, scese in Italia con l’esercito per il
rituale braccio di ferro col papa risolto con l’incoronazione dell’844.
Non ancora re d’Italia, siamo ancora negli anni in cui opera come
vicario del padre, Ludovico affrontò la minaccia saracena che aveva
colpito le coste del Lazio, saccheggiato Roma e danneggiato San
Pietro.
Lotario da un lato fece raccogliere fondi per sistemare i danni,
dall’altro con il capitolare De expeditione contra Saracenos facienda,
mobilitò l’esercito contro le continue incursioni.
63
La situazione sulle coste italiane era sempre stata di allerta verso
le scorribande di arabi provenienti dall’Africa.
Le cose però cambiarono intorno ai secoli VII – IX.
Una delle cause furono i continui scontri tra le diverse fazioni per
il ducato di Benevento che chiesero aiuto anche alle truppe arabe.
Queste lotte aprirono agli arabi di Sicilia e Africa nuove
possibilità di espansione. Da qui appunto avvenne la spedizione a
Roma, anche se solo come caso isolato.
Le fonti comunque non chiariscono bene i fatti, ma sicuro la
spedizione, guidata da Ludovico, si concluse con la cacciata dei
Saraceni da parte del territorio beneventano.
6.2 L’Italia di Ludovico e i suoi rapporti con la chiesa.
La maggiore presenza del potere regio in Italia dava, dal punto di
vista militare, una maggiore stabilità alla Chiesa.
Ma al tempo stesso poteva rompere quei meccanismi delicati di
rapporto tra papato e impero.
Il primo pericolo si avvertì quando alla morte di papa Leone IV,
avvenuta nel Luglio dell’885, Ludovico non in maniera diretta tentò di
deporre il nuovo papa Benedetto III e di sostituirlo con Anastasio,
figlio del vescovo di Orte Arsenio.
Avendo però scarsi risultati, Ludovico si inserì anche
nell’elezione del successore di Benedetto, Nicolò I (858-867). Qui
ebbe un ruolo sicuramente determinante, visto che il nuovo pontefice
nominò suo segretario particolare proprio Anastasio.
Nicolò però non avvio una politica subordinata al sovrano, anzi
portò avanti la vecchia tradizione di Leone III: una politica finalizzata
64
al rafforzamento del ruolo della Chiesa di Roma con il coinvolgimento
dell’imperatore.
Scopo finale del nuovo pontefice era porsi come sommo arbitro
della cristianità.
A tele fine interferì anche con la vita privata della famiglia
imperiale.
Obbligò ad esempio Lotario II a lasciare al seconda moglie a
vantaggio della prima, accusandolo di concubinaggio.
Tale pretesto fu anche lo spunto per cercare di far valere la
propria supremazia anche sui vescovi francesi, così come aveva
tentato con i vescovi italiani.
Nei confronti di questi ultimi è di qualche anno prima il
confronto con l’arcivescovo di Ravenna. Nell’861, umiliò Giovanni,
così si chiamava l’Arcivescovo di Ravenna, addirittura con la
scomunica. Ravenna era una delle sedi episcopali più importanti.
Ma lo smacco di Ravenna fu anche un sconfitta per Ludovico,
presso il quale l’arcivescovo aveva chiesto rifugio.
Nicolò I tento di riportare sotto di sè anche la chiesa bizantina,
obbligando l’imperatore a svolgere una politica di subordinazione a
quella del pontefice.
La situazione si complica quando a Bisanzio c’è da eleggere il
nuovo patriarca di Cosatntinopoli.
Eletto prima Ignazio, monaco e figlio di Michele I; nell’858
questi sarà sostituito da Fozio, posto in carica dall’imperatore Michele
III.
Fozio, che era un laico direttore della cancelleria imperiale,
dovette ricevere tutte le cariche ecclesiastiche per svolgere la sua
carica e per far si che questa fosse consolidata chiese il
65
riconoscimento dell’elezione al papa. Il rifiuto del papa portò Fozio a
chiedere l’aiuto di Ludovico che però non intervenne. E questo perché
i fatti stavano per cambiare.
Assassinato Michele III da Basilio e un gruppo di congiurati,
siamo nell’867, Fozio fu deposto e Ignazio fu ripristinato alla guida
del patriarcato.
Il reintegrato patriarca tentò una politica di conciliazione con
Roma e il papa, ma nel frattempo Nicolò era deceduto, concludendosi
con lui un periodo che aveva portato la Chiesa romana a svolgere un
ruolo di primo piano sul palcoscenico politico europeo.
Al di là della questione del patriarcato, la lotta tra Roma e
Bisanzio resta chiaramente uno scontro per la supremazia e il
controllo dell’intera cristianità, anche su territori di nuova
evangelizzazione, tipo la Bulgaria.
6.3 Gli ultimi anni di Ludovico: la successione, un’Italia sotto
un unico re e nuovi poteri.
Gli ultimi anni di Ludovico furono segnati da un crescente
interessamento per l’Italia meridionale.
La causa era subito spiegata.
Da un lato il sogno del sovrano di avere un Italia unita per la
prima volta sotto un unico sovrano; dall’altro per la prima volta
Longobardi beneventani, Franchi e Bizantini fanno fronte comune
contro un pericoloso nemico: gli Arabi.
Tutti e tre gli eserciti però avevano mire private sul sud Italia.
Ludovico voleva estendere i propri confini dopo Roma; per
Bisanzio si trattava invece di un ritorno di fiamma per i possedimenti
italiani.
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Il primo passo verso un cammino difficile fu fatto da Ludovico
tra l’852 e l’853, in seguito agli inviti degli abati di Montecassino e S.
Vincenzo al Volturno esposti alle incursioni arabe.
La spedizione fu insufficiente e per un anno circa, visti i
problemi interni che dovette affrontare, le mire sul meridione furono
accantonate.
Tornò alla carica nell’866 istituendo anche la Constitutio de
exercitu, stabilendo norme precise per il reclutamento militare.
Obbiettivo della nuova spedizione fu Bari.
La città si dimostrò estremamente difficile da conquistare e la
riuscita si deve anche all’aiuto bizantino.
Nel febbraio dell’871 i Franchi entrarono a Bari e catturarono
l’emiro Sawdan.
Ma la conquista non fece che indebolire solo il raggio d’azione
arabo che, ridotte le loro forze, si ritirarono a Taranto.
Diversa era la situazione per le tre alleate:
- Ludovico voleva ora tutta l’Italia sotto il suo unico comando;
- i Bizantini avevano affiancato i Franchi solo perché temendo
che una conquista da parte solo Franca delle coste del mediterraneo in
Italia, avrebbe potuto creare un nuovo nemico sul mercato e quindi
volevano anche loro dei vantaggi;
- i signori Longobardi, una volta ridimensionati gli Arabi,
trovarono un’inaspettata coesione dovuta anche alla volontà che il
regno Franco non si estendesse nei loro territori.
Così, mentre Ludovico si trovava a Benevento, scoppiò una
rivolta conclusasi con la sua cattura.
La prigionia però fu breve e, una volta giurato di non tornare più
a Benevento per cercare la vendetta, fu lasciato libero.
67
Ma Ludovico non si attenne al giuramento.
Tra l’872 e l’873 cercò di nuovo la subordinazione del sud Italia.
La campagna porto solò alcune soddisfazioni, ma alla fine
dell’873 dovette smettere per affrontare un problema più grave: la
successione al trono.
Non avendo avuto figli maschi nell’874, Ludovico II incontrò
Ludovico il Germanico a Verona, accordandosi probabilmente per
l’assegnazione della corona a Carlomanno, figlio del Germanico.
Ma alla morte di Ludovico, nell’agosto dell’875, il trono d’Italia
insieme al titolo imperiale passarono nelle mani di Carlo il Calvo.
In questo cambio decisive furono le intromissioni del papa
Giovanni VIII e dei signori italiani, che volevano liberarsi così di un
fardello particolarmente pesante, come sarebbe stato Carlomanno: un
re sempre presente.
Carlo il Calvo fu così invitato a scendere a Roma per ricevere
l’unzione.
Ma la mossa del papa aveva creato ora una frattura nel regno
franco.
Da un lato c’era chi sosteneva la regina Angilberga, vedova di
Ludovico, dall’altro Carlo il Calvo.
In questo caso a favore di quest’ultimo giocarono i legami che
molti esponenti dell’aristocrazia italica mantenevano in Francia, con
le loro famiglie di origine.
Così Carlo al suo arrivo a Pavia fu accolto da tutti i grandi del
regno positivamente. La notte di Natale del 875 fu incoronato
imperatore e, sempre a Pavia pochi giorni dopo, fu acclamato re
d’Italia.
Si passava così da un sovrano, Ludovico II, alla ricerca quasi
68
esasperata del consolidamento del regno, impossibile da realizzare
per la sua struttura istituzionale, a un re, Carlo il Calvo, troppo
impegnato in altri affari e quindi poco presente in Italia.
7. Gli ultimi re carolingi e la nascita di un nuovo potere
I primi atti di Carlo il Calvo furono completamente opposti a
quelli del suo predecessore.
Affidò l’Italia al duca di Provenza, Bosone, che operava come
suo vicario.
Nel proporre quest’atto però:
- non considerò gli esponenti dell’aristocrazia italiana, appoggio
fondamentale per la nomina a sovrano;
- reinsediò Lamberto di Spoleto, rifiutandosi di andare contro i
potentes più riottosi;
- con l’accordo dell’876 a Ponthion, sembrò rinunciare a
qualsiasi pretesa sull’Italia centro-meridionale, tutto a favore del
pontefice in cambio dell’appoggio per la conquista della corona. Papa
Giovanni VIII divenne così la principale autorità politica d’Italia.
Questi punti che ridimensionarono lo status della penisola, fecero
ben presto cambiare schieramento a tutti gli aristocratici che invece
avevano sostenuto l’elezione del sovrano. Lo stesso Bosone si schierò
contro di lui.
Colto di sorpresa mentre si preparava a Pavia a contrastare un
incursione saracena, Carlo si trovò lasciato completamente isolato.
Tornò in Francia, ma durante il ritorno fu colto da febbre e morì
il 6 Ottobre 877.
La fazione vincente allora nominò re Carlomanno , ma anche lui
69
caduto malato dovette affidare l’amministrazione ai grandi del regno.
Nonostante l’Italia abbia sempre e comunque un re, duchi e i
marchesi sono ormai svincolati dal potere del sovrano. Incalzano così
le lotte per la supremazia, con le confische da parte dei numerosi
signori locali, anche dei beni imperiali e del papato.
Giovanni VIII cercò di ristabilire l’ordine e, scappato in Francia
dopo che Roma fu messa a saccheggio da Adalberto di Tuscia e
Lamberto di Spoleto, offrì la corona a Bosone. Una rivolta dei signori
Italiani però, guidati dal conte Suppone II e dall’arcivescovo di
Milano Ansberto, spinse Bosone, giunto già fino a Pavia, ad una
ingloriosa ritirata.
La corona restò quindi sempre nelle mani della famiglia
carolingia.
Carlomanno, sempre malato, cedette la corona al fratello Carlo il
Grosso.
Il 6 Gennaio dell’880 tutti i grandi del regno, il papa, il patriarca
e l’arcivescovo di Milano, elessero Carlo re.
D’ora in poi il sovrano sarà sempre seguito e sotto la tutela dei
suoi elettori.
Primo passo fu già l’elezione ad imperatore dell’881 e in seguito
dall’885, dopo la morte dei fratelli, la riunificazione del regno tutto
nelle sue mani, esclusa la Provenza di Bosone.
Carlo non ebbe un buon rapporto con gli i potenti e anzi revocò
loro quell’indipendenza che Carlo il Calvo gli aveva riconosciuto (883
revoca a Guido di Spoleto e ad altri nobili feudi i titoli acquisiti).
Fu questo un atto di forza verso nobili che si consideravano
piccoli re.
Carlo il Grosso cercò di opporsi così ad un amministrazione
70
politica voluta da Carlo Magno che però, per la mancanza fissa della
figura del re o anche per la facile corruzione dei nobili, si era
trasformata in nuovi poteri signorili. Ad esempio il ducato di Spoleto
negli anni di Carlo il Grosso era definito dai documenti storici regnum
Witonis, cioè regno di Guido, appunto il nome del suo duca, che
nell’891 è eletto re d’Italia senza che questo avesse risonanze
significative per l’Italia.
Ma i problemi per il nuovo sovrano erano tanti.
Attorno ai confini dell’impero nuove forze si stanziavano: a nord
i normanni, a sud i saraceni e a est il pericolo ungaro. Per non parlare
di Bisanzio rivale storica.
Dopo anni di spossatezza, consumato fisicamente e con
l’aristocrazia tedesca che premeva per la sua abdicazione, Carlo morì
nel marzo dell’888.
Il regno passo al figlio illegittimo del fratello Carlomanno,
Arnolfo di Carinzia. Da questo momento saranno i grandi del regno a
contendersi quella corona che era stata prerogativa della famiglia
carolingia.
Il regnum Langobardorum, così come lo aveva concepito Carlo
Magno e così come si era trasformato durante i regni dei vari Pipino,
Bernardo, Lotario, Ludovico II, aveva cessato di esistere.
Incominciava quello che è stato definito il “secolo di ferro”.
71
CAPITOLO III
1. Le guerre pagane: quadro storico
All’indomani della vittoria sui Longobardi, Carlo si trovò ad
essere l’unico re Cristiano d’Occidente.
I suoi domini si allargavano dal Mare del Nord all’Adriatico.
Tutt’intorno a lui erano stanziati però i “nemici di Dio”: i Sassoni,
ancora pagani e situati nelle sconfinate foreste della Germania
settentrionale, i Danesi, gli Slavi e, oltre i Pirenei, gli Arabi già
respinti a suo tempo dal nonno Carlo Martello. A Oriente infine, nella
pianura pannonica, gli Avari, discendenti degli Unni di Attila.
In questa cornice l’indole franca di popolo guerriero era
stimolata, anche se le guerre si trasformarono però da guerre di
aggressione a guerre di legittimazione religiosa.
Ogni volta che Carlo levò la spada contro i suoi vicini lo
accompagnò la benedizione del papa: come poteva fallire?
2. La Campagna sassone
La guerra accompagnò quasi ogni anno della vita di Carlo, ma la
più dura fu quella contro i Sassoni, che durò circa vent’anni, non
continui, ed estese i confini dell’impero fino all’Elba.
Nel 772 Carlo, partendo dal medio Reno, intraprese contro i
Sassoni una prima avanzata militare come punizione per le loro
continue aggressioni.
Avanzò fino al corso superiore del fiume Weser conseguendo una
spettacolare vittoria: il principale santuario dei Sassoni, l’Irminsul,
72
dove sorgeva l’albero sacro che essi veneravano e che credevano
sostenesse la volta celeste, era stato conquistato, l’albero bruciato, gli
idoli distrutti e Carlo aveva ottenuto dagli sconfitti la consegna di
dodici ostaggi12.
Con una vittoria così schiacciante era stato sottomesso tutto il
popolo sassone?
Rispondere a questa domanda resta difficile, perché
l’organizzazione sassone presentava aspetti particolari.
I barbari infatti possedevano una particolarità sociale, non erano
governati da un unico re. La loro società si divideva in numerosi
gruppi e popolazioni, ognuno con un proprio capo. Una nota, questi
non erano menzionati col nome di re dagli scrittori franchi o bizantini,
ma nel contesto in cui vivono possono essere senza dubbio invece
chiamati così.
Erano questi re i massimi esponenti della loro popolazione, con
addirittura nei loro confronti una sorte di venerazione religiosa. Il
vincolo che univa tutti i Sassoni era un’assemblea annuale che si
teneva a Marklo nei pressi del fiume Weser, alla quale partecipavano
tutti i capi.
In caso poi di un lungo conflitto, il comando supremo veniva
conferito a uno dei loro comandanti. Questo non accadde però nella
prima parte della guerra contro Carlo, poi quando gli scontri
diventeranno a campo aperto e non più guerre d’assedio, il comando
sarà preso da Widuchindo.
Ritornando alla cronaca, spedizione come quelle del 772 si
ripeterono negli anni, visto che i Sassoni ad ogni occasione si
12 Becher M., Carlo Magno, Società Editrice il Mulino, Bologna 2000. pag. 59.
73
ribellavano contro quella sottomissione che imponeva loro la perdita
dell’indipendenza tribale e dei loro culti ancestrali.
Ma l’obiettivo religioso non è la causa, o almeno non è la
principale, che muove la mano di Carlo.
Già infatti il padre e il nonno avevano combattuto contro di loro.
Causa dei continui conflitti, anche secondo le fonti dello storico
di Carlo, Eginardo, è in primis il confine. Questo attraversava una
pianura aperta, tranne per alcuni punti, per cui da un parte e dall’altra
capitavano continuamente razzie, assassini e incendi.
L’insicurezza fece si che i Franchi non si accontentassero più di
rispondere colpo su colpo, ma decisero di intraprendere contro di loro
una guerra aperta.
Motivazioni religiose e politiche si intrecciavano, come accade di
continuo in questi anni, già da tempo nei rapporti tra Franchi e
Sassoni.
Ad esempio, fra le condizioni imposte ai Sassoni dalla vittoria di
Pipino c’era la garanzia che gli ecclesiastici franchi e anglosassoni
operanti nei confini sassoni, potessero svolgere il loro compito senza
impedimenti. Questi giustificheranno più avanti anche la spedizione di
Carlo, presentandola come ultimo tentativo verso un popolo che non
voleva credere.
Alla spedizione del 772, fece seguito la vendetta sassone.
Tra il 773-74, mentre Carlo era impegnato a sottomettere il regno
longobardo in Italia, i pagani del nord, assalirono numerose chiese
cristiane nel nord dell’Assia.
La strategia sassone fu quasi sempre questa, attaccare ogni volta
che Carlo era impegnato su di un atro fronte, come accadrà nel 778,
quando con Carlo impegnato oltre i Pirenei contro la minaccia araba e
74
con molte settimane di marcia a separarlo dal regno, le truppe barbare
comparvero nelle zone di confine del Reno e solo a fatica furono
respinte dopo molti saccheggi.
Ma facciamo qualche passo indietro.
Nell’autunno del 774 Carlo tornò dall’Italia e di lì a poco, nel
Gennaio 775 a Quierzy, decise una nuova strategia contro i Sassoni:
<< di fare guerra alla schiatta dei pagani e infidi Sassoni finché essi
non fossero stati vinti e convertiti al cristianesimo, o altrimenti fino al
loro annientamento>>13.
Ma a chi era rivolta questa decisione?
L’assetto della Sassonia, che vedeva la presenza di tante tribù
appunto, era diviso in due fazioni: chi si era arreso al suo regno già
alla prima spedizione e chi lo osteggiava ancora.
Ma a quanto risulta dalle fonti a Carlo ciò non interessava. Al
futuro imperatore interessava solo porre fine a quella sensazione di
minaccia proveniente dalle popolazioni sassoni delle immediate
vicinanze (la regione sud del territorio confinante con il loro regno era
il bersaglio).
Nelle guerra di difesa queste popolazioni si strinsero insieme
perdendo quell’identità tribale al punto che i franchi, nella loro
avanzata, distinsero solo tre grandi gruppi: i Westfali a ovest, gli
Engern nella regione del Weser e gli Ostfali a est.
La realizzazione delle decisioni di Quierzy fu immediata.
Nella primavera del 775 Carlo marciò dal medio Reno attraverso
Eresburg verso il Weser, addentrandosi fino a Oker. Qui gli Ostfali,
guidati da un certo Hessi, gli portarono degli ostaggi e gli giurarono
fedeltà. Stessa sorte nella marcia di ritorno toccò agli Engern, guidati
13 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 55.
75
da Brun.
I Westfali intanto, sotto il comando di Widuchindo, avevano
sconfitto la divisione franca che controllava il passaggio sul Weser.
Ma poco dopo furono sconfitti a Lubbecke.
In quell’occasione Carlo annetté la regione del Reno lungo la
Lippe fino a Eresburg con il controllo su Hellweg, importante via di
comunicazione verso l’Essen e la Turingia.
La ferocia con la quale Carlo impose al decisione del 775 fece
addirittura dubitare sul suo stato mentale.
Da notare che in nessun documento di quella spedizione si parla
di cristianizzazione.
In conclusione, secondo il piano di Quierzy, i sassoni dovevano
essere prima di tutto sottomessi, mentre la cristianizzazione, se mai
fosse avvenuta, sarebbe stata un aspetto secondario.
Nel 776 con Carlo chiamato in Italia dalla rivolta longobarda, i
Sassoni ne approfittarono per ribellarsi e colpire le conquiste franche
nel sud della Sassonia.
Ma Carlo nello stesso anno riuscì a sedare entrambe le rivolte e
riuniti alla sorgente della Lippe i Sassoni di tutte le regioni promisero
con un giuramento di diventare cristiani e di riconoscere il dominio di
Carlo, offrendo la loro patria come garanzia. Se i Sassoni non fossero
rimasti fedeli i franchi avevano il diritto di attaccarli come traditori.
A questa vicenda si collega l’edificazione di una città, divenuta
caposaldo franco, chiamata Karlsburg. E’ significativo come questo
luogo, corrispondente alla vecchia città di Paderborn, abbia ricevuto il
nome del sovrano, seguendo l’esempio di Costantinopoli. Carlo si
poneva così alla stregua dei primi imperatori cristiani.
La nuova città comunque ha importanza anche per un altro fatto
76
storicamente importantissimo: nel 776 Carlo convoca proprio lì una
grande assemblea generale del regno.
La novità sta nel fatto che prima di questa l’assemblea aveva
luogo in territorio franco.
Questo gesto sottolinea come Carlo considerasse i Sassoni
definitivamente sottomessi, tanto che accettò di recarsi in Spagna per
rispondere alla richiesta di aiuto del governatore di Saragozza contro
l’emiro di Cordoba (778). Ma la spedizione come vedremo più avanti
non fu proprio un successo e, come se non bastasse, i Sassoni,
approfittando come sempre dell’assenza di Carlo, si sollevarono
guidati dal nobile Widuchindo di Westfalia. Distrussero la città di
Karlsburg e giunsero presso Deutz fino al Reno, dove fecero bottino e
distrussero molte chiese.
L’anno 778, viste le vicende del regno, è considerato il primo
anno di crisi di Carlo.
Il sovrano tentò di uscire dalla crisi affiancando alle spedizioni
militari anche un richiamo alle origini, dando ai due figli avuti dalla
terza moglie Ildegarda, due nomi significativi: Ludovico (Clodoveo) e
Lotario (Clotario) che, insieme al primogenito Carlo, assicuravano la
continuità della nuova dinastia.
In questo modo Carlo rievocava i giorni vittoriosi del regno
franco-merovingio.
Nel 779 il re tenne un assemblea con il suo esercito a Duren, per
poi attraversare il Reno presso Lippeham e, a Bocholt, affrontò una
battaglia aperta che terminò con la vittoria di Carlo e la sottomissione
totale dei Westfali. Spintosi poi oltre il Weser ricevette anche il
giuramento di Engern e Ostfali.
Credendo anche stavolta i Sassoni sconfitti decise di applicare
77
anche al loro territorio il sistema franco sia temporale che spirituale.
Carlo era riuscito a sottomettere la classe libera e non e
nell’assemblea convocata nel 782 vicino le sorgenti della Lippe,
soddisfatto per la condotta sassone, nominò conti e duchi alcuni di
loro.
Un altro fatto sottolinea come Carlo oramai considerasse i
Sassoni una parte integrante del suo impero. Tornato in patria ricevette
la notizia di un’aggressione slava in Turingia e Sassonia decidendo
così di mandare contro gli invasori uno schieramento franco-sassone.
Ma guidati da Widuchindo, l’unico assente all’assemblea di
Lippe, grandi parti della Sassonia, affiancate dalla frazione sassone
che si era distaccata dall’esercito, si sollevarono e, nella battaglia a
nord del Suntelgebirge, falcidiarono le truppe franche.
Vista al gravità della situazione Carlo stesso con i suoi uomini
marciò fino al Weser e a Verden sulla foce dell’Aller, affluente del
fiume Weser, fece sottomettere tutti i Sassoni ribelli.
Ne furono giustiziati 4.500, anche se il numero sembra riportato
un po’ esagerato dagli annali. Il gesto di Carlo fu comunque un gesto
efferato, anche se isolato.
Molti storici cercano di attenuare la responsabilità del sovrano
che non era certo un sanguinario. Alcuni puntarono nel sottolineare
come la ribellione fosse stato un atto di alto tradimento, altri
sostenevano che i Sassoni erano stati sterminati in battaglia e non a
sangue freddo. Ancora c’è chi pensa che il verbo usato, decollare
(decapitare), sia un errore dei copisti in luogo dell’originario delocare
(deportare).
Addirittura gli storici nazisti considerano Widuchindo un eroe
della razza germanica e Carlo un conquistatore mezzo latinizzato.
78
Più verosimile è l’ispirazione di fonte biblica. Esasperato dalle
continue rivolte, Carlo decise di comportarsi davvero come un re
d’Israele traendo ispirazione dall’Antico Testamento come era solito
fare (ad esempio come David, con cui Carlo spesso si identificava, che
conquistati i Moabiti fece stendere i prigionieri a terra e ne ordinò di
ucciderne due su tre). Questa è forse l’analisi più corretta: il massacro
di Verden come applicazione feroce del modello biblico.
Fatto sta che nel 782 Carlo dovette sedare la rivolta più grande
dei Sassoni dall’inizio degli scontri.
Nello stesso anno emanò la Capitulatio de parti bus Saxoniae,
che prevedeva la pena di morte per chiunque offendeva la religione
cristiana (rifiuto del battesimo, distruzione di chiese, etc) o i suoi
sacerdoti. Questa di fatto rappresentava un manifesto della
conversione forzata dei Sassoni.
Infondo, con la Capitulatio, Carlo si servì della religione come
mezzo per la sottomissione delle popolazioni locali, considerando la
chiesa non come un alleato, ma come uno strumento di dominio. Al
tempo stesso la legge era coerente col fatto che l’asilo della chiesa
offriva protezione legale nel caso di colpe punibili con pena di morte,
come quelle descritte dalla Capitulatio.
Questo era però un aspetto da valutare con molta calma, visti gli
esiti che poteva portare.
Continuiamo comunque ad analizzare ciò che successe col
proseguire degli anni.
Anche nel 783 Carlo fu chiamato a battagliare in Sassonia,
insorta sempre mentre lui era assente, spingendosi fino a Hase, dopo
essersi accampato a Paderborn per radunare l’esercito.
Non era cambiato il modo di combattere, ma il modo di condurre
79
la guerra.
Negli anni successivi al 782 infatti, il sovrano franco condusse la
campagna in maniera spietata, spostandosi per la prima volta
personalmente in terra nemica e devastando tutto per fermare i ribelli.
Riunitosi in assemblea a Worms, dopo l’ennesimo intervento,
decise di passare l’inverno in Sassonia perché la sua presenza
scoraggiasse gli avversari.
Passato l’inverno a battagliare contro i Sassoni e accampato nella
fortezza di Eresburg, in primavera Carlo tenne un’assemblea nelle
vicinanze di Paderborn dove concentrò tutte le sue forze per la
battaglia decisiva. Potè cos’ attraversare il territorio fino all’Elba
senza trovare opposizione, segno questo che con la sua presenza in
inverno aveva rotto l’opposizione segreta.
Soltanto Widuchindo e suo genero Abbione rimasero ad opporre
resistenza a nord dell’Elba. Carlo propose allora un incontro personale
al condottiero barbaro per negoziare la pace, cosa che, conoscendo la
superiorità franca, Widuchindo accettò, così come accettò di recarsi in
“Francia” per discuterla, chiedendo degli ostaggi franchi da liberare in
seguito come precauzione. Trovato l’accordo e seguito il re al dì là del
Reno, ad Attigny, Widuchindo e Abbione si fecero battezzare il giorno
di Natale del 785, con Carlo Magno che fece da padrino al generale
dei Westfali.
Battezzando il capo sassone, papa Adriano ordinò di rendere
grazia a questa nuova vittoria della fede. Ma la politica del battesimo
forzato non ebbe il successo sperato, anche se gli annali del regno già
annunciavano nel 790, dopo il battesimo dei due sassoni, et nunc tota
Saxonia subiugata est (e adesso l’intera Sassonia è sottomessa). Più
che sottomessa però, Carlo aveva portato una lunga guerriglia ad una
80
fine, almeno provvisoria, vittoriosa dopo circa 13 anni con una sua
azione personale.
Se però con Widuchindo era bastato l’intuito politico del re,
accompagnato al fatto che il barbaro non era un uomo stupido (ora
poteva ritirasi nei suoi possedimenti legittimati dal re e aspirare a
posizioni elevate nella gerarchia degli ufficiali franchi), non fu cosi
per il resto della popolazione.
Per diversi anni in Sassonia regnò la pace, ma la campagna
contro gli Avari, che analizzerò più avanti, aveva creato una falla: nel
791 infatti la campagna di Carlo contro gli Avari si concluse senza
successo e questo fornì ai Sassoni la scintilla per una nuova ribellione,
visto che l’insuccesso aveva compromesso la fama di conquistatore
del re franco.
Ma ad essere compromessa era ormai soprattutto la “fama di
Dio”, poiché i Sassoni furono scossi nella fede della superiorità del
Dio cristiano, dagli Avari che invece cristiani non erano14.
Gli scontri si concentrarono nel nord della Sassonia, a
Wigmodien, tra il corso inferiore del Weser e dell’Elba e gli antichi
successi franchi apparvero quasi del tutto terminati. Nel 793 una
grossa divisione franca fu annientata sulle rive del Weser, dove accade
una cosa inedita: Carlo invece di intervenire di persona preferisce
nascondere la sconfitta, rinunciare alla seconda campagna e rivolgersi
alla costruzione di un canale che collegasse Rednitz e Altmuhl. Un
canale del genere avrebbe accorciato il tragitto tra numerosi focolai di
guerra nel suo regno.
Dopo Pasqua Carlo riprese la campagna, ottenendo sempre gli
stessi risultati. Fra il 795e il 797, davanti al potente esercito franco, le
14 Becher M., Carlo Magno, Società Editrice il Mulino, Bologna 2000. pag. 64.
81
truppe sassoni indietreggiarono chiedendo la pace, ma appena il
sovrano era lontano erano pronte ad insorgere nuovamente.
Nel 797 sembrò ottenere finalmente la sottomissione di tutta la
popolazione sassone.
In un’assemblea ad Aquisgrana Carlo promulgò un secondo
capitolare: il Capitulare Saxonicum. In esso accordava ai Sassoni del
sud (Engern e Ostfali), la partecipazione alla legislazione, come
premio per essersi sottomessi per primi e aver mantenuto fedeltà al re.
Aveva soggiogato la Sassonia, o almeno una sua larga parte, con la
guerra ma anche con i regali.
Il capitolare però lasciava fuori le genti del nord, mirando quindi
a pianificare solo la parte sud della regione.
Con le tribù del nord ci furono altri scontri fino alla loro
definitiva resa nel 798.
L’assetto della Sassonia fu così ridisegnato e a Paderborn fu
edificato un palazzo nel quale Carlo risiedeva quando la sua presenza
nelle operazioni di guerra era necessaria.
Lì ricevette papa Leone III fuggito da Roma per scampare ai suoi
nemici e da lì prese anche il via il movimento religioso che avrebbe
sradicato il paganesimo definitivamente. Il primo vescovo insediato a
Paderborn fu proprio un Sassone: Hathumar.
Fu instaurata anche la leva militare regolare tra i Sassoni, con la
prospettiva di espansione oltre l’Elba.
Il confine della Germania settentrionale era così definitivamente
chiuso. Se ne apriva ora un altro ad oriente.
82
2.1 Conclusioni: Perché una campagna così lunga?
Occorre spiegare come un popolo come quello sassone sia
riuscito a tenere testa alle armate franche per così molto tempo.
Il motivo più importante della durata tanto lunga del conflitto fu
proprio il loro frazionamento politico. Mancava un potere centrale con
il quale i franche avessero potuto concludere un trattato, una capitale
che posta sotto assedio avrebbe potuto rompere la resistenza di tutta la
regione e un re che catturato avrebbe reso il popolo inerme. Si può
dire che l’apparente arretratezza sassone fu la loro reale forza.
Le battaglie vinte dai franchi soggiogavano di volta in volta solo
poche tribù.
Alla fine i cambiamenti in Sassonia non furono solo religiosi. I
Sassoni persero le loro istituzioni sociali peculiari che erano alla base
della loro comunità, dovendosi adattare alla politica e
all’amministrazione del popolo vincitore. Inoltre, con la Lex Saxonum,
aumentò il distacco sociale tra i nobili e la stessa popolazione.
Anche gli insediamenti episcopali diedero una mano alla
mutazione del quadro sociale.
Sedato il confine settentrionale ora i “nuovi Sassoni” miravano
all’espansione dopo l’Elba, per allargare i propri possedimenti a danno
dei popoli slavi. Politica questa che riguarderà i futuri sovrani
tedeschi.
Carlo infatti considerava il fiume Elba come confine naturale del
suo regno, lasciando alle popolazioni slave, sue sottomesse, le pianure
al di là di esso.
Non a caso l’ultima azione del sovrano contro il popolo tedesco
fu la deportazione dell’804 dei Sassoni che abitavano oltre l’Elba
lasciando il territorio alle tribù slave confinati.
83
2.2 Strategie militari e battaglie campali
La caratteristica della campagna militare sassone è che si trattò di
una guerriglia spietata nelle retrovie dell’invasore, evitando scontri in
campo aperto.
A differenza delle campagne romane in Germania, che vista la
padronanza del mare era mirata a risalire i corsi d’acqua e arrivare
così nell’interno, la campagna di Carlo entrò nel paese sempre via
terra.
L’esercito si radunava quasi sempre alle foci del medio Reno e la
spedizione si dirigeva poi ad oriente verso le valli della Lippe e della
Ruhr.
Altra via di ingresso era l’altopiano occidentale del Weser.
Fin dalla prima invasione, nel 772, Carlo si impadronì di
Eresburg, fortezza sassone che sorgeva proprio in quell’altopiano che
rappresentò la base operativa di tutte le azioni militari franche. Stessa
sorte per il monastero di Corvey che fu il più importante avamposto
della cristianità e, più tardi, per la nuova città di Paderborn luogo che
divenne la sede ufficiale, o quasi, della residenza reale in terra
sassone.
La storia della fortezza di Eresburg però è caratterizzata da
riconquiste sassoni e ricostruzioni dopo la caduta.
Sia Sassoni che Franchi erano quindi soliti costruire fortificazioni
che fronteggiassero quelle nemiche. Scopo delle spedizioni di Carlo
era proprio quello di abbattere queste fortezze. Si trattava dunque di
guerre di assedio prive, o quasi, di scontri in campo aperto.
Un modo faticoso di fare la guerra. Fu proprio questo un altro
motivo che portò ad una così lunga durata.
In conclusione la campagna sassone risulterà essere una lenta
84
guerra di stritolamento delle basi fortificate, dei collegamenti via
fiume e delle risorse del nemico.
Da sottolineare il modo con cui Carlo condusse la campagna
invernale del 784.
Impose al nemico un logorio insopportabile, con la continua
presenza franca sul territorio. Lui stesso invece di tornare nei confini
del regno, una volta inoltratoti la stagione invernale, si fece
raggiungere in terra sassone dai figli e dalla moglie per restare lì e
tenere i barbari sotto pressione, eliminando con accuratezza tutti i
presidi fortificati, accumulando materiali e provviste e conservando il
controllo sulle vie di comunicazione. In questo modo in primavera la
campagna del 785 poté riprendere con successo immediato15.
Da sottolineare che Carlo, personalmente, condusse solo due
battaglie e per lo più in un solo mese: la campagna dell’estate del 783,
dove schiacciò due fazioni di ribelli a Lippe e ad Hase.
Ma di tutte le battaglie, di una restano più informazioni: lo
scontro avvenuto ai piedi del massiccio Suntel presso il fiume Weser
che vide la sconfitta franca.
Era il 782 e per la prima volta Carlo aveva inviato, per una
campagna contro gli slavi, una legione franco-sassone con al comando
tre suoi ministri: il camerario Adalgiso, il connestabile Gelione e il
conte di palazzo Worad.
La cronaca della battaglia mette in risalto un aspetto
caratterizzante della milizia franca: la sicurezza nella loro superiorità
tattica, di equipaggiamento e di numero.
Tale sicurezza era croce e delizia delle truppe. Permetteva
all’esercito di muoversi anche in un paese nemico con estrema
15 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 60.
85
sicurezza, ma poteva altresì portare a peccati di presunzione.
Come accadde con i tre ministri di Carlo che sicuri di annientare
i rivoltosi senza l’aiuto delle truppe di fanteria sassone, caricarono a
testa bassa ritrovandosi spinti in una zona inadatta alla battaglia a
cavallo e finendo con l’essere sterminati.
La cavalleria franca si era separata dalla fanteria sassone per
cogliere il nemico impreparato su due fronti, ma il peccare di
sicurezza fece partire i tre comandanti alla carica senza aspettare la
comunicazione dalle truppe a piedi guidate da Teodorico.
Viene fuori dalla cronaca, come la sicurezza dimostrata
sottolineasse la potenza che aveva in campo aperto l’esercito franco.
3. Una spedizione infelice: la guerra contro gli Arabi
L’atteggiamento nei confronti degli Arabi di Spagna era stato
spesso di controllo e difensivo, volto a salvaguardare i confini
dell’impero da possibili scorrerie rafforzando le mura.
Nella primavera del 778, mentre la campagna sassone era in una
fase di stallo, Carlo organizzò una spedizione in aiuto del governatore
di Barcellona. Ma ovviamente Carlo curava anche i suoi interessi,
visto che in quel periodo la dominazione musulmana era indebolita
dalle continue lotte interne.
Al papa la spedizione fu presentata come mossa preventiva verso
gli arabi che si preparavano ad attaccare i confini del regno. Inoltre a
questa si affiancò la spinta cristiana: erano stati i fedeli oppressi a
chiedere l’aiuto del re franco.
Per attraversare i Pirenei Carlo pianificò la sua abituale manovra
a tenaglia. Importanti erano quindi le informazioni logistiche: le
86
truppe reclutate in Neustria e Aquitania si radunarono nel versante
atlantico, mentre quelle di Austrasia, Provenza, Germania e Italia sul
versante mediterraneo, riunendosi poi sotto le mura di Saragozza.
Dopo averla posta sotto assedio per un mese e mezzo, la città fu
abbandonata perchè la presenza del sovrano era richiesta altrove: il
confine sassone come sempre aveva approfittato della sua assenza per
insorgere. Ma durante il ritorno, il 15 agosto del 778, la retroguardia di
Carlo fu sterminata nelle gole pirenaiche dalle tribù basche delle
montagne. Tra i caduti Eginardo menziona un certo Hruodlandus
(Orlando) che diventerà uno degli eroi della Chanson de Roland più
famosi in Occidente16.
4. Le guerre contro gli Avari.
4.1 I discendenti di Attila.
Più che un popolo il nome “Avari” aveva designato qualche
secolo prima un’orda di nomadi delle steppe, razziatori e allevatori di
cavalli, discendenti dalla tribù degli Unni che aveva avuto in Attila
uno dei suoi capi più importanti.
Si trattava di un popolo uraloaltaico insediatosi, dopo la seconda
metà del V secolo, nella pianura danubiana dove aveva preso il posto
delle genti germaniche (i longobardi, intanto calati in Italia) e
asservendo le tribù slave che vi abitavano. Alla fine del secolo il loro
dominio andava dal Norico centromeridionale alla Pannonia
settentrionale (Croazia e Ungheria attuali). La capitale, definita
comunemente Ring (anello in tedesco), era una sorta di
accampamento-fortezza circondato da nove cerchi concentrici di
16 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 63.
87
palizzate (così lo descrive il cronista definito “il monaco di San
Gallo”), situata tra il Danubio e il Tibisco e residenza del Khaghan,
titolo turco che indicava il sovrano avaro. Insieme a quest’ultimo,
c’erano lo Jugur, il luogotenente e le più importanti famiglie, le
Tarkhan, che costituivano la nobiltà.
Dai loro centri gli Avari si spostavano per saccheggi e la loro
stessa strategia di guerra era basata sull’attacco improvviso e la fuga
repentina.
Anche il Basileus bizantino aveva avuto filo da torcere dagli
Avari ed era costretto a versare loro ingenti tributi (anche perché
preoccupato da problemi più importanti, Persiani e Arabi).
Sotto l’aspetto amministrativo gli Avari erano governati da una
aristocrazia di guerrieri e cacciatori, eterogenea sotto l’aspetto etnico e
linguistico; mentre le principali occupazioni restavano la coltivazione
e l’allevamento.
Studi archeologici dimostrano come questo popolo si sia unito ad
altri gruppi nomadi, almeno per quanto riguarda la classe dominante.
Tutti coloro che si riconoscevano soggetti al Khaghan
diventavano <<Avari>>17.
4.2 Tassilone e il ducato di Baviera.
La popolazione germanica che confinava con gli Avari era quella
dei Bavari, stanziati nella pianura danubiana, oggi divisa tra Baviera e
Austria.
Il loro duca era Tassilone che, nonostante il giuramento di fedeltà
alla corte franca, aveva cercato l’alleanza longobarda con Desiderio,
sposandone la figlia, per bilanciare il suo potere con quello
17 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 70.
88
preponderante franco.
Perduto però l’appoggio longobardo, si perdeva anche la
speranza di una politica indipendente.
Tassilone era comunque cugino di Carlo. Sua cugina Ildegarda
era sposata con Carlo e regnava alla pari di un re, convocando concili,
assemblee, elargendo benefici e controllando la chiesa bavarese.
Tassilone poi si era posto come diffusore della fede, come se
cercasse di pareggiare il suo potere con quello del cugino. Uno
smacco per il re.
Esercitava una politica estera indipendente, da cui scaturirà il
rapporto con Desiderio.
Alla morte della cugina, i rapporti tra il duca e Carlo iniziarono a
deteriorare (non che prima fossero buoni). Il pretesto per la scesa in
guerra non mancò ad arrivare. Nel 787, dopo che già i due avevano
avuto un conflitto sulle Alpi (784), Tassilone chiese al papa, con Carlo
lì presente, di fare da tramite per una mediazione. Adriano rispose che
avendo giurato fedeltà al sovrano, Tassilone doveva subito obbedire
alle sue volontà. Il papa si riferiva a quando Carlo aveva ordinato al
duca di presentarsi a lui immediatamente.
Tassilone allarmato non obbedì, offrendo a Carlo il pretesto per
l’intervento armato.
Pianificato come una vera campagna di guerra, con tre eserciti
che dovevano piombare sul nemico, la guerra fu scongiurata dalla resa
del duca, presso Lechfeld. Tassilone consegnò al sovrano il ducato e in
pegno tredici ostaggi, tra cui il figlio Teodone.
Tutto sembrava perdonato. Ma l’anno dopo, presso l’assemblea
generale tenuta a In gelheim, il duca fu accusato dai suoi stessi
vescovi e vassalli, ormai allineati al nuovo regime, di <<diserzione>>
89
durante una delle campagne di Pipino in Aquitania, nonché di aver
tradito il giuramento di fedeltà fatto a Carlo e di essersi accordato con
gli Avari per muovere guerra ai Franchi.
Fu alla fine del <<processo eccezionale>>, come fu chiamato il
processo contro l’ormai ex signore di Baviera, che Tassilone venne
condannato a morte, salvo poi che Carlo cambiasse la pena, facendolo
rinchiudere in un monastero a vita.
La Baviera era passata così nelle mani di Carlo.
Una considerazione finale va fatta sul fatto che si pensa che fu lo
stesso sovrano a gestire la questione della Baviera muovendo il duca
come un burattinaio e costringendolo ad essere vittima della sua
politica, fino a condurlo in una situazione senza uscita così da potersi
liberare di lui e mettere le mani sulla Baviera.
Tassilone, infatti, era l’unico principe etnico che ancora resisteva
alla sua autorità.
4.3 Il nuovo confine e le guerre avare
L’accusa contro Tassilone di un’ alleanza con gli Avari sembrava
materializzarsi con l’invasione dei confini della Baviera e del Friuli da
parte avara appunto. Non si trattò però in fin dei conti una vera
incursione, ma di un preannuncio di quello che di lì a qualche anno
sarebbe successo.
Già nel 789 Carlo, secondo Alcuino, stava progettando la guerra
contro gli Avari, ma l’arrivo degli ambasciatori del Khaghan, ne
ritardò di poco l’inizio.
A questi Carlo dettò le sue condizioni, consapevole della sua
forza. Ai popoli delle steppe era lasciata “libera scelta” tra una resa
vergognosa e un mutamento di confine oppure la guerra con tutte le
90
sue conseguenze.
Non era la prima volta che ambasciatori avari si recavano da
Carlo. Accadde anche quando, dopo il giuramento di fedeltà di
Tassilone, chiesero a Carlo delle sue intenzioni per assicurarsi che
quelle del sovrano fossero pacifiche.
Quello che è sicuro è che il negoziato fallì, dopo più di un anno
che si trascinava, e nel 791, dopo aver rafforzato il suo potere in
Baviera, il re franco radunò lì, sul confine che correva lungo il fiume
Ennes (confine storico tra Avari e Bavari), il suo esercito pronto ad
attaccare per primo.
Gli Avari, che già avevano messo in crisi le truppe bizantine
attaccando con successo i possedimenti dell‘impero Orientale,
restavano dunque un nemico da non sottovalutare. Ma nell’VIII secolo
la loro potenza espansiva era andata indebolendosi.
Da notare inoltre che generali italiani e bizantini studiavano da
secoli la tattica avara di combattimento, dalla strategia all’urlo di
guerra e al suo effetto psicologico contro i nemici18.
Ma il carattere incerto della guerra non va trascurato, e Carlo
questo lo sapeva.
Eginardo ci informa come Carlo preparasse questa battaglia con
impegno e un’eccitazione senza precedenti.
L’esercito, radunatosi a Ratisbona nel 791, era il più numeroso
che Carlo avesse mai mandato con contingenti Sassoni, Frisoni,
Turingi, Bavari e ovviamente Franchi.
La strategia era la solita: attaccare su più fronti il nemico per
stritolarlo.
L’attacco più precisamente si svolse su tre fronti:
18 Becher M., Carlo Magno, Società Editrice il Mulino, Bologna 2000. pag. 71.
91
- due parti costeggiavano il Danubio, che rappresentava la
naturale via d‘accesso al paese degli Avari, una sotto il comando del
conte Teodorico e del camerario Meginfredo, l’altra sotto il comando
personale di Carlo;
- contemporaneamente il figlio Pipino attaccava dal confine
friulano e una flotta di barconi attraversava il Danubio, assicurando
alle due schiere rifornimenti per tutto il tragitto.
Da come risultava pianificato il tutto, Carlo cercava subito uno
scontro decisivo, anche forse per evitare le conseguenze di una
campagna lunga come quella sassone.
L’unica cosa da tenere d’occhio era l’avanzata dei tre contigenti,
in modo tale che giungessero tutti allo stesso momento.
Le due schiere che fiancheggiavano il Reno si ritrovarono
nell’accampamento di Lorsch dove, prima della battaglia, i sacerdoti
imposero tre giorni di digiuno per ottenere il favore di Dio.
Intanto Pipino, col suo esercito, aveva già attaccato e conquistato
una fortezza avara sul confine italiano.
All’avanzare dei Franchi la popolazione avara fuggiva,
abbandonando tutto e senza opporre resistenza.
Ma la strategia era chiara: ritirarsi in fortificazioni capaci di una
prolungata resistenza e fare intorno all’invasore franco terra bruciata.
La campagna del 791 si concludeva con risultati inferiori alle
aspettative quando Carlo, accortosi che ormai la stagione invernale
stava per inoltrarsi, che il foraggio iniziava a scarseggiare e che molti
suoi cavalli iniziavano a morire per la fatica, decise di sospendere le
operazioni e rientrare in patria. In compenso aveva dimostrato che gli
Avari non potevano tenere testa all’esercito Franco.
Per due anni, fino al 793, Carlo rimase in Baviera a progettare la
92
ripresa delle ostilità. Nei due anni trascorsi lì il sovrano si dedicò alla
costruzione di infrastrutture destinate a facilitare la futura invasione.
Ordinò la costruzione di un ponte di barche smontabili, per permettere
il passaggio da una riva all’altra del Danubio, nonché la costruzione di
un canale che collegasse il bacino del Reno con quello danubiano. Ma
sia il terreno sia le continue piogge portarono all’abbandono del
progetto19.
Mentre Carlo quindi allestiva nuove infrastrutture che avrebbe
impiegato nella prossima campagna avara, con lo scopo di avere con
questi uno scontro in campo aperto, la sua spedizione del 791 lasciava
i primi segni tra le file nemiche.
L’autorità del Khaghan ne usciva scossa e i capi avari iniziavano
a intraprendere una politica indipendente. Uno di questi, che portava il
titolo turco di tudun, mandò un suo ambasciatore a Carlo chiedendo la
tregua e manifestando l’intenzione di sottomettersi a lui. Con questo
atto il potere del Khaghan crollò con tutto il suo sistema e il re avaro
venne assassinato.
Della situazione approfittò il duca del Friuli, Erich, organizzando
una spedizione contro il Ring (la capitale avara) e saccheggiandola
senza incontrare resistenza. Forte di questa esperienza, anche Pipino
optò per l’invasione, ma al re d’Italia andò incontro il nuovo re avaro,
con una richiesta di pace e sottomissione, cosa che non evitò
comunque un nuovo saccheggio. Si favoleggia molto su questo
saccheggio, perché si pensava che nella capitale avara fossero
conservati i tributi che Bisanzio aveva loro pagato anni a dietro, e che
questi superassero le duecentomila monete d’oro. “L’oro degli Avari”,
recente titolo di un’esposizione archeologica, spiega come i cronisti
19 Becher M., Carlo Magno, Società Editrice il Mulino, Bologna 2000. pag. 73.
93
narrassero che per trasportare il bottino occorsero quindici carri
trainati ciascuno da quattro buoi. Il bottino poi sarà diviso, una volta
arrivato ad Aquisgrana, tra Carlo, i suoi conti, i vescovi e una grossa
donazione alla Chiesa come gratitudine per la protezione celeste.
A differenza della conquista longobarda, che vide Carlo assumere
il titolo di re di Longobardi, con gli Avari ciò non avvenne. Il motivo
principale sembra essere di stampo religioso. I longobardi erano
comunque un popolo cristiano, almeno per la maggior parte, mentre i
nuovi sottomessi erano ancora di maggioranza pagana. Come poteva
Carlo, protettore della cristianità, essere incoronato re di un popolo
pagano?
Così il sovrano decise di spostare i confini dell’Enns, in modo
tale da permettere ai nuovi coloni germanici di avere più terre. Inoltre
diede al tudun, che gli aveva giurato fedeltà e si era convertito, la
possibilità di governare come suo vassallo.
Anche qui però non mancarono insurrezioni dopo che il potere
franco si era instaurato. Nel 799 Carlo perse due suoi comandanti sul
confine orientale entrambi assassinati, Erich il duca del Friuli e
Geroldo prefetto della marca bavara. Fu una guerra, anzi sarebbe
meglio dire guerriglia, che durò tra uno scontro e l’altro fino all’802.
In quell’anno Carlo, che nel frattempo era diventato imperatore,
decise, dopo aver sottovalutato inizialmente la rivolta, di tornare nella
sua base in Baviera da dove mandò una spedizione con il compito di
risolvere una volta per tutte la questione.
Da sottolineare un aspetto non di poco conto. I Franchi nutrivano
verso gli Avari un odio che difficilmente proveranno per qualcun altro,
facendo assumere alla guerra contro i cavalieri delle steppe una
dimensione sacrale, vedi ad esempio le preghiere prima della
94
campagna del 791.
La scomparsa del popolo avaro non è però da attribuire solo alla
guerra contro i Franchi. Dopo la caduta gli Avari persero il controllo
anche sui popoli vicini, slavi e bulgari su tutti. A salvarli per un po’ era
stato l’essere vassalli di Carlo Magno. Ma una volta morto
l’imperatore, saranno lasciati alla mercé dei bulgari ed essendo stati
una confederazione, più che un popolo, il crollo del Khaghan e del
khanato pose fine alla stessa identità avara20.
5. Una “congiura di famiglia”
Così come durante la campagna sassone, Carlo si trovò
impegnato in una veloce e non felice spedizione in Spagna, allo stesso
modo durante la campagna avara un evento inaspettato richiese la
presenza del futuro imperatore.
Tra il 792-793, infatti, si trovò ad affrontare una congiura
familiare.
Ma andiamo per ordine.
Dall’unione con Imiltrude, che Carlo aveva dovuto abbandonare
per sposare la figlia di Desiderio, era nato un figlio, Pipino detto il
“Gobbo”. Nonostante gli sforzi del papa Adriano, che considerava
Imiltrude come moglie legittima, allo scopo di evitare il matrimonio
con la principessa longobarda, Pipino restava il frutto di un amore con
una concubina. La situazione però prendeva una strana piega. Pipino
era comunque il figlio maggiore di Carlo, ma vista la sua “origine”
non gli veniva fornita nessuna sicura posizione di vantaggio. Il fatto di
essere illegittimo lo metteva fuori dai giochi. Come se non bastasse la
20 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 79.
95
sua precaria condizione fisica lo teneva fuori anche da possibili ruoli
di guerra e comando. Ed è proprio la frustrazione per la sua situazione
che lo spinge ad aderire alle istigazioni di alcuni nobili franchi
dissidenti che volevano Carlo morto.
Fu un longobardo, Fardulf, a scoprire tutto e denunciare al
sovrano l’accaduto nell’estate del 792.
Carlo tenne una corte di giustizia a Ratisbona, dove si era ritirato
vista l’epidemia che colpì i suoi cavalli nella prima spedizione avara, e
li condannò tutti i cospiratori a morte, mentre per il figlio ordinò la
reclusione nel monastero di Prum, dove Pipino morì nell’811.
La congiura scosse il re che mandò ai suoi sudditi l’ordine di
rinnovare il giuramento di fedeltà. Era però evidente che l’aristocrazia
mostrava tendenze centrifughe, preoccupata da un sovrano difficile da
controllare.
96
CAPITOLO IV
1. Un rapporto a tre complicato: Carlo-Chiesa-Bisanzio
Alla fine dell’VIII secolo il cammino compiuto dal sovrano
franco poteva dirsi impressionante. Sottomesse erano la Sassonia, la
Baviera, il regno Longobardo e il dominio avaro. Il regno franco ora
comprendeva tutta l’antica Gallia, la Germania occidentale e l’Italia
settentrionale. Raffrontati all’odierna Europa, tali possedimenti
comprendevano la totalità di Francia, Belgio, Olanda, Svizzera e
Austria attuali, tutta la Germania fino all’Elba, l’Italia centro
settentrionale, compresa L’Istria, la Boemia, la Slovenia, l’Ungheria
fino al Danubio e la Spagna pirenaica fino all’Ebro. Da una prima
analisi si vede come i possedimenti dai tempi di Pipino il Breve si
siano raddoppiati.
Carlo governava la totalità dei Cristiani di rito latino, si trattava
ormai della sola grande monarchia d’Occidente. I rapporti con la
Chiesa erano saldi e stabili, tanto da affermare che il peso della
monarchia franca in Occidente era equivalente a quella del Basileus in
Oriente.
Se papa Adriano, già all’indomani della vittoria di Carlo sui
Longobardi, salutava il sovrano franco come nuovo Costantino, era
giusto che ne portasse il titolo. Così l’Occidente avrebbe avuto di
nuovo un imperatore che pregava secondo il rito latino e in latino
faceva redigere le sue leggi e il papa avrebbe trovato più facile
intendersi con lui che con l’autocrate di Bisanzio. Poi, che questo
nuovo imperatore risultasse un barbaro agli occhi dei dotti di Roma e
a Bisanzio, non rappresentava certo un impedimento.
97
Grave sarebbe stata la perdita nei confronti del Basileus,
legittimo successore degli imperatori romani e capo indiscusso
dell’intero mondo cristiano. Ma era difficile se non impossibile
governare la parte greca e quella latina insieme, cosa questa che
mostrava anche il piano teologico col progressivo allontanamento dei
teologi latini da quelli greci. Ma la religione cristiana era una, e uno
doveva essere l’imperatore. La causa forse principale della “pretesa”
di Carlo è però legata strettamente alla questione religiosa. Questa
sarà la miccia della questione, che tratterò più avanti, della legittimità
del titolo di Carlo, ma ha radici ancora prima che il futuro imperatore
nascesse21.
2. Il conflitto fra Papato e Bisanzio
Il rapporto che si crea tra Chiesa, Carlo e Bisanzio, potrebbe
essere spiegato con un riferimento ad un principio matematico: più
diminuiva il legame tra il papato e il suo “vecchio alleato”, più
cresceva il legame con il “nuovo alleato” e, di conseguenza, il legame
tra “nuovo Occidente” e “vecchio Oriente” andava via via
sgretolandosi.
Ma per capire bene questo “principio” bisogna partire dall’inizio.
Già da molti anni il governo bizantino in Italia era percepito più
come occupazione straniera che come legittimo governo romano. Gli
emissari orientali erano estranei, rispetto ai popoli italiani, non solo
per lingua ma anche per religione. Come se non bastasse i conflitti
teologici tra Roma e Bisanzio erano all’ordine del giorno, con il papa
che non sopportava le intromissioni del Basileus sulle questioni
21Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 90.
98
teologiche e quest‘ultimo che si sentiva in diritto di intervenire, visto
che il regno d‘Oriente si presentava come il continuatore
dell‘ininterrotta tradizione dell‘Impero d‘Occidente ed era
riconosciuto da tutti i capi germanici poiché nessuno di loro, fino a
quel momento, aveva reclamato il titolo imperiale.
Accanto a questo, si sviluppa anche la convinzione da parte del
papa di essere ormai l’unico difensore della popolazione italica e degli
interessi propri e dell‘aristocrazia romana, che si sottometteva più
volentieri ad un vescovo che ad un incaricato imperiale straniero.
Inoltre i possedimenti orientali in occidente, cioè Italia, Africa del
nord e il sud delle Spagna, simbolo della loro presenza, andavano via
via perdendosi sotto i colpi di Longobardi, Goti e Arabi, conservando
solo Ravenna e altre piccole zone sempre in Italia.
A sancire una profonda spaccatura tra le due forze in campo fu di
nuovo una questione religiosa ben più grave delle altre, la
<<controversia iconoclastica>>.
Nella religiosità dell’Oriente le immagini sacre avevano un ruolo
preponderante. Agli inizi dell’VIII secolo, temendo che l’eccessivo
fervore con cui i fedeli pregavano davanti alle icone potesse farli
cadere nell’idolatria, lo stesso imperatore Leone III Isaurico si
persuase della necessita di combattere il culto delle immagini sacre.
Diede così inizio all’iconoclastia (dal greco distruzione di icone),
facendo rimuovere l’icona di Cristo dall’ingresso del palazzo
imperiale. Gesto con il quale mirava anche a ridurre il potere politico
dei monasteri, principali custodi delle immagini sacre. E vista la
rivolta di alcune frange della popolazione, gli imperatori avviarono
vere e proprie persecuzioni contro i difensori delle icone.
In Occidente la situazione non era così grave. La decisione del
99
Basileus Leone III, provocò anzi l’irritazione della Chiesa e la crisi nei
rapporti con Bisanzio.
Il regno di Leone III e del figlio Costantino V coincise infatti con
la fase più dura della persecuzione iconoclasta e, al tempo stesso, con
lo sfracello della dominazione bizantina in Italia ad opera dei
Longobardi.
A questi si affiancavano altri due fattori che portarono
all’allontanamento definitivo tra Roma e Bisanzio nella prima metà
dell‘VIII secolo:
- l’imperatore, Leone III, vietò al papa il potere giurisdizionale
ecclesiastico sulle regioni della penisola balcanica e del sud dell’Italia
e, per di più, confiscò a quelle zone le ricche proprietà della chiesa
romana;
- dal 720, l’imperatore non poteva più aiutare militarmente il
papa contro l’espansione longobarda, non rispettando la sua posizione
di protettore della cristianità a causa dei continui conflitti con gli
Arabi.
3. La chiesa e il suo nuovo “alleato”: i rapporti franco-papali.
Cessato di fare affidamento sulla protezione bizantina, il papa
Gregorio III, ultimo papa che notificò la sua elezione a papa
all’imperatore di Bisanzio da tempo immemore, si affidò ai franchi.
L’amicizia tra il nuovo popolo eletto, quello franco, che più di
tutti aveva già con Clodoveo e la dinastia merovingia abbracciato a
pieno la fede cristiana, e il papato, sarebbe diventato l’asse della
politica europea, facendo perdere all’impero i suoi antichissimi diritti.
Il rapporto tra i due poteri, risale come menzionato nel primo
100
capitolo, alla richiesta di Gregorio III al maestro di palazzo Carlo
Martello, nel 738-739. Ma è con Pipino il Breve e il nuovo papa
Stefano II che il rapporto assume toni ufficiali. Il papa infatti dopo
aver ribadito l’indipendenza da Costantinopoli, la sfidava elevando un
barbaro alla carica di patricius Romanorum, Pipino appunto, compito
che prima era prettamente prerogativa dell’imperatore. Questo
accadeva dopo la vittoria di Pipino sui Longobardi e la consegna di
Ravenna, segno che le forze in campo stavano cambiando.
I papi Paolo I e Costantino II tennero conto dei mutati rapporti di
potere, comunicando la loro elezione non più all’imperatore, ma al re
franco. Ma è con papa Adriano I e Carlo Magno imperatore che la
chiesa abbandona del tutto il legame con l’Oriente.
Sulle monete non è più raffigurato l’imperatore ma papa Adriano,
che datò i documenti non più con l’anno di governo del Basileus, ma
con quello del suo pontificato.
Il papa già nel 778, ben ventidue anni prima dell’incoronazione,
salutava Carlo come novus Christianissimus Dei Constantinus
imperator, riconoscendo a Carlo una funzione paragonabile a quella
svolta fino allora dall’imperatore d’Oriente.
Tutto ciò comunque non portava il papa a rinunciare ai suoi
possedimenti nel centro e sud Italia, zona abbandonata dai bizantini.
Per essere chiari, il rapporto tra Adriano e Carlo, ma un po’ tutto
il rapporto Franchi-Chiesa, assumerà per molti secoli tratti ambigui.
3.1 Le promesse di Carlo e Pipino e lo sviluppo della nuova
alleanza.
Prima di vedere come prosegue la translatio Imperii, ossia il
trasferimento dall’impero dei Greci a quello dei Franchi, e introdurre
101
una figura importante, quella di papa Leone III che incoronerà Carlo
imperatore, un evento merita la nostra attenzione.
Siamo nel 780 e si delinea uno spiraglio di alleanza tra franchi e
bizantini.
Scomparso prematuramente l’imperatore Leone IV, successore di
Leone III, era salita alla ribalta una donna, la vedova Irene, la
Basilissa, che assunse la reggenza in nome del figlio dodicenne
Costantino VI, dopo aver capito che il regno franco non era uno dei
tanti effimeri regni barbarici e, soprattutto, che bisognava migliorare
la questione con Roma, altrimenti Bisanzio rischiava di perdere
qualsiasi tipo di influenza in Italia.
Nel 781 cercò di stringere un’alleanza con i franchi mandando il
figlio Costantino in sposo alla figlia di Carlo, Rotrude e, nel 784,
destituì il patriarca di Costantinopoli, Paolo, fautore dell’iconoclastia,
per riallacciare i rapporti con la chiesa. Tutto questo portò a convocare
un concilio a Nicea nel 787 che sancì la condanna dell’iconoclastia e il
consenso della venerazione ma non dell’adulazione. La sentenza del
concilio fu accolta da entrambe le parti. Tale concilio, riconosciuto
come ecumenico dalla chiesa ortodossa, stabilì che la venerazione dei
fedeli non era quindi all’icona ma alla persona rappresentata.
La ricostruzione dei rapporti che si stava creando poteva però
portare ad una crisi su un altro versante. Col riavvicinarsi di Bisanzio,
infatti, il titolo di defensor di Carlo, sarebbe tornato al vecchio
detentore.
Ad aggravare le cose si aggiunse anche il fatto che il sovrano non
era stato messo a conoscenza del concilio nè fu invitato nessun
rappresentante della Chiesa franca. Ma la cosa che più deluse Carlo fu
che una questione teologica di tale portata fosse stata risolta sotto la
102
guida dell’imperatrice d’Oriente anziché della sua e che un concilio
ecumenico fosse stato convocato senza informare i vescovi franchi.
Si tentò di spiegare la cosa con il fatto che riconoscendosi in
comunione con la Chiesa di Roma, l’impero carolingio fosse da questa
rappresentato. Troppo poco per chi si era eretto a protettore di tutta la
cristianità.
La risposta di Carlo non si fece attendere.
Conosciuti gli atti del concilio di Nicea da una traduzione in
latino (il responso del concilio era in greco, altro smacco), il sovrano
espose la sua posizione.
Avendo avuto a che fare nelle sue campagne con popoli politeisti
(Avari, Sassoni), l’imperatore era inanzitutto incline a pensare che
sarebbe stato un rischio proporre a chi fosse stato battezzato un culto
che potesse richiamare i loro vecchi idoli. Inoltre, il sovrano
contrattaccò su più fronti.
Sul piano dottrinale, fece redigere dai suoi dotti, Teudulfo
d’Oléans e Alcuino di York, persone che ispirarono anche la sua
replica al concilio, i Libri carolini dove, sottolineando la sua
responsabilità politica su Galli, Germania e Italia, criticò il concilio,
accusò i bizantini di essere idolatri, cioè adoratori di immagini, e
contestò la validità ecumenica dello stesso per l’assenza di
rappresentanti franchi e perché presieduto da una donna.
Ancora, attaccò in blocco l’impero bizantino condannandolo di
aver abbandonato le anime alla corruzione e attaccò i sovrani, che
avevano osato innalzarsi alla condizione di divinità volendo essere
chiamati “divini“.
Tutte queste tesi vennero ribadite durante il concilio di
Francoforte nel 794, da lui presieduto, nonostante il papa avesse
103
difeso in una lettera inviata al sovrano la validità del primo concilio. Il
pretesto per convocare il concilio era come per Nicea un errato
messaggio dottrinale. In Spagna si andava diffondendo l’idea secondo
cui Cristo non era figlio di Dio ma adottivo. L’idea fu da tutti rifiutata.
Si passò poi a discutere dell’esito del concilio di Nicea, rifiutando le
sue decisioni. Papa Adriano, contrariato, preferì non confermare le
decisioni di entrambi i concilii.
Il messaggio che veniva fuori era però chiaro, il re dei franchi,
patrizio dei Romani e protettore del vescovo di Roma, rifiutava ormai
di riconoscere all’impero d’Oriente una qualsiasi supremazia in
materia di fede, presentandosi come l’unica guida del popolo
cristiano.
Ma il contrattacco non si limitò solo al campo teologico. Su
quello militare-politico le risoluzioni del concilio di Nicea portarono
alla rottura dell’accordo di matrimonio e all’invasione franca
dell’Istria.
La presentazione di questo quadro storico ci mostra la situazione
prima dell’ingresso sulla scena di papa Leone III.
Con papa Adriano il rapporto era stato di profondo legame, anche
se Carlo, nella sua testa e poi coi fatti, volle dimostrare che anch’egli
era un suo sottoposto. Un esempio fu il rinnovo della promessa che
anni prima Pipino e il papa Stefano II avevano fatto a Quierzy.
Il maestro di palazzo aveva promesso prima di sconfiggere i
Longobardi e poi di consegnare al papa determinati possedimenti,
cosa che in realtà non fece.
Stesso atteggiamento fu tenuto da Carlo quando, prima di sapere
se Pavia fosse caduta, promise al papa il controllo di quasi tutta
l’Italia, per poi concedergli solo poche provincie e Ravenna.
104
Per non parlare della prova di forza del concilio di Francoforte.
Con Leone III il rapporto fu ben diverso. Adriano aveva mirato
ad una politica di conservazione di un minimo legame con Bisanzio
per non essere del tutto subordinato a Carlo. Ma dopo la sua morte,
nel 795, la rottura con i primi e la subordinazione con i secondi fu
accelerata.
Leone III invece era un personaggio più debole del suo
predecessore e con origini più modeste. Formatosi nella burocrazia del
Laterano, privo di appoggi tra le grandi famiglie romane, era disposto
a tutto per accaparrarsi la concreta protezione del re franco. Appena
eletto mandò la comunicazione a Carlo accompagnata dallo stendardo
di Roma e le chiavi del sepolcro di San Pietro. Queste prerogative
erano state sottratte da Adriano al Basileus e da Leone riconsegnate a
Carlo.
La cancelleria pontificia inoltre per la prima volta datava i
documenti con l’anno di regno di Carlo in Italia, oltre che con quelli
del pontificato.
A parte la forza personale, o meglio caratteriale, delle due figure
pontificie, la storia politica viene condizionata (dominata) dalla
congiura che colpì il papa e che segnò la definitiva rottura tra Roma e
Costantinopoli a lungo ritardata.
Prima di menzionare i fatti bisogna ricordare che fu lo stesso
Carlo ad avere nei confronti del nuovo papa un atteggiamento non
molto cordiale. Il re rispose infatti alla sua lettera raccomandandogli
di vivere in modo retto e di osservare i canoni della Chiesa.
Il 25 Aprile del 799, a Roma, il pontefice era in processione per
celebrare la festa delle Litanie Maggiori, rito utile per attirare la
benevolenza divina sulle messi. Mentre sostava presso la chiesa di S.
105
Lorenzo in Luciana, la processione venne aggredita da una banda alla
cui guida c’erano due nipoti di Adriano, Pasquale e Campolo. Leone
fu gettato a terra e percosso, si cercò di accecarlo e tagliarli la lingua
per rendergli impossibile svolgere il suo ruolo. Fatto prigioniero in un
monastero, il papa riuscì a fuggire presso Spoleto e, grazie al duca
Giunigiso, partì per Paderdorn per cercare l’aiuto di Carlo.
La storia sembrò ripetersi, ma stavolta in maniera più grave. Non
era più un nemico esterno a minacciare Roma, ma gli uomini della
stessa corte papale. Questi, in contemporanea con l’arrivo del papa,
mandarono alla corte di Carlo degli ambasciatori con accuse a carico
del pontefice di varia natura.
La scelta del sovrano era quindi ristretta a due piani:
- deporre il papa credendo alle accuse;
- reintegrarlo alle proprie funzioni.
La seconda fu la scelta del sovrano, assicurandosi in questo modo
un grande debito da parte di Leone III.
A consigliarlo nella scelta fu Alcuino, dicendo che in date
circostanze la dignità del re dei Franchi era superiore sia a quella
pontificia sia a quella di Bisanzio.
Dopo averlo curato e messo in salute, Carlo nominò una propria
commissione d’inchiesta, presieduta dall’arcivescovo di Salisburgo,
Arnone, e dal arcicancelliere, l’arcivescovo di Colonia, Ildebrando, ai
quali fu assegnato il compito di scortare il papa a Roma e fare luce
sull’accaduto. Una volta a Roma la commissione deliberò a favore del
papa, anche se alcuni membri della commissione, composta dai due
arcivescovi più cinque vescovi e tre conti, risultarono corrotti dalla
fazione avversa al papa. Il responso fu che il suo operato non era
sindacabile da un assemblea umana ma solo da Dio. Ora però era
106
richiesta la presenza dell’imperatore, sia per giudicare gli attentatori
sia per restaurare la posizione del pontefice.
Accolto a Roma il 24 Novembre dell’800, la prima questione che
andò ad affrontare fu la riabilitazione di Leone III. Fallito il tentativo
di discolpare il papa con un’assemblea convocata il 1 Dicembre nella
Basilica di San Pietro (più che un processo teologico si trattò di un
processo politico che risultò nullo), Carlo decise che il pontefice
avrebbe dovuto riscattarsi con una Purgatio per sacramentum, cioè
una dichiarazione giurata in cui negava di aver commesso tutte le
colpe imputategli. La cerimonia ebbe luogo il 23 Dicembre, con Carlo
a fargli da garante.
Un solo precedente del genere c’era stato nella storia. Pelago I
nel 555, eletto papa da Giustiniano, dovette giustificarsi dall’accusa di
aver avvelenato il suo predecessore.
La reintegrazione di Leone aveva sancito:
- la vittoria di una fazione sull’altra, vittoria che aveva
visto il re scegliere e non comportarsi da paciere;
- la condanna a morte di quelli della fazione sconfitta.
Secondo alcuni storici fu lo stesso concilio presieduto da illustri
membri a decretare l’incoronazione di Carlo, giustificandola con il
vuoto del trono imperiale, che in realtà era stato assunto da Irene.
4. La crisi di potere a Costantinopoli e in Occidente
Come mai titolare del titolo imperiale era Irene, la vedova di
Leone IV?
Nel 797 ci fu una rivolta di potere a Costantinopoli, cosa non
nuova per la città. Nuovo fu però il fatto che a prendere il potere fosse
107
una donna, la Basilissa, che godeva di privilegi e di una grossa
influenza politica. Gli eventi che portarono al potere Irene non furono
affatto pacifici. Il diritto di cui si appropriò era in realtà nelle mani del
figlio Costantino, a cui la madre aveva fatto da garante vista la sua
giovane età alla morte del padre e al quale, una volta raggiunta la
maggiore età, si rifiutava di cedere il potere.
La ragione di tale scelta fu di natura religiosa e riprese le
decisioni del concilio di Nicea. Costantino VI era a capo di un gruppo
che chiedeva il ripristino dell’iconoclastia. Probabile è anche che
Costantino ascoltasse con attenzione gli esiti del concilio di
Francoforte, meditando di chiedere aiuto a Carlo contro sua madre.
Addirittura si pensa che il legittimo sovrano avesse offerto al re
Franco la corona imperiale. In un clima così teso lo scontro tra i due
partiti fu inevitabile. Le lotte si conclusero il 15 Agosto del 797, con
Costantino trascinato in catene per ordine della madre e da questa
accecato.
Irene quindi assunse il titolo di megas basileus ton Romanion, e
inviò a Carlo, in risposta alla delegazione del figlio, una sua
delegazione dove confermava la sua ufficiale presa di potere e parlava
soltanto di pace. La notizia di quanto accaduto a Bisanzio suscitò
comunque una sensazione di illegittimità del regno di Irene,
rafforzando invece la posizione di legittimità di Carlo. L’impero
d’Oriente era sceso al punto più basso e un nuovo Impero stava per
sorgere.
108
5. L’incoronazione tra simboli e varie interpretazioni
Il potere di Carlo era andato via via assumendo sempre più
connotazioni imperiali., cosa riscontrabile anche nella preoccupazione
che il mondo cristiano mostrava verso la guida del discusso papa
Leone III. Una preoccupazione questa alimentava la tendenza ad
immaginare la cristianità più tutelata sotto una specie di impero:
L’Imperium Christianum, il cui capo era espressamente indicato nel re
dei Franchi.
Prima di analizzare l’atto dell’incoronazione di Carlo va
menzionata una cosa: le espressioni che accompagnano il nome del re
franco non sono solo parole. I nomi e i titoli che accompagnavano
Carlo erano pronunciati da uomini consapevoli che si stava facendo
riferimento a precisi significati sia politici che letterari. Ad esempio, il
titolo di “nuovo David” aveva il preciso scopo di indicare il futuro
imperatore come capo anche della cristianità, ispirato da Dio e
chiamato a governare con saggezza la comunità dei credenti.
L’antivigilia di Natale, a due giorni dall’incoronazione, ebbe
luogo un evento importante. Due delegati del patriarca di
Gerusalemme giunsero a Roma per consegnare a Carlo le chiavi del
Santo Sepolcro e della Città.
La notte di Natale dell’800, nella basilica di San Pietro stracolma
di fedeli, Carlo fece il suo ingresso indossando le vesti di patricius dei
romani.
Della cerimonia abbiamo quattro versioni: una di Eginardo, una
del Liber pontificalis e due degli Annali del regno franco.
Lo sviluppo della cerimonia è simile in tutte e quattro le fonti.
Carlo, rimasto in preghiera per tutto il tempo del sacrificio eucaristico,
109
viene incoronato dal papa davanti alla tomba di Pietro con il popolo
che lo acclama. L’acclamazione era l’elemento indispensabile per
l’elevazione al rango imperiale fin dai tempi di Roma.
La questione nasce su come il papa si sia comportato dopo
l’incoronazione. Le fonti franche ci parlano di Leone III che, secondo
usanza orientale, si prostrò ai piedi di Carlo in atto di adorazione
(proskynesis). Il resoconto del Liber pontificalis invece non menziona
nessun atto di “sottomissione” da parte del papa, anzi sottolinea come
il fatto che l’incoronazione sia avvenuta il giorno di Natale rievochi
quella di Reims facendo di Carlo, più che un nuovo Costantino, un
redivivo Clodoveo. L’impero rinasceva ridotto rispetto all’idea che il
sovrano si era fatto e dipendente dalla volontà del potere sacramentale
del papa.
Eginardo ci mostra perciò un Carlo quasi insoddisfatto della sua
incoronazione. Si pensa addirittura che Leone avesse colto di sorpresa
il re che non si aspettava un comportamento del genere.
L’accettazione del sovrano però aveva implicato la
subordinazione al papa. Si è pensato addirittura che il gesto del papa
fosse un tentativo di rivalsa verso il re e verso ciò che era successo in
precedenza. Ora il re dei franchi poteva proclamarsi ufficialmente a
protettore della Chiesa, ma era in essa che risiedeva la più antica
autorità, posta da Cristo nelle mani del vescovo di Roma.
Leone ripercorreva, forse senza volerlo, le implicazioni temporali
sulla questione del potere, ritornando così circa tre secoli indietro. Alla
fine del V secolo infatti, papa Gelasio in una celebre lettera
all’imperatore di Costantinopoli, Anastasio, aveva formulato la teoria
dei due poteri dichiarando la superiorità di quello spirituale. Più
semplicemente la sua idea era quella di creare un maggiore equilibrio
110
tra i due poteri, non facendo più trovare il papa in una condizione di
inferiorità, come al tempo della supremazia bizantina (il Basileus non
aveva mai rinunciato al suo diritto di egemonia sulla Chiesa), dovendo
dipendere dal sovrano anche in materia religiosa.
Ma non si può nemmeno escludere il mal contento di Carlo che,
più che l’incoronazione, riguardava il modo in cui essa era avvenuta e
le conseguenze politiche che ne sarebbero poi derivate.
Come già spiegato prima, ogni azione, gesto, titolo o epiteto a
quel tempo si collegavano a chi li riceveva con un particolare peso e
una particolare conseguenza, assumendo un fortissimo valore
simbolico. Ad esempio il poggiare, da parte del papa, la corona sul
capo di Carlo era simbolo di come il potere, per quanto grande poteva
essere, discendeva e assumeva valore solo per volontà della Chiesa.
Rimarcando così la superiorità dell’autorità pontificia.
Questo ad un politico astuto come Carlo non poteva sfuggire,
cogliendone al volo le implicazioni. Egli infatti avrebbe voluto
incoronarsi da solo, come gli imperatori d’Oriente. Per questo motivo,
quando volle che il figlio Ludovico il Pio fosse incoronato imperatore
organizzò la cerimonia in modo da evitare tutti gli aspetti che
potevano essergli dispiaciuti nella sua. Ludovico fu incoronando dallo
stesso Carlo ad Aquisgrana, città centro dell’impero, e ad acclamarlo
fu il popolo franco non quello romano.
La rivendicazione del potere da parte del papa resta però teorica,
visto che il potere era tutto dalla parte del sovrano. Lampante è ciò che
accade alla cancelleria pontificia. Se infatti con Adriano I aveva preso
a datare i suoi documenti dall’anno del suo pontificato e Leone III
aveva aggiunto a questo anche gli anni del regno di Carlo, ora la
cancelleria passa a datare gli atti esclusivamente dagli anni di regno
111
dell’imperatore, come si faceva in passato con quelli del Basileus.
Questa manifestazione simbolica di potere ai giorni nostri lascia molto
indifferenti, ma in passato non era così: in questo modo il papa
riconosceva a tutti gli effetti la sovranità di Carlo sulla Città Eterna.
Su tutto l’episodio regnò comunque l’incertezza. Di sicuro le
fonti che dicono che Carlo non si aspettasse l’incoronazione quel
giorno sono poco attendibili.
Un accordo tra il papa e il re già ci doveva essere e
presumibilmente fu preso a Paderborn, quando il papa, in fuga da
Roma, fu accolto da Carlo impegnato allora nella campagna contro i
Sassoni.
La scelta della notte di Natale stabiliva poi un’analogia con le
tradizioni franche.
L’unico gesto inaspettato resta forse proprio il fatto
dell’incoronazione. A questa gli Annali rispondono con il gesto della
proskynesis (inginocchiamento) del papa davanti all’imperatore, gesto
che però mal si accorda con quello precedente, dal momento che
postula un ordine inverso di superiorità. La fonte pontificia, il Liber
pontificalis, tace sull’accaduto, ma più semplicemente, confrontando
le fonti e il modo con cui i fatti vengono presentati, è più possibile che
la proskeynesis non ci sia stata.
6. I Rapporti tra l’impero e Bisanzio dopo l’incoronazione
L’elezione di Carlo ad imperatore fu sentita da Bisanzio come
una provocazione e particolarmente male fu preso il ruolo trainante
del papa.
Un barbaro, per la prima volta, osava agguantare il titolo
112
imperiale romano. L’incoronazione fu trattata però con sufficienza
dall’impero d’Occidente. Teofane è l’unico cronista bizantino a farne
rifermento, descrivendola in termini parodistici.
Derisione e disprezzo accompagnano dunque l’incoronazione di
Carlo. Fin a quel momento ai capi germanici era riconosciuto il titolo
di rex ed era impensabile quindi che uno di questi potesse assumere il
titolo di imperator22.
Lo stesso imperatore, preoccupato delle conseguenze che il gesto
del pontefice poteva provocare, nell’802 mandò una delegazione a
Costantinopoli per assicurare all’imperatrice le sue intenzioni
pacifiche. Alcune fonti narrano che gli inviati franchi avrebbero
proposto un matrimonio tra Carlo e Irene, che avrebbe permesso di
riunire i due imperi. Ma da lì a poco la situazione sarebbe cambiata. A
Bisanzio, dopo il colpo di stato che destituì l’imperatrice Irene, salì al
trono Niceforo I, persona di fiducia dei nobili bizantini.
La linea delle trattative fu portata avanti anche dal nuovo
Basileus e, nell’803, una delegazione proveniente da Costantinopoli
presentò a Carlo un progetto di pace che, secondo il sovrano franco
implicava il riconoscimento da parte di Niceforo della sua carica di
imperatore. L’atto di riconoscimento non era però neanche preso in
considerazione dall’imperatore d’Occidente. Per questo Carlo lasciò la
proposta di pace senza risposta.
Ma il pretesto per un conflitto armato non poteva derivare da una
questione di rango. Entrambi i sovrani volevano la pace pur avendo
interessi territoriali in comune che portarono al conflitto.
Il territorio in questione era quello nel nord-est e nel sud della
22 BECHER Matthias, Carlo Magno, Società Editrice il Mulino, Bologna 2000. pagg.83-84.
113
penisola italiana: Venezia e Benevento miravano a raggiungere
l’indipendenza. La prima da Bisanzio, la seconda dalla dominazione
franca.
A Venezia scoppiò una specie di guerra civile, con i due partiti
che cercavano l’appoggio delle due potenze. Quando però nell’806
Carlo annetté al suo impero Venezia e la Dalmazia, lo scontro fu
inevitabile e durò circa quattro anni. Nell’810 Pipino, re d’Italia, dopo
aver contrastato con successo le incursioni dei pirati mussulmani,
entrò nella laguna costringendo i veneziani a rinchiudersi nel “Rivo
Alto” (Rialto). Ma se i franchi erano superiori negli scontri a terra, i
bizantini dominavano quelli per mare. Ecco perché lo scontro non
vide il prevalere di nessuna delle due forze ed ecco che, visto
l’incombere di una campagna bulgara, Niceforo decise di proporre un
trattato di pace. Nell’810 mandò una sua delegazione da Carlo che
colse l’occasione per risolvere anche il problema del riconoscimento
imperiale dimostrandosi pronto a cedere Venezia e Dalmazia come
gesto di apertura. Ma mentre i suoi inviati si dirigevano alla corte
franca, Niceforo fu ucciso in una campagna militare contro i bulgari
(811). Il suo successore, Michele I, portò avanti le trattative e alla fine
riconobbe il titolo di Carlo.
Resta comunque legato alle nomenclature e alle gesta il valore
del titolo di Carlo, un po’ come per l’incoronazione.
Bisanzio riconosce il titolo di imperatore, ma nella sua
concezione il titolo bizantino resta superiore a quello occidentale,
perchè diretto discendente di quello romano. Quello franco era il titolo
di un individuo che governava su numerosi popoli. Per questo motivo
al titolo orientale fu aggiunto un chiaro riferimento alla continuazione
dell’impero romano, che risiedeva nella seconda Roma. Il titolo
114
divenne quindi <<imperatore dei romani>>.
Nell’812 un’ambasceria bizantina raggiunse Aquisgrana e
acclamò Carlo imperatore, senza però aggiungere la qualifica di
romano, ma dalla notte di Natale dell’800, la simbologia franca,
richiama sempre più a quella romana.
E’ anche vero comunque che, acclamato imperatore dai romani
nel momento della sua nomina, Carlo preferì introdurre una modifica
nel suo titolo: governante dell’impero romano nonché, per
misericordia di Dio, re dei Franchi e dei Longobardi. Agli occhi di un
franco i collegamenti con i romani erano il papa e la moltitudine di
ecclesiastici. Carlo tendeva quindi a non sminuire il suo titolo di re dei
franchi, base effettiva del suo potere, per non creare il sospetto che i
preti di Roma, a discapito dei magnati franchi, fossero l’elite politica
dell’impero rinnovato.
7. Rapporti tra chiesa e impero
L’incoronazione di Carlo, nonostante tutte le discussioni
riguardanti i valori simbolici, sanciva la supremazia del sovrano sulla
Chiesa e sul pontefice. Anche se già prima dell’800 l’imperatore si
comportava come il capo della cristianità.
Il suo ruolo era quello di decidere le nomine dei vescovi,
sorvegliarne il comportamento e radunare il concilio quando lo
riteneva opportuno: tutte cariche che oggi siamo abituati ad attribuire
al papa. Inoltre, quando il pontefice, nel 799, giunse a Paderborn
inseguito da accuse pesanti sul suo operato, il difensore della chiesa lo
portò a Roma sotto sua scorta e lì lo stesso Carlo potè presiedere il
concilio che doveva giudicare Leone III.
115
Se la cristianità aveva un difensore, visti i fatti, questo era il re
dei Franchi. Ma il papa non era il successore di San Pietro?
Teodulfo d’Orlèans, prima che il sovrano partisse per giudicare il
papa, scrisse che San Pietro aveva consegnato al re le proprie chiavi
terrene, tenendo per sè quelle celesti. Al re spettava dunque il compito
di governare la Chiesa, il clero e il popolo cristiano.
Anche Carlo stesso nella Divisio regnorum dell’806, imponendo
la defensio Ecclesiae ai propri figli, la definisce così:
- difendere la Chiesa di San Pietro, e quindi del papa, dai suoi
nemici;
- salvaguardare i diritti di tutte le chiese.
Ma c’è anche un altro fatto che mostra come il sovrano sia a tutti
gli effetti il capo della cristianità: tra il Natale dell’800 e la Pasqua
dell’801, l’imperatore trascorse cinque mesi consecutivi nella città
eterna e questo soggiorno prolungato sanciva la sua sovranità, come
già era accaduto ad esempio per i Sassoni o per la Baviera.
8. Un rapporto particolare: Carlo e il califfo Harun al-Rashid
Menzione particolare merita il rapporto eccellente tra questi due
sovrani. Nell’anno 801 ambasciatori del califfo sbarcarono a Pisa e
con questo sbarco tornava in patria Isacco che Carlo aveva mandato
come ambasciatore a Baghdad quattro anni prima. In più il califfo
mandava in dono al sovrano franco l’elefante Abul Abbas, richiesto
espressamente da Carlo per il suo serraglio. Nell’807 un’altra
spedizione del califfo onorò Carlo di altri doni, ai quali l’imperatore
rispose con doni del suo mondo.
Chiara è dunque l’intenzione di entrambi i sovrani di mantenere
116
la pace23.
Un motivo però ancora più intimo c’era in Carlo per conservare
buoni rapporti con Baghdad. La benevolenza del califfo era necessaria
per i cristiani in Terrasanta che vivevano sotto la dominazione
musulmana e così convinse il califfo ad un gesto, che avrebbe
sicuramente giovato ai loro rapporti, verso quella comunità. Questi
arrivò a compiacerlo addirittura donandogli simbolicamente il terreno
su cui sorgeva il sepolcro di Cristo, facendo si che il patriarca di
Gerusalemme riconoscesse il sovrano franco come protettore dei
Luoghi Santi e inviandogli le chiavi del santo sepolcro.
Non è soltanto con le armi che Carlo manteneva il suo prestigio
di capo supremo della Cristianità
9. il Papato e l’ideologia del potere imperiale: tre lettere per
tre ideologie; imiatatio e translatio imperii.
In una lettera di Ludovico II a Basilio I, scritta da Anastasio
Bibliotecario nel 871, si discute sulla natura e sull’origine dell’impero
d’Occidente considerato illegittimo da Basilio in una lettera
precedente che poi è andata perduta. La lettera di Ludovico II indica
chi assegnò l’impero ai Franchi, dopo aver ripudiato i precedenti
assegnatari (“(…) il nome e la dignità di imperatore dei romani noi li
ricevemmo dai romani stessi (…)“) e spiega i motivi del ripudio dei
Greci e della riassegnazione dell’impero ai Franchi, dovuta alla
rapidità con cui questi si erano convertiti al cristianesimo e
all’applicazione dimostrata nell’opera di evangelizzazione. Era invece
23 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 111.
117
una punizione per i Greci che avevano disertato24.
Il prologo della Lex Salica mostra la consapevolezza dei Franchi
che, dalla generazione di Pipino, si equiparavano al popolo di Dio
dell’Antico Testamento.
Nella lettera di Ludovico i Franchi diventano i contraenti della
Nuova Alleanza, chiamati a subentrare ai Giudei che hanno rinnegato
Gesù e ciò porta come conseguenza logica un corollario che sancisce
l’esistenza di un solo impero legittimo, quello Occidentale.
La lettera di Basilio I, quella perduta, invece costituiva il punto
d’arrivo di un altro prodotto della riflessione curiale romana sul
papato in rapporto all’impero: il Constitutum Constantini, il quale
sembrerebbe assegnare al papa, oltre al suo ruolo specifico di guida
suprema della chiesa, un rango di quasi imperatore, costruendo una
figura ad immagine e somiglianza di quella di Costantinopoli. Una
potestà e un dominio temporale da esercitarsi a Roma e su Roma.
Differenziandosi dalla lettera di Ludovico II, quello che uscirà
non è un papa che toglie ai Greci fedifraghi l’impero per attribuirlo ai
Franchi prediletti del Signore, bensì un papa che, senza cessare di
essere tale, diventi egli stesso l’equivalente occidentale
dell’imperatore di Costantinopoli.
Accanto a queste due lettere, una terza rappresenta un altro
documento portante tra quelli ufficiali latini del secolo VIII. La lettera,
scritta da Adriano I ed indirizzata ad Irene e al figlio Costantino VI il
26 Ottobre 785, si concentra sulla questione iconoclastica e presenta
Irene e Costantino VI alla pari di Carlo re dei Franchi perché questi
non solo posero fine all’iconoclastia, ma restituirono anche
24 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. pag. 343.
118
possedimenti e patrimoni sottratti dal patriarca Leone III alla Chiesa.
Erano quindi tre gli scenari che si andavano prospettando:
- al fianco del Basileus in oriente si prevedeva in occidente un
papa truccato quasi da imperatore;
- l’impero franco come subentrato a quello dei Greci sulla base di
un decreto divino reso operante dal papa;
- i due regni (quello di Carlo e quello di Irene), vittoriosi e
cristiani, sarebbero stati chiamati in futuro a coesistere in pace
(concezione intermedia tra le due precedenti).
L’ultima concezione è sicuramente fra le tre la più ragionevole ed
è quella che riflette, con maggiore approssimazione, la realtà che con
l’elezione di Carlo a imperatore sarebbe poi accaduta.
La teoria dei due imperi, risultata vincente con papa Leone III,
scalzava l’imitatio imperi, centro della Constitutum e dalla parte del
papato .
Il falso di Costantino entrerà in circolazione anni dopo la sua
“redazione” e influenzerà anche il Dictatus Pape di Gregorio VII che,
nella proposizione ottava, ne fa in qualche modo la sintesi,
descrivendo come il papa riceva entrambe le corone ma decida di non
portarle: “(…) La corona d’oro veniva incamerata ma il papa rifiutò di
porsela in capo (…)”25.
La lettera di Ludovico e Anastasio, scritta anche per assicurarsi
l’alleanza del Basileus in un’azione combinata contro i Saraceni,
affaccia la tesi dell’esistenza dei due imperatori che in però pare
incompatibile con la tesi della sottrazione ai Greci e la riassegnazione
ai Franchi, esposti nella stessa lettera. Imitatio imperii e translatio
25 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. pag 363.
119
imperii vanno analizzate in base al ruolo che i papi hanno avuto, tra
l’VIII e il IX secolo, nella restaurazione dell’impero d’occidente e
della consapevolezza che questi avevano del ruolo più o meno grande
che furono chiamati a svolgere. Indipendente dallo schema della
traslatio imperii, tutti i papi hanno compiuto atti volti a rendere
possibile l’incoronazione di Carlo.
Il Codex Carolinus, diverso dalle opere di cancelleria papale, è
un’opera archivistica datata 791 e attribuita a Carlo Magno, per
recuperare lo stato delle lettere inviate dai papi a suo nonno, Carlo
Martello, a suo padre, Pipino, e a lui stesso in modo che venissero
rinnovate.
Oltre alla sezione delle lettere ai papi, il Codex contiene un’altra
sessione per le lettere ai franchi dei Basileis. Questo, insieme anche la
possibilità che nel riscriverle le lettere pontificie potettero essere
modificate, fa si che l’opera non possa essere considerata fonte
romana.
Dal canto suo, la concezione curiale dell’imitatio imperii, invece
di fare i conti con la tradizione, adotta una soluzione che consiste
nell’osservare il comportamento cerimoniale bizantino al fine di
ricavare qualche elemento per la costruzione di un contro-potere
occidentale e soprattutto papale.
Questi papi non sembrano in grado così di fare altro che parlare
di provincie promesse e non concesse, rifacendosi alla donazione di
Costantino. Quando Adriano I esorta Carlo ad essere il nuovo
Costantino, l’obiettivo che si prefigge non è nemmeno più il realizzare
la promessa della donazione del 774, ma la richiesta di un aiuto
immediato nel recuperare una sfilza di proprietà, anche da privati, che
avevano così provveduto alla salvezza della loro anima.
120
Se lo scenario della restaurazione dell’impero d’occidente fosse
stato questo, non riusciremmo ora a trovare nessun legame tra la
nascita dell’Europa e l’Europa Carolingia.
Ma analizziamo come andarono le cose.
Per fare ciò bisogna fare riferimento ad un personaggio, Gregorio
II, e a due lettere da questi inviate a Leone III Isaurico, Basileus d’
Oriente.
Le lettere nascevano come risposta all’imperatore di
Costantinopoli che, in cambio di una resa del papa sulla questione
delle immagini, avrebbe cancellato le accuse di lesa maestà
imputategli e risentono del contesto politico-territoriale in cui sono
state scritte, fatto che consentiva al papa piena libertà di parola, dando
peso e risonanza a quest’ultima.
Bisognava distinguere così Roma città, esposta alle insidie
nemiche, e Roma patriarcato d’Occidente, intercapedine tra Oriente ed
Occidente, che niente sembrava poter minacciare.
Erano tre gli spazi identificati da Gregorio che garantivano la
sicurezza e l’immunità della sua sede:
- il ducato, che da Roma prendeva il nome, era ormai una sorta di
terra di nessuno dove Gregorio poteva con facilità cercare rifugio;
- l’Occidente barbarico reso domestico perché cristianizzato, con
i suoi re devoti a San Pietro e pronti a difendere e punire chiunque
oltraggi l’immagine del papa;
- l’Occidente intero che “pretendeva” che a battezzare i suoi capi
fosse il papa in persona e lo stesso viaggio al dì la del Reno fu un
modo per Gregorio di mostrare la forza espansiva sul piano pastorale
del patriarcato d’Occidente.
La destinazione del papa sarà quella zona nella quale già
121
Bonifacio operava come “l’apostolo dei Germani” e che, poco tempo
avanti, con l’aiuto dei due maestri di palazzo, Carlomanno e Pipino III
(742), sarebbe diventato anche il riformatore della chiesa franca.
Bonifacio era consapevole che senza l’appoggio del potente
maggiordomo (già nel 723 aveva ottenuto la protezione da parte del
padre di quelli, Carlo Martello) la sua missione sarebbe andata
incontro al fallimento. L’opera fu un’azione missionaria e non una
riforma di iniziativa ecclesiastica oltre i confini del regno franco. Da
ricordare che al potente protettore non interessava una riforma
all’interno del suo regno, impegnato com’era a sottrarre a chiese e
monasteri le terre di cui aveva bisogno per saldare la sua clientela.
Al successore di Bonifacio, Stefano II, una volta che il potere
della dinastia pipinide si sarà saldamente posta al comando del regno,
sarà chiesto, dal primo sovrano Pipino, non il battesimo, bensì la
ripetizione del rito della “cresima imperiale“. Ripetizione perché il
quasi ottantenne Bonifacio aveva già compiuto sulla stessa persona a
Soissons nel 751. Stefano fu ben lieto d’accettare per due ragioni
principali:
- assumere il controllo di una vasta zona peninsulare dove
esercitare in propria autonomia la potestà spirituale;
- assicurarsi, per realizzare la prima, il braccio armato franco
contro l’incombente minaccia longobarda26.
Così i tre spazi concentrici, elencati da Gregorio nelle lettere
come per scoraggiare i propositi aggressivi dell’imperatore d’Oriente,
apparivano un tempo indipendenti l’uno dall’altro, ma non più tardi di
venticinque anni risultano strutturati in un sistema in cui l’ex ducato di
26 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. pag. 398.
122
Roma è protetto dal giuramento fatto a Stefano II a Kiersy , da un
Pipino che, forte dell’unzione ricevuta dal papa come patricius
Romanorum, si distaccava dagli altri sovrani barbari d’Occidente.
Ma l’operare delle tensioni fra Roma e Bisanzio non è sempre lo
stesso da parte del papa. A tele esempio ci viene in soccorso un’altra
lettera, quella inviata a Carlo Magno da papa Adriano I, in cui il papa
comunicava la decisione del concilio ecumenico di Nicea, contro la
quale Carlo aveva già deciso di prendere posizione.
Scontato è dire che l’auspicio iniziale sia rivolto a Carlo e ai suoi
successi contro le barbarae nationes. La parte maggiore della lettera
resta dedicata alla confutazione su ciò che il sovrano aveva espresso
nel capitulare (dopo il concilio di Francoforte).
Ma l’aspetto che più va sottolineato credo sia la doppiezza della
lettera. Cioè, in essa Adriano giustifica la scelta del concilio e il modo
in cui è stato fatto (il concilio fu convocato senza informare Carlo e
senza la convocazione di rappresentanti del clero franco, ciò poteva
confutare il suo valore di ecumenico), spiegando che se la definizione
finale del concilio sia stata sottoscritta, questo è successo perché
giudicata conforme alla dottrina di Gregorio Magno, sul culto delle
immagini e che, fatta sua da Adriano, costituiva una posizione gradita
anche ai Franchi. Ma è ma questo punto che nella lettera sembra che
Adriano voglia prendere le distanze da ciò che ha presentato fino ad
un momento prima come assolutamente legittimo. Il solo prendere in
considerazione un’ipotesi di non accoglimento di Roma dei canoni di
Nicea rischiava di generare nel destinatario della lettera la presenza di
un’incrinatura nei propositi del papa, incoraggiando Carlo a persistere
nel rifiuto.
Palese è quindi l’esitazione di Adriano nell’approvare
123
formalmente le decisioni del Concilii, cosa che alla fine non fa.
La lettera poi passava a trattare il ringraziamento del Basileus,
sempre che Carlo lo confortasse col suo assenso, per l’avvenuto
ripristino del culto delle immagini. Al tempo stesso il papa lo
richiamava al suo dovere di restituire giurisdizioni mal tolte se non
voleva essere condannato come eretico.
Da queste righe viene fuori anche un altro punto di discussione.
Ora che il regno franco era subentrato all’indistinta massa della
cristianità occidentale e si professava pronto a svolgere i suoi doveri
di popolo eletto era visto dai papi come un efficace contromisura
verso il rischio di essere ridotti a vescovi Longobardi.
Ma gli stessi papi, vedi Adriano I, che avevano chiesto aiuto ai
Franchi, e nel suo caso a Carlo, non si comportavano da sudditi del re,
restando ancora legati anche a Bisanzio.
La chiesa che Carlo affermò essergli stata donata da Dio perché
la governasse, era ormai franca solo di nome. Di fatto era una chiesa
territoriale, che tendeva a porsi come universale richiamandosi al culto
di Pietro e all’insegnamento di Roma.
La linea romana non trova però continuità, a differenza della
linea Bonifacio - Carlo Magno che cominciava a delineare la linea che
porterà poi all’incoronazione dell’800.
In conclusione, osservando come andarono gli eventi, il tentativo
di non farsi chiudere in un asfissiante domino longobardo portò i papi
a chiudersi invece nella gabbia franca.
Se da un lato però l’atteggiamento di Carlo portava ad un
rafforzarsi delle tradizioni romane e della tradizione di Roma,
nonostante la passività, più o meno completa, dei vari pontefici,
dall’altro l’accresciuto livello spirituale del clero multinazionale del
124
regno franco indusse quest’ultimo ad assumere atteggiamenti
autonomi nei confronti del magistero romano.
In ultima analisi un breve accenno alla chiesa franca.
Intorno al IX secolo gravi tensioni si erano prodotte all’interno
della chiesa franca occidentale fra vescovi suffraganei e metropoliti,
oltre che tra sinodi provinciali e autorità temporale. Queste
controversie portarono alla produzione, in un ambiente non ancora
identificato, di falsificazioni canoniche fra cui le Decretali Isidoro
Mercator.
10. La divisione tra questioni dottrinali e attività legislativa e
amministrativa.
Sentendosi obbligato davanti a Dio di vegliare sulla dottrina nel
suo impero, il problema si pone in come Carlo abbia rispettato i poteri
del papa circa la dottrina della chiesa. La questione di Nicea sembra
essere accantonata senza proteste. Il fine era evitare un conflitto col
papa, soprattutto per il rispetto verso l’autorità pontificia nelle
questioni di fede. Questo non è un caso isolato, si ripete ad esempio
anche con Leone III e la controversia sul credo.
Ciò mostra come Carlo riconoscesse l’autorità speciale della
Santa Sede nelle questioni della fede, nonostante la sua pretesa di
dover occuparsene anche lui con i suoi teologi.
Diverso si presenta invece il rapporto tra papato e Carlo sotto
l’aspetto della giurisdizione ecclesiastica. Nella chiesa del suo impero
il sovrano esercitava un potere legislativo e amministrativo quasi
universale ma il papa anche qui non era del tutto escluso. Ad esempio
quando Carlo restaurò le provincie ecclesiastiche scomparse durante il
125
regime di Carlo Martello, non andava avanti senza l’approvazione
della sede. Oppure, anche Leone III partecipò attivamente alla
fondazione della provincia ecclesiastica bavarese27.
Inoltre, il primo titolare di una nuova sede metropolitana, ossia il
centro della provincia, doveva ricevere i suoi poteri da un superiore
ecclesiastico. Il superiore nella chiesa latina era solo il papa e la Santa
Sede acquistava così, grazie al contributo di Carlo, una competenza
continuamente crescente nella struttura gerarchica interdiocesana.
27 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. pag. 412.
126
CAPITOLO V
1. L’Europa e il concetto d’Europa in età carolingia: quadro
storico
Il punto di partenza necessario per l’analisi è sicuramente
l’Impero Romano. Brevemente: questo era entrato in una crisi,
difficilmente reversibile, già molto prima del 410, data del celebre
sacco di Roma da parte del Visigoto Alarico.
Eppure un evento così sconvolgente come questo, che portava
alla lenta dissoluzione della parte occidentale dell’impero, fu
generatore di un nuovo assetto.
Infatti con il contatto tra la gente romana e le genti barbare, e con
le loro culture, stava nascendo quello che noi oggi chiamiamo Europa.
Ovviamente il processo sarà lungo e per tanti aspetti oscuro. La
luce di quest’epoca sarà una civiltà, con il suo impero, quella
carolingia.
Il fascino dell’oriente andava premendo sulle regioni occidentali,
ripercorrendo un po’ la stessa storia della cultura greca (“La Grecia
conquistata soggiogò il feroce vincitore”. La citazione è di Orazio e si
riferisce ovviamente all’impero romano)28.
Addirittura lo stesso Alessandro Magno, una volta messo insieme
il suo impero nel tentativo di creare una fusione tra cultura greca e
persiana, assumeva sempre più i caratteri della regalità di stampo
orientale cercando di apparire come un personaggio divinizzato.
28 Cardini F., Carlo Magno. Un padre della patria europea, Bompiani editore, Milano 2002. pag.13.
127
Alessandro non fu l’unico. Cosa simile era accaduta anche a
Roma con Nerone e Caligola accusati, per le loro idee, di follia dal
senato. Il quadro sociale del ceto dirigente nell’età dell’impero era
articolato, almeno a partire dal I secolo, in due ordini principali.
Tra i cittadini romani adulti emergevano due ordini: senatorio ed
equestre, qualificati dal riconoscimento ufficiale.
L’aristocrazia senatoria era inquadrata nel senato di Roma, che
reclutava i membri per cooptazione (metodo che consiste nell’elezione
di nuovi membri da parte dell’dello stesso) mentre quelli del ceto dei
cavalieri erano scelti dall’imperatore.
I due ordini si diversificavano anche per l’origine dei patrimoni: i
primi basavano la propria ricchezza essenzialmente sulla proprietà
fondiaria; i secondi si arricchivano anche grazie a speculazioni
commerciali e finanziarie.
Il quadro sociale andava evolvendosi dal III secolo, quando i ceti
dirigenti assimilavano una larga parte delle aristocrazie locali
provenienti dalle diverse città dell’impero. I cittadini più importanti
dei vari municipi potevano così sperare di essere innalzati
dall’imperatore al rango di equites (cavalieri) o addirittura arrivare
all’ingresso nel senato.
Ma il quadro ovviamente non mancava di presentare vari
problemi:
- si acuì il contrasto tra l’autorità del principe e quella del senato;
- crebbe il peso dell’esercito nella scelta degli imperatori (già nel
I secolo una congiura militare aveva abbattuto Caligola e innalzato al
trono Claudio).
Il crescere del potere dell’esercito portò la situazione a
precipitare in un’anarchia culminata nella crisi del III secolo.
128
A subire maggiormente il disagio furono, come sempre, le classi
più deboli. Queste allora, sottraendo preziosa linfa al servizio militare,
si rifugiarono nelle villae dei proprietari latifondisti.
Era questo un po’ il quadro interno che si andava delineando,
accanto al quale, già molto instabile, venne ad aggiungersi un nuovo
pericolo, questa volta esterno. A nord-est dei limes (confini)
iniziavano le pressioni delle genti “barbare”.
2. Chi sono questi barbari?
Appartenenti come i Greci al ceppo indoeuropeo, erano per lo più
cacciatori, agricoltori e allevatori seminomadi contro cui i romani già
avevano avuto a che fare.
Dall’età di Augusto alla metà del III secolo, lungo la frontiera di
Reno e Danubio, gli scontri si intensificarono.
Tacito, nella sua Germania, ci presenta questi popoli con una
grande ammirazione, quasi come ammonimento a quella Roma
avviata lungo la via della corruzione.
Se le prime incursioni erano solo state delle isolate scorrerie a
scopo di rapina, le cose, con la comparsa di un nuovo popolo, i goti,
cominciano a cambiare arrivando ad azioni volte alla penetrazione e
all’insediamento con coordinate leghe militari.
Nella crisi che piano piano lo stava sgretolando, l’impero riuscì a
sollevarsi con l’intervento di Diocleziano. Con lui la strategia verso i
germani conobbe un cambio di rotta. Accantonato il metodo offensivo
si cerco di attirarli nell’orbita romana organizzata in due campi:
- l’immissione massiccia nel territorio controllato dall’impero e
nelle sue stesse istituzioni di elementi barbarici, che assunsero col
129
tempo sempre più importanza;
- si crearono zone di detenzione, per ripopolare zone ormai
devastate29.
E’ chiaro come i contatti tra i franchi e la romanità iniziarono in
modo conflittuale per poi arrivare ad una sorta di intesa.
L’impero si riorganizzava escludendo progressivamente la sua
parte più povera, ossia il nord-est.
Nel 330 Costantino fonderà sul Bosforo, al posto dell’antica
Bisanzio, la città di Nuova Roma, chiamata poi Costantinopoli e
futura capitale dell’impero durante il regno di Teodosio.
Una divisione che, almeno nelle intenzioni, doveva essere solo
amministrativa. L’impero veniva concepito come una sola unità.
Infatti Odoacre dopo il 476, anno della caduta della parte d’occidente,
inviò a Zenone, imperatore d’Oriente, le insegne dell’impero
d’Occidente, ribadendo appunto il concetto che l’autorità di un solo
imperatore fosse sufficiente e rivalutando il concetto d’impero come
uno e indivisibile. Idea che resistette anche dopo la caduta della parte
occidentale.
Nelle intenzioni dei popoli germanici, che dall’inizio del V
secolo impazzavano in Occidente, non c’era alcuna volontà distruttiva
verso l’impero, anzi, essi miravano ad un’integrazione e ad un
riconoscimento dalla struttura imperiale stessa.
A determinare il collasso dell’impero in occidente non furono il
sacco di Roma o qualche altro terribile popolo barbaro, ma il crollo
delle istituzioni e delle sue strutture sociali, legati ad una classe
dirigente sempre più corrotta, come se Tacito avesse visto nel futuro.
Un crollo che partiva dall’interno e che la minaccia barbara aveva solo
29 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 120.
130
portato alla luce più velocemente.
3. Lo sviluppo del latifondo: un antenato del vassallaggio
Il crollo dell’impero ebbe come una delle prime cause lo
sviluppo spropositato del latifondismo.
La villa del tardo impero si presentava come un sistema
economicamente chiuso.
Già nel I secolo Petronio, nel Satyricon, ironizzava su un fatto
vero: i possedimenti dei latifondisti si estendevano a perdita d’occhio.
Agli inizi del V secolo una tale situazione aveva ormai cancellato
praticamente del tutto la piccola proprietà contadina, tradizionale
serbatoio dell’esercito romano, cosa che aveva portato alla perdita
della figura dell’agricoltore-soldato su cui si era fondata l’antica forza
romana: l’esercito.
Deriva da ciò la necessità di arruolare nell’esercito elementi
barbarici che in breve tempo raggiunsero posizioni di primissimo
piano.
Nello stesso periodo nuove e più massicce incursioni crearono
gravi problemi alle strutture difensive dell’impero. Grave fu la perdita,
a causa assassinio, di Stilicone, eliminato nel 408 da una corte sempre
più corrotta. La morte del generale fece venire a mancare un valido
sostegno nella parte occidentale dell’impero.
La differenza con l’oriente sembrava crescere sempre di più. Il
governo era più solido e con le strutture burocratiche capaci di un
maggiore controllo.
Inoltre l’impero d’Oriente adottò una doppia politica: da una
parte non esitava a pagare tributi ai barbari confinati per garantire il
131
mantenimento della sicurezza; dall’altro era pronta a promuovere una
reazione antibarbara più radicale di quella d’Occidente (tra la fine del
IV e gli inizi del V secolo migliaia di goti che stanziavano a
Costantinopoli vennero massacrati).
Tornando a parlare dell’Occidente, dalla sintesi tra le diverse
realtà in conflitto, romana e barbara, nacquero i regni romano-
barbarici, che si andarono a sostituire alla compagine imperiale.
Nella maggior parte dei casi, non vi fu però, almeno agli inizi,
alcuna integrazione tra i due popoli, visto che i barbari si governavano
con leggi proprie, basate sulla consuetudine.
La religione praticata era il cristianesimo, anche se la maggior
parte della popolazione germanica era stata evangelizzata da
missionari ariani (una delle più dure confessioni del cristianesimo,
importante perché vedeva nel Cristo una sola natura: quella umana.
Cadde una volta dichiarata eretica)30.
Le genti “latine” continuavano a seguire il loro diritto e la loro
religione. In questo modo con il passare del tempo la Chiesa romana
andava acquistando sempre più forza e autorità, avviandosi a essere
uno dei pilastri del nuovo assetto socio-politico-istituzionale.
In Occidente era solo la Chiesa di Roma a poter aspirare al titolo
patriarcale.
4. Un tentativo di riunificazione
I Reges germanici ambivano spesso a riconoscimenti da parte
della corte bizantina, mentre a Costantinopoli non venne mai meno la
coscienza della forza della quale i Basileis si consideravano non degli
30 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004. pag. 119.
132
eredi, bensì dei continuatori della tradizione romana.
Da questi deriva la volontà dell’imperatore d’Oriente di non
avere solo un’autorità puramente nominale sulla parte Occidentale
dell’impero. Anzi, dalla terra di Costantinopoli partì un concreto
tentativo di ricostituire, anche politicamente, l’unità del vecchio
mondo romano.
Nel 527 saliva al trono Giustiniano che, dopo aver liquidato nel
532 un conflitto che da tempo opponeva a Bisanzio i persiani e
represso duramente l’opposizione che si era manifestata all’inizio del
suo regno, avviò il suo progetto di riconquista in occidente.
Il timore di molti di una spedizione fallimentare fu spazzata via
da una conquista lampo nel 533 dell’Africa vandalica. Ciò restituiva a
Bisanzio il controllo del Nordafrica e delle coste meridionali della
penisola iberica, successo che consetì la liberazione del Mediterraneo
dalla pirateria.
Più lunga fu invece la campagna per la riconquista della penisola
italica.
Durata dal 535 al 553, la cosiddetta guerra greco-gotica, costò a
Bisanzio un terribile sforzo politico e militare, lasciando l’Italia
estremamente impoverita.
Instaurare un governo su Ravenna voleva dire imporre
un’egemonia imperiale fino all’oceano Atlantico.
Giustiniano, alla fine, era riuscito ad instaurare un controllo
anche sulle isole del Tirreno, Baleari e coste iberiche meridionali.
Tutto il mondo latino-germanico avrebbe dovuto piegarsi alla
supremazia romano-orientale.
Ma i risultati dell’imperatore furono tanto rapidi quanto precari.
La spossatezza delle risorse imperiali non consentì neanche di
133
terminare il programma di conquista di Giustiniano. Inoltre la dura
pressione fiscale sui territori conquistati, già impoveriti dalla
campagna militare, aveva affievolito il poco attaccamento al nuovo
padrone. Così già nel 586 i Longobardi strapparono l’Italia al dominio
bizantino, con l’eccezione di alcuni territori, come Ravenna, parte
dell’Italia meridionale e ovviamente Roma.
Con la dominazione longobarda in Italia,il papa diventava
qualcosa di ben più forte di un potere spirituale, sostituendosi
gradualmente alla figura sempre più nominale di Bisanzio.
L’affermazione del papa andò contro la presenza longobarda,
creando nel pontefice la necessità di cercare l’appoggio di un nuovo
alleato, quello che poi sarebbe stato identificato nel popolo franco. In
questo modo il papa cominciava ad agire quasi come un sovrano
temporale che per salvaguardare i propri territori e le proprie
prerogative si inserì nei giochi di potere tra i grandi potenti della sua
epoca.
Al tempo stesso Bisanzio era bloccato da un nuovo nemico
destinato ad impegnarlo in una lotta per il resto della sua esistenza:
l’Islam.
C’è chi ha visto nell’invasione islamica il dissolversi del mondo
antico con la distruzione dell’unità mediterranea, con danni maggiori
di quelli barbarici. Ma forse è più corretto dire che l’invasione
islamica fu in ogni modo elemento determinate per la fine della
supremazia bizantina in occidente.
134
5. Carlo Magno e l’Europa
L’insieme dei territori su cui si allargava l’autorità di Carlo si
identificava con un rinnovato impero romano. Una domanda sorge
però spontanea: è possibile che una costruzione politica con uno
sguardo così rivolto al passato prefiguri al tempo stesso la nascita
dell’Europa così come noi oggi la conosciamo?
Nel periodo che vedrà fiorire gli stati nazionali, e che durerà fino
al novecento, il problema era individuare la matrice, latina o
germanica, dell’impero risorto e quindi della moderna civiltà europea.
Altro aspetto da verificare era se la fine della storia antica debba
collocarsi prima o dopo l’epoca di Carlo Magno?
Sembra chiaro che il punto di partenza della nostra analisi non
può che essere l’impero di Carlo.
5.1 Europa franca o tedesca?
Nell’impero di Carlo prevaleva la componente romana, di cui la
Francia era l’erede, o quella germanica, fieramente rivendicata dal
nuovo Reich tedesco?
E’ chiaro che affermare la paternità di una figura come quella di
Carlo, per Francia e Germania, voleva dire affermare la centralità del
proprio stato nell’Europa moderna. Allo stesso modo dichiarare che
l’impero di Carlo si reggeva non sull’eredità di Roma, ma sulle
fresche energie dei popoli germanici, era un’evidente presa di
posizione politica.
Ma infondo, il sovrano franco non poteva essere né francese né
tedesco, perché infondo nessuno di questi due popoli era ancora nato,
e le nazioni europee, cosi come le conosciamo, prenderanno il via solo
135
dopo la dissoluzione del suo impero.
Ma bisogna stare attenti, perché l’impero di Carlo presentava al
suo interno comunque una grossa spaccatura.
Pur intitolandosi Romanorum Imperii, i romani erano considerati
poco meno che stranieri, indicando col termine romani, gli abitanti
dell’Aquitania, tradizionalmente ribelli all’autorità del re e gli abitanti
di Roma31.
Ad essi si contrapponevano i Franchi della Gallia settentrionale
più tutti i popoli tedeschi (Alamanni, Bavari, Sassoni), consapevoli
della loro alterità verso il mondo romano.
Lo stesso Carlo era consapevole e fiero di essere franco,
guardando sia ad esempio dall’imitare aspetti degli imperatori romani,
anche solo nel vestire. Il fatto che i papi chiedessero all’imperatore
d’occidente di indossare almeno nei suoi viaggi a Roma le vesti
“romane”, ci deve far riflettere sul carattere forzato di una coesistenza
di usi e costumi che però la necessità della politica rendeva
indispensabile.
Anche prima di Carlo comunque era venuto fuori un’irriducibile
concezione ideologica tra mondo romano e franco. Ad esempio
prendiamo la Lex Salica, redatta negli ultimi anni di governo di
Pipino. Qui i Franchi vengono esaltati sotto tre aspetti:
- come nuovo Israele, per aver scosso il giogo imposto dai
romani, sostituendosi a quest’ultimi come popolo guida della
cristianità;
- in quanto Franchi che meritavano il ruolo di guida, perché non
s’erano mai macchiati d’eresia, mentre i romani per secoli avevano
31 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. pag. 19.
136
perseguitato e messo a morte i Cristiani;
- come eredi dell’impero romano, sottraendo ai Greci di Bisanzio
tale riconoscimento.
Ritornando a parlare della contrapposizione tra germanici e
romani, si deve ricordare che l’identità collettiva dei popoli invasori
nasceva dal ricordo delle invasioni piuttosto che da un unità
linguistica. Ma attenzione, i Franchi che invasero la Gallia erano quasi
ovunque in minoranza rispetto ai romani, da cui quindi furono
assorbiti. La cosa che però risalta all’occhio è che al tempo di Carlo
tutti quelli che vivevano a nord della Loira si consideravano Franchi,
senza alcuna memoria di una possibile origine romana.
Affianco ad una percezione d’identità non legata ad aspetti
classici come la lingua, anche un’altra percezione andava
modificandosi: quella geografica. Questa al tempo del sovrano franco
era dominata dallo stanziamento dei popoli tedeschi, che l’avevano
senza dubbio rimodellata. Si creava così una divisione tra i dotti che
usavano la vecchia categoria geografica, come se nulla fosse
cambiato, e la gente comune che ignorava l’esistenza di quelle
astrazioni ma sapeva che le invasioni avevano creato un Europa
diversa.
Ma tutto il distacco visto fino ad ora andava quasi annullandosi
dopo che Carlo dettò il suo testamento. Stabilì che due terzi del suo
patrimonio fossero distribuiti tra i ventuno arcivescovi dei paesi a lui
soggetti, indicando le singole zone nel testamento.
Attraverso quest’elenco la geografia amministrativa dell’impero
romano risorgeva dalle sue ceneri e ritrovava attualità grazie alla
geografia ecclesiastica. Solo dopo questo elenco comparvero le prime
metropoli (insieme di territori che fanno riferimento ad un unico capo
137
che poi risponde direttamente al sovrano) del regno Franco.
Sia chiaro che una geografia particolare, come quella di
strutturazione ecclesiastica legata alla forte diffusione del
cristianesimo nell’Antichità, non trovava più riscontro nel
popolamento e nelle correnti di scambio, perché creava province
metropolitane o troppo grandi o troppo piccole.
Quale fu allora la base dalla quale Carlo partì per quell’elenco?
La risposta è semplice: non ci sono né Romani, né Germani, né
Franchi, c’è l’impero cristiano che è romano e non può non esserlo,
perché proprio Roma è stata scelta da Dio come sede della religione di
Cristo.
6. La “Tesi Pirenne”
La tesi prende il nome dal lavoro di Henrie Pirenne, Maometto e
Carlo Magno, che permise di superare il blocco creato dalle opposte
congetture degli storici tedeschi e francesi nella storiografia
ottocentesca.
Osservandone traffici e circolazione monetaria, lo storico belga
giunse alla conclusione di come l’impero di Carlo non assomigliasse
neanche lontanamente a quello romano, avanzando inoltre la tesi che
la fine dell’Antichità non risaliva, secondo lui, alle invasioni
barbariche ma fu il dilagare degli Arabi nel Mediterraneo a
frantumare, dopo Maometto, l’unità del mondo antico e a far prendere
forma a quell’Europa come noi la conosciamo, con il Mediterraneo
che funge da frontiera.
Ovviamente il discorso di Pirenne tiene conto e imposta il suo
discorso prettamente sull’aspetto economico.
138
Ma la tesi “islamica” viene presto abbandonata.
La crisi di cui si cinge sempre il capo il medioevo è ormai
provato che risale già ai secoli del tardo impero romano (la
spropositata grandezza delle villae, ad esempio)32.
All’imbarbarimento del mercato che viene fuori nell’opera si
oppone nel corso dell’alto Medioevo la nascita di un nuovo spazio
economico che non è più orientato sul Mediterraneo come centro di
scambi, ma sull’Europa continentale.
La tesi che si estrapola dalla discussione di Pirenne pone il
problema su un punto nuovo: l’impero di Carlo, che si voleva romano,
assomiglia davvero a quell’impero, o invece il continente dove
regnava era qualcosa di radicalmente diverso.
L’ipotesi della continuità gode oggi di grande favore, ma si deve
tenere presente come la continuità non sia tanto quella dello storico
austriaco Alfons Dopsch, che sosteneva una continuità di fondo tra
l’epoca di Giulio Cesare fino a quella di Carlo, ma una via di mezzo
che colloca il punto di partenza in una tarda antichità, III - IV secolo
con le riforme di Diocleziano e l’avvento del cristianesimo. Una
posizione così, forse la più giusta, tiene conto anche dell’intuizione di
Pirenne nel considerare le invasioni germaniche non una rottura
decisiva nella storia d’occidente.
Ma anche l’ipotesi della non continuità trova riscontro nella tesi
dello storico belga, nell’immagine di un’Europa Carolingia tagliata
fuori dal Mediterraneo e priva di quel rapporto con Africa e l’Oriente
che era stato vitale per l’antichità.
E’ chiaro che si andava delineando una contrapposizione tra chi
32 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. 27.
139
sosteneva la continuità fra la Tarda Antichità e l’epoca carolingia e chi
invece ne era contro.
Vitale, per quelli che dai rivali furono chiamati <<iper-
romanisti>>, era sostenere che l’influenza degli apparati di governo
nell’economia dell’Occidente non venne affatto eliminata dalle
invasioni barbariche, dimostrando la sopravvivenza di queste
istituzioni per tutto l’arco del periodo considerato, senza subire
mutamenti.
A loro giudizio le ricchezze confiscate dal re dei franchi, e
distribuite poi alla Chiesa , non consisteva tecnicamente parlando
della proprietà della terra ma del prelievo fiscale su di essa.
Su un versante diverso, lo storico francese Guy Bois ripropone
una lettura dei secoli a cavallo del’anno mille, partendo dal piano
sociale e produttivo. Su questo punto l’Europa di Carlo non si era
allontanata troppo da quella antica. Centrale nella sua riflessione è
l’argomentazione sugli schiavi, argomento che trova grossa
similitudini tra le due.
La tesi però viene demolita, come fatto per i continuatori della
Tarda Antichità, definendo l’età carolingia come un’età piena di
transizione, tutt’altro che assestata.
Passando dall’aspetto economico a quello politico in cui Carlo si
muove, non possiamo non notare come egli contribuì largamente a
creare, con la propria egemonia, l’idea d’Europa, facendole assumere i
connotati cui siamo ancora oggi abituati.
Il regno di Carlo Magno era una realtà continentale con il
baricentro nella valle del Reno, dove emergevano i primi orizzonti
nazionali la cui nascita, anche se già si notava nel tardo impero, fu
accelerata dalle invasioni barbariche. E’ proprio questo che assume
140
importanza, ossia il momento in cui antiche provincie romane che
avevano conosciuto per centinaia di anni solo una storia più o meno
autonoma, con le invasioni vennero unificate in una nuova entità
politica, solo formalmente legata all’antichità. L’incoronazione di
Carlo sancì la nascita di un nuovo spazio politico che riconosceva
leggi, istituzioni e regole economiche elaborate da una sola di quelle
provincie, la Gallia dominata dai Franchi, ed estese all’insieme
dell’Europa.
Uno spazio politico che a distanza di mille anni continua ad
apparirci familiare come Europa.
Non è quindi da stupirsi se proprio in quest’epoca il termine
Europa fa la sua comparsa, come in riferimento alla vittoria di
Poitiers, dove un anonimo parla della vittoria degli Europenses sulla
potenza islamica, o come quando nel 799 Carlo veniva definito come
“Il re padre dell’Europa (rex pater Europae).”
7. I processi di formazione dell’Europa Carolingia
Se cogliamo nel medioevo il primo delinearsi di un molteplice e
aperto sistema di relazioni sociali, dotate di un ritmo di crescita
incomparabile, per la sua dinamicità e accelerazione progressiva sulle
variazioni, rispetto a qualsiasi altra civiltà, ci troviamo di fronte alla
nascita dell’Europa.
Considerata in questo senso, è molto più di un’alterazione
geografica o etnica dell’area di civiltà che perde il suo centro nel
Mediterraneo
Si parla ora più di salto qualitativo, per la conquista di una
capacità costante e crescente di rinnovamento critico delle forme di
141
vita.
La base di tale trasformazione va cercata nell’Alto Medioevo,
poiché fu allora che si andò costruendo un approssimativo quadro
culturale e istituzionale nuovo: quello latino-germanico, che portò ad
un ritorno a posizioni più sicure, rispetto a quelle instabili precedenti
che si trasformarono, dopo l’anno mille, in quel tipo di sviluppo che a
noi oggi appare come europeo.
L’attrito che poteva crearsi tra una ripresa civile connessa ad un
inquadramento restauratore e la ricchezza di impulsi e aspetti che
caratterizzarono il movimento creativo europeo, era racchiusa solo a
singoli fatti e momenti. L’età carolingia, il periodo più costruttivo
dell’alto medioevo, può quindi disporsi come una disposizione della
visione più ampia del divenire storico, investendo le radici del nostro
essere uomini, a condizione di non assumere in sé tutto questo
problema.
Cercando di dare una visione globale della situazione, l’Europa
carolingia partecipò come premessa condizionante, ma non necessaria,
alla futura nascita dell’Europa moderna. Base del condizionamento
può essere identificata la sintesi del patrimonio culturale di origine
mediterranea che, unita alla spiritualità religiosa, cercò di unirsi con le
esigenze più elementari dei popoli confluiti sotto il dominio Franco.
Ma come si arriva a questo punto?
Iniziamo da una piccola analisi semantica.
Il termine Europa subisce uno spostamento del suo ambito
applicativo. Secoli a dietro il termine stava ad indicare l’immagine
della presenza imperiale romana nel continente, muovendo dalla
fascia costiera a verso il nord del mediterraneo. In età franca invece, il
termine espresse la raggiunta coscienza di sé del mondo latino-
142
germanico.
La sua prima comparsa, va ripescata nella Gallia romana.
Nel Vita Martini, opera su San Martino scritta da Severo, il
vescovo viene celebrato come il massimo dei santi << d’Europa>>. Si
richiamava così già la centralità della Gallia nel mondo latino (il culto
di San Martino era nella tarda romanità simbolo della santità della
Gallia). La Gallia svolge quindi un ruolo importantissimo nello
sviluppo degli eventi e dei rapporti, soprattutto tra aristocrazia e
episcopato, ed è centro di studio per molti storici33.
Col presentarsi della Gallia sulla scena, e col crescere della sua
importanza, nasce un nuovo dibattito. Quali sono le origini
dell’aristocrazia franca?
Alla base c’è ovviamente l’incontro del mondo barbaro con le
strutture aristocratiche del mondo romano presenti nel territorio.
Allo stesso modo bisogna notare come mancava una nobiltà
germanica di sangue, che poteva poi opporsi alla salita al trono dei
Merovingi. Non a caso un dibattito che interessa la nobiltà tedesca
vede opporsi due fazioni: una che vedeva i germani come una società
di liberi ed eguali; l’latra come un agglomerato di popoli inquadrati da
aristocrazie aventi diritti carismatici ed ereditari di dominazione.
I proceres (i nobili) di stirpe franca emergevano rispetto alla loro
vicinanza al sovrano. Questi però quando svolgevano delle
opposizioni al potere, che non fossero semplici resistenze di popolo,
seguirono gli schemi di comportamento suggeriti dalla sola nobiltà
che in Gallia c’era allora: i potentes gallo-romani, per la maggior parte
vescovi.
33 CENTRO ITALIANO DI STUDI SULL’ALTO MEDIOEVO, Nascita dell’Europa ed EuropaCarolingia: un equazione da verificare, tomo primo e secondo, Spoleto 1981. pagg. 39-40-41-42.
143
Appunto il sistema ecclesiastico resta al centro della
trasformazione della Gallia.
Le varie popolazioni germaniche vengono di volta in volta
inquadrate in un episcopato di cultura aristocratica che, anche se
semplificato nelle sue organizzazioni, risulta una vittoriosa
organizzazione fin dal VI secolo nella Gallia dei Franchi. Nonostante
subiscano variazioni e riduzioni in età merovingia rispetto a quella
antica, quel via via reinterpretato sarà sempre alla base di ogni
progetto di riforma.
Ma l’assetto dell’episcopato sarebbe ancora mutata.
Infatti non vi è dubbio che il prelato dell’età carolingia, uscito
dalle riforme dell’VIII secolo, fu un personaggio diverso, per
l’inquadramento nell’impero franco e per le sue connessioni con
un’aristocrazia diversa, di impronta militare, rispetto al vescovo gallo-
romano.
La rinnovata capacità di inquadrare le popolazioni e il suo
legame col potere politico era il risultato del modo in cui la sacralità
venne esercitata, rifacendosi ad un tutt’uno con la sostanza della
cultura romana-ellenistica, che non era stata dimenticata, alla vigilia
delle incursioni barbariche, anzi si può dire che la nuova paideia
realizzò capillarmente quella antica, istituzionalizzando la
predicazione ecclesiastica in forme via via più semplificate, per
avvicinarsi a tutti gli strati della popolazione.
L’episcopato, e in modo particolare quello gallo-romano, fu la
forza di organizzazione intorno a cui si andò costituendo, su basi
aristocratiche antiche incentrate nelle città, un Occidente latino
destinato a trasformarsi, attraverso poi un lungo processo di
adattamento delle popolazioni, nell’Europa dei Carolingi.
144
Dai primi vescovi romani che preannunziavano in Gallia, il
graduale riordinarsi della vita cittadina intorno all’apparato
ecclesiastico, con la supremazia delle città episcopali su i centri rurali,
si passò ai vescovi gallo-romani e all’abbandono dei centri urbani per
ritornare nelle villae dove, in virtù dell’apparato ecclesiastico, si
sviluppò una cultura religiosa gerarchicamente unificante che portò
all’egemonia del territorio rurale. L’alto medioevo ci appare, sul piano
economico, il trionfo del mondo dei campi sulla collettività urbana.
I vescovi imposero così una continuità tra l’episcopato e il
controllo della popolazione, stessa cosa che fece il monachesimo
potenziando, attraverso l’efficacia delle aristocrazie locali,
l’episcopato sull’intera società gallo-romana, fino alla dominazione
dei Franchi.
Si arrivava così ad avere un’egemonia morale altrettanto salda
quanto in passato era quella della nobiltà senatoria.
Sotto il profilo militare i Franchi agirono all’inizio come
foederati dei romani. La loro partecipazione si intensificò con le
guerre contro Visigoti e Burgunti che cercavano espansione in Gallia.
In virtù di questo legame fu facile per Clodoveo, entrato in relazione
con l’episcopato, inserire le proprie conquiste nel contesto romano-
germanico. Tanto più che l’episcopato, come soluzione del problema
militare e politico, gli offriva il riconoscimento gallo-romano di re dei
Franchi nonché la dominazione e pianificazione della Gallia.
L’inserimento dei franchi nel tessuto di un’aristocrazia oramai sorretta
dall’episcopato fu il modo in cui la Gallia poté assumere una funzione
di guida e restaurazione in Occidente.
145
8. Conclusioni personali
Secondo il nostro punto di vista, è una novità assoluta un legame
così stretto tra l’episcopato e la nuova dominazione. Anzi, si può
affermare che si tratta sicuramente di un punto di forza sul quale
poggerà anche la futura amministrazione carolingia. Un legame quindi
destinato a progredire, fino a coinvolgere le due massime istituzioni
d‘occidente: il papa e l’imperatore.
Ma il processo che porta alla formazione dell’Europa resta
strettamente legato, secondo il nostro parere, alla trasformazione che
porta l’impero romano ormai in decadenza, attraverso numerosi
cambiamenti, alla nascita dell’impero carolingio, classificato un po’ da
tutti come il predecessore dei futuri stati nazionali.
Ma andiamo con ordine.
Prima vorremmo aggiungere un concetto che crediamo venga
fuori osservando lo sviluppo della storia istituzionale di oriente e
occidente.
I due “imperi” hanno uno sviluppo diametralmente opposto.
Se l’oriente può dirsi, o meglio sentirsi, continuatore dell’impero
romano, mantenendo cariche e forme di governo imperiali, e
addirittura cercando, vedi la campagna di Giustiniano, di ricucire
insieme le due parti dell’impero, l’Occidente vede lo sviluppo di una
serie svariata di etnie.
La causa di questo sviluppo, che poi culminerà con il progressivo
affermarsi del popolo franco, crediamo vada cercato in due aspetti che
furono tanto innovativi quanto le conseguenze che portarono:
- in primis, l’apertura dei confini romani, riconoscendo il diritto
di cittadini romani non più solo al popolo di Roma, ma a tutti i
146
membri dell’impero. Riconoscimento che più avanti toccherà anche le
popolazioni barbare che entreranno a far parte dell’impero col titolo di
foderati.
- in secondo luogo, l’evento che sconvolgerà un po’ tutto
l’Occidente, ossia le invasioni barbariche.
Col crollo nel 476 del impero romano d’occidente, tutto il
territorio che fino a quel tempo aveva visto l’egemonia romana dettare
legge viene diviso tra invasori longobardi, visigoti, franchi, etc.
Il paragone che potrebbe ancora venire fuori nella formazione
dell’Europa paragonata allo sviluppo orientale è, secondo i testi che
abbiamo studiato, una sorta di immobilità nelle istituzioni
contrapposta alla duttilità che contraddistingue l’occidente.
Crediamo sia proprio questa duttilità, questo essere incline alla
trasformazione, molto più nell’occidente, a portare alla formazione di
quelli che poi chiameremo stati nazionali e alla formazione
dell’Europa.
Infine, l’Europa resta un concetto unitario che quindi per
affermarsi avrà bisogno che tutti i nuovi popoli, formatesi dal
mescolarsi delle popolazioni barbare con i romani e con gli indigeni
ancora presenti sul territorio, sentano di essere parte comune di un
unico “Impero”, quello appunto franco.
147
CAPITOLO VI
1. Un impero, tante identità: un’introduzione personale
Prima di iniziare a trattare l’argomento del sesto capitolo ho
creduto importante fare una precisazione su come questo da me sarà
articolato.
Visto che il capitolo che segue sarà quello che cercherà di dare
una spiegazione al titolo e all’argomento scelto per la mia tesi. Ho
deciso di seguire la seguente struttura.
Prima di trattare più approfonditamente il concetto di identità, o
meglio delle identità, ho deciso di dedicare la prima parte a spiegare
come queste si andarono formando, agevolate -e come- dal modo di
amministrare l’impero e dalle sue istituzioni. Presenterò così prima dei
dati storici inerenti allo sviluppo delle istituzioni nell’impero di Carlo,
per poi mostrare come le scelte del sovrano, vuoi per una classe
aristocratica troppo egoista, o ancora immatura per non cadere nella
tentazione del potere (oggi non penso sia diverso), portarono ad
indebolire il potere centrale e a rafforzare i piccoli proprietari. Infine
lascerò spazio a delle considerazioni personali.
Sperando di essere stato chiaro, mi accingo ad analizzare i fatti.
148
PRIMA PARTE
2. Il re e il rapporto con i sudditi.
Il re era l’istituzione fondamentale del regno e in esso esercitava
un potere sovrano su tutti, senza distinzioni di rango o nazionalità.
Eppure un potere così assoluto non aveva niente di una tirannide.
Era più una regalità salvifica, modellata sull’esempio dei re
d’Israele, di cui Carlo si considerava successore.
Carlo assumeva così la figura di “rex et sacerdos”, ma attenzione,
questa figura era diversa dai “re-sacerdoti” passati. Era più una figura
retorica: Carlo non si sarebbe mai sognato di salire sull’altare e
cantare messa. Ma al tempo stesso era l’unto dal Signore, consacrato
dai vescovi, perciò neppure considerabile un laico come gli altri.
L’incoronazione dell’800 forniva una dimensione imperiale alla
sua regalità34.
Interlocutore diretto di Dio, il re dei Franchi fungeva da
mediatore fra cielo e terra. Questo suo ruolo si attuava in una
sequenza ripetuta ogni anno con immutabile regolarità. L’assemblea di
primavera si radunava intorno al re per approvare le sue decisioni e
ascoltare i suoi ammonimenti.
Diversamente dai monarchi di un età successiva, il sovrano
franco non dovrà rendere conto del suo operato solo a Dio, ma anche
al popolo.
Si hanno due legittimazioni diverse del potere regio: la volontà
divina e il consenso del popolo franco. Questo era il compito
dell’assemblea di primavera. Ma i due parametri coesistevano non
34 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pagg. 160-161.
149
senza ambiguità. Da un lato il colloquio del re direttamente con Dio,
rendeva sempre meno accettabile il fatto che fosse sottoposto al
giudizio degli uomini; dall’altro la responsabilità verso tutta la
cristianità faceva diventare insufficiente il consenso solo dei franchi, e
da qui la ricerca di un altro modo di rapportarsi con la totalità, che si
tradusse col giuramento collettivo di fedeltà.
L’assemblea annuale era dunque la sede dove si esprimeva la
concordia tra il re e il suo popolo. Le ordinanze su cui il sovrano
rifletteva tutto l’inverno, traevano la loro validità proprio
dall’appoggio della collettività. Queste assemblee conservano una
memoria scritta dal 596 (re Childeberto).
L’assemblea subì, delle modifiche nell’epoca di Carlo.
La sua convocazione fu spostata dalle Calende di Marzo ad una
data più avanzata, e mentre l’esercito franco cresceva, cresceva anche
il numero dei membri. Inoltre la presenza sempre crescente dei
vescovi sconsigliava di convocare l’assemblea nel periodo in cui si
avvicinava la Settimana Santa.
L’assemblea cessò di essere anche la <<riunione di tutti i
Franchi>> quando iniziarono a riunirsi in assemblea solo i magnati
ecclesiastici e laici, vescovi, abati e conti.
Altra novità introdotta da Carlo fu lo sdoppiamento
dell’assemblea. Oltre al raduno di primavera, che aveva preso
ufficialmente il nome di Campo di Maggio, solita però a riunirsi a
Giugno e a volte anche a Luglio, veniva convocata un'altra assemblea
in autunno.
In questa, a così poca distanza dalla prima, il re convocava però
coloro a cui intendeva trasmettere istruzioni precise. Ad esempio i
missi dominici, incaricati di mettere in atto qualche nuovo
150
provvedimento.
Una domanda a questo punto sembra lecita, ma in che grado
l’assemblea era capace di condizionare la volontà del sovrano?
In tale circostanza era chiaro che i rapporti di forza sono
fondamentali, e tutto ci fa pensare che una figura così potente come
Carlo, abbia goduto di una totale autonomia.
Le scelte del sovrano erano si accompagnate da conclusioni del
tipo <<tutti acconsentirono>>, ma ciò significava accettazione della
volontà regia e impegno ad obbedire.
Certo per introdurre nuove leggi doveva sottoporle
all’accettazione collettiva, ma altre scelte, come andare in guerra,
erano prese da lui perché lui era il sovrano, e la possibilità che
qualcuno rifiutasse di obbedire non è neppure presa in considerazione,
anche se il fatto che le leggi bisognassero della firma di tutti i suoi
sudditi, mostrava come il suo potere poggiava su un principio
consensuale.
Un altro aspetto del rispetto per la volontà del popolo si ha anche
nella Divisio regnorum dell’806, dove Carlo ultrasessantenne
stabilisce che alla sua morte il regno venga suddiviso tra i suoi figli.
Altro problema che la prima forma dell’assemblea dava era un
consenso ormai ristretto e la necessità di un consenso maggiore, non
ristretto solo al popolo franco, si profilava grazie al ricorso al
giuramento di fedeltà.
Come linea di principio, l’obbedienza al re era dovuta già solo
dall’essere nati in un paese a lui soggetto.
Da qui prendeva base l’affermazione del potere regio.
Questo era un potere territoriale, del tutto identico a quello di uno
stato odierno.
151
Ma a superare il legame di questo valore, che verrà rivalutato più
avanti, c’era il legame dovuto al giuramento di fedeltà,
importantissimo per una società dal grossissimo valore sacrale.
Ciò spiega perché Carlo chiedesse ai suoi sudditi un giuramento,
ma al tempo stesso vietasse loro di associarsi con lo stesso atto.
La questione della fedeltà è comunque attiva nell’impero di
Carlo.
Nella primavera del 788 ad esempio, si concludeva la questione
della Baviera con l’assemblea di Ingelheim. Il duca di Baviera
Tassilone, accusato di aver rotto il giuramento di fedeltà, portò allo
scoppio del conflitto tra lui, principe indipendente, e il re franco. Ma
numerose sono le testimonianze sulla fedeltà e sul modo per
garantirla, come nel 789 quando i missi dominici furono spediti nelle
diverse provincie del regno con l’incarico di far giurare tutti gli
uomini liberi.
Il giuramento dovette essere prestato in maniera molto irregolare,
vista la concreta difficoltà dell’impresa. Ciò comunque non impedì
quello che Carlo temeva, ossia un'altra congiura. Nel 792 infatti ne fu
ordita una addirittura dal primogenito Pipino il Gobbo. Inquietato
dopo la rivolta familiare, era un evento questo che si verificava per la
prima volta, Carlo ordinò che si provvedesse a rinnovare il giuramento
collettivo.
L’atto con cui Carlo ordina ai missi il giuramento del 793, uno
dei più importanti dell’amministrazione carolingia, mostra come il re
prendesse la faccenda sul serio.
I missi , a ciascuno dei quali fu affidata una grande
circoscrizione, dovevano far giurare personalmente vescovi, abati,
conti, vassalli regi e altri dignitari ecclesiastici. Ogni abate era
152
responsabile di tutti i suoi monaci, ogni conte dovette garantire il
giuramento di tutti gli abitanti della sua contea dai dodici anni in su.
Questo è forse l’affermazione più perentoria dell’autorità regia,
mai spinta così lontano in passato. Solo gli schiavi che lavoravano per
i latifondisti privati riuscivano a sfuggire al controllo del re.
Il giuramento di fedeltà di tutti i sudditi venne rinnovato
nell’802, dopo l’incoronazione imperiale.
Qui davvero si nota come Carlo fosse ossessionato da questo
giuramento e dalla sua valenza. Egli pensò però che un giuramento
fatto ad un re doveva mutare ora che la sua carica era mutata, o
almeno andasse confermato e ampliato. Inoltre, e credo sia questa la
cosa da sottolineare, Carlo pensò che molti giovani avevano compiuto
dodici anni dopo il 793, e quindi non avevano mai giurato.
Il nuovo giuramento tendeva a rimarcare l’importanza del gesto,
sottolineando che chi disobbediva era considerato spergiuro.
Questo, come abbiamo già detto, è il punto più alto raggiunto
dall’idea di potere regio nell’Europa romano-germanica.
L’obbedienza al sovrano è dovuta:
- non solo perché si appartiene al suo popolo;
- ma è rafforzata da un impegno religioso assunto personalmente.
Il giuramento si rinnovò ancora nel Marzo 806, con
l’approvazione della Divisio regnorum, e nell’811 tre anni prima della
sua morte.
153
3. Il governo
3.1 Struttura centrale
Il regno franco non aveva una vera e propria capitale, il re infatti
si spostava in continuazione convocando in primavera sul teatro delle
operazioni militari il raduno dell’assemblea.
Nei palazzi invernali trascorreva l’inverno, fino a passare lì il
Natale e la Pasqua.
A partire dal 794, Aquisgrana cominciò ad essere la residenza
preferita del re e il più importante di tutti i palazzi. E’ importante
sottolineare come però questa non fu mai una capitale ma solo una
residenza preferita, si dice per la sua vicinanza alle acque termali di
Heristal.
Ancora, la crescente durata dei soggiorni è legata all’avanzare
dell’età. Rare infatti furono le volte che lascerà Aquisgrana dopo
l’807.
Con la mancanza di una capitale assume maggiore importanza il
palatinum, termine indicante il complesso numero di collaboratori
personali del sovrano che lo seguivano in tutti i suoi spostamenti.
Deposta, per ovvi motivi, la carica di maestro di palazzo, la
carica maggiore del palatinum fu il cosiddetto conte palatino, che
aveva il compito di esaminare gli appelli giudiziari inviati al palazzo,
risolvere quelli più semplici e istruire le pratiche da sottoporre al
sovrano.
Altri elementi erano un custode del tesoro, un bottigliere
responsabile delle cantine, un connestabile volto a curare i
rifornimenti dei cavalli del’esercito.
Tutti questi ministri avevano al loro seguito una schiera di
154
collaboratori.
I ministri erano comunque tutti uomini di fiducia dell’imperatore,
a contatto quotidiano con lui35.
Facevano parte del palazzo anche i cappellani, ossia gli
ecclesiastici addetti alla cappella dov’era custodita una preziosa
reliquia, la cappa di San Martino.
I cappellani, chiamati così forse proprio per il nome della
reliquia, officiavano la messa a palazzo e non è strano pensare che
quando il re doveva designare un nuovo vescovo la scelta cadesse su
uno di loro. Alla testa dei cappellani, c’era l’arcicappellano, che non
era solo responsabile della liturgia, ma anche la massima autorità
religiosa del regno, ottenendo poi per due di loro, Angilramo e
Ildebaldo, la nomina ad arcivescovo da parte del papa.
Era lo stesso arcicappellano a proporre un cappellano quando
c’era l’assegnazione di un episcopato. Il potere dei cappellani non
mancò di suscitare critiche. Chiaro era che i vantaggi di cui questi
godevano suscitavano le antipatie di molti.
Altra carica dei cappellani era redigere i diplomi e forse anche la
corrispondenza dei capitolari.
Alla Cancelleria gestita dagli ecclesiastici di corte si affiancava
anche un archivio. Ma queste sono due strutture che vanno si
considerate ma che avevano comunque un potere limitato e
subordinato a quello del sovrano.
35 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pagg. 167-168.
155
3.2 Il governo Locale
Così vista, la squadra di governo di Carlo sembra scarna,
incapace di governare un territorio immenso.
La soluzione consisté nell’applicare al regno un sistema
amministrativo il più possibile omogeneo estendendolo ai territori di
nuova adesione.
Giunto all’apice della sua espansione, il regno carolingio era
diviso in parecchie centinaia di province, con a capo di ciascuna un
delegato dell’imperatore, il conte. Tale sistema, già in utilizzo presso i
re franchi, ci fa capire che Carlo non divise il suo regno in contee, ma
potenziò un sistema di deleghe ben radicato nel governo locale franco.
Al tempo stesso il sovrano estendeva la suddivisione in contee a tutti i
territori conquistati, accelerandone così l’integrazione. Dal 776 al 788
l’organizzazione in contee si estese su: Italia, Turingia, Sassonia e
Baviera.
Nel linguaggio amministrativo, la provincia affidata al conte
prende il nome di pagus, per lo più l’equivalente di una città romana.
Ci sono zone di parecchi pagi, che sono sottomesse all’autorità di un
solo conte. Dal termine pagus deriva il nostro “paese”.
Ma anche un altro termine inizia ad affermarsi: comitatus.
In Gallia, e ancor più in Italia, la contea poteva coincidere anche
con la diocesi ecclesiastica, e diocesi molto grandi comprendevano al
loro interno numerose contee.
A volte ad un conte corrispondeva un vescovo, e quindi si
trovava a convivere in un rapporto paritario; altre volte a più conti
corrispondeva un solo vescovo.
Il conte quindi esercitava un controllo, in un’amministrazione
locale suddivisa tra vari interpreti. Il limite delle sue capacità di
156
intervento era dato proprio dalla presenza di possedimenti
ecclesiastici, chiamati diplomi di immunità, e dove il conte per
esempio non poteva intervenire per arrestare un criminale.
Nella sua provincia , mediamente grande quanto una odierna
provincia italiana, il conte era a tutti gli effetti il rappresentante del
sovrano ma, nella circoscrizione a lui affidata, il conte non era un
sovrano,solo un semplice delegato dell’imperatore che poteva
licenziarlo a suo piacimento. Era insomma un funzionario pubblico al
quale si richiedeva la dote di comando36.
Non mancano casi in cui una famiglia si trasmette l’incarico
comitale di generazione in generazione (il comitato del conte di
Oberrheingau, nell’alto Reno, fu in mano alla progenie di Ruperto dal
764 all’807).
I conti erano per lo più uomini molto ricchi che disponevano di
grandi proprietà e di reti parentali ad alto livello.
Carlo prevedeva inoltre per i conti che questi avessero a
disposizione un’aggiunta alle loro entrate personali, facendogli
trattenere un terzo di tutte le ammende. Ma la base dell’economia
carolingia più che il danaro erano, la terra e i suoi raccolti.
Così Carlo assegnò loro una parte del territorio che dovevano
controllare.
Sul piano giuridico le assegnazioni sono considerate come parte
integrante dell’ufficio comitale. Questa assegnazione, per noi che
sappiamo come andarono le cose, insieme alla già diffusa usanza di
accumulare i benefici saranno la base di gravi conseguenze per
l’impero.
C’è poi chi parla anche di marche, affidate ai marchesi, oltre alle
36 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pagg. 175-176-177.
157
contee.
Ma le cose non stanno proprio cosi. Le circoscrizioni
fondamentali sono le contee. Marca era il nome che rappresentava
delle are sul confine cristiano-pagano. In queste zone c’era la
possibilità che il conte si trovasse a fronteggiare con le proprie forze
di raggio limitato per difendere il confine da eventuali aggressori.
Vennero perciò creati sul confine dei comandi militari, che a
volte prendevano il nome romano di limes. Abbiamo così limes
Avaricus (verso la Pannonia); limes Hispanicus (oltre i Pirenei); e il
limes Britannicus (confine con la Bretagna).
Queste circoscrizioni, assai più ampie dei comitati, non miravano
a sostituirli, ma ad incorporarne i più possibile, coordinandone lo
sforzo militare. Il coordinare le forze militari di confine viene indicata
con l’assunzione del titolo di duca.
Continuando l’analisi del corpo amministrativo franco, Carlo in
molti capitolari indica come suoi rappresentanti nelle provincie,
immediatamente sotto i conti, e in posizione però migliore di vicari, i
cosiddetti vassalli regi, o vassi dominici, notabili che entravano al
servizio del re giurandogli fedeltà e impegnandosi a seguirlo in guerra,
con una squadra di seguaci armati a loro spese, m in generale a
disposizione per qualsiasi incarico finche erano a palazzo.
Questa connotazione di servizio domestico è quella originaria del
vassallaggio, usanza che non venne mai dimenticata.
L’abitudine volle che il vassallo del re, quando aveva ben
meritato, riceveva come ricompensa un beneficio ritagliato dal fisco.
I vassalli così integrati capillarmente nelle province garantivano
una cinghia di comunicazione capace di unire il governo locale in
collaborazione con i conti. Oltre quindi alla divisione in contee, i
158
territori di nuova conquista erano sistemati anche con l’immissione di
vassalli regi sul territorio.
Il vero problema restava dunque il controllo sull’operato dei
conti, scoperto solo dai successori di Carlo. Molti di loro
rappresentavano nell’assemblea annua l’occasione per rendere conto
del loro operato al re. Ma per reprimere gli abusi era necessario
controllare quello che i conti facevano nel fondo delle loro provincie.
Visto che ogni contea faceva capo ad un rilievo, il re già poteva
contare sul vescovo locale e, nell’813 dopo aver ribadito il fatto che
conti e vescovi dovevano andare d’accordo, chiarì che nel caso di
contrasto soprattutto in sede giudiziaria erano i conti a dover obbedire
al vescovo. Accertandosi anche sui comportamenti dei primi.
Ma l’istituzione che nasceva col compito di controllare l’operato
dei conti era rappresentata dai cosiddetti missi dominici. Un missus è
semplicemente un inviato del re, munito di pieni poteri, che riceve un
incarico e si reca sul territorio per svolgerlo.
Il messo era un po’ concepito come un’estensione della figura
fisica del re, tanto che la resistenza armata contro di lui era
considerata lesa maestà e punita con la morte. Inoltre questo
rappresenta lo sforzo maggiore di centralizzazione amministrativa e
razionalizzazione delle procedure di governo tentata da Carlo.
Per gran parte del regno di Carlo i messi dominici vennero
nominati volta per volta al momento del bisogno,in gruppi di due o tre
o quattro, e occasionalmente anche da soli, per le missioni a carattere
più specifico. Quando si organizzò il giuramento di fedeltà di tutti i
sudditi (789, o nel 793), l’intero territorio venne diviso in ambiti
operativi assegnati a dei missi. Ma fonti ci dicono che questi
personaggi non fossero affatto insensibili alla corruzione, anzi, scelti
159
spesso tra i vassalli che ancora vivevano a palazzo e quindi non ancora
possessori di benefici che potevano permettergli di vivere del proprio,
erano molto sensibili alle bustarelle.
Dal 802, il re decise di mandare quindi sotto questo incarico
prelati e conti. Ma comunque figure di quelle classi sociali ricoprivano
la carica di missi, quindi forse Carlo rese più ristretto l’ambito di
qualifica di quella carica.
La circoscrizione territoriale assegnata in permanenza ad una
coppia di missi, prende il nome di missaticum. I criteri di queste zone
di missione vennero fissati con criteri essenzialmente geografici,
seguendo poco quelli dei comitati e delle diocesi. I personaggi ai quali
veniva assegnata questa carica, venivano scelti elle medesime aree o
nelle immediate vicinanze.
Cosa strana, credo per un maggiore praticità, Carlo stabilì che
solo la parte occidentale rientrasse nel missaticum.
Nell’802 Carlo affidò a un certo numero di arcivescovi, abati ,
conti, di cui si fidava maggiormente, il compito di sorvegliare tutto
l’apparato amministrativo ed ecclesiastico, assegnando a ciascuno
un’aera molto ampia, ma comoda da amministrare, perché
comprendente già la sede in cui abitualmente operava.
I missi perdevano così quell’aspetto iniziale che li vedeva come
inviati di palazzo, estranei alla zona che dovevano controllare.
Venivano ora (come forse anche in passato anche se in numero
minore) scelti personaggi locali fortemente legati, per l’ufficio,
all’area in cui dovevano operare.
Non bisogna però esagerare nel sottolineare la regolarità del
sistema. Spesso ad ogni missaticum non era attribuita una coppia di
missi. Questi potevano essere tre, o quattro, composti però sempre da
160
figure laiche (conti) e figure ecclesiastiche (abate, arcivescovo).
Il sistema insomma non era ancora del tutto burocratizzato come
invece avverrà con Ludovico il Pio, quando ad ogni arcivescovo
saranno attribuite le funzioni di messo del territorio della sua
arcidiocesi.
Un altro importante aspetto nell’amministrazione dell’impero era
l’uso dello scritto.
La religione era la religione del libro e richiedeva a tutti i
ministri del culto una competenza nell’uso della lingua scritta.
Il sistema giudiziario si fondava su tradizioni giuridiche
conservate per iscritto e anche la prassi governativa incoraggiava un
largo uso della documentazione scritta.
L’uso dello scritto è conservato e documentato a tutti i livelli,
nelle assemblee e nei rapporti di Carlo con i suoi funzionari.
Anche gli intendenti che amministravano la proprietà. Il
Capitulare de villis infatti stabilisce che essi debbano registrare per
iscritto ciò che consumano, spendono e comunicare inoltre la
consistenza delle scorte.
3.3 Il ruolo governativo degli uomini di chiesa.
Nel quadro fin qui presentato viene fuori come i conti siano veri
e propri funzionari pubblici.
Ma quella dei conti è solo metà dell’organizzazione
amministrativa.
Il controllo del territorio, l’inquadramento delle popolazioni, il
mantenimento dell’ordine pubblico, erano esercitati da Carlo,
attraverso la Chiesa.
Vescovi e abati erano i pilastri dell’ordinamento pubblico,
161
rispondendo all’imperatore come se fossero funzionari nominati da
lui.
E’ questo grandissimo coinvolgimento nelle attività di governo
dei prelati che carica di forte ambiguità le istituzioni caratteristiche
dell’Europa Carolingia.
Il re era abituato e servirsi dei vescovi come d’un personale
politico, perché culturalmente più qualificato dei suoi ministri laici,
capillarmente inserito nel territorio e abituato ad operare secondo linee
gerarchiche ed era ottimo per l’esecuzione degli ordini. Nella stessa
persona andavano confluendo quindi due incarichi: quello
ecclesiastico e quello governativo. Inoltre se il vescovo, a cui sono
affidate anche le cariche governative, è un metropolita (è a capo di un
certo numero di vescovi), usa i suoi vescovi suffraganei per
l’esecuzione locale.
Spesso anche i conti si vedranno trasmettere dal vescovo l’ordine
del re e risponderanno a lui dell’esecuzione.
Parlare di vassi e conti da un alto, e vescovi e abati dalla altro
come due gerarchie separate è chiaramente impossibile. E’ chiaro che
questi, pur con ambiti di azione parzialmente diversi, si consideravano
come membra di un unico organismo governativo, con a capo, per
volontà di Dio, il sovrano.
Entrambi erano a carica di un ministerium, un incarico di
governo affidato loro dal re e tanto bastava perché dovessero
obbedirgli37.
Ma se l’impegno politico portava i vescovi ad occuparsi di
faccende estranee alla loro vocazione pastorale, è anche vero che
l’impegno politico a loro richiesto era inferiore rispetto al passato.
37 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pag. 190.
162
Al tempo dei Merovingi, i vescovi delle Gallie si erano visti
attribuire poteri fiscali, giudiziari, militari, e a volte col declino
dell’autorità regia se ne erano impadroniti autonomamente, dando vita
a repubbliche episcopali.
Nell’epoca di Carlo il potere dei vescovi viene molto ridotto,
lasciando loro la possibilità di amministrazioni fiscali e personali solo
nell’ambito della chiesa, o delle ammende che i conti devono versare
al vescovo locale.
Resta perciò la disponibilità di queste figure di trasmettere e far
eseguire gli ordini del re, di legare insieme le varie parti del regno e di
sorvegliare su ordine del re l’operato dei conti, che permette di
considerarli a tutti gli effetti funzionari pubblici.
In Occidente, la nomina del vescovo, fondamentalmente affidata
al clero, era poi quasi sempre manovrata dal sovrano.
Il re sceglieva quindi le persone più meritevoli e adatte a
ricoprire la carica, invogliato anche nel caso di Carlo dal suo titolo di
protettore della cristianità.
Si spiega così il gran numero di vescovi provenienti dalla
cappella regia.
Ovvio era che se il re faceva i vescovi, poteva anche disfrali.
Notker ad esempio visto che la parola vescovo, nel suo
significato etimologico significa <<sorvegliante>>, chiama Carlo
“vescovo dei vescovi“.
La notizia della morte di un vescovo mobilitava la corte. Tutti i
ministri avevano dei loro candidati che appoggiavano per l’elezione
alla carica vacante. Tante sono le storie che accompagnano le elezioni
dei vescovi.
Le sole occasioni dove era necessaria l’approvazione del papa era
163
per quei vescovi d’Italia che risultavano suffraganei della sede di
romana, oppure per la nomina di un arcivescovo. In questi casi
dipendeva molto dalla personalità del papa e nel modo di sapersi porre
verso l’autorità regia. Ad esempio Carlo ebbe vita più facile con
Leone III, più sottomesso di Adriano. Con a capo della sede papale
Leone III, Carlo decise ad esempio di trasformare il vescovado di
Salisburgo in arcivescovado, per farne il centro dell’attività
missionaria di pace con gli Avari. La richiesta, formalmente presentata
dai vescovi della Baviera, fu accolta di buon grado dal papa che
nominò il loro confratello Arno arcivescovo di Salisburgo.
Il modo in cui papa Leone III si rivolse all’imperatore per
informarlo dell’effettuata trasformazione era un modo umile, quasi
come di un funzionario che esegue un ordine. In quegl’anni il sovrano
era davvero a capo della gerarchia ecclesiastica, col papa suo
subordinato. Addirittura, gli abati dovevano il loro posto al re. Tra
queste c’erano abazie dotate di robuste terre fiscali che optarono per
raccomandarsi al sovrano, ponendosi sotto la sua protezione.
Spesso erano gli stessi vescovi a presentare il candidato per la
loro successione, ma il regolamento che Carlo aveva emanato
dimostra come egli poco si fidasse di queste presentazioni.
La carica ecclesiastica venne assimilata a quella pubblica e
considerata anche essa come un beneficio.
Il termine beneficio, designava qualsiasi cosa buona, terre,
rendite, incarichi, che un uomo poteva detenere non in piena proprietà,
ma per concessione benevola e revocabile dell’imperatore.
Certo è che con il benefico non si intende l’incarico, ma i
possedimenti annessi a quest’ultimo, anche se la distinzione non
risultava così decisiva.
164
Vescovadi e abazie finirono per essere considerati benefici come
il governo di una contea che il re attribuiva a proprio piacimento.
L’abitudine di equiparare i prelati ai vassalli del re fu contestata, ma
dopo la morte di Carlo. L’arcivescovo di Remis, nel 858 disse << le
Chiese a noi affidate da Dio non sono una specie di beneficio o
comunque di proprietà del re >>.
4. Le Risorse dell’Impero
4.1 Il demanio pubblico
Elemento essenziale dei possedimenti regi erano i possedimenti
demaniali, o fiscali.
La parola fisco, prima di specificare la riscossione di tasse,
designava il patrimonio e le entrate del re.
I possedimenti fiscali franchi erano regolarmente ampliati ad
ogni conquista. Mezzo milione di persone lavorava nell’impero
carolingio su terre fiscali e, non avendo altro padrone che il re, tutto
quello che producevano era a disposizione del sovrano che sapeva
bene come usarlo.
Il modello di ripartizione resta però molto disordinato,
accompagnando a luoghi con una forte dispersione, luoghi di forte
concentrazione.
Fatta una stima, al fisco regio di Carlo confluivano: tutti i
possedimenti della famiglia pipinide e i possedimenti della Chiesa.
Tutto comprendeva più o meno duecento vescovadi, oltre
seicento monasteri con possedimenti vastissimi.
I patrimoni ecclesiastici erano alimentati da donazioni del re, ma
comunque questi possedimenti erano considerati possedimenti
165
pubblici le cui entrate erano a disposizione del re.
Considerando vescovi e abati come uomini che dovevano a lui il
suo incarico, trovava del tutto naturale che questi mettessero a sua
disposizione le entrate delle loro chiese.
Attribuire ad un vescovo o ad un abate grossi possedimenti
fondiari di origine fiscale, ossia di proprietà del sovrano, significava
solo attribuirgli più direttamente la responsabilità di far fruttare quei
possedimenti, sempre per conto del re.
Molte villae demaniali erano vere e proprie residenze regie,
attrezzate con un palatinum in cui il sovrano e il suo seguito potevano
risiedere e approvvigionarsi a sufficienza.
Questo era reso possibile dalle scorte conservate nei magazzini e
dai convogli mandati dalle aziende vicine una volta saputo che il re
stava per arrivare. La regolarità con cui queste erano dislocate fa
pensare ad un vero e proprio sistema di tappe.
Oltre al poter soggiornare nei propri possedimenti fiscali, i
vescovi avevano l’obbligo di ospitare il re a proprie spese se ne
presentava la necessità.
Ma non bisogna pensare che Carlo andasse in giro a consumare
le scorte delle aziende, anzi, spesso i beni prodotti restavano
immagazzinati e il re dava precise indicazioni per far si che non
venissero persi. Andavano per esempio ad aumentare i rifornimenti
militari se l’esercito era impegnato in qualche campagna.
Un passo avanti fu fatto da Carlo più avanti, destinando ogni
gruppo di
villae ad un compito, dal sostentamento del sovrano al destinare
le proprie eccedenze all’esercito. Il controllo di questa gestione
ovviamente spettava al gerente responsabile verso il sovrano di un
166
grosso numero di aziende.
Anche le ricchezze ecclesiastiche erano messe a contribuzione
per conto del fisco, soprattutto i monasteri che sorgevano nelle aree
più spesso visitate dal sovrano e che collaboravano al suo
mantenimento, ad esempio l’abazia di Saint Denis che ogni anno era
obbligata a consegnare, visto il suo grande vigneto, qualcosa come
diecimila litri di vino ai gerenti d’una villa adiacente.
Vescovi e abati dovevano convogliare ogni anno, presso la
residenza dell’imperatore, delle forniture che pudicamente
chiamavano dona ma che erano veri e propri tributi. Non è neanche
sbagliato chiamarli <<regali>> perché nell’italiano colloquiale,
etimologicamente significa <<qualcosa che spetta al re>>38.
Fare dei regali al re, significava riconoscerne la supremazia e
avviare un circuito di reciprocità che il re era obbligato a rispettare,
mostrando il suo favore al donatore.
Ciò valeva anche per i figli del sovrano. Ludovico il Pio infatti
stabilisce che i due figli minori dovranno essere subordinati al
maggiore e portargli ogni anno adeguati regali.
Altro modo per sfruttare i possedimenti ecclesiastici consisteva
nel far pagare, ai coloni di alcuni possedimenti ecclesiastici di grosse
dimensioni, sia l’affitto ai monaci, sia un censo al re.
Non tutti i monasteri avevano gli stessi obblighi. In linea di
principio questi gravavano su i monasteri regi, ossia quelli che erano
stati fondati dal re o comunque s’erano raccomandati a lui.
Il fatto che il re controllasse questi monasteri, fa si che potesse
assegnarli come benefici a conti locali, con l’intenzione che questi
avrebbe potuto utilizzarlo per mantenersi nell’ufficio, cosa che però
38 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pag. 208.
167
poteva portare i conti a sfruttare fino all’osso la manna ricevuta.
Altra pratica usata, e anche forse più sicura, era di nominare
direttamente abati quei collaboratori che il re voleva ricompensare per
il loro servigi. Ad esempio Alcuino, uno dei più noti intellettuali di
palazzo di Carlo, nel 796 venne insediato come abate nella ricchissima
abbazia di San Martino a Tours.
La nomina ad abate, va precisato, non obbligava il farsi monaco.
Nascono così quelle figure che prendono il nome di << abati laici>>,
abati di nomina regia, non veri e propri laici, ma chierici. Alcuino ad
esempio era un diacono.
Capitava pure che un vescovo, al quale il re voleva accrescere il
potere, fosse nominato abate di uno o più monasteri.
Spesso comunque i monaci non erano contenti di vedersi
assegnare per nomina regia un abate, piuttosto che eleggerlo. Per
questo imploravano il sovrano di dargli questa possibilità. Ma finchè
Carlo fu al potere sembra che tali richieste vennero ignorate.
4.2 L’inquadramento degli uomini
Il fisco quindi aveva il ruolo di gestire un diretto controllo su
territorio e uomini, senza mediazioni, grazie al possesso diretto del re
di aree abitate, dove tutti erano suoi dipendenti.
Nel Capitulare de villis i gerenti locali, o iudices, sono chiamati
ad una gestione politica ancora prima che economica degli uomini.
Non erano i conti ma i gerenti a giudicare in caso di litigi,
differenziando sempre tra i liberi, che erano giudicati secondo la
propria legge, e gli schiavi soggetti a disciplina corporale.
Accanto alla figura del vescovo a capo di più proprietà
ecclesiastiche, troviamo i vescovi a capo delle singole parti della
168
proprietà che operano come advocati, ossia funzionari pubblici, come
quelli del conte.
Gli avvocati dovevano conoscere bene la legge e giudicare
rettamente.
Il loro ruolo giudiziario nasceva dal fatto che vescovi e monasteri
godevano spesso d’immunità, rispetto a un conte o un giudice esterno
all’azienda. La giustizia era quindi garantita anche sulle terre
dell’immunità, con la sola eccezione che erano gli agenti della Chiesa
ad occuparsene anziché quelli del conte, rimanendo sempre sotto un
potere di natura pubblica.
L’immunità aveva precisi limiti, e se un assassino si rifugiava
sotto la protezione della chiesa questa doveva, sotto richiesta del re,
consegnarlo.
E’ chiaro che una concessione così contraddittoria portasse a
conflitti.
Famoso è il caso di Alcuino, che accolse a Tours un chierico che
aveva commesso un delitto ad Orléans ed era inseguito dagli uomini
del vescovo locale, Teodulfo, forse il più famoso rivale di Alcuino alla
corte di Carlo.
Benché gli uomini di Teodulfo, mostrando il mandato regio,
chiedessero di entrare ed avere in consegna l’assassino, Alcuino si
rifiutava, attestando che la basilica rischiava di essere rovinata.
Seccato Teodulfo mandò una lettera a Carlo che da parte sua ammonì
Alcuino per aver sbagliato e condusse un’indagine per punire i
rivoltosi della città di Tours che erano insorsi contro gli uomini del
duca di Orléans.
Le concessioni di terre ecclesiastiche in precaria (con
<<precaria>> che indicava la richiesta, o la preghiera, presentata
169
dall’interessato al vescovo o abate e l’ordine sovrano che imponeva a
questi di acconsentire) di terre fiscali in beneficio ai conti, che
rappresentavano l’autorità regia nelle provincie o a notabili, che
giuravano fedeltà al re e si impegnavano a seguirlo, sono uno degli
aspetti portanti su cui si configura quello che, dopo il tempo di Carlo,
prenderà il nome di feudalesimo.
E’ strano notare come la stessa organizzazione voluta da Carlo
portasse al rischio di dissoluzione del demanio con conseguente
indebolimento del potere regio, che era alla base del suo regno.
Come ultima cosa va fatta notare che se il termine fisco, ai tempi
di Carlo si riferiva al possedimento e non alle imposte, questo non
vuol dire che non esistesse un insieme di prestazioni obbligatorie che
gravavano su tutti i sudditi.
Abbiamo quindi queste informazioni: messi, ambasciatori, inviati
stranieri che si recavano presso il re e tutti i giudici nell’esercizio delle
loro funzioni, hanno diritto di essere ospitati e di requisire cavalli
presso gli abitanti, etc. Questi obblighi rappresentavano la
partecipazione dei cittadini al funzionamento del potere pubblico.
A questi dobbiamo affiancare:
- i censi, canoni annuali pagati sia <<dagli uomini liberi che
possiedono in precaria i nostri beni>>, sia dagli affittuari contadini
insediati su terra fiscale, ossia di proprietà del re, sia da liberi e schiavi
pubblici che in aggiunta all’affitto debbono un censo ricognitivo della
loro dipendenza personale. Questo veniva fatto pagare anche ai sudditi
su territori non fiscali, anche se formalmente il padrone non era più il
re;
- i tolonei, imposte prelevate sulla circolazione e vendita delle
merci. Erano perciò contributi richiesti ai mercanti, là dove il governo
170
offriva un servizio (ad esempio la manutenzione di un ponte).
Resta comunque chiaro che il riscuotere continuo e il
moltiplicare questi prelievi costituisse una fonte di guadagno poco
controllabile dai superiori portando, insieme ad altri fattori, al
disfacimento dell’impero dopo la morte di Carlo.
5. La giustizia
5.1 I giudici
La principale attività dei funzionari carolingi era il mantenimento
della giustizia.
Il concetto di funzionario, tradotto con iudices, intendeva
genericamente tutti coloro con cui il re aveva delegato una quota della
propria autorità. Questo era possibile perché la giustizia allora non era
argomento di specialisti, ed era amministrata a livello locale dai
funzionari che rappresentavano il re, inanzitutto i conti.
Ogni conte era tenuto a presiedere periodicamente un’assemblea
pubblica detta mallus, dove ascoltava e decideva le cause che gli
venivano presentate con la collaborazione dei boni nomine, scelti tra i
notabili che avevano una conoscenza pratica della legge.
Ogni sessione prendeva nome di placito.
Visti i costi, Carlo decise che le convocazioni dei placiti erano
massimo tre. A livello locale la stessa amministrazione era replicata
attorno a funzionari minori del conte, iuniores, che tenevano il placito
con maggior frequenza ascoltando le cause di minore importanza.
C’erano poi diverse situazioni locali, dall’Italia, dove
l’inserimento del sistema comitale fu lungo e difficile e i conti erano
affiancati se non soppiantati dai vescovi; oppure le aree dei grandi, i
171
vescovadi, dove grazie all’immunità la giustizia era mantenuta
dall’avvocato ma in nome del vescovo.
Alla giustizia locale si aggiungeva la giustizia personale del
sovrano amministrata nel palatium, in cui si tenevano i processi dei
fatti che Carlo pretendeva fossero da lui stesso giudicati.
La giustizia del palazzo rispondeva ad un duplice imperativo:
religioso, accollando a sé i delitti che ponevano particolari problemi
morali; politico, cercando di mantenere sotto la sorveglianza
dell’imperatore i fatti più importanti39.
Inoltre il tribunale regio era il sommo tribunale d’appello di tutto
il regno.
Nei processi importanti il re non giudicava da solo, ma col
consiglio dei suoi fedeli.
5.2 La procedura
Nei tribunali di Carlo la prova scritta era sempre è ovunque
decisiva, tanto che si ricorreva a falsi o a distruggere prove scritte
schiaccianti prima di un processo che perciò poi o venivano a mancare
o erano di dubbia legittimità.
Ciò fece si che la procedura più usata fosse l’uso di testimoni.
Più che una convocazione si parlava di querelato che, dopo
pagata una cauzione per il rinvio, cerca o crea una testimonianza.
Se la querela giungeva a palazzo era allora il giudice a chiamare
il querelato, e i testimoni non erano portati dall’accusato ma scelti tra
gli abitanti più conosciuti e rispettati.
In mancanza di prove scritte e testimoni, l’accusato poteva
discolparsi con un particolare giuramento, e con altre persone disposte
39 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pag. 225.
172
a giurare per lui affermando di non credere che l’accusato possa aver
compiuto l’atto di cui è accusato. Ogni tipo di colpa prevedeva un
certo numero di giuramenti.
Oltre a questo c’era anche l’ordalia, ossia il giudizio divino. Ad
esempio il giudizio della croce: davanti ad una croce accusato e
accusatore sono con le braccia aperte, il primo che abbassa le braccia
per stanchezza ha torto. Oppure si fa camminare il presunto colpevole
sui carboni ardenti e si guarda in quanto tempo guarisce la bruciatura.
Erano giudizi con effetti molto brutali, tanto che lo stesso Carlo
affermava che era dovere di ogni buon cristiano credere, se usati, alla
loro efficacia.
Ma la legge scritta, o quella di Dio, non erano le uniche leggi del
tempo di Carlo. Alcuni sudditi non si rivolgevano alla legge, ma
cercavano un patto, un compromesso del conflitto e si impegnavano
con un giuramento a rispettare le decisioni.
Di sicuro il crimine peggiore è il furto, punito peggio
dell’omicidio.
Questo infatti era giustificato come possibile conseguenza di un
litigio, o di un’offesa.
Ma il problema che maggiormente affliggeva la giustizia ai tempi
di Carlo Magno era la scarsa affidabilità dei giudici.
I conti erano privi di esperienze giuridiche e troppo attratti
dall’affermazione personale.
Sotto la spinta di molti ecclesiastici, tra tutti Alcuino, Carlo opotò
dunque per una riforma della giustizia che diventò uno dei punti più
qualificati del programma imperiale.
Nel capitolare Admonitio generalis, 789 si ribadisce il divieto ai
giudici di accettare regali, un’usanza che molti, ma non tutti,
173
adoperavano all’epoca. Fece addirittura scalpore il fatto che Teodulfo
d’Orléans, in missione nel mezzogiorno della Gallia, rifiutasse di
accettare regali.
A questa riforma si collega quella dell’802 dei missi dominici che
affermava che un funzionario non poteva svolgere il suo lavoro come
si deve se accettava regali.
D'altronde questi, i messi, erano l’unica arma per il controllo
della corruzione che il re poteva usare. Ma purtroppo per lui anche i
giudici erano a conoscenza di ciò e addirittura giravano circolari che
anticipavano il passaggio dei funzionari e che invitavano a <<stare
zitti, finche i missi non se ne saranno andati>>.
Agli stessi missi fu affidato il compito che prima era dei
tribunali, dando loro il compito di convocare e tenere personalmente il
placito quattro volte l’anno.
I giurati poi verranno istituti come organo professionista sotto il
controllo dei missi.
Con un vero e proprio ufficio i giurati sarebbero stati meno
influenzati dai conti e meno influenzabili di quelli popolari.
Nell’809 l’imperatore ordinò che solo giurati, vassalli dei conti e
chi ha una causa in discussione è costretto a partecipare al placito.
Questo per non gravare le spese dell’assemblea su gli tutti gli uomini
liberi.
Ma il provvedimento finì per aprire la strada ai conti, che si
servivano dei loro vassalli per gestire la procedura giudiziaria,
andando a prefigurare quella privatizzazione della giustizia che
avrebbe influito sul declino della collettività.
174
5.3 La pluralità delle leggi
A più riprese Carlo riprendeva i conti affinché giudicassero
secondo la legge scritta e non secondo il loro arbitrio e, per fare ciò,
c’era bisogno che tutti conoscessero la legge. Ma in realtà la
situazione dell’Impero era diversa. Non vigeva un unico codice, ma
ogni uomo aveva il diritto di essere giudicato secondo la legge del suo
popolo.
Quindi un caso poteva essere condotto in base alle varie lex.
Lex Salica, Lex Ribuaria se l’interessato era un franco; Lex
Baiwarion se era un bavaro e così via.
Si può quindi parlare di diritto territoriale anziché personale.
Ma un individuo doveva essere giudicato in base alle sue leggi
d’origine, anche quando era fuori dai quei confini?
Di norma possiamo individuare che la scelta era tra tre leggi, se
consideriamo pure il diritto romano impiegato negli affari che
riguardavano la chiesa.
I diritti nazionali presentavano quindi troppe lacune e per questo
erano affiancati da numerosi capitolari che assumevano oltre al
proprio valore amministrativo, anche quello normativo.
Il sovrano era consapevole dell’importanza di questi interventi,
per una maggiore coesione tra i popoli, tanto che nell’803 ordinò ai
missi di spiegare a tutti gli abitanti le novità.
Carlo si preoccupò di armonizzare le leggi nazionali in modo che
non ci fossero troppe contraddizioni, ma forse un po’ paradossalmente,
apprezzava quel senso di identità nazionale che ognuno poteva trovare
nell’adesione alle tradizioni del suo popolo.
La pluralità delle leggi vigenti obbligava i giudici ad assumere
una competenza giuridica. Inoltre le leggi non erano tutte scritte e
175
Carlo si applicò perché anche questo fosse fatto, vedi ad esempio la
Lex Saxonum nel 785 dopo la sottomissione dei Sassoni che fino a
quel tempo avevano avuto solo leggi non scritte.
6. Una società clientelare
Il responso che Carlo diede ad un messo dominico, <<non c’è
altro che liberi e schiavi>> è così netto che si può utilizzare come
guida per descrivere la società dell’epoca, in cui la schiavitù era
ancora in vigore e l’opposizione schiavi-liberi appare decisiva per
determinare le condizioni sociali.
Ma tale risposta va analizzata tenendo conto delle fonti. La
risposta sembra solo sottolineare un Carlo seccato.
Nell’impero comunque esisteva una cerchia di famiglie straricche
che nelle loro provincie facevano il bello e il cattivo tempo.
La cosa che più salta all’occhio è che, qualunque fosse la loro
condizione, tutti gli uomini erano quasi coinvolti in rapporti di
dipendenza, ereditari o liberamente scelti, ma quasi sempre di natura
clientelare. Ad esempio nel giuramento di fedeltà del 793, che tutti i
sudditi dovevano prestargli, ai messi è ordinato di giurare tutti dai
vescovi, e stessa cosa vale per gli abati, ai conti, i vassalli, insomma
tutti i dirigenti dell’amministrazione ecclesiastica e laica.
Segue poi la promessa di fedeltà di monaci e chierici.
La società quindi appare definita proprio in base a questa
dipendenza a tutti i livelli, in cui uno dipende dall’atro fino ad arrivare
a Carlo da cui tutti dipendono.
Per stabilire il rango di un uomo conta il tipo d’indipendenza, ma
anche il rapporto che si stabilisce col signore da cui dipende. E
176
soprattutto vedere da chi si dipende poiché è diverso essere uomo del
re , d’un monastero, o d’un latifondista.
6.1 I Potenti
Al vertice della società franca c’erano coloro che riuscivano ad
ottenere dal re un incarico di fiducia, nell’amministrazione laica o in
quella ecclesiastica: i potents.
All’apice della sua espansione possiamo trovare 189 sedi
vescovili, i monasteri ancora più numerosi. Mentre le autorità laiche
contavano duecentocinquanta conti.
Oltre alla fiducia con l’imperatore, caratterizzava questa élite
anche il possesso di un’immensa ricchezza. A questi sarà chiesto un
tributo per alleviare le sorti della gente durante la carestia del 793.
Le cospicue donazioni a chi ricopriva queste cariche
permettevano un grosso accumulo di ricchezze, anche se la maggior
parte di questi nasceva già ricca. Avevano anche una spiccata indole al
comando che veniva fuori in una società dove da gestire c’erano
uomini che lavoravano la terra. E’ anche questo il motivo per cui il re
sceglieva da quest’ambiente i suoi conti, vescovi etc.
Con l’ampliamento del regno cresceva la possibilità d’azione
remunerativa per le famiglie che Carlo aveva scelto per il suo cerchio
di collaboratori. Essi riuscivano a mano a mano ad accumulare una
pluralità enorme di provincie.
Conti, vescovi e abati, secondo l’usanza, si raccomandavano al re
nel momento in cui prendevano servizio, promettendo di servirlo con
la modalità specificatamente clientelare. Praticamente chiunque
serviva il re, ad eccezione che non fosse uno schiavo o un libero, si
metteva nelle sue mani raccomandandosi alla sua benevolenza.
177
Fitto era quindi lo scambio di raccomandazioni, come ci mostra
ad esempio Eginardo, mostrando come il successo di un giovane
dipendesse dalle amicizie giuste.
Questa concessione a cui si aspirava era detta precaria, ossia
pregata, richiesta, perché era neccessario avanzare pubblicamente una
richiesta (preghiera) per ottenere ciò che si desiderava.
Questo tessuto di amicizie e alleanze si creava intorno ad ogni
potente.
Su un aspetto Carlo volle intervenire.
Già da tempo era usanza presso i franchi che un potents si
circondasse d’una squadra armata che raccomandasse a questo fedeltà
e tale usanza andava sotto il nome di trustis. Carlo volle evitare che
queste clientele armate potessero assumere una connotazione eversiva
e ordinò che il giuramento fosse fatto pubblicamente e che, chiunque
entrasse in vassallaggio, non si impegnava a seguire solo il suo
signore ma anche l’imperatore40.
La diffusione dei benefici riflette la natura clientelare della
società, mentre la diffusione del vassallaggio nasce dal desiderio di
controllare e disciplinare, alla luce dei vincoli clientelari.
Opposti ai potents, andavano collocati servi.
Il termine comprendeva tutti quelli la cui soggezione al padrone
si configurava come un vero e proprio asservimento.
Anche qui però era importante vedere sotto chi si era asserviti.
Chi lavorava sulle terre del fisco e della Chiesa poteva andare
fiero e guardare a testa alta chi faticava sule terre di un padrone
privato, perché dietro il fisco e la Chiesa c’era l’ombra del sovrano.
Era meglio lavorare indirettamente per il re. Questi ultimi prendono il
40 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pag. 352.
178
nome di fiscalini o ecclesiastici, in base all’insediamento su terra
fiscale o ecclesiastica. E se gli asserviti a padrone privato erano
esclusi dal giuramento, questi invece devono prestarlo. Fatto sta che a
questi era spesso, nelle leggi franche, riconosciuto uno statuto
privilegiato rispetto agli altri schiavi e fatto sta che questi, attraverso
comportamenti non consoni, riuscivano ad arricchirsi, tanto che Carlo
dovette vietare che i funzionari locali comprassero schiavi da un servo
regio.
Ciò sottolineava come il palazzo faceva fatica ad arginare un
tessuto di illegalità e prepotenze insito nella società.
6.2 Il mondo contadino
Questa moltitudine di liberi e schiavi del fisco e della Chiesa era
la parte più garantita e meno sfruttata di un settore immensamente
ampio della società: i contadini che lavoravano sotto padrone.
L’organizzazione delle grandi proprietà in villae richiedeva
canoni che una volta fissati restavano poi sempre quelli. Ai padri
subentravano i figli ma gli obblighi verso il padrone non cambiavano.
Nasceva così il dominio patronale, una consuetudine che tutti
rispettavano e che finì per assumere valore di legge. La legge-quadro
stabiliva che quelli che firmavano un contratto accettavano di
sottoporsi alla giustizia del padrone in caso di controversie. Gli
obblighi che gravavano sui dipendenti sfuggivano così sempre più alla
sfera del negoziato per trasformarsi in consuetudini perpetue, di cui il
padrone stesso era per legge il garante.
Fra i contadini che lavoravano sotto padrone, gli schiavi
costituivano un’importante porzione.
Sul pano giuridico lo schiavo è sempre una proprietà del padrone
179
e può essere comprato e venduto come nel mondo romano, mentre in
termini economici, gli schiavi sono una merce i mercanti si
arricchiscono con il loro commercio.
Per evitare abusi sul commercio di schiavi, nel 779 Carlo
intervenne ordinando che ogni vendita di schiavi avvenisse alla
presenza di un vescovo o di un conte, vietando l’esportazione di
schiavi fuori dal confine, ma il limite più forte al libero commercio
degli schiavi era soprattutto di natura economica. Una volta che un
padrone aveva accasato un famiglia di schiavi, assegnando loro un
podere, perdeva ogni interesse a venderli.
I servi casati avevano la sicurezza di non essere, forse, più
strappati alla loro terra. La responsabilità di un podere poneva lo
schiavo in una situazione sociale non troppo dissimile da quella dei
piccoli proprietari liberi, permettendogli di organizzare
autonomamente il proprio lavoro e di possedere addirittura a sua volta
degli schiavi.
Altro miglioramento è dato dalla loro condizione religiosa: se
erano cristiani, potevano sposarsi, essere riconosciuti e non potevano
essere separati.
Inoltre, per influenza della religione, venne abolito anche il
diritto di vita o morte sugli schiavi. Erano però sempre schiavi e
questo viene fuori, rimarcato, in casi come le punizioni. Se per punire
lo stesso reato ad un libero era chiesta una somma di danaro, gi
schiavi erano puniti con punizioni corporali. La durezza della
schiavitù era evidente in queste punizioni.
Nell’insieme dei contadini che lavoravano per i proprietari
terrieri, una percentuale alta, forse la più alta, era però formata da
liberti, ossia schiavi che, divenuti patroni, conservavano una forma di
180
rispetto verso l’antico padrone.
Con l’incoraggiamento della Chiesa, le liberazioni di schiavi
assumono un ritmo molto intenso e, per evitare che l’economia ne
risentisse, gli obblighi del liberto nei confronti del padrone vennero
rafforzati.
Abitualmente lo schiavo liberato era obbligato a risiedere come
prima sulla terra del padrone, lavorare per lui, pagando un affitto e
non avendo il diritto di andarsene senza il suo permesso. Ma non si
può certo dire che era una situazione svantaggiosa. Il liberto,
abbandonata la terra del padrone, andava spesso ad ingrossare le file
dei contadini poveri. Addirittura la legge ne faceva una questione
morale parlando di abbandono del proprio benefattore.
L’unico “dramma” per i liberti era il fatto che in questo modo la
loro distinzione con gli schiavi si riduceva solo al nome.
Una nota va fatta sulla classe degli uomini liberi che formavano
l’ossatura del popolo franco. Questa classe restava schiacciata su più
fronti:
- sul fronte delle imposte si dibatteva tra le prestazioni che il re
chiedeva loro e gli abusi dei potenti ai quali lo stesso sovrano tentò di
porre rimedio;
- sul piano societario era divisa in due classi, raccomandati e
asserviti.
In conclusione, al tempo di Carlo stava avvenendo un altro
passaggio epocale, quello che dalla schiavitù antica portava ad una
nuova dipendenza: il servaggio41.
41 Barbero A., Carlo Magno..cit. Ed. Laterza, Bari 2004, pag. 367.
181
7. Le facce del potere
Sulle origini dell’organizzazione sociale franca sono molti gli
aspetti da tenere in considerazione, ma su tutti due meritano una
menzione particolare.
In primis il dibattito di storici francesi e tedeschi, sull’origine dei
Franchi.
Per i tedeschi, i germani sarebbero stati un popolo libero di
guerrieri e agricoltori. La loro libertà andò corrompendosi però una
volta entrata in contatto con la cultura romana, come nel caso dei
Franchi.
Per i francesi invece, la storia dei Franchi era comprensibile in
pieno solo se collegata al valore genetico dell’esperienza gallo-
romana.
Il rapporto e l’incontro tra la tradizione germanica e quella
romana è sicuramente un elemento centrale per comprendere le
istituzioni franche di età merovingia e carolingia.
Un secondo dibattito si sviluppò poi sul tema dello Stato.
Poteva un popolo nomade come quello franco dar vita ad uno
stato territoriale senza subire influenze esterne?
Al di la di questa domanda, lo stato franco si presenta come un
progetto di evoluzione finalizzata a cominciare dal periodo
merovingio come preparazione della <<fase perfetta>> che sarà dello
stato carolingio, dove la fusione tra tradizione latina e germanica
avrebbe trovato un nuovo equilibrio. Questo periodo coincide col
lungo regno di dominio di Carlo Magno.
Una volta morto il sovrano, il regno andrà incontro ad un periodo
182
di inesorabile declino, con l’indebolirsi del potere centrale42.
Ma ora concentriamo il nostro discorso su un argomento alla base
dell’impero carolingio e del suo sviluppo: il potere, facendo prima una
premessa di valore storico.
Per comprendere le cause e le fasi d’affermazione del regno
franco è stato necessario, per gli storici dell’era tedesca a cavallo tra le
due guerre mondiali, abbandonare la prospettiva teologica e cercare di
comprendere le caratteristiche di alcuni elementi strutturali della
società franca, togliendoli da una dimensione atemporale.
Da questo punto, storici come Otto Brunner, Schelesinger, Bols,
hanno proposto una nuova interpretazione del potere in età medievale.
Fonte del potere e della posizione privilegiata che ne deriva
sarebbe stato un potere originario insito nello stesso concetto di
nobiltà. Così, l’espletamento di diritti di natura pubblica erano
esercitati in quanto connaturati con lo status di nobile.
Quest’interpretazione tende ad enfatizzare l’originalità della
società germanica e il ruolo carismatico del “capo” e dell’aristocrazia.
Rispetto a questo modello, la realtà era più sfumata e con grandi
variazioni regionali.
Centrale nell’organizzazione franca era anche l’esercito che, a
differenza del mondo latino, non era una struttura rigida e coincideva
con la società dei liberi. Era dunque strumento di organizzazione
militare e di ordinamento sociale contemporaneamente.
Collegato al concetto di esercito, che con la compara dei vassalli
andò diventando nel suo rapporto col popolo sempre più labile, c’era
quello di Gefolgschaft, termine che indicava un gruppo di guerrieri
42 Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pag. 63.
183
liberi vincolati volontariamente a servizio di un capo, che combatte
per lui in stretta unione.
Possiamo quindi concludere che i Franchi possedevano
un’originale forma di organizzazione interna basata su tre elementi in
stretto contatto tra loro: libertà, servizio militare e fedeltà.
7.1 Il feudalesimo
Ganshof, nel breve saggio “Che cos’è il feudalesimo?”, passava
in rassegna i principali aspetti storico-giuridici della feudalità,
un’istituzione che fu una particolare “invenzione” dei Franchi.
Vedere il termine “feudale” come qualcosa di oscuro è forse cosa
collegata al tempo della rivoluzione francese e l’abolizione del
feudalesimo fu il simbolo della caduta dell’ancien regime.
Per Le Guen: <<la feudalità trasforma in regime e contiene tutto
l’asservimento passato della nazione>>.
Marc Bloch, nella “Società feudale”, aveva definito le diverse
caratteristiche del feudalesimo prima e dopo il IX secolo tanto da
parlare di due età feudali che si distinguevano per il diverso valore
assunto dal giuramento di fedeltà: l’omaggio e il beneficio.
Robert Boutruche, in “Signoria e feudalesimo”, ridimensiona il
ruolo del feudalesimo nella società medievale ponendo l’accento su un
altro fenomeno: la signoria, ovvero il potere di un dominus su terre,
persone e cose indipendentemente da una delega di poteri o da
un’investitura.
Ma l’ordinamento feudale in età franca era solo una delle diverse
espressioni di potere.
Le ricerche di Bloch e Boutruche hanno dimostrato che i rapporti
vassallatici potevano avere forme assai diverse, inserendo lo stesso
184
individuo ad essere contemporaneamente signore di un vassallo e
vassallo.
Queste rete di rapporti assai disordinata sostituiva la vecchia
visione di una piramide perfetta.
Le istituzioni feudo-vassallatiche incominciarono a svilupparsi in
età merovingia, assumendo un ruolo importante nell’organizzazione
sociale franca a partire dall’età carolingia, dall’XI secolo in poi. Esse
derivavano dall’evoluzione della tradizione germanica del seguito
regio (Gefolgschaft), trovando un ambiante particolarmente
favorevole al loro sviluppo dal regno di Clodoveo.
Per i liberi armati poteva divenire conveniente ottenere la
protezione di un potente entrando nella sua clientela, in un periodo di
tensione ed instabilità.
In età merovingia coloro che si sottomettevano alla protezione di
un potente, mantenendo la loro libertà personale, erano chiamati in
modi differenti. Solo in età carolingia il termine vassus si affermò
soppiantando le altre denominazioni.
L’atto con cui un uomo entrava sotto la protezione di un potente
era chiamato accomodazione (commendatio) e sottintendeva un
contratto tra le due parti nei reciproci impegni fino alla morte. Con la
commendatio un uomo si poneva sotto la protezione di un altro uomo
dietro giuramento di fedeltà.
La sottomissione poteva essere rafforzata dalla concessione di un
beneficio che prima era di genere alimentare, poi divenne l’uso di
concedere terre. L’accomandato otteneva un diritto su una cosa altrui.
A partire dall’età carolingia la concessione del beneficio diventò
parte essenziale del vassallaggio. In particolare, per rafforzare la loro
posizione i primi Carolingi, costruirono una rete di clientele dietro
185
l’assegnazione di ingenti benefici sottratti o alle istituzioni
ecclesiastiche o prese dalle grandi proprietà terriere della corona. Ciò
portò ad un innalzamento sociale del livello dei vassalli43.
Ma solo dalla seconda metà del secolo VIII possiamo parlare di
sistema feudo-vassallatico, quando vassallaggio e beneficio vengono a
costruire l’elemento personale e quello reale di un unico atto giuridico
basato sulla fedeltà dell’uno e sulla protezione dell’altro.
L’Immixtio manuum sanciva il legame definitivo tra le parti e il
rapporto vassallatico era perciò indissolubile.
Più avanti Ludovico il Pio fissò in un capitolare le particolari
situazioni in cui un vassus poteva rompere legittimamente il suo
giuramento e ciò poteva accadere in cinque casi:
- quando un senior costringeva il vassallo a compiere un servizio
che non gli competeva;
- quando il senior tramava contro la sua vita;
- quando il senior commetteva adulterio con la moglie del
vassallo;
- quando il senior lo aggrediva a spada sguainata;
- quando, nonostante il giuramento, il senior non proteggeva il
vassallo.
Il vassallaggio, al contrario di quanto si pensava, era fortemente
voluto dai sovrani carolingi, poiché costituiva un elemento di coesione
dello stato.
Un elemento di debolezza del sistema era costituito dalla
rivendicazione da parte dei vassalli dell’eredità dei benefici ottenuti.
Altro problema fu quello della pluralità degli impegni
vassallatici. Molti signori, laici ed ecclesiastici, dall’età di Carlo in poi
43 Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pag. 68.
186
cercarono di rafforzare sempre più le loro posizioni, radicandosi nel
territorio ed espandendo la loro proprietà fondiaria.
Dal punto invece amministrativo, il modello di Stato applicato da
Carlo e dai suoi successori, prevedeva la suddivisione dei territori
dell’impero in regna e ducati, divise poi a loro volta in comitati e
marche.
I confini delle parti in cui era diviso l’impero risentivano spesso
dei modelli delle vecchie amministrazioni e nelle zone di più profonda
romanizzazione riprendevano i confini delle vecchie civitates o
municipia.
I comitati erano amministrati dai conti, funzionari pubblici scelti
e che rappresentavano il re. I conti erano quasi sempre vassi del re,
legati a lui da un doppio filo, quello burocratico più labile, e quello
della fidelitatis, indissolubile. Tra i suoi compiti, oltre al
mantenimento della pace e dell’ordine pubblico, c’era anche
l’amministrazione della giustizia, che avveniva nel mallum,
l’assemblea, dove in ogni plactium, udienza, il conte poteva avvalersi
di collaboratori: i boni homines.
A controllare il lavoro dei conti, dal IX secolo, Carlo nominò dei
funzionari, i missi dominici. Ad ogni circoscrizione, che poteva
contenere una decina di comitati, erano assegnati due missi, uno laico
e uno ecclesiastico, col compito di sorvegliare l’amministrazione e di
censire tutti gli uomini disponibili per le operazioni militari.
La centralità delle attività del conte non ci deve spingere a
trascurare la loro funzione militare. La chiamata generale dell’esercito
riguardava tutti i liberi, senza distinzione tra vassi e piccoli proprietari.
Nei suoi spostamenti l’esercito doveva essere mantenuto dalle
curtes regie, fondamentale era perciò la presenza su tutto il territorio
187
di vasti beni statali, essenziali per l’approvvigionamento non solo
del’esercito ma anche della corte. Ogni soldato però doveva
provvedere singolarmente al proprio armamento.
Sulla funzione militare si basava l’autorità dei sovrani, ma non
solo su di essa. I poteri pubblici nell’impero carolingio erano costituiti
anche da diversi elementi, spesso in simbiosi tra loro.
Da un lato c’era un’organizzazione territoriale omogenea, divisa
in distretti convocati da funzionari regi, dall’altro c’erano i legami
determinati dai rapporti feudo-vassallatici che stabilivano a loro volta
legami tra i potenti, senza tenere conto della gerarchia. I sovrani
franchi basarono la loro autorità sul mescolarsi di questi due fattori,
che generavano però un elemento di turbolenza. Non da ultimo poi va
ricordato il carisma.
Il re era anche supremo giudice, pio e terribile. Suo compito era
mantenere la pace, come Dio la manteneva nel cosmo. Il sovrano era
vicario di Dio. Si profilava così una doppia funzione del re : capo
militare e dei vassalli ed esecutore della volontà divina.
L’inserimento della Chiesa, e in particolare delle istituzioni
ecclesiastiche, nell’ambito dell’organizzazione pubblica, è uno dei
maggiori successi della politica di Carlo.
Tale successo però dimostrava anche aspetti turbativi:
- la convivenza sul territorio ecclesiastico di due personaggi di
controllo, uno della chiesa e uno del regno;
- la progressiva emarginazione alle cariche ecclesiastiche della
declinata aristocrazia gallo-romana, sostituita da quella franca.
Una politica mirata portò alla formazione di una “Chiesa regia”.
I vecchi schemi che quindi vedevano la contrapposizione tra i
due poteri nel regno franco diventarono importante strumento di
188
affermazione politica, sottolineata da una certa interscambiabilità tra
le due cariche.
Vescovi e abati, così come conti e vassalli, erano totalmente
subordinati al potere regio e pienamente inseriti da questo
nell’organizzazione territoriale, pur mantenendo una certa autonomia.
Le sedi vescovili però, riescono anche a tutelarsi e rafforzarsi grazie
all’istituzione dell’immunità, esenzione dalla giurisdizione comitale e
assunzione, da parte di vescovi e abati, di poteri equivalenti a quelli
dei comitati.
Vescovi, abati e conti erano però in primis aristocratici e
costituivano la classe dirigente. All’interno dell’aristocrazia franca
prese una posizione prominente l’aristocrazia imperiale formatasi nel
periodo d’espansione del regno tramite servizio militare ai sovrani.
Legata al governo centrale da molteplici interessi, includeva famiglie
di antica nobiltà, ad esempio gli Ottocari, e famiglie più modeste
come i Guidoni.
7.2 Un potere senza delega: le signorie
A cavallo tra i secoli IX e X, i comitati carolingi sparirono per
fare posto a nuove entità territoriali. L’indebolimento dell’impero non
fu causato da dalla crescente autonomia dei comitati, ma si potrebbe
dire che la causa fosse strutturale allo stesso sistema feudale.
Nel corso del IX secolo infatti molte famiglie aristocratiche
cercarono di radicarsi là dove possedevano un maggior numero di
proprietà fondiarie. Al di fuori di qualsiasi delega incominciarono a
costruire aree di dominio autonomo all’interno delle quali potevano
espletare in prima persona il potere di disporre di cose e persone. Il
fatto che gli esponenti di queste famiglie fossero conti, vescovi, missi
189
non faceva che accelerare la loro affermazione. Paradossalmente, a
volte, era proprio il potere regio che favoriva questo loro processo con
l’assegnazione di benefici. Quindi il re, cercando di rendere
dipendenti da lui i suoi vassalli, non faceva altro che renderli sempre
più indipendenti.
Più che disgregato dal punto di vista istituzionale, l’impero aveva
al suo interno una rete di potere signorili al di fuori di ogni delega.
Dopo questo quadro generale, analizziamo da vicino una parte
specifica del regno, forse quella che più ci tocca: l’Italia.
8. I poteri dei Franchi nel regno longobardo
8.1 poteri regi
L’ordinamento politico-istituzionale non poté essere applicato in
Italia in modo uniforme e concreto, confrontandosi con una tradizione
amministrativa radicata e ben delineata. Cercando di attirare a sè la
classe dirigente longobarda, dopo la conquista, questa rimase in gran
parte presente nel governo. Il regno Longobardo presentava una
divisione simile a quella franca, la differenza stava soprattutto nelle
cariche. I duchi non erano semplici funzionari ed eletti a volte per
nomina regia, o direttamente dal loro seguito militare composto dai
liberi armati. Segno questo di una forte vocazione autonomistica, vedi
Spoleto o Benevento.
Questi duchi assegnavano l’amministrazione a funzionari minori,
centenari, decani e sculdasci.
Anche il potere regio aveva carattere diverso. Era più un potere
di ordinamento, non assumendo mai i caratteri sacri di quello franco e
restando a lungo carica elettiva. Al vassallaggio franco si oppone il
190
“gasindiato” longobardo. Il gasindo, etimologicamente “il compagno”,
era un collaboratore del re che in cambio dei suoi servizi aveva
ottenuto beni e privilegi. Fu messo da parte dopo la sconfitta dei
Longobardi.
Il ruolo e i poteri, assunti dai franchi col titolo di rex
Langobardorum, rimasero più un ruolo di governatore che sovrano in
senso stretto, nonostante la posizione rafforzata dalla sacra unzione.
Questo vale per i sovrani d’Italia come Pipino e Bernardo, trovatisi a
convivere con la figura accentratrice di Carlo. La storiografia tedesca
conia quindi, per indicare i re italici, il termine Unterkonige, “sotto-
re”. L’attività di questi due fu più militare che amministrativa ed era
lasciata nelle mani dei baiuli, Waldo di Reichenau, Rotchild e
Adalardo di Corbie, che rappresentavano il re durante la sua minore
età44.
La situazione italiana da Carlo fu seguita poco, ma maggiore
attenzione ci fu quando il figlio Pipino salì al trono. Nella sua vita
infatti Carlo scese in Italia cinque volte, spinto sempre da ragioni
militari. La corte itinerante si muoveva con lui, in base a dove era
richiesta la sua presenza. Dalle zone frequentate durante le campagne
in Italia, viene fuori dove Carlo preferiva stare. Si nota che Roma era
la sua preferita, anche a discapito della capitale Pavia, visti i suoi
rapporti con la Chiesa romana.
Con Lotario e Ludovico II la carica diventò sia militare che
amministrativa, diventando sovrani a tutti gli effetti. Con Ludovico si
sviluppò la voglia di controllare tutta la penisola. Sogno che si
infranse contro l’incapacità del sovrano di governare la complessità
dei poteri che attraversavano il regno. La difficoltà
44 Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pagg. 89-90.
191
nell’amministrazione dell’Italia va anche riconosciuta nella poca
presenza del sovrano sul territorio. Spesso infatti, già a partire da
Carlo, la corona d’Italia coincideva col titolo imperiale, e anche
quando Carlo assegnò il regno al figlio Pipino, questi restò sempre un
suo generale. Il re restava dunque una presenza lontana. Lo dimostra il
fatto che non riuscissero a creare luoghi simbolo della regalità.
Così come l’autorità regia, anche quella legislativa mantenne un
connotato di ambiguità, o meglio ambivalenza. Alla Lex
Langobardorum, rimasta in vigore per la popolazione di etnia
longobarda, si sovrapposero le normative carolinge contenute nei
capitolari che cercavano di regolamentare uniformemente tutto
l’impero sui diversi aspetti economico, politico, religioso e sociale, e
da cui il nome capitolare deriva dal fatto che le ordinanze erano divisi
in capitula. Inoltre i re d’Italia avevano difficoltà ad emanare
capitolari autonomi applicabili solamente se approvati dall’autorità
centrale.
Anche la divisione in comitati trovò difficile inserimento, vista
una presenza urbana distribuita su tutto il territorio uniformemente.
La città aveva così conservato una tendenza all’autonomia che
rendeva difficile un controllo uniforme dei diversi gruppi sociali. I
Franchi si mostrarono flessibili, modellando i comitati sulla base delle
diocesi o dei municipia, in modo tale che le città mantennero la
propria rilevanza.
Così, in zone corrispondenti ad esempio alla odierna Lombardia,
sorgevano i comitati, mentre regioni come il Friuli, per la sua
posizione sul confine, la compattezza e la grandezza territoriale,
veniva conservata come marca, avendone le caratteristiche.
Il regno d’Italia assunse poi dal 774 in poi carattere multietnico
192
per l’invio di funzionari bavari, burgunti, oltre che franchi. La
convivenza di tante etnie però non cancellava l’autocoscienza di
nessuna di loro. L’appartenenza etnica, rappresentava perciò una
fattore discriminante in ambito politico e nei rapporti di vassallaggio.
Per cercare quindi un maggiore controllo furono scelti, per
ricoprire le cariche, funzionari appartenenti al’aristocrazia regia,
andando a sostituire di volta in volta i funzionari longobardi che si
dimostravano infedeli.
Fu perciò una sostituzione parziale che lasciò in carica i
funzionari longobardi che si erano dimostrati fedeli. Fu inoltre favorita
l’immigrazione di vassi che dovevano costruire una coesione
all’interno del regno.
Si sviluppa, accanto alle migrazioni, il fenomeno della famiglia
allargata. Nobili franchi mandati in Italia per svolgere compiti
imperiali, restavano in contatto con i parenti d’oltralpe, mantenendo
una serie di possedimenti sparsi in tutto l’impero, e riuscendo a volte
pure ad assicurare una continuità dinastica, ad esempio Spoleto al cui
duca passò la corona d’Italia dopo la morte di Carlo il Grosso ultimo
sovrano italico di stirpe carolingia. Ciò sottolinea la vocazione
internazionale dell’aristocrazia franca.
Gli immigrati di età franca avevano il compito di creare una rete
vassallatica di controllo del territorio, a prescindere dall’ordinamento
pubblico. Avevano il compito di garantire una costante difesa militare,
la custodia Francorum, e di essere sempre pronti all’impresa militare
regia. Questi vassi erano pagati con benefici fiscali. L’insediarsi,
particolarmente in Lombardia, era sottolineato dalla presenza della
capitale, Pavia, a Piacenza da dove partiva un’importante arteria di
comunicazione, la via Francigena.
193
Lo stanziamento di “militari” su beni fiscali non era una novità,
lo era invece il fatto che ora coloro che ottenevano questi benefici
erano legati all’imperatore in modo vassallatico e venivano a
sovrapporsi al tradizionale exercitus, che però non scomparve. Ma non
tutta la società italiana era inquadrata nel sistema vassallatico. La
maggioranza della popolazione viveva al di fuori di qualsiasi vincolo.
Queste persone di condizione libera mantenevano, con il potere regio,
rapporti di carattere pubblico.
Anche ai missi dominici che operavano in Italia fu chiesto, oltre
ai soliti compiti, di rafforzare la presenza e il dominio franco sulla
penisola e di fornire ai franchi che si erano stabiliti lì, un collegamento
con le terre d’origine.
8.2 I vescovi e il potere del Papa
L’avvento del domino carolingio in Italia portò nei territori del
regno a un deciso mutamento nei rapporti tra istituzioni ecclesiastiche
e potere politico, caratterizzato dal constante antagonismo tra il potere
regio, longobardo, e quello papale.
In età longobarda, l’organizzazione ecclesiastica che si era
formata era quella tardo-antica. Avevano un ruolo centrale le diocesi,
circoscrizioni territoriali nel cui ambito si estendeva la giurisdizione
spirituale del vescovo. L’Italia aveva un elevato numero di sedi
vescovili, con il prevalere di una forma di conservatorismo che ne
permise la lunga continuità. Fulcro dell’attività liturgica era la chiesa
vescovile, chiamata cattedrale perché lì si trovava la cathedra, il trono
del vescovo. Accanto alle cattedrali poteva formarsi una comunità che
operava nelle chiesa, e che grazie alle donazioni poteva possedere
beni e amministrarli autonomamente. Insiemi di diocesi prendevano il
194
nome di metropolita, la cui guida era sottoposta ad un arcivescovo. In
età carolingia sono tante le sedi metropolita,ed esempio Milano,
Ravenna, Roma, che aveva il più alto numero di diocesi, Aquileia che
funge da avamposto contro gli slavi. Ma tuttavia fu sempre il
particolarismo vescovile a prevalere quasi sempre sulle provincie.
Altro ruolo centrale aveva la pieve, la chiesa battesimale.
Già il suo nome latino plebs, tende a identificare l’intera
comunità cristiana ossia il popolo con la chiesa alla quale era conferito
il diritto di battesimo. La pieve, fu una struttura intermedia tra le
chiese minori e le diocesi. Inoltre nei territori rurali la pieve assunse
anche un ruolo economico, di raccolta delle decime.
Un altro apparato che possiamo identificare è quello delle
Eigenkirchen, le chiese private, fondate da famiglie eminenti su propri
territori e sottratte alla giurisdizione vescovile. Queste chiese poi
spesso venivano cedute ad altri enti ecclesiastici, in cambio di
devozione o interessi economico-politici.
Accanto alle sedi episcopali svolsero un ruolo importante le
abazie, che sorgevano su posizioni strategiche dei sentieri ed erano
fondate grazie a cospicue donazioni. Per le posizioni di privilegio che
occupavano svolsero anche un ruolo economico predominante,
soprattutto nelle campagne45.
Il ruolo di monasteri e abazie era legato non solo alle dotazioni di
cui corrispondevano, ma anche alle intenzioni religiose o politiche, in
base alle quali erano stati fondati. Svolgono quindi funzioni assai
diverse, ma consolidando sempre l’egemonia sul proprio territorio.
L’intento di Carlo era chiaro già dai primi anni: inserire in modo
organico vescovi ed ecclesiastici eminenti nell’amministrazione del
45 Albertoni G., L’Italia carolingia, Ed. NIS, Roma 1997. pagg. 100-101.
195
regno. In tal modo veniva a crearsi un altro livello di poteri che
avrebbe dovuto affiancare quelli pubblici, i conti, e quelli privati, i
vassi.
Una via che il sovrano seguì per promuovere alcune diocesi fu la
scelta personale del vescovo, cosa che doveva apparire normale, vista
come espressione della responsabilità del re verso la chiesa sua
protetta.
Il tentativo di integrazione dell’Italia nel sistema franco
procedette su un doppio binario:
- la concessione ad importanti enti ecclesiastici franchi di beni
fondiari in Italia;
- l’assegnazione di sedi vescovili italiane a persone eminenti
della Chiesa e della nobiltà franca.
Questo rendeva più fruttuosa la fedeltà dei prelati, usando anche
cospicue donazioni, come fecero anche i suoi possessori.
Così come i loro parenti che avevano assunto incarichi pubblici,
anche gli aristocratici che avevano intrapreso la carriera ecclesiastica
mantennero sempre coscienza delle loro origini, ampliando anzi i
possedimenti di cui erano a capo con terre d’oltralpe.
Oltre che nell’amministrazione del regno, molti vescovi
entrarono anche in clientele vassallatiche, legandosi al re o ad altri
personaggi.
Corbie Wala, ad esempio, si distinse contribuendo ad un
rinnovamento dei rapporti tra Chiesa e regno.
Episcopati ed abazie trassero anche grande potere dalle
immunità. Per tenere a bada un fenomeno così instabile, al vescovo e
al conte della diocesi fu imposto di eleggere un advocatis,
personaggio laico che doveva amministrare i beni e la giustizia.
196
Praticamente un funzionario regio non ufficlae, che permetteva il
controllo degli enti ecclesiastici. In conclusione, il rapporto tra
istituzioni ecclesiastiche e sovrani va collocato all’interno di quello
più ampio tra Chiesa e Impero. Questo trovò una momentanea
regolamentazione con la Constitutio romana dell’824, che sanciva
l’estensione del territorio sotto il controllo franco anche sui domini di
San Pietro, ma sottolineava che l’accordo di fedeltà era valido solo nei
confronti dell’imperatore, non del re d’Italia. Tale ambiguità le
permise di garantirsi una posizione di protezione da possibili nemici
interni ed esterni e l’autonomia dall’incombente regnum
Langobardorum.
9. Alcuni approfondimenti
9.1 concetto di fedeltà
Nell’802 Carlo definì, o almeno cercò di farlo, il concetto di
fedeltà.
In passato, per assolvere questo dovere era necessario non
minacciare di morte la vita del re. Carlo ora pretendeva ovviamente di
più, visto anche il rapporto di benefici che si andava istaurando tra lui
e i sudditi.
Tutti dovevano:
- attenersi ai precetti di Dio;
- rispettare tutte le proprietà dell’imperatore;
- riconoscere il suo incarico di protettore della chiesa e dei
deboli.
Erano comunque tante le difficoltà che il sovrano incontrava. Ad
esempio, in un occasione della visita di Carlo al figlio Ludovico,
197
questi fece un regalo adeguato al padre, solo dopo che questi glielo
ebbe chiesto. Ludovico si giustificò dicendo di trovarsi in una
situazione difficile, dove i suoi nobili, senza eccezione, miravano solo
al loro personale vantaggio.
Carlo allora ripristinò i beni tolti sotto il controllo della corte ma
non punì nessuno, perché? Forse per evitare una rivolta.
Il fatto che Carlo abbia obbligato, con un giuramento, il popolo
del regno a lasciare intatta la proprietà imperiale, fu modo per far
riconoscere dalla nobiltà la speciale posizione del sovrano, senza
imboccare la via del confronto diretto.
Le disposizioni del giuramento generale mostrano quanto fosse
debole l’autorità imperiale nel regno.
9.2 Il vassallaggio
Il vassallaggio era stato <<socialmente accettato>> e grossa
spinta gliel’aveva data un evento in particolare: nel 787 Carlo,
umiliando il duca di Baviera, Tassilone, lo aveva costretto a diventare
suo vassallo.
Da quel momento cominciarono ad essere nominati conti persone
che da giovani erano entrate alla corte del re per questo vi erano
particolarmente legati. Addirittura questo legame poteva essere portato
avanti per generazioni. Nel tempo le funzioni di conte e vassallo si
fusero. Un conte era allo stesso tempo vassallo del re. Da quest’ascesa
si trasformarono anche i contenuti del vassallaggio. Non erano più
richiesti servitù e obbedienza, ma consiglio e aiuto.
Ma facciamo un passo indietro.
Fu Carlo Martello ad introdurlo “ufficiosamente”, anche se non
fu una sua invenzione. Le continue lotte interne all’aristocrazia e le
198
varie scorrerie saracene, se da un lato diminuivano la sicurezza,
dall’altro comportavano l’esigenza di una forza armata. Non mancava
chi, sentendosi incapace di difendersi, si rendeva schiavo di un
protettore. Questo, affiancato alla fierezza dei popoli germanici,
tendeva a creare un patto tra uomini liberi. Il comitatus, tedesco
divenne l’antrustiones franco, ossia membri della trustis, termine
d’origine tedesca che etimologicamente rinvia la concetto di fedeltà.
Si tratta di un atto privato che, proposto nell’opera le “Formulae
Turonenses, si diffuse anche nei confronti dei re merovingi, ma con la
loro decadenza si rivolse sempre più ai maestri di palazzo. L’atto, pur
riferendosi a uomini umili, si adatterà perfettamente al sistema
feudale.
E’ appunto col passare da uomini umili ad uomini nobili che la
ricompensa del patto cambia e diventa il cosiddetto “beneficio“. Ma a
differenza dei re merovingi che consegnavano le terre regie, i franchi
utilizzavano i beni della chiesa, andando così a non indebolire il
proprio potere, visto che alla base del potere regio era proprio la
proprietà del re.
9.3 L’impalcatura politica, i capitolari, l’immunità
Al suo vastissimo contesto territoriale Carlo aveva dato
un’impalcatura politico-organizzativa. Nei primi anni del IX secolo la
struttura statale era stata ormai precisata, fondendo elementi di ordine
pubblico e personale con larga collaborazione da parte ecclesiastica.
Le varie fonti della legge che governavano anche il rapporto dei
benefici risiedevano nella voce dei missi che propagavano le scelte
imperiali in tutto il regno, mentre i capitolari segnavano l’uscita da
anni difficili, come nel 789 quando venne emesso il Admonitio
199
generalis, uno dei più famosi, che mirava a riformare la vita religiosa
di chierici e laici.
I capitolari, se pur generali, non erano validi in tute le regioni, in
particolare in Italia, e per questo miravano ad integrarsi con i diritti
<<nazionali>> preesistenti, diventando vere leggi territoriali delle
regioni che costituivano l’impero.
L’immunità caratterizzava una serie di situazioni di autonomia e
non nacque con il vassallaggio. Caratterizzava precisamente, fin dalla
matura età merovingia, l’organizzazione di molti grandi enti
ecclesiastici, ma diventerà nella tarda età carolingia la premessa
giuridica che consentirà al vassallo, che riceveva in beneficio una terra
coperta da immunità, di esercitare una forte autorità politica al suo
interno.
200
SECONDA PARTE
Fu il frantumarsi dell’universalismo dell’impero romano in
occidente, in una molteplicità di piccole formazioni, la conseguenza
più evidente del trapasso di un’epoca.
E’ nozione comune che i Germani abbiano fondato i loro regni
nell’antica pars occidentis dell’impero e da alcuni di questi siano
derivati i moderni stati nazionali europei.
Ma quando si può iniziare a parlare di nazioni?
La maggior parte degli studiosi datano come momento culmine il
XV-XVI secolo, ossia l’età dell’umanesimo.
Ma tornando un po’ indietro, al medioevo, un momento decisivo
per la formazione delle prime nazioni europee occidentali è stato il
XII-XIII secolo quando, a scapito degli antichi poteri universali,
Impero e Chiesa, cominciano ad occupare la scena le monarchie di
Francia e Germania.
In Francia, le nazioni partono dalle istituzioni di origine feudale.
L’alto Medioevo ha conosciuto la presenza effettiva dell’impero
carolingio, che inglobò buona parte dell’Occidente, tenuto insieme da
una classe dinastica, da una classe dirigente imperiale, da istituzioni
comuni e da un clero fortemente integrato.
L’occidente conosceva così una nuova fase universalistica, tra il
V e VIII secolo.
Nella dissoluzione dell’impero carolingio, metà o fine del IX
secolo, si osserva l’affacciarsi alla storia delle nuove nazioni.
L’età tardo antica e il primo Medioevo non sono di solito indagati
in relazione al tema “nascita delle nazioni” nell’Europa occidentale,
perché il concetto di nazione ha una tale profondità di significato
201
politico che è difficile applicarla in quel periodo.
Ernesto Sestan diceva: <<la nazione è quell’aggregato umano
che crede di essere nazione>>. Siamo di fronte quindi ad un fatto
prettamente soggettivo.
Friedrich Meinecke ha escluso che nel Medioevo si potesse
parlare di nazioni in un senso così profondo. Le nazioni, se pure già
esistevano nel medioevo, si presentavano sotto forma vegetativa, cioè
erano presenti tutti gli elementi che costituiscono una comunità
nazionale, ma il risultato complessivo della loro combinazione è
diverso da quello che si avrà nei secoli successivi.
Spogliando il termine nazione di tutti i suoi significati simbolici,
possiamo trarre notizie importanti sulla formazione degli stati. I nomi
degli stessi, Francia, Portogallo, sono di origine medioevale e si
legano col territorio che vanno ad occupare. Nel medioevo nascono
inoltre anche le lingue nazionali moderne dell’Europa Occidentale.
Stato, territorio e lingua non sempre coincidevano, ma esistevano
e, insieme ai vari elementi che fondavano le individualità dei diversi
popoli europei, arriviamo a identificare cosa fossero le nazioni,
“nazioni medioevali”46.
Inoltre il Medioevo, nella sua prima parte sopratutto, dal
tramonto dell’universalismo romano agli insediamenti barbarici, con
il nuovo universalismo carolingio e la sua successiva crisi, è
caratterizzato da un gigantesco rimescolamento etnico. Sono questi
secoli che mettono in campo tutti, o quasi tutti, i futuri protagonisti
dell’Europa.
46 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Caroccieditore, Roma 1997. pag. 21.
202
10. Una storia che parte da lontano
Nell’212, l’imperatore Caracalla emanò un editto con il quale
concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero.
La constitutio antoniniana, segnava la fine della stato-città di Roma:
d’ora in poi non ci sarebbe stato più un nucleo centrale dominante e
un impero sottomesso. Ma l’editto fu poco considerato, addirittura non
fu inserito nel codice di Giustiniano. Ciò è spiegato con una
sopravalutazione dell’editto, poiché il processo di integrazione dei ceti
dirigenti dell’impero era già molto avanzato ben prima della norma di
Caracalla, che non riuscì nemmeno ad abolire d’un colpo le profonde
differenze delle numerosissime comunità confluite sotto la
dominazione romana. Per un reale processo di unificazione bisogna
attendere Diocleziano, e poi Costantino.
L’editto analizzato parla dell’integrazione di tutti i cittadini,
tranne i dediticii, ossia le masse contadine delle provincie dell’impero.
Secondo quindi questa rappresentazione restrittiva dell’editto, le classi
subalterne non cittadine non sarebbero mai state parificate, dal punto
di vista giuridico, agli altri liberi dell’impero.
Ma che ruolo hanno giocato le masse contadine non romanizzate
i questa grande crisi epocale? L’esistenza dei dediticii mette in dubbio
il cosmopolitismo universale romano, ossia la sua capacità di
raggiungere i ceti più umili rimasti estranei alla civiltà romana fondata
sulle città. Il sentimento di particolarismo provinciale era molto più
vivace all’estero, ad esempio la comunità della Gallia, rispetto
all’Italia. Lì, in Gallia ad esempio, affioravano sentimenti di
appartenenza a un particolarismo del tutto locale. Si prepara così un
doppio scenario: da un lato l’aristocrazia romana che, spinta dal
203
sentimento di identificazione della romanità con la classe dominate
dell’impero, cerca un patriottismo difensivo dell’ordine esistente;
dall’altro emerge una coscienza che crede che la soluzione e la
sopravvivenza dell’aristocrazia alla crisi politico-sociale possa essere
trovata a livello locale. Da questi due punti, aventi una base comune
ossia la sopravvivenza della classe, le divergenze sono collegate alle
alleanze: combattere i barbari senza quartiere o coinvolgerli in una
rete di alleanze e collaborazioni? E’ quest’ultimo atteggiamento ad
avere la meglio e il collasso dell’autorità centrale di occidente, nel
corso del tardo V secolo, accelerò la consapevolezza nell’aristocrazia
tardo romana della necessità di risolvere i problemi nell’ambito del
proprio orizzonte personale. La collaborazione con i barbari era
preferibile all’incerta fedeltà ai lontani imperatori d’Oriente.
Alla fine della storia romana, piccole e grandi etnie,
mantenevano la loro individualità. Le rivolte, come quelle dei
bacaudae, contadini celtici, che analizzeremo dopo, del 378 durante la
battaglia di Adrianopoli tra Visigoti e truppe imperiali, e del 406
rivolta degli schiavi pannonici che si allearono con le orde barbariche,
erano la spia significativa del disagio che esisteva tra le classi più
povere dell’Impero. Insofferenza sociale dei ceti subalterni e
caratterizzazione etnica precisa, sono due elementi propri delle
manifestazioni di subordinazioni che si manifestano nei secoli del
tardo impero. Il rifiuto socio-economico e quello etico-nazionale nei
confronti della classe dirigente dell’impero si doveva appoggiare su
un rifiuto che forniva a questi appoggio ideologico: una fede religiosa
che in qualche modo si oppose a quella ufficiale, che venne ancora di
più fuori dopo il 313, con la promulgazione dell’editto di tolleranza da
parte di Costantino, con la quale il cristianesimo iniziava la sua marcia
204
di divulgazione.
In questo aspetto veniva fuori un dato importantissimo: le masse
etniche, nonostante fossero state conquistate dai romani, non avevano
perso le radici secolari della loro cultura che veniva fuori quando i
missionari cristiani si recavano nelle più remote zone dell’impero ed
entravamo in contatto con etnie che conservavano le proprie radici.
Affiorano così protostorie nazionali, scaturite da frammenti di
consapevolezza etnica.
La prima tappa della nostra storia è stata delineata. La seconda
sarà spiegare il ruolo giocato dalle masse non romanizzate: dediticii,
bukoloi, bacaudae, e altri gruppi che vedremo, nella fine del mondo
antico.
11. I bacaudae: l’area celtica
I bacaudae, appaiono in relazione ad eventi del 283-286, durante
l’ultima fase della crisi interna vissuta dall’Impero nel corso del III
secolo. Si tratta di un gruppo di contadini insorti in Gallia, che si
erano dati questo nome e con a capo Amando ed Eliano. Diocleziano
contro di loro mandò le truppe romane, che con facili battaglie
domarono i contadini. I bacaudae, erano quindi contadini gallici di
stirpe celtica. Il termine è stato interpretato come “gruppo”,
“assemblea tumultuosa”, fino a “combattenti”. Il termine “ceppo
celtico” ci sottolinea come la cultura celtica in Gallia fosse ancora
viva. Tutto assume più importanza se si osserva che la Gallia era una
regione di profonda romanizzazione. E qui entra in gioco la religione.
La diversa sensibilità cristiana legata ai suoi obblighi di
missione, una volta usciti dal mondo ristretto del paganesimo latino, ci
205
fornisce brandelli di una civiltà nascosta. I contadini parlavano in
lingua celtica, da qui il termine bacaudae. I due capi, Amando ed
Eliano, dovevano essere cittadini romani.
I bacaudae, erano contadini, privi di esperienza militare e i loro
attacchi erano semplici scorrerie, anche se Eumenio ci dice che
tentarono di darsi un’organizzazione47.
Le etnie sottomesse scoprivano i loro antichi modi di combattere,
e non come disse Eumenio, copiando quella barbara. Fu forse proprio
l’incontro con i terribili conquistatori che impazzavano nell’impero
ormai allo sbando a risvegliare l’animo guerriero delle tribù, prima
contro gli invasori e poi contro i padroni romani. Bisogna ricordare
che la qualità militare costituiva una caratteristica fondamentale per
qualsiasi etnia che voglia affermare una sua esistenza indipendente.
Nel Medioevo, non potevano esserci “stati” o “nazioni” disarmate.
Dopo la sconfitta infertagli dalle truppe romane di Diocleziano,
si pensò che i “contadini” fossero stati eliminati. Ma non era così.
Ottant’anni dopo infatti le fonti dell’impero ci parlano di masse
contadine che mettono in crisi l’impero spopolando i campi e
compiendo brigantaggio. Manca solo il nome per chiamarli bacaudae.
Siamo negli anni della crisi della prefettura gallica, 406. Barbari
attraversano il Reno ghiacciato e mettono a ferro e fuoco la Gallia,
trovando la risposta inadeguata dei generali, che anzi si rendevano
autonomi prendendo nelle loro mani la difesa, con il solo scopo finale
di usurpare l’autorità imperiale. Mentre barbari, autorità imperiali
legittime e generali ribelli si contendevano la Gallia e la Spagna, i ceti
subalterni non erano rimasti spettatori passivi, ma avevano preso a
47Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pagg. 47-48.
206
loro volta iniziative militari. Tipico di queste iniziative era il loro
andamento ciclico, cioè il ripetersi in coincidenza di crisi strutturali
della società, che rendevano ancora più invivibili le condizioni del
ceto debole.
La domanda che vien fuori è: si tratta di rivoluzione sociale o di
semplici atti di brigantaggio per sfruttare la situazione di crisi?
I bacaudae dovettero essere più dei semplici ”banditi sociali” che
esprimevano in modo più o meno inconsapevole un’opposizione
socio-economica, ed etnico-culurale, all’Impero.
La bacauda, appare radicata nella Gallia nordoccidentale, nella
zona nota come Tractus Armoricanus (dalla foce della Garonna a
quella della Senna) ed ha fondamento etnico e non religioso.
Fonti ci informano che bacaudae e Armoricani sono la stessa
cosa.
Il magister militum Ezio teneva a bada con estrema difficoltà i
bacaudae e i nuovi potenti barbari invasori, gli Unni, a cui Eudossio,
capo degli Armoricani, aveva chiesto alleanza conto i romani dopo
essere stato sconfitto. Ezio, per fronteggiare la situazione, decise di
servirsi di alcuni barbari per ristabilire l’ordine, gli Alani. Questo
comportamento dei barbari, chi contro, chi alleato dei romani, fa
capire che non c’è un legame tra i bacaudae e i barbari contro i
romani.
Di fronte ala minaccia degli Alani, gli Armoricani, decisero di
trattare.
Loro inviato fu il vescovo Germano, divenuto caposaldo del
popolo dopo la fuga di Eudossio. Un accordo tra le due parti quindi
non era impossibile. Così i bacaudae, in una Gallia in profonda crisi,
si stavano trasformando in organizzatori di uno stato autonomo, il cui
207
scopo doveva essere l’autodifesa contro i barbari e non
un’irrealizzabile rivoluzione sociale.
Salviano identifica le cause del divorzio tra le masse celtiche
(della Gallia e della Spagna) e l’Impero. Queste risiedono nella
durissima oppressione fiscale, resa ancor più grande dalla disonestà
dei giudici e dei funzionari. Molti cittadini, anche ricchi, per salvare la
libertà fuggono presso i barbari. I bacaudae, per Salviano, non sono
un popolo barbaro, sono uomini perduti, perché noi li abbiamo
costretti a diventare criminali.
Come i barbari, anche i bacaudae, potevano diventare alleati di
Roma. Questo accadde durante la battaglia dei Campi Catalaunici, del
451 contro Attila e gli Unni e i loro alleati germanici. La battaglia fu
fatta per preservare la prefettura gallica dall’invasione unna. Gli
antichi bacaudae erano diventati gli esponenti di uno stato “romano-
celtico” alleato dell’impero, al pari dei primi regni “romano-
germanici”.
Ma non tutte le vicende delle bacaudae erano così. In Spagna ad
esempio, collocabile nelle regioni montuose del nordovest, già altere
contro quelle della costa e del mezzogiorno, e identificabili in seguito
con il popolo dei Baschi, che pure sottomessi all’età di Augusto non
erano mai entrati a far parte dello stato romano, l’esperienza della
bacauda sembra essere in un fase più arretrata ed elementare di quella
gallica. Appare una semplice rivolta, priva di qualsiasi legame
organico, legame che in Gallia già si stava realizzando.
208
12. Il mondo dei Germani
I germani rappresentano l’elemento nuovo che si innestò, tra la
fine del mondo antico e l’inizio del medioevo, nelle regioni
occidentali e mediterranee dell’Europa.
La discussione sulle loro origini etniche si collega con due fattori
che ne complicano lo studio: la scoperta degli indo-europei
(riconoscere un’unità tra i moderni europei, iranici e indiani);
l’apparizione, nelle cultura europea, di tematiche di tipo razzista (che
poi esploderanno nel Terzo Reich).
I due elementi si collegano, l’uno con l’altro, non a caso invece
del termine “Indo-europei”, in Germania si usa il termine “Indo-
germanici”, facendo dei tedeschi i più puri discendenti in occidente
del ceppo ariano.
La polemica iniziava già nel XVI secolo, da un’opera di Tacito:
Germania48.
Il libro ebbe due utilizzi: il pontefice Pio II lo utilizzò per esaltare
le virtù guerriere dei Tedeschi e incitarli alla crociata contro i Turchi;
gli umanisti riformisti tedeschi, nell’opera del 98 a.c. , videro
l’esaltazione della virtù del loro popolo opposto alla decadenza di
quello “romano” e l’affermazione che i loro antenati erano autoctoni,
cioè originari del paese e quindi immuni dal connubio con qualche
altra nazione.
Per scardinare questa forma di purezza razziale ci si rifà a due
schemi di osservazione:
- le origini di un popolo scaturirebbero dalla suddivisione di un
48 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 60.
209
primitivo popolo comune in tante tribù diverse, che espandendosi sul
territorio danno vita a processi di etnogenesi;
- c’è l’esistenza, all’origine del processo etnogenetico, di piccoli
nuclei tribali che piano piano si sarebbero trasformati in popoli più
grandi.
Tenendo come esame la prima teoria, si postula l’esistenza di un
popolo originario indo-europeo dal quale, verso la fine del Neolitico,
si sarebbero staccati i diversi popoli, che poi si divisero nelle varie
tribù. Si individuava poi l’area di sviluppo che, per le tribù proto-
germaniche, sarà quella tra la Scandinavia meridionale, la Bassa Elba
e la foce del Reno ad ovest. Individuata l’area si passava ad applicare
lo schema nomandi-sedentari, per spiegarne l’espansione e cercare le
tracce archeologiche con cui giustificarla. L’Urvolk, il popolo
originario tedesco sarebbe nato dalla fusione di due popoli, che
espressero la cultura dell’ascia da combattimento e che sottomisero i
popoli agricoltori delle regioni baltiche.
L’Urvolk si sarebbe poi suddiviso in tre grandi popoli: Istveoni,
Erminoni, Ingveoni. Questi, a loro volta, nella tarda età del bronzo e
nell’età del ferro, si sarebbero frantumati in un’infinità di popoli, più
tardi entrati nell’orbita romana.
Ma così facendo ci troviamo di fronte ad un triplice ordine di
questioni:
- non è quasi mai possibile collegare con certezza le fonti
archeologiche a determinati popoli noti dalle fonti scritte;
- il processo di migrazione inteso come processo etnogenetico,
non va considerato come unico ed inevitabile. Ad esempio uno
schema valido è quello “dell’onda dell’avanzamento”: le novità si
propagano come le onde per spostamento progressivo, in questo caso
210
di gruppi umani portatori delle novità;
- la questione razziale. I popoli preistorici non rappresentano un
etnia chiusa. I germani è ipotizzabile che non siano precedenti alle
migrazioni. Questa corrisponde alla fase finale del loro processo,
nessuna unità di sangue e suolo ma un grosso meticciato con pluralità
di relazioni ed etnie.
Così si fa rifermento alla seconda teoria, che ci mostra il
“germanesimo” come prodotto di una lenta e complessa evoluzione
storica della quale è il risultato finale, non l’inizio.
I Germani non erano molto sedentari al momento della loro
penetrazione entro i confini dell’Impero, cioè avevano uno stadio di
civiltà molto arcaico.
Sarebbe meglio però partire dal processo che li ha portati a
sovrapporsi alle popolazioni dell’Europa occidentale: la migrazione
(Wanderung), intesa come fase di trasformazione culturale.
Popolo seminomade, non avevano città e campi permanenti ma si
spostavano all’interno dello stesso spazio territoriale. La terra era
ritenuta proprietà collettiva, che ogni anno la distribuiva tra i suoi
membri, mediante l’azione dei capi, per evitare che gli uomini si
attaccassero troppo ad essa trascurando l’attività guerriera. Cesare, nel
De bello Gallico, ce li presenta come guerrieri e secondariamente
come agricoltori. Erano infatti modesti agricoltori, ciò spiega perché
erano seminomadi, una volta sfruttata la terra fino all’esaurimento
l’abbandonavano per poi tornare una volta finito il giro. Non aveva a
che fare con le grandi migrazioni, tipo quella Longobarda che dal
Reno arrivò fino in Italia e che comportava guerre con i gruppi tribali
dei territori dove si passava. La guerra tra le tribù infatti segnava
l’annessione degli sconfitti alla tribù trionfante. Non tutti migravano.
211
Sui Longobardi si narra che, causa una carestia, un terzo dei giovani
dovette emigrare e da quella gente ebbe origine la stirpe dei
longobardi. Ma attenzione, i processi messi in atto dalle migrazioni
non sono solo di suddivisione, ma anche di aggregazione.
Osserviamo come alle tribù antiche, Istveoni, Erminoni,
Ingveoni, i primi secoli della cristianità andarono sostituendo
mediante processi di aggregazione nuovi nuclei:
- i Goti tra il Danubio e il Mar Nero, dal III secolo a.c. ;
- i Franchi sul Reno, V-VI secolo;
- i Longobardi in Pannonia e poi in Italia;
- gruppi secondari come gli Alemanni ( alle mannen, “tutti gli
uomini), fortemente meticcio, i Bavari;
Tutti questi processi daranno vita alla gentes, che invaderanno
l’Impero romano a partire dal IV secolo, in cui della vecchia stirpe
delle tre tribù non c’era più traccia49.
Per definire le aggregazioni etniche germaniche il termine più
corretto è tribù, comunità che attestano la propria discendenza da un
antenato mitico. Le caratteristiche unità della lingua, possesso di
diritto comune a tutti i liberi, religione e tradizioni comuni, mito delle
origini. Dal dio Tuisto discenderebbero le tre tribù arcaiche. La
credenza in queste discendenze era elemento culturale e religioso.
Chiunque riconoscesse questa tradizione poteva fare parte della tribù.
Dal mito dell’origine, nucleo principale, discendevano poi tutte le
altre usanze, regole e norme.
La religione era anche fonte di aggregazione. Più tribù potevano
formare leghe sacre cementate da una comune adorazione. La più
49 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pagg. 70-71.
212
comune era l’adorazione della dea Nerthus, una sorta di madre terra
(nostra fonte ancora Taicito).
Accanto a questo e all’assimilazione dei popoli sconfitti c’era
anche un altro modo di aggregazione: il comitatus, che consisteva nel
raggrupparsi intorno ad un capo di bande (comitatus), di giovani
guerrieri, che si legavano al condottiero con giuramento di fedeltà,
rompendo così i confini tribali.
Il condottiero poteva mettersi con la sua banda al servizio di un
re, e dopo la battaglia scioglierla, oppure costituire un gruppo stabile,
che appoggiandosi ad un principe poteva aspirare ad un comando
regale. Il comitatus era il piedistallo per impadronirsi del titolo di re
all’interno del suo popolo. Tale è la carriera dell’amalo Teodirico che
pervenne al trono fra gli Ostrogoti e tale sarà la carriera del franco
Clodoveo.
L’immagine è quindi quella di un popolo sconfitto che si aggrega
attorno ad un capo e nella fedeltà verso di lui trova un nuovo
orientamento. Nelle tribù germaniche re e comandante militare non
coincidevano. Il primo era scelto per le sue origini mitiche, il secondo
per le sue doti sul campo. La monarchia quindi era a carattere sacro.
Ma l’età delle migrazioni, mettendo la guerra in primo piano, pose il
comando nelle mani dei capi militari a capo dei comitatus. Anche la
religione subiva quest’influenza. Al centro fece la sua comparsa la
figura del dio Wotan, Odino, dio mago, sciamano e guerriero che
divenne il progenitore della nuova stirpe: Amali, da Ansis, semidio,
Gugingi, da Gungnir la magica lancia di Odino.
Fare comunque una generalizzazione di un passaggio da
monarchia sacra a monarchia militare ad esempio, resta pericoloso,
perché il terreno non e sicuro. Ad esempio i merovingi, con Clodoveo
213
in testa, erano una monarchia guerriera, e pure uno degli ultimi re
merovingi Chilperico III, dallo storico Eginardo, è dipinto come un re
sacerdote della madre terra. Le tradizioni tribali e il mito della nascita
restano comunque il cemento che tiene assieme le tribù germaniche
nel periodo delle migrazioni.
Ma ora facciamo un bel passo avanti.
A causare grosse trasformazioni interne al mondo germanico,
furono i romani. Contrariamente a quanto si pensa, vista la violenza
con cui i due popoli si affrontavano, alla base la società germanica era
fortemente collegata con quella imperiale. Diviso il territorio in
Germania superiror e inferior, lungo il corso del fiume Reno, la
presenza romana si fece massiccia e influente. Tra le varie tribù e tra
loro e l’Impero si avviò un vivace commercio, con centro nella via
dell’ambra (dall’Aquilea alle coste del Baltico), che fece entrare la
Germania nell’era della circolazione monetaria. In età imperiale non
esisteva un'unica civiltà germanica, ma parecchie aree culturali
differenti tra loro. L’influenza romana accentuò le differenze sociali ed
economiche nei tessuti tribali. Il fenomeno di compenetrazione crebbe
poi dal II secolo con l’arruolamento dei Germani nelle file
dell’esercito romano. E gli stessi capi germanici, aumentando
l’autorità, accrescevano anche il loro comitatus, per sottomettere altri
capi.
Infine l’influenza proveniente dai nomadi (dalla Russia
meridionale, sulla Germania occidentale). L’influsso nomade che colpì
in prima fila i Goti, che poi la trasmisero a tutti, ai quali poi si
aggiunse anche l’influsso turco degli Unni, si fece sentire a tutti i
livelli. I goti divennero il popolo barbaro più prestigioso. Portarono ad
esempio l’introduzione del combattimento a cavallo, mentre prima si
214
combatteva a piedi. La Germania orientale si diversificò da quella
occidentale “romana”:
- a capo aveva un’aristocrazia cavaliera che dominava su popoli
ed era dedita a saccheggi ad ampio raggio;
- aveva un esercito a cavallo superiore alla fanteria romana:
E il cavallo divenne arma formidabile che portò una
differenziazione sociale tra chi poteva permettersi il costoso
armamento, più il cavallo, e chi no. Il re diventa allora un re-cavaliere,
mentre il dio è sempre Wotan ,Odino, rappresentato sul suo cavallo
Sleipnir. Gli adoratori del destriero venerano culti equestri, ad
esempio quello di Benevento, un Dio germanico che aveva assunto
caratteri nuovi.
Dei, cerimonie religiose, rituali, mutarono dunque presso i
germani orientali, dopo l’incontro con i nomadi.
All’alba del Medioevo, i nuovi popoli della germani che si
affacciavano sull’Europa, non erano un grande nazione, ma un
multiforme fascio di culture guerriere attirate verso le terre
dell’Impero romano.
13. Nuovi regni d’occidente: i Franchi da federati a
dominatori
Data simbolo del dilagare nelle province romane delle forze
barbare è il 476, quando cioè fu deposto l’ultimo imperatore
occidentale, Romolo Augustolo. A ciò si fa risalire la fine del mondo
antico e l’inizio del Medioevo.
Ma il crollo dell’impero fu il risultato di una crisi non solo
militare, ma anche demografica, economica e civile, con un peso
215
anche delle comunità indigene delle province. Gli invasori si
stanziarono sulle antiche terre romane, complicando ulteriormente la
carta etnica di quelle regioni. Le invasioni inoltre crearono politiche
nuove, i cosiddetti regni romano-barbarici, alcuni dei quali
costituiranno il crogiolo entro il quale si formeranno le future nazioni
europee occidentali.
Tra questi, i Franchi non conoscevano con chiarezza le proprie
origini. Alcuni li facevano discendere dalla Pannonia, altri da mitiche
origini troiane. In realtà i franchi erano un popolo nuovo. La
composizione spiegata per i Germani vale ancora di più per i Franchi.
Il nome Franchi appare per la prima volta nel III secolo d.c., ed è un
termine che delle tribù distinte si davano solo quando scendevano in
guerra: Franchi, ossia coraggiosi, o liberi. Nel III secolo insieme agli
Alamanni invasero la Gallia, e tentarono un blitz sul Mediterraneo. La
loro spinta si fermò quando, trovato l’accordo con i romani, divennero
loro federati. Nel 358 dal cesare Giuliano, gli fu assegnata la
Toxandria, con il compito di difendere i confini da altri barbari, di
popolarla e di rimettere a coltura quelle terre. I Franchi rimasero
fedeli anche dopo lo sfondamento del Reno nel 406, ad opera di
numerosi popoli barbari, e grazie a tale fedeltà, dalle autorità romane
superstiti gli fu permesso di espandersi verso occidente, colonizzando
il Belgio, la Francia del nord e il corso inferiore del Reno. L’azione
franca poteva però essere ambigua, vista come azione di riconquista
romana, in quanto formalmente riconoscevano le autorità romane50.
Capi dei Franchi erano i re merovingi, che fondarono il proprio
potere sia sulle abilità di guerra sia sulla propria sacralità pagana.
50 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 85.
216
Primo esponete dei reges criniti, fu Clodio, che si ribellò
all’imperatore d’occidente alla metà del V secolo. Meroveo, figlio di
Clodio, lasciò da parte la rivolta e combattè al fianco dei romani
contro Attila ai Campi Catalaunici. Anche il figlio di Meroveo,
Chilperico, rimase fedele ai romani, nonostante la morte di Ezio
avesse fatto crollare l’autorità imperiale, affiancandoli nelle guerra
contro i Visigoti, che premevano a sud della Loira, fino alla sua morte
nel 482. Al nuovo re Clodoveo giunse la lettera del vescovo di Reims,
Remigio, che gli sottolineava i vantaggi di un’alleanza con la chiesa e
l’episcopato gallo-romano. Ciò ci mostra come i Franchi fossero
riconosciuti dall’aristocrazia gallo-romana e come Clodoveo fosse
legittimo reggitore. Clodoveo non sottovalutava il potere dei vescovi,
autentici capi della comunità cristiana, e accettò i consigli del
vescovo, abbandonando il paganesimo per abbracciare la religione
cristiana. La conversione è da sottolineare perché avveniva dopo la
caduta dell’autorità romana, e quindi non era più vista come azione
legata solo alla possibilità offerta ad un capo barbaro che combatteva
al servizio di Roma. Con il crollo dell’autorità imperiale i Franchi
potevano agire in proprio. Eliminato il generale romano Siagrio (486),
e respinti i Visigoti, si impadronì di buona parte della Gallia e
sottomise Burgundi e Alamanni.
In una data tra il 496 e il 506, Clodoveo si convertì al
cristianesimo, si dice la promessa fosse legata alla richiesta di ottenere
la vittoria su gli Alamanni a Zulpich. Diventato cristiano, Clodoveo
poté presentarsi come difensore delle popolazioni cattoliche gallo-
romane. Con la sconfitta del re visigoto Alarico II, Clodoveo espanse
il suo regno anche sul regno visigoto di Tolosa, raccogliendo un potere
superiore a quello posseduto fin ora da qualunque capo barbaro prima
217
di lui.
Clodoveo governava la Galllia, la regione forse più ricca
dell’antico Occidente e in più aveva, cosa mai successa, l’appoggio
dei vescovi, indispensabile visto il loro prestigio come capi naturali
della popolazione gallo-romana.
Il potere di Clodoveo da una base tribale, cioè riconosciuto
dall’esercito, formato da uomini liberi, grazie al legame con i vescovi
diventava territoriale, cioè raggiungeva la stessa popolazione romana.
Il riconoscimento da parte di Bisanzio del titolo di patrizio è ben altro
che una semplice continuazione della tradizione di federati di Roma.
Si trattava del riconoscimento di un nuova legittima dominazione e del
suo inserimento nel quadro internazionale.
Si è capito che nell’affermazione di Clodoveo, i gallo-romani, e
in particolare i vescovi, giocarono un ruolo fondamentale. I vescovi
infatti erano per lo più di estrazione senatoria, avevano peso politico e
operavano anche in campo militare, guadagnandosi il titolo di
defensores civitatis. Ad esempio Ilario vescovo di Arles, combattè
contro i re visigoti e burgundi.
Accanto ai vescovi fu importante anche l’integrazione dei
magnati laici, i senatori, che collaborarono con i Franchi a corte e sul
campo militare, con i loro numerosi seguiti armati, i buccellarii
(mangiatori di buccellae, gallette).
Tutti questi segnali di presenza politico militare e di indubbio
prestigio sociale dei Gallo romani spingono a riflettere sull’esperienza
estrema della romanità come potere politico in Gallia e nel resto
dell’occidente tra la fine del V e l’inizio del VI secolo.
Analizziamo questo partendo dalla vittoria di Clodoveo su
Siagrio e l’eliminazione dello stato romano con centro a Soissons,
218
sopravvissuto alla fine degli imperatori occidentali e resosi autonomo
già nel 461. Lo stato di Siagrio ci fa vedere come questi generali
esprimevano un sentimento di autonomia nazionale gallica,
spezzandosi dalla romanità ormai al suo tramonto, e facendo
resistenza contro gli invasori. L’esempio di Siagrio ci mostra la brevità
di questi episodi di resistenza romana. Dietro il nome romano ormai
non si celava più niente, nessuna identità, ma invece il problema di
assicurare al vertice della scala sociale ed economica l’aristocrazia
senatoria che si accorse che poteva ottenere maggiore tutela
dall’alleanza con i nuovi poteri barbari.
Così, di fronte ad un’offerta di protezione, i senatori non
esitarono a scegliere Clodoveo e a mettere da parte il generale Siagrio.
Addirittura si erano accostati alla parte visigota prima di accostarsi ai
Franchi.
Ma bisogna fare due precisazioni:
- l’orgoglio di appartenenza alla origini romane dell’aristocrazia
gallica rimase fortissima fino all’anno Mille;
- l’abbandono dell’appoggio dei senatori alle residue autorità
romane a favore dei barbari avvenne solo quando parve chiaro che i
poteri barbari erano in grado più di ogni altro potere di tutelare gli
interessi materiali dell’aristocrazia senatoria; in più si unì una
comunanza di fede che risultava più pura nei capi germanici che nella
corrotta Bisanzio.
L’elemento identificatore più forte del tardo V secolo non è più
una romanità politica, ma una romanità cristiana. Ecco perché i
Franchi appaiono i più adatti a prendere la testa della società.
Non bisogna infine dimenticare l’evoluzione etnica,
sufficientemente chiara. Mescolanza di elementi germanici e romani,
219
con i primi che prevalevano a livello di potere politico e militare, e i
secondi monopolizzavano la chiesa, ridotta a piccola amministrazione
civile.
In questo quadro si presenta il problema etnico.
I Franchi non riuscivano ad occupare tutto il territorio. Erano
numerosi nel nordest, per poi iniziare a diminuire a sud, fino a
scomparire nella Loira. Di questa disomogenea distribuzione ne
risentirono anche gli altri aspetti. La lingua ad esempio. Nelle zone
nordest fece indietreggiare il confine linguistico romano, ma a sud
erano i franchi che persero la propria a vantaggio del latino.
La fusione fu comunque un processo lento. Avvenne un po’ più
rapidamente ai due estremi societari, ossia tra i contadini e
l’aristocrazia.
Più lenta fu nelle classi intermedie. Anche la legge sentì
l’influenza della fusione, perché per tutto il VI secolo i romani davanti
alla legge valevano la metà dei Franchi. I romani erano i liti, gli
stranieri liberi. I romani inoltre conservavano il proprio diritto, ma se
erano giudicati con un franco lo perdevano e assumevano quello
franco.
Anche nell’impero romano era così, i ricchi rimanevano
giuridicamente inferiori a un cittadino romano.
Altro fattore fu l’esercito, cui i romani rispondevano col
comando regio di convocazione.
Con la trasformazione delle strutture tribali del regno franco in
strutture territoriali, il privilegio franco non aveva più senso. All’alba
del VIII secolo i due elementi, romano e germanico, saranno
pressoché fusi.
220
14. Una piccola parentesi: l’Italia longobarda
Con l’invasione dei longobardi, la penisola uscì per sempre fuori
dal sistema politico imperiale romano, nel quale si trovava da tempo
immemore.
A dare maggior forza a questa uscita fu un fatto che si andava
verificando: l’eliminazione del ceto senatorio, che incarnava la
tradizione colta e universalistica dell’impero. Paolo Diacono ci
accenna di stragi e confische di terra che imperversavano sulla
penisola, a partire dal regno di Clefi e proseguiti per altri 10 anni.
Emerge allora, come rimedio alle continue scorrerie e ai continui
massacri fatti dai Longobardi, papa Gregorio Magno che, in una sua
lettera, ammonisce il re longobardo Agilulfo, affermando quanto fosse
assurdo decimare i contadini, il cui lavoro giova a entrambi. In altri
termini, la campagna doveva pur essere coltivata da qualcuno. Grazie
all’azione di Gregorio, che fece da mediatore tra Longobardi e impero,
si stabilì una prima forma di tregua in un’Italia ormai stabilmente
invasa, dove ormai del ruolo dominante dei senatori non c’era più
traccia. La perdita della classe senatoria portò comunque ad una
dissoluzione delle strutture amministrative di base nella società. Ad
esempio, i palazzi che crollavano non potevano più essere ricostruiti,
perché era la classe senatoria quella dedita all’evergetismo urbano.
Regresso economico, rarefazione demografica, decadenza delle città,
inselvatichimento del paesaggio, sono tutti i fenomeni legati
all’involuzione civile che caratterizzò Italia e Mediterraneo tra
Antichità e Medioevo51.
51 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 147.
221
Tutto questo era legato alla scomparsa del ceto senatorio, l’unico
in grado di padroneggiare i meccanismi di auto-riproduzione di una
società complessa.
La scomparsa dei senatori quindi portava al crollo definitivo
della civiltà antica.
Questo poteva essere un vantaggio per le piccole etnie indigene,
perché la spinta verso una forma più elementare di vita poteva fargli
trovare un punto di contatto con gli invasori.
In realtà, c’era una tradizione elevata sopravvissuta, che si
andava affiancando a quella germanica delle armi: la cultura
ecclesiastica, che però dopo il 569 fu messa ai margini. Vescovi
dell’Italia longobarda andarono in fuga verso Bisanzio, e in una
condizione così profonda di povertà ed emigrazione, i vescovi non
potevano incidere in modo efficace sul livello generale della vita.
E i “romani”? Era difficile stilare la loro condizione sociale,
specialmente nei primi anni di conquista: servi, liberi o semiliberi?
L’esercito longobardo coincideva con i rappresentanti
politicamente attivi, poiché ai tempi dell’invasione la loro
organizzazione socio-politica era ancora tribale, e si sentiva per questo
unito e compatto contro il mondo esterno.
La legge longobarda, fino al re Rotari (643), era prettamente
tribale, ossia i popoli sconfitti non erano protetti dall’ordinamento
giuridico, non venendo affatto considerati. Ad esempio, quando Rotari
decretò il suo editto, i romani non furono mai citati, come se non
esistessero. Essi vivevano ancora secondo le leggi del diritto romano
che progressivamente, affidato alla sola memoria, andò trasformandosi
in semplice consuetudine locale.
La strage dei senatori trova anche un'altra causa. Questi erano
222
ricchi latifondisti e la loro uccisone suonava come necessaria per
l’esproprio della loro terra. I romani divennero la massa di lavoratori
della terra che i capi longobardi confiscarono, lasciando sotto
pagamento di tributi i “romani a lavorare sulla terra dei longobardi”.
L’esproprio però non si pensa sia stato totale, ma solo parziale,
visto che anche i Longobardi, un po’ come i Goti e i Franchi, erano
pochi di numero. Così ai canoni Romani, per molti proprietari terrieri,
si sostituirono quelli longobardi.
La separazione tra le due etnie si attenuerà poi per tre fattori:
- la contiguità fra Longobardi e Romani, più forte in città che in
campagna, perché in città, a differenza delle campagne dove la dimora
del gruppo familiare dominante sorgeva isolata, questi si stabiliscono
nelle vecchie strutture romane a contatto con la parte più colta della
popolazione: vescovi e clero. Così la minoranza longobarda delle città
era normale che non conservasse la sua separatezza;
- i matrimoni misti, numerosi e non vietati dalla legge;
- la piena e definitiva conversione al cristianesimo. Avvenuta
nella II metà del VII secolo, nel 653 con l’abbandono ufficiale
all’arianesimo e poi con il ripudio dell’eresia tricapitolina nel sinodo
di Pavia del 698 con re Cuniperto.
Il sinodo fu anche un modo per la Chiesa di Roma di
riavvicinarsi alla penisola.
In più, si verificò uno scambio di nomi: i barbari chiamavano i
figli con i nomi dei santi e ai romani non era impedito usare nomi
barbari.
Tutto questo unito, all’uso della stessa lingua, gettava le basi per
la fusione.
223
15. L’impero Carolingio
L’impero carolingio, formatosi dall’ascesa dei maestri di palazzo
e dalle conquiste di Carlo Magno, era un impero multietnico.
Comprendeva genti romaniche e germaniche, e piccole minoranze
attive, bretoni e basche.
Il problema era come far convivere l’organismo imperiale con
differenti realtà etniche al suo interno.
L’impero, da noi definito carolingio, era per i protagonisti,
vescovi, sovrani e pontefici, la continuazione dell’antico impero
romano-cristiano, in veste integralmente cristiana. Carlo, acclamato
“imperatore romano” nell’800, in realtà doveva essere inteso come
“cristiano”. L’impero coincideva con l’ecclesia e i sudditi
dell’imperatore erano il popolo di Dio. L’impero diveniva così
connubio tra regnum ed ecclesia, dove convivevano le due forze
maggiori dell’Occidente52.
Assumendo sia il titolo di impero romano sia quello di impero
franco, sottolineava la sua pretesa di universalità, negandola
all’impero “concorrente” ossia quello bizantino, erede diretto della
tarda antichità dell’impero romano.
Da qui il contrasto tra le due identità e la nascita della teoria della
translatio imperii, cioè il passaggio dell’Impero in Occidente, a causa
degli errori e dei peccati dei bizantini.
L’universalità romana e cristiana è la caratteristica fondamentale
dell’impero carolingio. Ma come si risolse il problema di realizzare
nella pratica questa universalità? Non avendo le capacità dell’antico
52 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 164.
224
impero di imporre ordinamenti politico-istituzionali unitari, i
Carolingi rispettarono le realtà esistenti, in Italia, Germania,
esportando la loro efficace rete di legami vassallatici, e legandosi
ovunque con la Chiesa, in primo luogo con abati e vescovi di grandi
monasteri. Il cemento dell’impero carolingio era costituito dalle
direttive ecclesiastiche, mentre in campo giuridico l’impero concesse
ad ogni provincia di amministrarsi tramite le proprie leggi, pur
rimanendo presente in maniera totale, tramite i capitolari.
15.1 Un impero, tante leggi
Differenti leggi nazionali sopravvivevano, all’inizio del IX
secolo, entro la cornice dell’impero carolingio.
Possiamo individuare così una prima fase di bipartizione
giuridica, nella quale si fronteggiano il diritto romano, delle
popolazioni indigene, e quello degli invasori.
In questa prima fase, trovato l’accordo con le popolazioni
indigene, furono promulgate leggi che dovevano regolare i rapporti tra
le due popolazioni, dai piccoli ai grandi problemi.
Come giudicare quindi l’operato carolingio?
Si poteva pensare forse che questi avrebbero imposto a tutto
l’occidente arcaiche consuetudini germaniche, ma questo appare poco
probabile perché in contraddizione col carattere di rinascita culturale
riconosciuto all’età carolingia e allo stretto rapporto dei nuovi
dominatori con i vertici della Chiesa occidentale: il papato.
Riportiamo ora una parte di un testo scritto da Carlo:
<<essendo venuti in Italia per l’unità della santa Chiesa di Dio e
per sistemare la situazione delle provincie, ed essendo state discusse al
nostro cospetto nelle varie città molte e diverse questioni [...] molte
225
dispute sono state risolte immediatamente sulla base […] della relativa
legge romana o longobarda, altri problemi dovettero essere risolti dal
nostro giudizio senza l’appoggio di leggi precedenti; noi […] abbiamo
aggiunto […] tutto ciò che hanno trascurato i nostri predecessori re
d’Italia negli editti della legge longobarda […]>>53.
Questo testo, datato 801, assume un carattere emblematico in
quanto riguarda i rapporti tra i capitolari degli imperatori e le leggi
esistenti nei diversi regni.
I capitolari, emanati nelle assemblee nelle quali il re si riuniva
con i grandi laici ed ecclesiastici, affrontavano, nella maggior parte
dei casi, la redazione di nuove norme dovute a questioni particolari,
risolte le quali si cercava di offrire un modello di interpretazione
valido per tutti e per il futuro.
In seguito alla riunione, venivano redatti dei capitula di norme
che i missi dovevano diffondere nell’Impero. La vera fonte della legge
era quindi la voce del re propagata dai suoi missi. Il capitolare
emanato da Carlo si proponeva di proseguire le leggi esistenti,
integrandole in tutti i casi in cui si fossero rivelati manchevoli. Il
capitolare dell’801 ci permette di capire i rapporti fra questi e le leggi
nazionali, legittimate dal nuovo regime carolingio che le riconosceva
come valide nel momento stesso in cui le integrava con i capitolari.
Possiamo distinguere due capitolari: quelli “regionali” e quelli
aventi valore per tutto l’Impero che completavano l’architettura del
sistema giuridico carolingio. Quello che viene fuori non è un sistema
primitivo, ma la forza politica di un impero universale, che nonostante
fosse incapace di produrre una completa legislazione unitaria, era
53 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pagg. 165.
226
comunque in grado di coordinare le diverse realtà giuridiche, e che
trova il suo centro nel sovrano.
Per chiarire ancora di più il valore assunto dalle leggi nazionali
dei popoli germanici, a partire dall’VIII secolo, possiamo riportare un
pezzo di un capitolare: <<ogni uomo abbia la sua legge, tanto i
Romani che i Salici, e se qualcuno sarà venuto da un'altra provincia
viva secondo la legge della sua patria>>. Si tratta dunque della legge
del paese nel quale si è nati, non della legge del popolo a cui si
apparteneva. Le leggi nazionali erano ormai le leggi delle province
nelle quali si divideva la dominazione franca, già prima che con Carlo
si formasse l’impero.
La creazione di un impero multietnico comportò che le leggi
nazionali fossero riconosciute valide non solo nei confini, ma che se
ne conservasse la validità anche fuori. Questo rappresenta una novità
rispetto a quando, prima, lo straniero era considerato privo di tutela
giuridica. Ora l’impero dava legittimità a tutti ed era in grado di
assicurarne il valore anche al di fuori del territorio di appartenenza.
Più che parlare di personalità della legge, si può parlare di leggi
territoriali mobili.
15.2 Popoli nuovi
La “negazione della personalità” delle leggi è legata quindi al
forte compattamento etnico e territoriale dell’Impero.
I processi di fusione tra indigeni e invasori sono andati molto
avanti, tanto da dirsi conclusi intorno al IX secolo, con il comune
inquadramento politico-ecclesiastico.
Mentre si affievoliva anche la differenza tra Austria e Neustria.
Singolare è il fenomeno che vede gli abitanti dell’Aquitania
227
chiamati “romani”, dove il termine “romano” diventa regionale, ossia
indica gli aquitani. Solo col processo di regionalizzazione, il termine
“aquitani” prenderà il suo posto.
Così anche il termine “franco” andava ad indicare un abitante
delle regioni del nord della Loira, e non più un franco di stirpe.
La dinamicità tra il perdurare dei nomi “Franchi” e “Romani”
celava due realtà ben diverse. Non si fronteggiavano più due tribù, ma
due popolazioni, una a nord e una a sud della Gallia, caratterizzate da
particolarismi regionali, ed entrambe con caratteri misti. Sotto gli
antichi nomi le realtà etniche saranno diverse dal passato,
sottolineando come i processi di etnogenesi abbiano prodotto realtà
nuove.
Comunque, negare la personalità delle leggi, non toglie che a
ogniuno fosse riconosciuto il diritto di farsi giudicare secondo la
propria legge.
Differente era la situazione italiana, dove era presente anche la
legge romana.
15.3 La lingua
Accanto alla legge emergeva il dato inequivocabile di
differenziazione linguistica.
Una delle prime testimonianze è quella dell’813. Al concilio di
Tours è stabilito che ogni vescovo <<debba tradurre le medesime
omelie nella lingua romana rustica o in quella tedesca>>.
Il latino infatti aveva assunto un ruolo importante nella rinascita
culturale carolingia.
Va però sottolineato che alla norma ti Tours vanno contrapporsi
precisi ambiti linguistici regionali, non legati alle arcaiche
228
sovrapposizioni tra le lingue romano-germaniche.
Osserviamo così una duplice situazione:
- nell’area franca della Gallia, compresa quella burgunda,
esplicitamente romana (ossia provenzale e aquitanica), compare una
lingua romanza che si rifà all’impronta linguistica dei romani
sterminati;
- un'altra area dove è parlata una nuova lingua definita col
termine theodisca, vale a dire tedesca.
Da questa divisione viene fuori che non ci troviamo di fronte al
vecchio bilinguismo perché il termine tedesco, che indica la lingua
parlata nelle regioni orientali dell’Impero, e il popolo tedesco non
erano fin ora mai esistiti.
E’ il bacino del fiume Schelda la zona individuata nella quale
compare per la prima volta l’equivalente popolare del termine tedesco.
Stretto è il legame che unisce questa lingua alla predicazione
religiosa, che si appoggiava sia sulle opposizioni alle conversioni
trovate nei popoli del confine tra aree romanze e tedesche, che
parlavano il tedesco; sia perché forse, nel contenuto del termine
Theudisk, si annidava un significato religioso.
Il termine deriva dal antico theod, che significa “popolo”. Da qui
la premessa da cui partirà Carlo per insistere che la riforma culturale e
religiosa aveva necessità di essere predicata in volgare romanzo sul
fronte delle popolazioni di confine.
Strabone, ancora, tenta di dimostrare nella sua opera, come la sua
lingua, ossia il tedesco, potesse esprimere tutto ciò che riguardava la
Chiesa e il culto, avvallando la tesi che la lingua barbara, di preciso
quella gotica, avesse ricevuto e poi trasmesso a tutti gli altri barbari la
grecità, ovvero una delle lingue insieme al latino ad aver raggiunto la
229
sacralità (il greco). Chiaro è il tentativo di innalzare i dialetti a livello
elevato di lingua ecclesiale.
Importante è anche fare una accenno al campo giuridico.
In termini di abitanti, il termine tedesco era usato, in Italia, per
indicare i popoli d’oltralpe che parlavano lingua tedesca: Alamanni,
Bavari e Franchi. Questo non ha ancora valore nazionale, ma conserva
una sua importanza, soprattutto in campo giuridico. Lo dimostra la
testimonianza di alcuni capitolari. Nell’801, ad esempio, Carlo
parlando della minaccia di pena di morte per chi abbandonava
l’esercito, ricordava che si trattava di <<ciò che in lingua tedesca
chiamiamo herisliz>>. Due sono la possibilità: o si intende fare
riferimento al “popolo tedesco”, ossia a quello che parla quella lingua,
oppure si rimanda ad un sistema giuridico culturale specifico delle
popolazioni a sud delle Alpi. Erano quindi termini di valore tecnico,
inseriti nei testi latini dei capitolari, come riferimento allo spessore
culturale non romanzo dei legislatori franchi.
Alla data dell’853 però si verificherà un fatto molto più
importante delle apparizioni del theodiscus nei capitolari: a Strasburgo
vennero per la prima volta messi per iscritto testi in lingua romanza e
tedesca.
Ma andiamo con ordine.
Il 14 Febbraio dell’842, Carlo il Calvo, re dei Franchi
occidentali, e Ludovico il Germanico, re dei Franchi Orientali, si
scambiarono un reciproco giuramento di alleanza pronunciato in
antico francese da Ludovico e in tedesco da Carlo.
L’episodio si inquadra nella guerra civile che attanagliava il
regno dopo la morte di Ludovico il Pio nell’840. I suoi figli,
Ludovico, Carlo e Lotario, il maggiore e investito del titolo di
230
imperatore, si contendevano il trono.
In questa fase il giuramento di Strasburgo funge da tentativo di
eliminare ogni tipo di doppiezza. Il testo, messo per iscritto dallo
storico Nitardo, mostra come esistesse una precisa divisione in due
aree linguistiche ben distinte, e con chiaro confine. Con i fatti di
Strasburgo le due aree linguistiche andarono separandosi anche
politicamente. Infatti l’anno dopo, nel 843 a Verdun, Lotario dovette
incassare la sconfitta contro i due fratelli alleati. Il trattato manteneva
a Lotario il titolo imperiale, con possedimenti quali l’Italia e una
piccola fascia dalle Alpi al Mare del Nord. Nonostante il titolo era il
più debole dei tre. Carlo il Calvo fu confermato re della Francia
Occidentale Ludovico re di quella Orientale.
La divisione aveva per la prima volta dall’800 messo in
discussione il primato dell’imperatore.
Ma la divisione di Verdun che valore ha nella prospettiva della
formazione delle nazioni?
Sestan dice che da qui presero appunto le fondamenta della
formazione delle nazioni.
Pirenne invece afferma una diversa scelta di criteri: a divisione
non fu fatta su criteri nazionali, perchè Lotario governava su una
fascia multietnica e multilingue.
La divisione nella aree di Carlo e Ludovico mirava a equilibrare
e compattare le rispettive aree di influenza.
La volontà di mantenere l’Impero, anche se indebolito, mostra
l’impossibilità dei quadri dirigenti laici ed ecclesiastici di pensarsi al
di fuori di questo. L’impero era una dominazione universale a causa
del connubio con la Chiesa.
231
Il regno comunque, anche se diviso, restava sempre nelle mani
della stessa famiglia54.
15.4 Le minoranze
I regni di Carlo e Ludovico in realtà non erano affatto
compattamente “nazionali”, cioè non c’era coincidenza tra le tre
realtà: linguistica, giuridica e politica generale. Questi tre dati anzi
trovavano maggiore coesione a livello minore o subregionale.
Ad esempio, l’Aquitania, “nata” nel 673 quando con la crisi del
potere merovingio Lupo ne divenne duca costruendo un principato,
nonostante fosse dal 769 sottomessa a Carlo, conservava una sua
fisionomia territoriale autonoma. Nel 778 Carlo nominò un ancora
giovane Ludovico il Pio re d’Aquitania, installando lì nuovi vescovi,
conti e abati franchi.
Ma all’interno dello stresso ducato di Aquitania, si distinguevano
altre due popolazioni: i Goti della Settimania e i Baschi di Guascogna
e della Novempopulana. Non a caso un anonimo autore scrive che ai
tempi di Pipino questi aveva sottomesso sia i nobili d’Aquitnia, sia i
Baschi, che ora costituivano una realtà in fermento.
Il confine dell’Aquitania, era stato rafforzato con una maggiore
presenza franca dopo la sconfitta di Roncisvalle.
Per orientarsi bene nella questione basca, dobbiamo distinguere
però: i Baschi spagnoli, quelli pirenaici e quelli che facevano parte
dell’Aquitania.
Non tutti i Baschi a nord dei Pirenei furono sottomessi. La
Guascogna occidentale, la zona più controllata, si ribellò più volte;
54Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pagg. 177-178.
232
quelli a sud dei Pirenei, rimasero sempre indipendenti. Il problema
basco, così come quello aquitano, era collegato al problema
meridionale reso particolarmente grave dalla presenza musulmana
nella penisola iberica, perciò i Franchi tentarono di assicurare le
frontiere dell’impero.
Fu eretta la marca di Spagna, dopo la conquista dell’801 del
territorio tra i Pirenei e l’Ebro, raggruppata a Barcellona e integrata
con l’Aquitania (saranno le premesse per la formazione della
Catalogna).
Altra marca fu quella contro la minaccia dei Celti di Bretagna,
che comprendeva Nantes, Rennes e Vannes. Primo capo di questa
marca fu Rolando, morto poi nel 778 a Roncisvalle. La manifestata
pericolosità dei Celti di Bretagna fu sancita nell’831, quando
Ludovico decise di nominare, dopo inutili conflitti armati, un bretone,
Nominoe, conte di Vannes e messo imperiale in Bretagna.
Ma la voglia espansiva dell’alta aristocrazia franca portò ad un
riaccendersi del conflitto, che vide la doppia sconfitta di Carlo il
Calvo e la caduta della marca sotto il dominio Bretone.
La conquista della Bretagna da parte dei Normanni nel 907 sancì
la fine del regno bretone. Il microcosmo celtico della Bretagna aveva
però messo in evidenza la persistente capacità di resistenza
all’assimilazione totale delle etnie marginali verso i Franchi.
Il quadro del mondo franco occidentale era molto vario e non
riconducibile all’uniformità. Lo stesso valeva per la parte est del
Reno, dove le diverse etnie sottomese, Sassoni, Turingi, Bavari,
avevano piena coscienza della loro autonoma fisionomia, manifestata
in un quadro territoriale preciso: il regno franco occidentale di
Ludovico il Germanico.
233
La sottomissione al potere franco e la cristianizzazione avevano
portato alla formazione di nuove strutture territoriali, con precisi
quadri politico-religiosi.
La conquista non annullò queste realtà, nè di giovane formazione
come i Bavari, nè di lunga resistenza come i Sassoni.
Che significava dunque essere franco, visto che l’impero era
definito dai contemporanei “romano” e non “franco”?
Una risposta può venire fuori dal “prologo lungo” della legge
salica, antica legge franca del VI secolo. Qui traspare l’idea dei
franchi come autentico nuovo popolo eletto. La purezza della loro
fede fa accompagnare dall’aiuto divino il loro esercito. Non
sottolineando aspetti come la ricercata origine mitica troiana dei
Franchi e il loro essere satelliti e federati dei romani, il testo
ideologico non fa “danni”. I Franchi dei Pipinidi-Arnolfingi-Carolingi
sono il nuovo popolo eletto, portatore di una nuova idea di Impero
universale, derivante da quello romano e da loro ereditato, grazie alla
purezza della loro fede. Per questo i Franchi hanno il diritto della
supremazia su tutti i popoli dell’impero, di cui sono l’etnia dominante,
diventando una “nazione imperiale”55.
16. L’Italia in età carolingia
Nel 774, con la capitolazione di Pavia, l’intero regno longobardo
cadde nelle mani dei Franchi di Carlo Magno.
La spia di un’accettazione generale degli avvenimenti fu il fatto
che l’unica rivolta degna di nota, della fazione longobarda, fu quella
55 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pagg. 185-186.
234
di Rotgaudo nel 776, che portò comunque alla sua resa.
Il potere franco appariva così stabile.
La rivolta pero di Rotgaudo va segnalata per un aspetto che però
non si realizzò, forse per fortuna franca, e che avrebbe sconvolto la
storia del nostro paese orientandola in un modo diverso.
Il duca friulano aveva cercato, contro l’invasore franco, l’aiuto
delle truppe bizantine e quindi anche dell’Italia centro-meridionale, la
quale dimostrava di non essere pienamente controllata dai Franchi.
L’accordo fallì per l’attenta sorveglianza di papa Adriano I.
Dopo la rivolta Carlo sostituì tutta la classe dirigente longobarda
insediando, ai posti di comando, i suoi fedeli.
La conquista franca si limitò quindi a sovrapporre alla
popolazione del regno un sottile strato di funzionari, vassalli, o
semplici proprietari terrieri, provenienti dalle regioni d’Oltralpe. Il
regno però rimaneva con la sua struttura territoriale e con Pavia
capitale. Il suo sovrano fu prima Carlo e poi, dal 781, suo figlio
Pipino. Gli “immigrati” dal nord delle Alpi, i Franchi, erano pochi e
sparsi in maniera disomogenea sul territorio. Più fitta era la loro
presenza nell’Italia padana, visto che era il cuore del regno, mentre
scendendo verso sud la presenza franca andava diminuendo, il ducato
di Benevento rimase addirittura fuori dalla dominazione franca vera e
propria.
Diversamente dalla tradizione longobarda mischiatosi con quella
italo-romana dal 569, la tradizione franca portava con sé un elemento
nuovo: il vassallaggio, il servizio basato su di un legame di fedeltà,
che anche se non del tutto negato dai longobardi, non aveva assunto
per questi l’importanza raggiunta invece nel mondo franco. Tuttavia il
vassallaggio rimase estraneo alla specifica tradizione politica del
235
regno longobardo.
Il difficile inserimento del vassallaggio nella realtà italiana non è
pero la sola prova di separatezza della presenza franca.
Il capitolare dell’801 aveva messo in luce come Carlo, in Italia, si
proponesse di raccordarsi a entrambe le leggi là esistenti, romana e
longobarda, ma poi, al tempo stesso, sostenesse esplicitamente di
voler proseguire le leggi dei re longobardi suoi predecessori. In altre
parole la legge longobarda era sentita come territoriale. Sul piano
legislativo quindi l’eredità del regno longobardo rimane solida anche
in età carolingia. Ad essa fanno riferimento tutti quei gruppi di uomini
liberi, un ceto che però non è più formato da Longobardi di stirpe
bensì dai membri di una classe socio economica di proprietari fondiari
e di mercanti che, grazie alla loro ricchezza, erano coinvolti insieme ai
vassalli in queste funzioni pubbliche. In questo modo la base politico-
sociale del potere regio era più ampia, non dovendo contare solo sulla
fedeltà dei vassalli pubblici.
Nelle zone dove più forte era stata l’impronta del regno, il diritto
longobardo resiste tenacemente a quello romano, almeno fino alla
rinascita degli studi giuridici.
La vera e propria terra del re era la Padania, sulla quale
esercitava un controllo diretto ed assoluto.
Le terre rimaste romane erano piccole aree non ben collegate tra
loro e intervallate da terre longobarde. Lo sviluppo di una vera
territorialità romana era molto difficile, ma abbiamo anche esempi
importanti, come Roma, esempio dell’esistenza di una tradizione
differente da quella Longobarda.
Una tradizione che a prima vista può definirsi romana, ma che
dopo un esame più meditato possiamo definire “ecclesiastica”
236
racconta che, mentre i barbari impazzavano sulla penisola e l’impero
romano era ormai caduto, gli indigeni del luogo avevano trovato il
loro punto di riferimento nel clero, rimasto l’unico gruppo di persone
in grado di gestire non solo il presente, ma anche il passato della
comunità indigena. Aveva cioè conservato la memoria del passato e il
suo significato.
Questa memoria, tramandata da padre in figlio, arrivò a costituire
i tratti essenziali di quelle comunità. In queste la memoria
dell’invasione è viva come se i longobardi fossero rimasti sempre una
stirpe straniera ed ostile.
Ma la memoria ecclesiastica non riuscì ad unirsi in una sola
identità antagonistica contro gli invasori, rimanendo frantumata e
legata alle mille diversità delle situazioni sociali. Ad esempio,
troviamo atteggiamenti di separatezza tra Longobardi e Romani, ma
anche atteggiamenti di rifiuto verso l’invasore franco nella patria
longobarda.
Questo è il quadro per le classi minori. Diversa è la situazione
per le classi impegnate direttamente nella lotta politica. La
contrapposizione durissima tra papato e monarchia longobarda portò
la prima a rappresentare la seconda come un corpo estraneo all’Italia.
La memoria qui ci pone di fronte ad un interrogativo: nella città di
Pavia chi si rinchiuse nell’assedio del 774? Un popolo-esercito
barbarico, visto che in quel tempo i longobardi erano ancora un
esercito occupante accampato in Italia, o un re sconfitto con la sua
corte e i soldati rimasti fedeli? Le vie della memoria sembrano essere
molto diverse, addirittura un prete bergamasco, Andrea, fu autore di
una continuazione della Storia dei Longobardi, di Paolo Diacono,
dove presenta il quadro di distruzione dell’invasione franca. Per il
237
prete, i duchi longobardi sono i capi legittimi di un paese invaso da un
esercito straniero.
Altro problema sorgeva sul nome del territorio: regnum
Langobardorum, o regnum Italiae?56
Pier Silverio Leicht mette in evidenza come, dall’817, il regno
fosse definito come “regnum Italiae” e non più Langobardorum. La
volontà era quella di Ludovico il Pio che tentava di cancellare il
ricordo del dominio Longobardo dopo aver respresso la congiura del
nipote Bernardo. Il problema sollevato da Leicht non è comunque solo
terminologico, perché il linguaggio politico, nel definire le istituzioni,
trasmette sempre messaggi importanti.
Ma nell’analizzare le fonti si deve tenere presente sempre da
dove provengono.
Comunque dietro la morte di Bernardo non c’era la solita
cospirazione longobarda, era invece meglio parlare di convulsioni
interne al mondo carolingio.
Il fatto che il passaggio da un nome all’altro non fosse un bando
definitivo lo dimostra nell’844 il fatto che il re carolingio Ludovico II
fosse nominato da papa Sergio II rex Langobardorum.
Il passaggio all’affermazione della definizione di regnum Italiae
va visto sotto un processo di progressivo restringimento del concetto
di Longobardia. Ciò è piuttosto evidente dalla conquista di Carlo,
perché nelle carte e nelle tavole adottate le datazioni hanno andamento
narrativo.
Fondamentale è anche il concetto di patria, che prende le mosse
da un documento senese, ma che assume il significato ancora generale
56 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 202.
238
di “natio”, ossia luogo di nascita.
Resta quindi, per delineare un quadro un po’ più chiaro,
distinguere tra le regioni al nord del Po, con l’appendice della
Toscana, che conservano l’impronta longobarda, il blocco Longobardo
e il blocco romano.
Discorso a parte merita forse un luogo dove la dominazione
longobarda continuò per anni anche dopo l’invasione franca: il ducato
di Benevento.
Carlo infatti dovette accontentarsi di una sottomissione formale
del regno meridionale, perché il principe Adelchi poteva contare
sull’appoggio offerto da Bisanzio. Nel sud quindi non troviamo
immigrati franchi, ma esuli longobardi dal nord. Il mezzogiorno
rappresentava quindi un territorio favorevole al sorgere di un
legittimismo longobardo. Ma Adelchi era tutt’altro, così come il padre,
Desiderio, considerato legato al legittimismo longobardo nel sud
Italia. Lo stesso figlio di Adelchi, Grimoaldo, combattè contro il padre
sbarcato in Calabria con le truppe bizantine nel 778, perché il principe
longobardo poteva essere una minaccia per la dinastia beneventana
che pensava ormai di mettersi in proprio. Arechi, duca di Benevento,
aveva assunto il titolo di “principe della gente longobarda“ e non
quello di ”re” per evitare un scontro frontale con Carlo, che aveva
assunto invece il titolo di “rex Langobardorum”. Questo però fu
sufficiente a provocare la reazione di Carlo, seguita dalla
sottomissione di Arechi. Ma nonostante questo, gli episodi di
indipendentismo dei beneventani furono sempre numerosi57.
Concludendo, l’Itala nel periodo carolingio era un paese lungo e
57 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 219.
239
complesso. Con a nord una lotta continua tra l’affermazione
Carolingia e la salvaguardia di una tradizione Longobarda affidata
solo a tenaci gruppi; al sud la tradizione longobarda poggiava sulla
continuità di un’antica struttura statale di origine longobarda, destinata
a sopravvivere fino alla conquista normanna dell’XI secolo.
L’incompleta conquista carolingia, sommata all’incompleta conquista
longobarda, non favorì certo uno sviluppo unitario. La realtà italiana
appare connotata con caratteri propri ma risulta destrutturata al suo
interno e priva di quegli elementi di potenziale unificazione politica,
giuridica e linguistica-territoriale, attivi altrove anche se solo a livello
regionale, e base per la futura idea di “nazione” (con alla base i tre
elementi politico, giuridico e linguistico territoriale).
17. Verso l’anno Mille: l’impero Carolingio e le nazioni
Per la formazione delle nazioni europee, l’impero Carolingio e la
sua successiva dissoluzione rappresentano fenomeni di primaria
importanza. L’età carolingia infatti consegna all’Europa
altomedioevale le sue strutture fondamentali.
Le future nazioni sono infatti il risultato di un processo di
integrazione messo in moto dalla nascita dell’impero e dalla grande
dominazione franca.
Analizziamone lo sviluppo, osservando le vicende dei tre paesi
che avevano fatto parte dell’Impero: parte orientale (Germania), parte
occidentale (Francia) e l’Italia;
- la parte orientale dell’Impero, ossia quella al di là del Reno.
Qui si può vedere come l’impero avesse giocato un ruolo
decisivo di integrazione nei confronti della gentes dell’età delle
240
migrazioni, facendo da ponte tra due epoche.
Infatti nell’887 non assistiamo alla riapparizione delle vecchie
unità territoriali una volta finita la grande costruzione carolingia.
All’indomani della divisione tra regno orientale ed occidentale, al di là
e al di qua del Reno, nascono i mattoni della futura nazione tedesca: i
ducati di Sassonia, Franconia, Alamannia (poi Svevia), Baviera e
Lotaringia. Ma questi ducati non sono la resurrezione delle antiche
gens Sassoni e così via. La differenza è qualitativa, la popolazione non
ha perso i vecchi legami tribali ma è adesso inquadrata da
un’aristocrazia di origine franca, quindi imperiale e non tribale. Ad
esempio i Liudolfingi di Sassonia.
La conformazione territoriale dei grandi ducati poi era stata
determinata dalla formazione di grandi strutture politiche di comando,
in particolare sui confini (marche e comitati).
All’inquadramento politico corrispondeva anche quello religioso.
La popolazione era ormai cristiana a tutti gli effetti, con rarissime
eccezioni. Perciò a guida del popolo si trovava anche un clero con
un’uniforme cultura cristiana. Inoltre i monasteri erano altri importanti
luoghi d’aggregazione. Infatti risultato importante della conversione
era stato la nascita di città dove si erano insediati i vescovi, creando
così un intensa rete di diocesi. La popolazione di tali città si formava
quindi al di fuori dei vecchi schemi tribali, proponendo nuove realtà.
Anche ormai le province ecclesiastiche corrispondevano solo in parte
agli antichi territori tribali.
Nell’860 per la prima volta il termine “tedesco” non si riferisce
più solo alla lingua ma anche ad un popolo. Era il segno della
necessità comune di trovare un termine per indicare un’unità sovrana
tribale delle popolazioni stanziate ad est del Reno e con lingua
241
comune, o dialetti affini.
Novità fu anche l’apparizione del termine “teutonico”, un
tentativo di ricollegamento all’antico popolo dei Teutoni, noto già ai
romani, creando un falso progenitore per un popolo che in realtà era
nuovo.
Furono comunque gli eventi dell’887 a segnare un momento
cardine nel percorso autonomo della “Francia Orientale” (così
chiamato allora il regno transrenano).
Deposto Carlo III il Grosso, incapace di fare fronte alle
incursioni normanne, tre pretendenti si affacciavano ad ovest, Oddone,
Ugo e Rodolfo, mentre ad est veniva eletto Arnolfo, di sangue
carolingio ma illegittimo. In tale modo i grandi riaffermavano il loro
potere elettivo nei confronti della monarchia. Alla luce di questo
vanno letti due fatti: Arnolfo rifiutò la proposta di assumere anche la
corona del regno occidentale, si pensa per la sua non volontà di
assumere il controllo diretto del regno occidentale, conformandosi alla
volontà dei suoi elettori, che non avevano desiderio di essere coinvolti
nella difficile situazione politica dell’occidente franco.
Il secondo fatto vide gli elettori andare contro Arnolfo, quando
questi nell’889 progettò la divisione del regno fra i suoi due figli,
Sventiboldo e Ratoldo. La risposta negativa della classe aristocratica
fu giustificata con l’ineleggibilità dei due in quanto illegittimi, il che
suonava come una scusa visto che anche il padre era tale. In verità gli
elettori si opponevano all’usanza franca di dividere il regno fra gli
eredi, principio che era stato sempre fonte di disordine. Da allora il
regno orientale non fu più diviso. Questo fu un fatto decisivo per la
formazione della nazione tedesca. Portatore di una tale concezione di
nazione, ossia il non dividere il regno, era la nobiltà, ossia il gruppo di
242
elettori.
La dimensione imperiale assunta dal regno tedesco come ha
giocato nel contesto del processo di auto-identificazione nazionale
appena iniziato?
E’ ovvio che l’appartenenza ad una realtà imperiale come quella
franca si intersechi con la natura del regno orientale.
Prima di continuare l’analisi dello nascita dello stato tedesco, è
opportuno analizzare un’altra parte del regno: l’ovest.
- la parte occidentale dell’impero.
Il titolo imperiale con Ludovico il Pio aveva assunto valore
universale, non aveva cioè alcun genitivo etnico, come per Carlo
Magno.
Molti sovrani da Carlo il Calvo, Ludovico il Germanico e così
via, iniziarono a titolarsi semplicemente “re” spia questa di
un’evidente difficoltà a definire con chiarezza l’ambito del loro
potere.
L’idea di un’unità dell’impero era però rimasta in piedi visto che
i sovrani erano tutti carolingi. Ciò si esprimeva in riunioni a cui i
sovrani dei regni parziali prendevano parte e alla cui base c’era il
principio di “carità fraterna”, visto che tutti erano imparentati tra loro.
Momento importante fu l’incontro di Meersen, dell’870, quando
la Lotaringia, ossia il regno di Lotario II, figlio di Lotario I, alla morte
del sovrano fu diviso tra i due fratelli, Carlo, re dei Franchi
d’occidente, e Ludovico, re ad oriente (disposizioni queste figlie del
trattato di Verdun), senza tenere conto del confine linguistico e dei
diritti del fratello del defunto re, Ludovico II re dei Longobardi
(d’Italia).
Tra la fine del IX e il X secolo si verificarono altri mutamenti.
243
Nel 911-912, Carlo il Semplice, inglobata la Lotaringia nel regno
franco occidentale, assunse il titolo di “re dei Franchi”, rivendicando il
dominio del sovrano sulla Francia media, antico centro del territorio
franco e affermando così la superiorità di questo verso la parte
orientale58.
Ma il senso di “franco” stava cambiando. Nel 937, quando il più
grande signore del regno occidentale, Ugo il Grande, della famiglia
dei Robertini, si intitolò Francorum dux, non si rifaceva a nostalgiche
idee imperiali franche, ma a quella regione dove si andava sempre più
legando il nome di Francia, e dove egli aveva il suo dominio effettivo,
il bacino della Senna.
Le vicende del 987 portarono alla fine della dinastia Carolingia
in Occidente e, con essa, alla fine anche dell’aspirazione del regno
occidentale all’eredità imperiale franca.
I Carolingi furono sostituiti proprio dai Robertini, o Capetingi.
Una volta saliti al trono essi conservarono la titolatura di “re dei
Franchi”, ma complice la dislocazione territoriale, sembrava che quel
“dei Franchi” era già in transito verso “Francesi”.
Va detto però che difficilmente Ugo Capeto e i suoi discendenti
fecero sentire il loro potere al di fuori del loro dominio diretto, la
Francia.
I Capetingi partirono dunque da una base molto fragile: le
continue incursioni normanne e il sempre più crescente potere locale
all’ombra dei castelli, le signorie, che portava a riconoscere più il
ordinamento delle aristocrazie regionali, invece del potere regio. Ma
pure se debole la monarchia era indispensabile. E su questa certezza e
58 Gasparri S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra Antichità e Medioevo, Carocci editore,Roma 1997. pag. 227.
244
un erede sempre riconosciuto nel figlio del sovrano, essi seppero
affermare, nei fatti, una nuova ereditarietà del potere regio, che poté
essere imposto dopo che i rapporti di forza furono mutati. Nel
frattempo iniziarono ad allargare i proprio domini comportandosi
come signori locali, facendo guerra ai signori vicini.
La storia dell’estensione del dominio Capetingio nel corso del XI
e XII secolo è anche la storia dell’estensione del nome Francia, alla
parte dell’antico regno occidentale.
Molto più tardi, nel 1214, la vittoria di Filippo Augusto a
Bouvines, contro una potente coalizione di forze straniere, i re
capetingi, i re di terza generazione (Merovingi-Carolingi-Capetingi),
poterono legare in modo esplicito il nuovo e più vasto regno da essi
governato al titolo regio, intitolandosi “re di Francia”.
Il nome Francia andava così a soppiantare quello di Gallia.
La costruzione di una consapevolezza francese nella classe
dirigente laica ed ecclesiastica fu però lenta.
Prima di analizzare lo sviluppo di un'altra parte dell’impero,
l’Italia, è opportuno dare informazioni sul rapporto tra Francia e
Germania.
Nel 921 nel loro incontro a Bonn, Carlo il Semplice ed Enrico I
si erano chiamati rispettivamente “re dei Franchi occidentali” e “re dei
Franchi orientali” aggiungendo anche al secondo la specificazione
etnica del titolo regio. Era perciò confermata la legittimità e il pari
rango dei due regni, entrambi come legittimi eredi di una parte
dell’antico Impero.
Secondo lo storico Widukindo, Enrico I, sovrano fondatore della
dinastia Sassone, sarebbe stato re dei “Franchi e dei Sassoni”, eletto
245
dal popolo franco e sassone, cosi come per suo figlio Ottone, che però
scelse Aquisgrana per la sua elezione, “capitale “ del regno di Carlo
Magno e carica di significati simbolici, presentandosi alla cerimonia
con abiti franchi e rappresentando la sua elezione nel 936 come un
chiaro segno di rottura verso il regno occidentale e un’affermazione di
superiorità.
Ma Ottone non guardava alla parte occidentale come
ampliamento del suo potere, bensì all’Italia. L’imitazione franca è
forte in Ottone I che nel 962 costruì un impero che si presentò come
erede di quello carolingio.
Con Ottone, il senso di unità politica del regno orientale era
chiaro e riconosciuto anche dai duchi di Svevia, Baviera, Sassonia,
Turingia e Lotaringia che lo avevano servito a tavola durante
l’elezione del 936, riconoscendone l’autorità. Il regno tedesco si
faceva carico del peso dell’impero, destinato a complicare la storia
tedesca, intrecciandola con quella italiana.
Il dibattito sul titolo imperiale che vedrà nell’ottocento scontrarsi
le tesi di:
- Von Ficker sostenitore degli Asburgo chee vedeva l’impero
come condizione inevitabile dell’egemonia politica della Germania
nell’Occidente cristiano dei secoli X e XI;
- Von Sybel, che escludeva gli Asburgo dalla Germania, vedendo
nel pericolo imperiale una dispersione di forze della monarchia che
non riuscì a consolidare il suo potere.
Dimensione imperiale, eredità franca,e aspirazione all’eredità
romana, concorsero a porre su un livello inattaccabile il potere
monarchico tedesco, con in più l’affinità linguistica a fare da collante,
nonchè da primo elemento diversificante del popolo tedesco con le
246
altre popolazioni circostanti. Questo, insieme alla forza del potere
regio sanzionata dal principio di indivisibilità del regno e del titolo,
costituisce l’elemento più importante nella futura costruzione del
popolo tedesco.
- L’Italia
Le vicende italiane sono molto diverse da quelle di Francia e
Germania.
Il primo e più evidente dato che emerge è il differente ruolo
dell’ordinamento pubblico del regno, che non era riuscito, neanche in
età carolingia, ad unificare tutto il paese.
Da sottolineare è anche la debolezza dei vari sovrani che si
succedettero sul troni italico dopo l’887. Alle lotte tra i vari
pretendenti italiani, Berengario I, Guido e Lamberto, marchesi di
Spoleto, seguirono anche pretendenti stranieri, spesso vittoriosi
provenienti dalla Francia. Tra questi, Ugo di Provenza stabilì un regno
al quale non riuscì però a dare continuità, visto che il figlio fu sbalzato
da Berengario II, marchese d’Ivrea (950).
Più massiccio fu l’intervento tedesco. Ottone I, portava il
marchese d’Ivrea a riconoscere il suo potere. Dieci anni dopo
quest’ultimo veniva allontanato e il regno italico unito a quello
tedesco, sotto la persona del sovrano di origine sassone.
La debolezza del potere regio italico sta nella sua natura. Le
grandi famiglie che si disputarono il potere non avevano profondi
radici in Italia, ma potevano contare su proprietà e legami dislocati
oltralpe. Queste famiglie non avevano quindi un saldo radicamento
territoriale all’interno del regno. L’aristocrazia si presentava
osservabile in due categorie: le maggiori stirpi aristocratiche, che
247
erano in larga misura estranee al paese; quelle di origine longobardo-
italica, che non erano abbastanza potenti per aspirare alla corona che
era perciò lasciata al potente vicino settentrionale. Il dominio della
casa sassone in Italia, fu una semplice egemonia di stampo militare,
esercitata in modo irregolare dai sovrani, non molto presenti sul
territorio e che lasciarono perciò il regno nelle mani dell’aristocrazia
laica ed ecclesiastica da essi insediata o comunque loro alleata. I
sovrani stranieri si preoccupavano però solo di mantenere il controllo
delle vie di comunicazione, ad esempio quella attraverso le Alpi.
Si verificarono così diversi processi convergenti, ovvero
insufficienti al controllo e inquadramento del territorio.
L’aristocrazia si impegnò in processi fra loro concorrenti, di
consolidamento territoriale, tra crisi di vecchie e affermarsi di nuove
famiglie, ad esempio i Canossa.
La linea di tendenza era quella di una pluralità di poteri
incentrata soprattutto sul nord, segnata anche dall’incapacità di una
sola famiglia di prendere il comando generale. Erano comunità
cittadine in rapida ascesa economica e politica, che riconoscevano
l’autorità dei vescovi, ma respingevano le famiglie comitali ai margini
del potere, nell’attesa di farlo pure con gli episcopi, per iniziare ad
amministrarsi da sole.
Già tra il X e XI secolo era evidente l’evoluzione del regno
italico, verso una presenza di poteri concorrenti fra loro.
Ma la situazione cambia se ci spostiamo verso il centro e il sud.
Al centro era in espansione il progetto territoriale della Chiesa di
Roma; al sud, l’antico ducato di Benevento si era diviso in tre
formazioni politiche: Benevento, Salerno e Capua. In più la presenza
di Bisanzio era sempre crescente ed esercitava una vera e propria
248
egemonia sui ducati di Amalfi, Napoli e Gaeta.
Ancora c’era la minaccia islamica che, pure se sventata, aveva in
mano la Sicilia e restava sempre attiva.
Tirate le somme siamo di fronte non solo ad una pluralità dei
poteri politici, ma di una loro profonda diversità. Se i principi franchi
erano si concorrenti fra loro, ma strutturalmente simili, qui si tratta di
aree politico-culturali estranee che si fronteggiavano: dalle città e
dalle aristocrazie del centro-nord, ai territori della Chiesa, ai principati
longobardi, al tema bizantino, alla Sicilia islamica.
Da qui si misura anche l’impatto che Franchi e Longobardi
ebbero. Basti osservare il nome che prenderanno le due “nazioni”: in
Italia, i Longobardi saranno capaci di legare il loro nome solo ad una
regione italiana.
La dominazione longobarda non svolse un’azione unificante,
vuoi per suoi demeriti, ad esempio confini molto mobili, vuoi anche
per l’intervento franco e l’impatto di una classe dirigente straniera.
Ma in realtà al di fuori dell’invasore franco, sul territorio si
scontravano già due fazioni: quella di origine longobarda, chiaramente
politica, e quella più vicina alle strutture ecclesiastiche,
caratterizzabile come romana.
Diritto longobardo contro diritto romano. Non è facile fare una
chiara distinzione tra chi utilizzava l’uno e chi l’altro. Si trattava di
gruppi familiari che facevano riferimento a tradizioni differenti: alcuni
maggiormente legate all’ordinamento pubblico che rivendicavano il
ruolo di liberi collegati al regum( presenti nell’esercito e nelle
assemblee); altri che facevano parte di gruppi prosperati all’ombra
delle istituzioni ecclesiastiche grazie alla possibilità di vivere la legge
romana.
249
L’incapacità dei primi di superare i secondi dimostrava la
sostanziale debolezza politica e culturale del regno longobardo.
La debolezza politica, unita alla frantumazione del valore
unificante della legge longobarda, visto che i principi longobardi del
Mezzogiorno applicavano un diritto territoriale diverso da quelli del
centro-nord, misero le basi per il crollo del potere longobardo.
Quelli di Carlo furono forse gli anni più costruttivi politicamente
dell’età medioevale.
In essi giunse a maturazione la soluzione concepita dai franchi
dell’assetto dell’occidente latino-germanico, risolvendo il problema di
un ordinamento politico tendenzialmente variegato.
Il frazionamento carolingio non determinò la fine della
concezione pubblica dell’autorità politica, ma la avviò verso processi
più complessi.
Dopo la morte di Carlo non si osservò il collasso dello “stato” e
delle sue strutture, quanto la formazione di nuove realtà politico-
territoriali, destinate ad assumere altra durata.
Dell’impero carolingio può insomma essere più utile giudicare
non i presunti fallimenti, la sua debolezza e l’inadeguatezza a
fronteggiare le spinte al particolarismo, ma la sua natura di laboratorio
di tradizioni politiche e di forme istituzionali che agiranno in
profondità nelle vicende dei secoli successivi59.
59 Benigno F., Donzelli C., Fumian C., Lupo S., Mineo E.I., Storia medievale, Donzelli editore,Roma 1998. pag. 201.
250
CONCLUSIONI
1. Un punto di vista personale: l’idea d’identità
L’analisi della storia dell’impero carolingio genera, secondo il
nostro punto di vista, una questione importante: l’idea d’identità.
Ma cosa potremmo intendere per identità? Come spiegare un
concetto palesemente astratto con le basi concrete della conoscenza
storica?
E’ ovvio che per spiegare un concetto che si sviluppa dentro gli
avvenimenti occorre avere una base solida di dati, dalla quale poter
ricavare le giuste informazioni.
Non bisogna però fermarsi al semplice avvenimento ma scavare
dentro il suo valore simbolico. E il periodo che ho preso in esame
credo dia ampio spazio a questo tipo di analisi.
Parlare infatti di Impero Carolingio è, secondo il mio parere,
giusto dal punto di vista delle argomentazioni storiche: una persona,
l’imperatore e in questo caso Carlo Magno, capo supremo di un
territorio vastissimo che impone, o meglio cerca di imporre, il suo
potere su tutti i sudditi.
Ma le cose cambiano quando si passa ad analizzare i risultati che
l’amministrazione carolingia riuscì ad ottenere.
Perché una così grossa diversità tra le prospettive iniziali e il
risultato finale?
Una risposta può essere trovata analizzando le forme sulle quali
si sviluppa il progetto di Carlo.
C’è da fare però una piccola premessa. Le popolazioni dell’epoca
post-romana avevano una sola idea d’impero che gli derivava
251
dall’unico grande impero da loro osservabile, l’impero romano.
Partendo da questo punto, credo che la causa generante vada a
riscontrarsi proprio nelle basi dell’organizzazione carolingia.
Come poter emulare il passato impero romano poggiando il
nuovo impero su basi completamente diverse?
La prima osservazione fatta mentre consultavo le fonti del mio
lavoro riguarda il fatto che Carlo aveva in mente l’idea di forgiare un
impero, ma quello che riuscì a realizzare, sotto l’aspetto strutturale ed
amministrativo, fu altro.
Questo credo sia riscontrabile appunto nelle basi sulle quali
l’impero carolingio andò poggiando la sua struttura, basi che non
erano più quelle romane, ma che facevano parte del bagaglio delle
tribù da cui discenderanno i vari popoli barbari, basate sulle
associazioni volontarie che si evolveranno nei futuri vassallaggi.
Partendo da questo presupposto l’analisi si può focalizzare su
alcuni aspetti di questa società:
- la privatizzazione. E’ il primo aspetto “nuovo” che stravolge
l’amministrazione imperiale. Osserviamo, in primis, due cose: come
lo Stato passi dalla res publica romana alla privatizzazione carolingia,
e come nel regno franco, per la prima volta, fosse introdotto il “diritto
privato”, sia in riferimento all’assetto territoriale, sia alla sua forma
legislativa.
Nell’ambito territoriale questi passaggi minavano, col loro
degenerare, quello che è il fondamento del potere del sovrano: il
potere regio. Il territorio smetterà anche di essere solo di proprietà
dell’imperatore, dopo
avere già perso il suo significato romano.
La cosa che più c’è da sottolineare è la controtendenza che così si
252
va creando. È lo stesso sovrano che si priva a poco a poco della base
del suo potere a differenza del passato, quando si cercava sempre di
diminuire quello altrui per potenziare il proprio.
La res publica si era trasformata, diventando prima proprietà
privata del sovrano e poi di tutti i suoi vassi.
La stessa cosa capiterà nell’ambito legislativo.
Il concedere ai popoli conquistati di conservare una propria
amministrazione e di amministrarsi con le proprie leggi con a capo
funzionari natii (ossia di quel luogo) , nonché il concedere ai conti,
padroni dei benefici, le stesse cose, denotava una mancanza di forza
da parte del sovrano per imporre la propria legislatura.
Tale difficoltà si collega anche con un difficile controllo sul
lavoro dei funzionari che operavano sul territorio.
La privatizzazione degenererà da struttura di amministrazione a
forma di potere quasi indipendente dal sovrano quando ad essa si
legherà il fenomeno dell’immunità.
Il legarsi di questi due aspetti darà al potere (forse anche
eccessivo), conferito dal sovrano ai conti, la base per la creazione di
una politica nuova e soprattutto legittima. Da qui muoverà la
trasformazione del vassallaggio in feudalesimo.
- multiculturalità. Prima di parlare di questo aspetto, credo sia
opportuno fare una precisazione: la grande solidità di cui si vantava
essere possessore il grande impero romano non era così totale.
Nonostante l’impero arrivasse con le sue istituzioni a controllare
anche la più remota provincia, non mancava la presenza di piccole
etnie che conservavano ancora usi e costumi selvaggi. Le stesse etnie
giocarono un ruolo importante nella formazione di quelle che poi
sarebbero stati i futuri regni barbarici. Sotto l’aspetto culturale quindi,
253
l’impero di Carlo e dei suoi successori si presentava come un grande
contenitore di diverse culture ed etnie, venute fuori dal mescolarsi tra i
popoli barbari, anche loro multietnici, con la gens romana e le etnie
selvagge.
Questo fattore assume sempre più importanza, legandosi anche
all’aspetto prima citato, la privatizzazione, soprattutto nelle forme di
amministrazione del regno. Infatti la grossa diversità etnica può
essere, ad esempio, una scusante del modo di amministrare la
legislatura. Fare una legge con lo stesso valore per così tante razze era
difficile, meglio optare per una conservazione delle leggi nazionali,
integrate con alcuni leggi speciali, o specifiche, i capitolari, cioè
norme che venivano create quando c’era la necessità di far fronte ad
un evento particolare che non trovava risoluzione nelle leggi nazionali
e che doveva avere valenza per tutti, andando a colmare, se ce ne
fosse stato il bisogno, la mancanza in una legge nazionale.
- legittimità-fedeltà: aspetti simbolici ed aspetti reali. Un potere
frazionato come quello di Carlo, che poteva risentire anche di un
capriccio di un potente beneficiario, aveva bisogno di essere
legittimato da più fonti, Bisanzio, la Chiesa, Dio, per ricevere il giusto
riconoscimento e la giusta fedeltà, visto che, nell’epoca in cui ci
troviamo, il titolo che accompagnava la persona e la “fonte” da cui
derivava era carico di valore simbolico e tenuto in grossa
considerazione. La fedeltà era “l’unica” richiesta che il sovrano faceva
ai suoi sudditi tramite un giuramento che richiamava la forte carica
mistica che questo aveva ed era, già dalle origini, alla base del
rapporto tra il beneficiario e chi elargiva il beneficio. Per ottenere tutto
ciò Carlo aveva dunque bisogno che il suo potere fosse riconosciuto e
legittimato.
254
Un aspetto che da qui possiamo trarre è che la base
dell’organizzazione dell’impero fosse rappresentata dai rapporti umani
(le stesse cariche erano assegnate a persone di famiglia o di fiducia),
anche se una tale forma di rapporti diventava impossibile da applicare
con la continua crescita territoriale del regno. Una crescita che, oltre
alle cause militari, era legata anche alla concessione dei benefici. Per
concederne dunque di continui, il sovrano aveva bisogno di allargare i
propri possedimenti territoriali. Era una sorta di mercato, potremmo
dire, dove più la richiesta cresceva, più il numero di territori da
assegnare doveva crescere.
Il legame però con i sui vassalli è anche dovuto ad aspetti “reali”,
uno su tutti la mancanza di un esercito. Carlo infatti manca di un
proprio esercito, a parte la piccola milizia armata che lo accompagna,
ed ha quindi bisogno di promettere benefici ai vassalli in cambio della
loro partecipazione alle campagne militari. Allo stesso tempo il
sovrano doveva riuscire a tenere sotto controllo alleanze pericolose.
L’aspetto critico di questa continua elargizione di benefici è
appunto il crescere dell’indipendenza dei vassalli che arrivavano a
possedere proprie milizie, proprie terre e propria amministrazione,
creando un potere concorrente a quello dell’imperatore. La perdita di
valore del diritto sottolinea il prezzo da pagare per il sovrano per
garantire la sopravvivenza del regno.
Inoltre, un altro aspetto, ma sarebbe meglio chiamarlo simbolo,
mancava all’impero carolingio: la capitale.
Fatta eccezione per Aquisgrana, che diventerà il palazzo preferito
dall’imperatore, la capitale franca era sempre in movimento,
soprattutto durante le campagne militari, e questo segnalava ancora
una volta l’incapacià di controllo del potere franco. Infatti la
255
mancanza di un centro dell’Impero era legata alla scarsa possibilità di
controllo che il sovrano aveva sui possedimenti, e faceva mancare al
regno un luogo dal valore simbolico paragonabile a quello avuto in
passato da Roma. Esempio lampante fu la campagna sassone.
Ma una situazione tanto fragile come poté sopravvivere così a
lungo?
Due furono i “collanti”: la Chiesa, o meglio la cristianità, e
Carlo.
- Carlo. Sicuramente nelle decisioni che prese tenne conto dei
suoi consiglieri, ma il sentirsi direttamente nominato da Dio nella sua
missione gli dava la sicurezza dei suoi giudizi. Per questo fu un
sovrano difficile da controllare per l’aristocrazia. Ma solo una persona
eccezionale poteva tenere insieme un Impero che di impero aveva ben
poco, almeno a livello strutturale, con rapporti fragili e controllo
insufficiente.
Furono quindi il grande carisma e la capacità di giostrare con
destrezza i rapporti con i vassalli più potenti, le armi su cui Carlo
forgiò il suo impero e la sua fortuna, accompagnato anche da un alone
mitico dovutogli dalle sue continue vittorie militari.
L’Impero di Carlo quindi non mirava a sottomettere totalmente le
diverse popolazioni, fortemente attaccate alle loro radici anche dopo la
sconfitta, ma a fargli riconoscere la legittimità imperiale del sovrano
tramite giuramento.
A differenza dell’impero precedente, Carlo non portò delle
innovazioni, ma si limitò a modificare l’organizzazione scarna delle
tribù da cui discendevano, per adattarle all’esigenze del suo impero.
L’azione di Carlo va veramente lodata, perché a renderne ancora
256
più arduo il compito fu la grandezza territoriale del regno. Tenere
unito, con un’amministrazione dalla dubbia resistenza, un territorio
così vasto, era un’opera affatto facile.
È chiaro che per ottenere un tale risultato il sovrano dovette
scendere a compromessi: benefici, leggi nazionali, etc.
Fatto sta che l’imperatore franco mirava sempre a trovare il
modo per cementare l’unità del suo regno, pur sapendo della difficoltà
dell’impresa.
- la Chiesa. Su questo argomento va fatta una piccola
precisazione. Credo che all’ambito del mondo ecclesiastico possa
essere meglio accostato il termine utilizzato per la descrizione del mio
lavoro sull’impero: ambiguità.
La chiesa in quegl’anni non era quell’unico corpo che oggi
conosciamo. Si potevano distinguere tre grossi tronchi: il papato, o
meglio lo stato della Chiesa con a capo il papa, i vescovi e il potente
episcopato franco. Ed è, come spesso accade, proprio il potere a creare
delle divisioni. Il papa, pur essendo una figura forte, non riusciva a
tenere sotto il suo controllo i vescovi, il cui potere cresceva col
passare del tempo e con il progressivo aumentare di gente franca che
ricopriva questa carica. A maggior ragione, possiamo ricordare come
spesso la fonte del potere di questi vescovi fosse appunto di origine
imperiale.
Il rapporto quindi Chiesa-Carlo si snoderà su due fronti: quello
col papa e quello con i vescovi.
Con questi ultimi il rapporto sarà per la maggior parte legato al
loro ruolo, e quindi “ristretto” al campo amministrativo. I vescovi
infatti avevano un ruolo centrale, di guida, nelle varie provincie e
diocesi, che gli deriva dal fatto di essersi posti come unico punto di
257
salvezza durante la crisi scaturita dal passaggio tra il crollo
dell’impero romano e la nascita dei nuovi regni romano-barbarici.
L’amministrazione carolingia andava così a poggiarsi su queste
figure, affiancandogli i suoi conti e integrandoli nella propria
amministrazione, per poi sostituirli più avanti con i vescovi franchi.
Questo sottolinea ancora come Carlo volesse emulare le gesta
dell’impero romano, facendone rivivere la struttura. Ma l’errore stava
nel non considerare i propri mezzi come incompatibili con la vecchia
architettura imperiale.
Se il rapporto con i vescovi era di “interdipendenza”, quello col
papato, almeno finché Carlo fu in vita, fu un rapporto di
“vassallaggio”. Se il papato aveva calcolato che bastava eleggere il
popolo franco come il nuovo popolo cristiano, e chiedere ai sovrani
carolingi di scendere in Italia per liberare le terre che spettavano al
papato dalla minaccia longobarda, i signori di Roma avevano fatto
male i loro calcoli.
Ma attenzione: entrambi avevano bisogno l’uno dell’altro. Il
papato aveva bisogno di protezione dalle minacce straniere, dopo la
rottura con Bisanzio, e Carlo aveva bisogno di un forte potere che ne
legittimasse l’ascesa. Tra i due la lotta per quale potere sia sottomesso
all’altro sarà solo un altro capitolo di una lunga storia.
Traendo le somme, andavano a mancare i tre aspetti fondamentali
che si dovevano riconoscere ad un territorio per far si che si parlasse
d’identità di impero, ossia unità territoriale, politico-amministrativa e
culturale.
L’unico aspetto che, insieme alla forza della figura di Carlo,
teneva insieme l’impero era la cristianità. La religione cristiana era e
258
sarà il collante continuo anche durante la formazione degli stati
nazionali.
2. Un punto di vista personale: un paragone diverso
È chiaro come partendo da basi diverse si giungesse a risultati
diversi.
Dal quadro che viene fuori da quest’analisi, secondo il mio punto
di vista, si potrebbe proporre un paragone: si è sempre detto che
l’impero franco mirava “all’imitazione” dell’impero romano. Ma la
sua amministrazione, con la presenza di tanti piccoli centri
indipendenti e con poteri indipendenti, non potrebbe assomigliare
all’antica Grecia delle poleis? Ovviamente la mia è solo un’ipotesi,
ma considerare le varie contee franche come delle “moderne” Sparta e
Atene, non penso sia del tutto una follia. Certo, le differenze sono
abissali, ma sul piano dell’indipendenza totale e della capacità di
alcune di essere più forti, importanti e con un maggiore sviluppo di
altre, credo che il paragone non sia completamente azzardato. Inoltre,
nonostante le divisioni, le contee franche, un po’ come le vecchie città
greche, facevano fronte comune quando all’orizzonte si affacciava la
minaccia di un nemico.
Ovviamente, quello che abbiamo di fronte, è un mondo diverso
da quello greco, come anche da quello romano.
La grande diversità dell’impero carolingio, che poi diventa un
paradosso con lo scopo che si era prefissato, credo stia proprio nel
fatto che, partendo dal tentativo di emulazione di un grande impero
del passato, sia diventato contenitore di tante identità che daranno vita
ai grandi imperi del futuro.
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Cercando di rifare il passato diventa dunque base del futuro.
Un futuro che però risentirà sempre del suo legame col passato.
Infatti, una volta morto Carlo e mancando una figura del suo calibro,
l’impero andrà sfasciandosi. Ma non ci sarà un ritorno alle vecchie
tribù o ai vecchi regni romano-barbarici anzi, nascerà qualcosa di
nuovo che sarà la base dei futuri sviluppi.
In questo è l’importanza dell’impero carolingio: creare strutture
che, inadatte alla realizzazione di un progetto di rifacimento del
“passato”, siano la base di una creatura futura, le nazioni.
Ad esempio, dalle vecchie aggregazioni sui confini dell’impero,
le marche, nasceranno i ducati da cui prenderà vita la Germania.
È chiaro che le strutture di cui parliamo non sono certo quelle
tribali, ma una nuova struttura creata dal mescolarsi di quella giacente
romana con quella barbarica. A queste nuove strutture si affianca
anche una nuova generazione, non più primitiva, che rivendicherà
anche il suo ruolo nella società. In Germania sarà la nuova classe ad
eleggere re Astolfo, eliminando così quella forma, tanto cara ai
sovrani franchi, della divisione del regno, salvaguardandone l’unità. È
questo uno degli esempi tangibili che dimostrano come la classe, che
si crea dalla disfatta carolingia, sia nuova e meno legata al passato.
Volendo quindi tracciare una linea guida dell’evoluzione che
dall’impero romano getta la base dei futuri stati nazionali, possiamo
evidenziare un processo che vede il disgregarsi dell’impero e
l’aggregarsi, sotto nuove forme, dei regni romano-barbarici, fino alla
nascita di un impero nuovo, quello carolingio. Al suo disgregarsi poi,
esso sarà la base per una ancora più innovativa forma politica:
imperatore-> vassallaggio-> feudalesimo-> monarchia
aristocratica.
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Un processo di formazione di nuovi poteri politici parte sempre
dalla disgregazione di un potere presente e dal riorganizzarsi di questo
in nuovi assetti e forme, mescolandosi con le novità presenti.
Se comunque, il disgregarsi di un’unità grossa come quella del
Impero Carolingio, porterà alla formazione delle pluri-identità
nazionali, quali Francia, Italia e Germania, bisogna anche dire che
queste sentiranno sempre un legame di appartenenza l’una con l’altra
che le renderà parte di un unico grande contenitore che solo più avanti
sarà definito “Europa“.
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Bibliografia
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