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ROMPERE IL SILENZIO Un libro bianco per ridare voce alla Liguria

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Indice

Controvento, chi e che cosa 5

1. Genius loci, vincoli e opportunità 7

2. Un territorio lasciato marcire 16

3. La politica industriale che non c’è 23

4. Spazio pubblico, tempi della vita 31

5. Sanità, condizione base della cittadinanza 41

6. L’Università laboratorio territoriale 46

7. Legalità, bene comune 53

8. Guerre tra ultimi, abitare e integrare 62

9. “Abolire la miseria!” 70

10. Un’agenda strategica per la Liguria 78

Allegato A: note di pianificazione strategica 86

Allegato B: VAS – la valutazione ambientale strategica 94

Allegato C: processi decisionali inclusivi – le tecniche 97

Allegato D: innovazione come scambio comunicativo 100

Allegato E: il porto invisibile 103

Allegato F: Nove proposte per le città 106

Allegato G: demografia ligure, articolo de “il Foglio” 112

Allegato H: i dati quantitativi dell’immigrazione 114

Allegato I: Rapporto Istat 2013 sulla povertà in Liguria 117

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Controvento, chi e che cosa

Siamo un gruppo di cittadini di varia provenienza, biografica come politica, accomuna-ti dalla volontà di reagire al declino accelerato del nostro territorio, che intende contribuire attivamente alla promozione della discussione democratica come unica condizione per deli-berazioni informate sulle scelte pubbliche.

Tale obiettivo ormai risulta non più differibile, in quanto l’esaurimento del modello di sviluppo d’area novecentesco e l’involuzione del potere locale ricevono una sola risposta, dissipatoria di energie sociali e destinata a incancrenire le situazioni. Così il dibattito viene silenziato occultando sistematicamente i termini della questione, scaricando le responsabi-lità di gruppi dirigenti inadeguati (e non solo); depistando la rabbia latente della cittadinan-za tradita prospettando sempre nuove ricette salvifiche. Illusionismi di un Potere interessato solo all’autoperpetuazione: dai fantomatici primati portuali mediterranei alla promessa mil-lenaristica di riconversione all’high-tech del residuo sistema produttivo territoriale (un parco tecnologico agli Erzelli che ora affonda nel baratro creato dall’essersi scoperchiata l’ennesi-ma operazione speculativa cementificatoria).

Se “formulare un problema è già risolverlo”, i numerosi nodi genovesi e liguri richie-dono di essere districati da una rigorosa e determinata azione di verità; allo scopo di attivare potenti immissioni di democrazia in un contesto dominato – secondo non apprezzabile tra-dizione - da opprimenti pratiche oligarchiche.

Dunque, un gruppo di donne e uomini di buona volontà – i promotori di Controvento – che avanzano quale solo titolo di credito la disponibilità a impegnarsi per scopi disinte-ressati, a fronte di una vita pubblica precipitata nel discredito; e assumono senza esitazione il pensare e l’agire politicamente quale unica via per il risveglio (non solo economico, ma anche sociale e progettuale) di un’area e dell’intero Paese. Per cui si rivolgono a tutti coloro che, condividendo le preoccupazioni innanzi a un presente carico di minacce, non vogliono arrendersi al declino morale, prima ancora che materiale, e scommettono sulle opportunità di costruzione del futuro offerte dalla Buona Politica, a scartamento urbano.

A Genova e alla Liguria servono tante cose. Prima di tutto una sfera pubblica aperta e democratica, dove confrontarsi liberamente per governare un cambiamento condiviso.

Hanno contribuito alla redazione dei testi del Libro Bianco:

Mauro BarberisCarlo BesanaAnnalisa Gatto Michele MarchesielloBruno PastorinoPierfranco Pellizzetti Alfonso PittalugaGiovanni SpallaLuca Traversa

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1. Il genius loci come vincoli e opportunità

Il carattere ligure, declinato in sistema di valori e tradotto in mentalità, si caratterizza per un marcato individualismo refrattario a fare fronte comune e cooperare: se nel passato ebbe anche meriti nell’avvio di fasi propulsive del territorio, oggi si rivela del tutto inadeguato per affrontare le sfide di un mondo sempre più globale e – al tempo stesso – interdipendente. Soprattutto perché inadeguato all’opera decisiva di progettare e programmare strategie condivise. Il passo decisivo per un’urgente inversione di tendenza è quello di puntare a “(ri)creare legature sociali” favorendo a tutti i livelli le opportunità di incontro tra cittadini sempre più informati e incoraggiati alla partecipazione deliberativa. Dall’organizzazione mirata degli spazi pubblici all’attivazione di osservatori per moni-torare le dinamiche del cambiamento locale.

Lo stato dell’arteGli innumerevoli aspetti della millenaria vicenda di Liguria sono sedimentati nel ca-

rattere delle sue genti; alla cui decifrazione può fornire un utile contributo quella disciplina storiografica che prende il nome di “storia della mentalità”, come analisi dei criteri di rico-struzione collettiva dell’ambiente sociale in termini di senso/significati e dei principi guida dei comportamenti socialmente legittimati. Ossia le caratteristiche di uno stile di pensiero locale fattosi ideologia, che determina le convinzioni accreditate e influenza gli atteggiamen-ti diffusi. Le continuità nel tempo che costituiscono il cosiddetto mainsteam.

Sicché – a tale proposito – lo storico Roberto Severino Lopez descriveva la tipologia li-gure come “felice compromesso fra individualismo tenace e unità necessaria”; più recente-mente il giornalista Giorgio Bocca tratteggiò l’essenza della natura genovese con la formula “vizi pubblici, private virtù”.

Mixando tali affermazioni – considerate alla stregua di testimonianze attendibili – si ottiene il quadro di un economicismo a base familistica (di cui è spia lessicale il termine “bakan”, al tempo stesso capo dell’azienda e pater familias), che fuoriesce dalle mura dome-stiche dello scagno esclusivamente in situazioni eccezionali; qualora il singolo interesse sia perseguibile solo grazie a più vaste alleanze civiche. Ovviamente una tantum.

Secolari episodi di flagrante disunione cittadina e tendenze centrifughe d’area sono lì a darcene conferma, non meno che il costante e sistematico disinteresse per la cosa pubblica (simboleggiato già in epoca comunale dall’appalto a gestire la tesoreria generale affidato a un’istituzione finanziaria, il Banco di San Giorgio; con relativo, quanto deliberato, sposses-samento da parte dai genovesi del governo repubblicano).

Al limite – si potrebbe dire – testimonia in tal senso perfino la struttura urbanistica del-le due città più antiche (Genova e Savona); in cui il baricentro della loro pianta non è rappre-sentato da una piazza, ossia da un punto di incontro e socializzazione, bensì da una via di scorrimento (Sottoripa o corso Paleocapa): il flusso economico anteposto al confronto pub-blico da parte dello spirito ligure.

Quindi, l’intuizione che fluisce sottotraccia tra le due sentenze/testimonianze riferite (e i sommari esempi citati) individua nelle carenze di senso civico un aspetto decisivo dello “specifico locale”; tanto da inferirne un vero e proprio tratto costitutivo della cultura del ter-ritorio. Un genius loci.

In sostanza una sorta di “isolazionismo” delle persone, declinato in “insularità” del-le istituzioni sociali e nelle traiettorie politiche, a fronte di un’emiplegia nei confronti del concetto di socialità; l’idea stessa di interesse generale. Il “bene comune”. Atteggiamento mentale che precede da secoli e poi sovrasta quello contrario (il mutualismo), maturato sulle banchine dei porti e poi nelle Grandi Fabbriche di fine Ottocento.

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Dunque, un modo di pensare interiorizzato nelle mentalità collettive che – con il suo stop and (sometimes) go – nel passato ha consentito periodicamente l’avvio di cicli di svilup-po/accumulazione caratterizzati da rilevanza anche mondiale (“l’impero fenicio” dei fonda-ci dopo la Prima Crociata, “il secolo d’oro” secentesco della centralità finanziaria nel siste-ma-Mondo, la fabbrica tardo ottocentesca delle navi e dei cannoni). Sempre legato a iniziative individuali o di piccoli gruppi. Mai come progetto collettivo.

Genius che ormai appare del tutto inadeguato in questa fase del Moderno, quando la competizione è sistemica; mentre il one-man-show e l’innovazione incrementale/casuale ri-sultano sempre di più anacronismi a rischio di definitiva estinzione.

Questo vale almeno per le tre province liguri – Genova, Savona e La Spezia – che in epoca moderna hanno percorso, seppure con diversi gradi di intensità, una comune traiettoria; in cui la vocazione marittimo-portuale si traduceva nell’aggancio per ragioni di contiguità ai processi di industrializzazione nazionali (meccanica, elettromeccanica, siderurgia e cantie-ristica, ma anche alimentare); fondativi del loro proprio“modello di sviluppo novecentesco”, incentrato sulla Grande Fabbrica partecipata dallo Stato (le PpSs). Esauritosi nel corso dei primi anni Ottanta del secolo scorso.

Da antiche e più recenti vicende emerge – così – un ethos che, venendo da lontano, de-termina le lunghe e costanti derive dell’evoluzione locale, anche più recente:

A Una radicata vocazione alla rendita, nel privilegio accordato all’accumulazione del-la ricchezza piuttosto che alla riproduzione del capitale. Questa mentalità “da rentier” si ri-scontra e conferma a vari livelli. Ad esempio: la cultura portuale che concepisce lo scalo come varco da cui esercitare balzelli sulle merci, la crescita del tessuto industriale privato rintanato negli interstizi di una subfornitura posizionale (la vicinanza al committente) e non generati-va, l’incapacità di far evolvere il turismo da vantaggio situazionale, tendenzialmente parassi-tario, a impresa;

B La marcata preferenza per una politica ridotta a mero “scambio negoziale”, a volte “alto” (come quello tavianeo anni Cinquanta: la città “divisa”, ossia spartita con il PCI; il consenso colti-vato dirottando massicci trasferimenti dallo Stato alla società locale), a volte di mera intermedia-zione affaristica (nelle versioni legate agli assetti successivi); sempre concepita come controllo e colonizzazione della Società Civile (sia chiaro, in accordo con la sua parte collusa). La matrice di una classe dirigente inadatta a pensare/governare svolte strategiche – al massimo tattiche adat-tive – e che occulta la propria mediocrità nel silenziamento dell’informazione democratica;

C Una costante predominanza dello status sul ruolo, propria di ambienti in cui l’accu-mulazione finanziaria ha marginalizzato il profitto, che si traduce in società urbane struttu-rate prevalentemente secondo modalità castali/corporative, con un permanente scoraggia-mento di qualsivoglia processo di mobilità verticale. Dunque un ambiente prevalentemente conservatore, in cui si attivano (quasi automaticamente) ricorrenti coalizioni ad excluden-dum contro ogni soggetto/elemento che possa disturbare l’ordine consociativo vigente. Ma-gari nelle modalità tacite delle “larghe intese”, come ennesima affermazione di un ordine oligarchico (antica ricetta locale, almeno dalla Costituzione di Andrea Doria) che esorcizza i pericoli insiti nella democrazia praticata come discorso pubblico.

Dunque, un territorio connotato da staticità e costante presidio da parte delle nomen-clature, nell’intento primario di scoraggiare il cambiamento (atteggiamento che nelle sue declinazioni affaristiche si concretizza in attività speculative che privilegiano la tradizionale rendita immobiliare).

Un equilibrio tendente a reggere e riprodursi fino a quando esternalità positive ne alimentano/lubrificano la tenuta (ad esempio il consistente afflusso di denaro dal Centro

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a seguito di Grandi Eventi tra fine degli anni Novanta e inizio del decennio successivo; dai Mondiali di Calcio, al G8, a Genova capitale europea della cultura); rivela limiti esiziali se chiamato ad affrontare punti di crisi non episodici e/o rinviabili alle calende greche. Questo perché lo stato dell’arte ligure, nel suo patologico orientarsi al quieta non movere (et mota quietare), tradisce un gravissimo deficit in termini di progettualità strategica.

Le possibili risposteStando così le cose, un’ uscita di sicurezza in positivo potrebbe essere individuata nel favo-

rire una rottura radicale rispetto alla tradizione (“l’assiomatica dell’interesse individuale”) che contraddistingue la nostra storia, ma che – come si diceva – ormai è giunta a un binario morto.

Questo significa immettere nel meccanismo inceppato della regione, reso ancora più pesante dall’avanzare del declino economico e sociale (accompagnato dall’ulteriore degrado della qualità etica dei gruppi dirigenti, come segnalano i ricorrenti scandali), la rotella che rimetto in moto l’ingranaggio: la creazione di uno spazio aperto alla discussione partecipata, come condizione per quella “democrazia deliberativa” che da queste parti non c’è mai stata.

L’innesto di una “sfera pubblica” alla Habermas (lo spazio tra il privato e l’istituziona-le in cui si forma l’opinione collettiva attraverso attività discorsive strutturate di confronto e verifica), in una realtà storicamente e sistematicamente refrattaria sia alle intrusioni “dal basso” sia – a maggior ragione – alle pratiche partecipative in chiave deliberativa, richiede interiorizzazione culturale e strutturazione organizzativa.Dunque, una formazione/sensibilizzazione civica diffusa, finalizzata al controllo e alla de-cisione in materia delle scelte comuni; attraverso la messa a punto di luoghi e modalità per esercitare tali diritti/funzioni.

In particolare: individuazione/valorizzazione di specializzazioni competitive territoria-li, varo di coalizione d’area per definire e implementare pianificazioni di medio/lungo perio-do, azioni per ricostituire leganti sociali che operino in contro-tendenza rispetto all’emargi-nazione di ampie fette di territorio, e così via. Un dibattito inteso anche come laboratorio e incubatore per selezionare una nuova classe dirigente locale, portatrice di valori civili e – al tempo stesso – attrezzata politicamente alla governance urbana. La vera posta in gioco su cui si misurano le possibilità di consolidamento (o fondazione?) della vita democratica genovese e ligure.

Allo scopo di operare tale “innesto virtuoso”, si possono ipotizzare – tra le altre – le se-guenti mosse; in ordine sparso:

→ predisposizione di luoghi attrezzati per la socializzazione; in particolare rivolti alle fa-sce giovanili, sovente extracomunitarie. Nelle nostre città storiche questi punti di incontro potrebbero essere individuati all’interno del ricchissimo patrimonio palaziale inutilizzato/abbandonato, sparso sul territorio (in particolare nelle periferie); che potrebbe essere ogget-to di un importante recupero di scopo: realizzare una rete interattiva di “Case dei Giovani” in cui favorire forme (in qualche misura autogestite) di animazione. Spazi dedicati, oltre a favorire la relazione in senso lato, a coltivare le priorità espressive ed aggreganti del target (ad esempio musica e multimedialità). Proprio perché interconnesso, tale circuito di circoli potrebbe potenziare la propria funzione integrativa veicolando e mettendo in comune espe-rienze ed eventi;

→ recupero all’impegno civico, attraverso l’esercizio critico del controllo sociale da parte di una pubblica opinione fattasi riflessiva, di attori attualmente assenti, quali l’Ateneo e il siste-ma informativo locale. In effetti, la sfera del dibattito pubblico – quale emerge già a partire dal Diciottesimo secolo – trova nella stampa e nei giornali il principale ausilio, nel lavoro intellettuale professionale il primo serbatoio di personale coinvolto. Al contrario Genova – come

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conferma l’asfitticità tendente all’inesistenza della sua società civile – sconta pesantemente due condizioni singolari quanto regressive: la situazione embedded del complesso mediatico locale (i cui membri troppo spesso si rivelano “membri cooptati dell’establishment”, invece che “cani da guardia dei cittadini”); l’atteggiamento insulare della corporazione universitaria, più interes-sata a coltivare orticelli autoreferenziali che a intervenire nella discussione civica apportando competenze. Discussione rispetto ai cui temi topici anche recentemente ha dimostrato di essere sostanzialmente disinformata (al di là delle marchette giornalistiche, in quale misura il lungo confronto tra candidati alla carica di Rettore Magnifico dell’Ateneo ha rivelato la volontà/consa-pevolezza di radicamento attivo nel territorio da parte dell’istituzione universitaria?);

→ avvio di processi politici di partecipazione volontaristica, sulla falsariga dei modelli consolidati europei di programmazione strategica urbana (Allegato A): la discussione coin-volgente di tutti i soggetti urbani rappresentativi nell’invenzione del futuro condiviso. Ossia la modalità per indirizzare il cambiamento sulla base di un’analisi collettiva della situazione e della sua possibile evoluzione, e su una strategia di investimenti in alcuni punti critici del-le risorse limitatamente disponibili. La diagnosi prende in considerazione gli investimenti (globalizzazione), il territorio (nelle sue dimensioni variabili), le coalizioni (pubblico-privati) e l’amministrazione (o il sistema di enti pubblici). Particolare considerazione viene attribuita alle dinamiche e agli interventi in atto, alla domanda sociale, ai suoi punti critici, a eventuali ostacoli o colli di bottiglia, e al potenziale. Tale diagnosi viene utilizzata per determinare le situazioni prevedibili, i possibili scenari e la situazione ottimale, che viene presa come punto di partenza per tracciare un progetto ivi mirato. La realizzazione include l’identificazione de-gli obiettivi, l’implementazione di una linea strategica e alcuni progetti specifici che possono essere attuati a breve termine (programmi economici o sociali, misure amministrative, cam-pagne civiche, ecc). Quanto realizzato pionieristicamente dal “Piano di Barcellona” a fine anni Ottanta del secolo scorso, aggiornando la tradizionale vocazione d’area (essere la porta di entrata/uscita del mercato iberico) nell’idea di realizzare una città nodale che fungesse da polo commerciale dell’intero Mediterraneo attraverso una rete di coalizioni tra porti spagno-li e reti lunghe nel retroterra (le piattaforme logistiche catalane sono in Castiglia: il Puerto Seco di Barajas, alle porte di Madrid). Esperimento diventato buona pratica per i “casi” a se-guire: Lione, grazie alla costituzione di Tecnopoles, candidandosi ad attrarre nel Röne-Alpes l’high-tech; Lisbona, con il piano del 1992 centrato su “sei assi di sviluppo”, proponendosi un rinnovamento /specializzazione del tessuto economico con particolare attenzione al turismo (principalmente congressuale); Stoccarda, capitale del Baden-Württemberg, puntando sul trasferimento tecnologico come sull’eccellenza scientifica e formativa assicurata da istitu-zioni quali la Fondazione Stembeis, con i suoi 200 poli decentrati presso i 23 istituti tecnici e politecnici del Land. Come nel Piano di Londra, approvato il 10 febbraio 2004 e guidato dalla visione «di bilanciare e integrare tre direttrici di sviluppo – sociale, ambientale ed economica – quali componenti fondamentali di una “città sostenibile”.

→ Declinazione dell’idea di territorio come risorsa competitiva in un nuovo paradigma dell’azione amministrativa di governance. Mentre in passato l’azione amministrativa si basava sul presupposto dell’autorità, ossia sull’idea che la pubblica amministrazione fosse l’unica de-positaria dell’interesse generale e che proprio per questo avesse il diritto-dovere di farlo valere nei confronti di tutti, oggi – in un numero crescente di casi – l’amministrazione tende a svol-gere un ruolo diverso: di stimolo, di sollecitazione, regia o coordinamento. Non si presenta più come un’autorità indiscussa, ma piuttosto come partner fra altri partner. Due autori america-ni, David Osborne e Ted Gaebler, in un famoso libro intitolato Reinventare l’amministrazione, hanno definito l’amministrazione post-burocratica come amministrazione catalitica. Il cata-lizzatore – come sappiamo – è quella sostanza chimica che non partecipa direttamente a una reazione ma la favorisce o addirittura la rende possibile. Allo stesso modo l’amministrazione proposta da Osborne e Gaebler, non assume le decisioni strategiche e operative in prima per-

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sona, ma cerca di prenderle con gli altri o farle prendere da altri; ossia stimola la partecipa-zione, l’iniziativa e la corresponsabilizzazione della società civile;

→ sensibilizzazione dei progetti regionali di education alla formazione di figure di interfacciamento. La premessa “politica” di tale scelta di indirizzo nasce dal fatto che per uscire dalla crisi occorre uscire dalla congenita “a-socialità” del genius loci per entrare ope-rativamente nella dimensione del partenariato. A tale scopo occorre investire in competenze relazionali attraverso piani in collaborazione con l’Università e campagne informative rivolte alle popolazioni studentesche e le loro famiglie: la capacitazione nel networking può – tra l’altro – rivelarsi un’interessante scelta professionale per chi si affaccia al modo del lavoro. Tanto per quanto riguarda l’internazionalizzazione delle aziende come nell’ambito del tra-sferimento tecnologico (technological push) questi ruoli appaiono coerenti con le presumibili strategie del territorio volte a individuare il nuovo “modello di sviluppo ligure” per il Terzo Millennio; quanto recenti ricerche hanno segnalato essere il primo “collo di bottiglia” nei processi innovativi1. Tali figure professionali diventano ulteriormente preziose nel momento in cui le istituzioni locali entrano nell’ordine di idee di avviare i cosiddetti processi decisio-nali inclusivi, ossia scelte pubbliche compiute mediante il coinvolgimento. Si tratta di desti-nati a creare condivisione attorno a scelte che investono in maniera significativa la vita della comunità. Dalle valutazione dell’impatto ambientale in materia di Grandi Opere (Allegato B) all’individuazione di obiettivi comuni e soluzioni condivise all’interno di un quartiere, di una città (il caso dei Piani Strategici) o di un raggruppamento di comuni (il caso dei Patti territoriali). Il risultato non è un compromesso, bensì l’individuazione di nuove soluzioni; at-traverso pratiche complesse che richiedono l’assistenza e l’affiancamento di professionalità specializzate ed esperte (Allegato C). A tale proposito va osservato che le competenze neces-sarie al riguardo sono molteplici: comunicative, relazionali, di costruzione delle reti, organiz-zative-gestionali, di immagine, strategiche e visionarie. Sicché il primo passo sarà quello di mettere a punto una job description dettagliata e le modalità formative per dargli corpo;

→ Accompagnamento, attraverso l’intensificazione delle pratiche partecipative e il potenziamento del dibattito pubblico, allo sviluppo di un’intelligenza collettiva d’area (“la valorizzazione, l’utilizzazione ottimale e la messa in sinergia delle competenze, delle imma-ginazioni e delle energie intellettuali”) come condizione di cambiamento effettivo nella vita pubblica locale. Dunque, un’attività riflessiva/dibattimentale messa al lavoro; che porti a fat-tore comune la potenza della connettività high-tech e le risorse tuttora inespresse del relazio-nale face-to-face, per promuovere “pensiero urbano”: uno “spazio del sapere” innestato sullo “spazio del territorio” che, con la felice condivisione dell’immaginazione e delle conoscenze presenti nella società, approdi a forme di democrazia “in tempo reale”. Crei le premesse per una vera e propria mutazione antropologica orientata al civismo. Dunque, alla coesione.

Primo passo per la coesione attraverso lo sviluppo: la Banca DatiL’opera volta a produrre legature sociali per la coesione, necessita di una consistente

base di conoscenze/informazioni relative al contesto di riferimento.Ciò premesso, in linea con l’obiettivo strategico di rinsaldare identità condivise attraverso lo sviluppo territoriale, si invita a ragionare in termini di “comunità progettuali” (in cui «gli at-tori sociali costruiscono una nuova idea del Noi che ridefinisce la loro posizione e, così facen-do, cercano di trasformare la struttura sociale nel suo complesso»2); contrapposte, in quanto innovative, alle tradizionali “comunità difensive”, tipiche di realtà arroccate e pre-moderne (matrici primarie di trappole del non-sviluppo).

Quanto sopra, nella presa d’atto che se i disegni coalizionali d’area promossi nel nostro Paese si sono generalmente avvitati in spirali involutive sfociate nell’impotenza, nei casi euro-

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pei di successo tale strategia si è rivelata “la via maestra di uscita dall’afflizione fordista” (leggi: deindustrializzazione): l’invenzione di un futuro fondato sui capisaldi progettuali dell’inno-vazione e della sostenibilità, cementati dalla coesione indotta dall’inclusione democratica. Come rifondazione della democrazia partendo dal territorio. Cioè, i prerequisiti che – in quan-to carenti/assenti – hanno determinato buona parte dei nostri fallimenti, di cui si è detto.Preso atto che la progettualità è il tratto distintivo della strategia in oggetto, vanno quindi:

— individuati gli attori,— definiti gli obiettivi,— evidenziate le risorse (non solo monetarie) con cui operare— predisposti i metodi di accompagnamento funzionali ai risultati attesi.

I protagonisti in campo sono – ovviamente – tutti i soggetti locali che condividono l’o-biettivo di fondo: la spinta coesiva indotta dalla partecipazione a processi di democrazia de-liberativa quali fondamento della cittadinanza e del civismo.Ciò premesso, il presente paragrafo affronta un tema più circoscritto: l’apporto al disegno generale da parte di iniziative finalizzate alla riproduzione della ricchezza sociale.

1) In tale ottica, “attori” diventano le categorie produttive e le loro rispettive rappresen-tanze, tanto sindacali che datoriali; nella misura in cui sapranno contribuire a valorizzare la relazione interaziendale quale condizione per raggiungere adeguate masse critiche; fattore ir-rinunciabile di competitività. Particolarmente in un tessuto produttivo affetto da “nanismo”, come ormai quello ligure; dopo la catastrofe della Grande Industria partecipata dallo Stato.Eppure, a livello d’impresa, tale approccio coalizionale alla competitività rischia costante-mente di rimanere confinato nel limbo delle sterili dichiarazioni d’intenti; per carenze ri-scontrabili sia nei diretti soggetti come nell’associazionismo di riferimento.Infatti, sovente le unità produttive e il loro comando rivelano due caratteristiche suicide:

→ la separatezza, come tratto di cultura d’impresa che recalcitra a interiorizzare le logi-che della coopetition (competere cooperando);

→ l’afasia, intesa come deficit di espressività che ignora la convenienza di valorizzare comunicativamente gli asset aziendali (tecnologici, organizzativi e/o di mercato).

Allo stesso tempo le rappresentanze associative troppo spesso circoscrivono la propria azione a compiti di puro “scambio politico” e lobbying. Per cui – di conseguenza – gli Enti Ca-merali, preposti a favorire l’interlocuzione istituzionale fra le categorie economiche, si ridu-cono a tavoli dove i vari notabilati locali registrano e certificano le rispettive sfere di influenza.

Allo scopo di rompere questi “denti d’arresto” della dinamizzazione, si indica nei punti seguenti la necessità di attuare una vasta opera costituente, giocata sui registri dell’ascol-to, della sensibilizzazione e della relazione comunicativa; quale intermediazione strategica (brokeraggio sociale) finalizzata al mettere insieme. In particolare – parlando di “ascolto” – si propone di prestare particolare attenzione ai segnali deboli (come – ad esempio – i fenomeni interstiziali, da rafforzare aiutandoli a crescere, nel settore alimentare di micro impresa; tra gli altri segnalati nell’imperiese e nell’area di Recco, di cui si dirà più avanti), creando ade-guate “srumentazioni riceventi e monitor” di tali messaggi. Opera largamente surrogatoria, stante l’accertata miopia dei diretti interessati; comunque propulsiva.

2) Gli obiettivi specifici, funzionali alla strategia generale, sono quelli di valorizzare ogni opportunità del territorio per lo sviluppo. In altre parole, si propone di virare il “saper fare” d’area (ossia il genius loci sedimentato in competenze e vocazioni, capacitazioni diffuse e specializzazioni di settore) a locomotiva di nuova intrapresa; favorendo interdipendenze e diffondendo best practices per processi imitativi, inducendo e irrobustendo alleanze e part-nership territoriali.

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Quella che si configura – dunque – è un’opera di individuazione/cernita di asset/oppor-tunità. Probabilmente – in larga misura – aspetti ancora relegati in uno stato di latenza/invisi-bilità (anche per la bassissima attitudine a comunicarsi dell’impresa piccola/artigiana, di cui si diceva). Per questa ragione si impone una fase propedeutica di esplorazione sotto forma di censimento, da cui far emergere know how aziendali di pregio, anche (soprattutto) non for-malizzati, su cui basare tanto progetti di prodotti/processi da immettere nel mercato come di opportunità per scambi positivi tra aziende all’insegna della complementarità. Sia chiaro: non l’ennesimo studio; bensì un’operazione altamente maieutica, che ha come destinatario – innanzi tutto – l’impresa stessa, che verrebbe accompagnata a organizzare il proprio siste-ma cognitivo. Infatti – come è stato autorevolmente osservato – «un’organizzazione produtti-va è un sistema cognitivo distribuito, tanto più complesso allorché si abbia a che fare con l’e-laborazione e l’applicazione di tecnologie avanzate. Le innumerevoli molecole di conoscenza esplicita e implicita che lo formano stanno sia nella memoria delle persone, pur nei casi in cui non ne sono consapevoli, sia negli archivi, dossier, classificatori, file di ogni reparto, divi-sione, officina o ufficio, – non solo in quelli della direzione o del CdA. Non meno essenziali sono le particolari relazioni che si sono stabilite tra le tante molecole cognitive: sono infatti esse che fanno la differenza fra una congerie caotica di elementi e un sistema funzionante»3.

Il primo risultato di tale censimento (che supplirebbe alle croniche carenze da parte delle istituzioni di rappresentanza, pubbliche e private, in materia di raccolta dei dati operativi, e non soltanto meramente anagrafici, sulle reali capacità/potenzialità delle imprese d’area) sa-rebbe la realizzazione di una Banca Dati che consenta di rilevare il profilo effettivo delle unità che compongono il tessuto d’impresa di riferimento: dal ciclo produttivo fino al networking di-stributivo, passando per le modalità organizzative e strutturali come innovazione diffusa/incre-mentale. Tale Banca Dati (di cui la Liguria è ormai priva da decenni) è una condizione irrinun-ciabile per qualsivoglia determinazione di politiche in senso generale. Infatti supporterebbe in maniera decisiva la decisione pubblica non solo in ambito economico ma anche sociale; fornendo gli elementi conoscitivi indispensabili per consentire di non operare scelte alla cieca.

3) La questione delle risorse (non espressamene monetarie, bensì di coinvolgimen-to) da reperire, in larga misura locali, risulta anch’essa primaria condizione di successo e – al tempo stesso – il punto di maggiore criticità per la strategia di sviluppo/coesione territoriale. Appurato la natura prevalente della mentalità locale (“l’individualismo tenace”, dunque auto-referenziale) già evidenziata: tendenze solipsistiche delle imprese, involuzione burocratica del-le associazioni di rappresentanza, derive notabilistiche (per non dire peggio) delle istituzioni di territorio. D’altro canto, fa testo nel mettere in guardia a tale proposito l’esperienza anni Novanta – sostanzialmente molto negativa – in materia di Patti Territoriali et similia; in cui gli aspetti cerimoniali (e spartitori) andarono rapidamente a scapito di ogni esito generativo.

Tutto ruota attorno alla possibilità di mettere in pista una leadership locale in totale sintonia con la strategia di sviluppo/coesione e – insieme – capace di avviarne e guidarne l’attuazione con efficacia. Il modello idealtipico di riferimento potrebbe essere quello offerto dal “caso Barcellona”; quando, con il celebre Piano Strategico approvato nel 1988, si costituì un forum degli interessi che, lungi dal sostituirsi al mercato, contribuì a orientare verso il fu-turo mete collettive in forme volontaristiche di governance. Ciò in quanto «un’élite locale ha saputo funzionare da network integrato, sviluppando giochi di cooperazione e coinvolgendo tutti gli interessi economici e sociali»4.

Un importante rapporto alla Conferenza Habitat II (Istanbul 1996) delle Nazioni Unite già da tempo ha chiarito cosa si intenda per “ruolo propositivo” della governance locale5:

→ promozione dell’area tramite lo sviluppo di un’immagine forte e positiva e – insieme – una gamma di infrastrutture e servizi;

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→ cooperazione tra pubblico e privato come strumento per rendere esecutivi sia le pro-mozioni esterne, sia le opere e i servizi richiesti dalle mancanze accumulate;

→ promozione interna del territorio allo scopo di istillare un “patriottismo civico” negli abitanti, un senso di appartenenza, un desiderio collettivo di partecipare;

→ innovazione amministrativa e politica volta a generare meccanismi multipli di coo-perazione sociale e partecipazione dei cittadini.

A tale riguardo – in fase di start – sarà necessario prevedere propedeutici momenti di sensibilizzazione animati da soggetti di profilo consulenziale definibili come “reclutatori”. Tali reclutatori avranno il compito di realizzare check-up sui processi decisionali standard nel contesto in questione, individuando risorse attivabili per i risultati attesi. Questo al fine di prospettare la composizione ottimale di una Cabina di Regia per la governance locale; secon-do le modalità ormai codicizzate a livello europeo dei Piani Strategici.

4) Le modalità d’accompagnamento del processo presuppongono l’utilizzo di figure professionali in grado di attuare efficacemente forme di intermediazione strategica; ossia, ciò che qui è stato definito “brokeraggio sociale” (portare a fattore comune interessi sinergi-ci, facendoli riconoscere come tali ai loro portatori).

Tutto questo in quanto il disegno generale impone azioni finalizzate a “fare rete”, ossia connettendo soggetti in maniera permanente grazie a una infrastrutturazione soft, in cui la leva relazionale e quella informativa attivano canali di comunicazione per l’agire finalizzato.In particolare, promuovendo:

→ partnership interaziendali per qualsivoglia disegno di rafforzamento del business;

→ cooperazione pubblico/privati anche per specifiche iniziative finanziate dai Fondi Comunitari (ad esempio in materia di internazionalizzazione);

→ milieux d’innovazione (in cui il sistema d’impresa dialoga sistematicamente con le comunità scientifiche e tecnologiche locali).

Tali azioni presuppongono soggetti dedicati alla fertilizzazione del territorio attraverso la veicolazione ad ampio spettro di contenuti e la messa in contatto tra realtà diverse.Questo grazie a:

→ le competenze interdisciplinari che consentono al portatore di leggere il proprio pa-trimonio informativo sotto diversi angoli visuali e – così – facendo emergere gli aspetti di interesse diretto per i diversi interlocutori;

→ la capacità di interloquire con le diverse comunità d’area, conoscendone i linguaggi e le rispettive “mentalità”. In primo luogo fungendo da “ponte” tra la ricerca e l’impresa: in linea di principio, mondi tra loro incomunicabili;

→ l’attitudine a costruire architetture di connessione virtuale, nelle varie modalità fun-zionali ai diversi rapporti da porre in essere (reti, ragnatele, rizomi).

Tali broker di territorio – individualmente o come task force – avranno quale primo com-pito quello di far socializzare vaste platee locali con le informazioni raccolte nella Banca Dati, di cui al punto “Due”; successivamente si faranno carico di attivare e supportare metodo-logicamente esperimenti di animazione territoriale, finalizzati anche a start-up d’impresa. Sempre sotto la direzione della Cabina di Regia, di cui al punto “Tre”.

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Note

1 «Nei saggi di economia dell’innovazione si parla spesso del “paradosso europeo”: i Paesi dell’Unione europea giocano un ruolo di primo piano nella produ-zione scientifica di alto profilo a livello mondiale, ma non riescono, se non in misura limitata, a convertire questo punto di forza in innovazioni capaci di gene-rare ricchezza», M. Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laerza, Roma/Bari 2014 pag. 79

2 M. Castells, Il Potere delle Identità, EGEA, Milano 2003 pag. 8

3 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003 pag. 75

4 P. Perulli, La città delle reti, Bollati Boringhieri, Torino 2000 pag. 97

5 J. Borja e M. Castells, La città globale, De Agostini,

Novara 2002 pag. 108

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2. Un territorio lasciato marcire

L’alluvione genovese dell’ottobre 2014 è stata una catastrofe abbondantemente annunciata; in un territorio che sta marcendo per totale carenza di cultura dell’ambiente e l’evidente subalternità all’interesse privato. D’altro canto, la costante reiterazione dei disastri idrogeologici fa sì che questi non possano più essere rubricati alla voce “fenomeni naturali”; chiamando in causa evidenti respon-sabilità politiche. Anche in questo caso balza agli occhi la cronica incapacità dell’establishment lo-cale nel prevedere e programmare. Oltre che nel predisporre adeguate macchine organizzative per fronteggiare le ricorrenti emergenze. Nella disgrazia un raggio di speranza: i ragazzi armati di pala che testimoniano l’esistenza di bacini di civismo.

Lo stato dell’arteScriviamo queste note nei giorni immediatamente seguenti alla devastazione alluvio-

nale di Genova, a causa delle esondazioni torrentizie scatenate dalle precipitazioni iniziate nella notte dell’8 ottobre; ricordando che il quadro completo di un’area in pieno dissesto idrogeologico ci era stato fornito già nel 2012 dal Rapporto di Legambiente e Protezione Ci-vile “ Ecosistema a rischio”, mappa delle pericolosità potenziali presenti sul territorio italia-no, in cui si scriveva: «in Liguria è a rischio il 100% del territorio in provincia di La Spezia. La Liguria ha poi delle vere e proprie aree ‘rosse’: e – in particolare – quella della fascia costiera in cui risiede il 90% della popolazione (ma pari al 5% del territorio), dove urbanizzazione e an-tropizzazione hanno contribuito ad accrescere i pericolo per cittadini e beni delle comunità. Nel 46% delle amministrazioni sono presenti interi quartieri a rischio»6.

In sostanza, il 98% della Liguria risulta sotto minaccia idrogeologica.

Un tema diventato “sconfortantemente” banale (in quanto drammaticamente “sconta-to”) dopo la catastrofe alluvionale in Genova dell’ottobre 2014; la sesta negli ultimi 44 anni (1970, 1993, 2010, 2011 e – appunto – 2014).

Una sequenza che ha prodotto 57 vittime e danni materiali incalcolabili. Da qui la con-siderazione decisiva: l’esondazione killer può essere un fenomeno naturale imprevisto e – al limite – imprevedibile. Quando – però – questa si ripete “serialmente” e con precisione “cro-nometrica”, si trasforma necessariamente in una questione politica.

Il motivo per cui ora risuonano con particolare rimbalzo profetico le parole di una grande storico dell’architettura – Leonardo Benevolo – che risalgono a un lustro fa; l’accorato appello a ritrovare il senso perduto del territorio come interesse generale: «insieme agli spazi privatis-simi dell’abitazione, si privilegiano i negozi, forse i cinema, ma le scuole sono insufficienti, i campi sportivi e le palestre mancano, i bambini e gli anziani non hanno un posto dove giocare o dove passeggiare. Il traffico di auto diventa sempre più caotico. I servizi pubblici faticano a seguire l’espansione delle città dettate da interessi speculativi. Ma in Italia accade anche qual-cosa di peggio: nei casi di densità e di disordine eccessivo, l’edilizia compromette l’equilibrio del suolo e produce frane e alluvioni, a Salerno, Napoli, Agrigento, Genova»7.

Appunto, frane e alluvioni a Genova.

Dunque, l’uso del suolo (non meno che del sottosuolo e del soprasuolo) come assoluta priorità d’agenda rimossa e dimenticata. A partire dalla sua salvaguardia. Le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Se oltre trent’anni fa Bernardo Secchi proponeva nelle pagine della rivista "Casabella” la discussione sul rapporto tra Piano e Progetto, si può dire che le coste della politica ligure a tutt’oggi non ne sono state neppure lambite. Una discussione che, riaffermando l’intera-zione tra i due approcci, propugnava «una attenzione nuova alla città costruita e alla storicità devastata della geografia e del paesaggio»8.

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Non per niente, in materia di territorio si ha a che fare con una realtà – al tempo stesso – complessa e dinamica; un contesto da comprendere e governare con il progetto: dialogo critico con l’esistente, in funzione della sua modificazione necessaria.

Sicché, venendo al nostro – di contesto (e pure prescindendo dai comportamenti illeciti; o, al limite, criminali) – non averne tenuto conto con un’adeguata azione di governo ha com-portato che le sue evidenti fragilità, quali malattie dello spazio pubblico locale, iniziassero a marcire; andassero in putrefazione. In un’Italia in cui vengono segnalati a rischio ben 6.633 comuni, la Liguria spicca per negatività. «Nei sei giorni precedenti l’alluvione [dell’ottobre 2014, ndr.] gli investigatori del Corpo forestale scoprivano e sequestravano un parcheggio to-talmente abusivo in uno dei luoghi più vincolati delle Cinque Terre; una grossa palazzina con volumi abusivi a Villanova d’Albenga; una villa in ristrutturazione con violazioni urbanistiche a Santa Margherita, nel Parco di Portofino. Esempi di cementificazione non solo selvaggia, ma pure illecita»9.

Si tratta di danni inferti al territorio e alla sicurezza dei cittadini da oltre un cinquanten-nio; un’opera ininterrotta che continua a sgretolare l’ambiente. «Il risultato di questo sgreto-lamento è la diminuzione, in Liguria, del 62% della superficie agricola nel periodo tra il 1982 e il 2010. Una percentuale spaventosa che concorre all’impermeabilizzazione delle nostre colline e diventa il miglior alleato per il dissesto idrogeologico»10.

Esito che richiama a un responsabile palese: l’assenza di cultura del territorio coniuga-ta con l’indifferenza macroscopica nei confronti del pubblico interesse.Il vuoto di progettualità innestato su quello di volontà. Spia palese del disinteresse (o della complicità) di un’intera classe politica. Di cui è riprova evidente il silenziamento di questi anni (catastrofi permettendo!) della questione. A incominciare dalla discussione che uno dei più noti industriali italiani – Riccardo Garrone – aveva avviato all’inizio degli anni Novanta con il suo “Progetto Appennino” sull’urgenza di ripristinare la “filiera del bosco”; dal punto di vista non solo paesaggistico ma anche economico e di messa in sicurezza di vaste aree ab-bandonate, dunque esposte a smottamenti e frane.

Si prenda ora in esame un caso riportato all’attenzione pubblica dalle ultime esonda-zioni del Bisagno e dei suoi affluenti: la valle in cui scorre la via Ferregiano. Ebbene, un pezzo di periferia genovese fatto deliberatamente marcire “infilandoci” 13mila residenti, poi pren-dendo la decisione (amministrazione Doria) di autorizzarvi un ipermercato Coop a Ponte Ca-rega sul rio Merni e la costruzione (“sull’acqua”) del supermercato Brico.

Scelte che (presumibilmente) incrementeranno il traffico giornaliero appesantendolo dell’ulteriore passaggio di circa 6mila auto, a fronte dell’attuale impossibilità di smaltire già la vigente viabilità.

Sempre nello stesso spazio, la subalternità culturale all’interesse privato vi ha accata-stato un centro smaltimenti di oli esausti, il macello, i centri commerciali (alimentari e non) di cui si diceva, una ex fabbrica piombifera adibita a funzioni logistiche, il fangodotto e il centro trattamento smaltimenti e perfino l’inceneritore cadaveri del cimitero di Staglieno. A questo si aggiungono i 500 autobus parcheggiati in fondo alla valle che, alle cinque di mat-tina, scaldano i motori scaricando fumi davanti alla principale scuola del quartiere. Tutto questo circoscritto nell’ambito di un unico chilometro lineare (!).

Ed è solo un esempio tra i tanti.Ancora una volta – al di là di ogni ulteriore considerazione – la dimostrazione lampan-

te dell’incapacità di programmare e progettare degli attuali governanti locali. Con effetti di pura devastazione. Effetto inevitabile della priorità assoluta accordata al disordine conse-guente al privilegio (la speculazione).

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Devastazione che si ritrova macroscopicamente proprio nell’unico ambito in cui si è manifestata una qualche attitudine pianificatoria e realizzativa, seppure nella logica perver-samente affaristica, da “ultimi giorni di Pompei”, della politica ligure tardo novecentesca: la cementificazione delle coste; in un proliferare insensato di porti e porticcioli. Economica-mente più che sovradimensionato rispetto alla domanda potenziale, eppure bulimicamente perseguito dal kombinat amministratori pubblici – affaristi speculatori. Particolarmente a Ponente.

Nel 2006 un’inchiesta pubblicata dalla rivista “MicroMega”, a firma dei giornalisti Mar-co Preve e Ferruccio Sansa, censiva in essere quindici progetti per altrettanti attracchi turisti-ci da 9.807 posti barca; fra Ventimiglia, Bordighera, Diano Marina, Alassio, Loano, Savona, Finale, Albissola, Varazze, Arenzano, Santa Margherita e Portovenere11. Progetti che prean-nunciavano la discesa, sullo spazio angusto del waterfront ligure, della colata di quasi tre mi-lioni di cemento.

Il tutto – scriveva Marco Travaglio – a seguito del «patto d’acciaio siglato a Imperia dai due Claudio: il reuccio del luogo, il forzista Claudio Scajola detto Sciaboletta, e il governato-re diessino Claudio Burlando, che avevano da poco festosamente posato la prima pietra del nuovo porto: un’opera faraonica da 90 milioni di Euro, con 1.392 attracchi, 1.887 posti auto, 40mila metri cubi di edifici con 100 appartamenti, e poi garage, commercio, officine e si par-lava perfino di un campo da golf con vista mare».

Va detto che la pubblicazione dell’indagine– nel luglio di quell’anno – non suscitò di-battiti, polemiche e tanto meno smentite da parte dei chiamati in causa. «Silenzio di tomba. Nessuna smentita nemmeno sulla presunta ‘pax burlandiana’, cioè sul ruolo decisivo di mol-ti esponenti della sinistra ligure e sugli strani trasversalismi fra comuni di destra e sinistra interessati ai progetti»12.

L’unica voce al riguardo fu quella, ancora una volta “pompieristica”, della stampa loca-le: il 7 agosto, sulle pagine de la Repubblica-Genova, l’allora carpo redattore Franco Manzitti officiava la piena assoluzione del primo personaggio nel mirino dei suoi stessi colleghi Preve e Sansa: «Oseremmo dire che per la prima volta dopo un anno dalla Regione, governata molto pragmaticamente da Burlando, è uscito un vero discorso di sinistra».

Alcuni dei principali protagonisti della vicenda hanno poi conosciuto l’esperienza del carcere, a seguito delle indagini della magistratura sulle malefatte imperiesi.

Verso Burlando si è indirizzata la rabbia popolare per le responsabilità politiche dell’en-nesima catastrofe alluvionale genovese.

“Conoscendo i nostri polli”, ora si teme che la porticciolo-mania attecchisca surrettizia-mente anche nel nuovo canale progettato per il porto di Genova, nella rivisitazione di passati Archivi che spettacolarizzarono la questione waterfront ad uso e consumo del protagonismo del ceto politico, Senza produrre effetti di sorta.

Le possibili risposteNella tragedia genovese dei primi giorni dell’ottobre 2014 – nonostante tutto – abbiamo

visto emergere un chiarissimo – quanto inaspettato – segno di speranza.Segno che consente perfino di prefigurare una possibile redenzione del territorio

dall’abbandono al degrado (l’eterna condanna a marcire): la mobilitazione delle centinaia di ragazze e ragazzi che, ancora una volta, scendevano con le pale e i secchi nelle strade invase dal fango; per dare una mano, soccorrere, testimoniare la volontà di reagire. Riattivare la ca-tena spezzata del civismo.

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Solo l’imbarazzante miopia burocratica – durante la conferenza stampa del venerdì se-guente l’inondazione – poteva suggerire al vice sindaco di Genova (quasi un riflesso condizio-nato da antico apparatchiki piccista, per cui compito della politica è tenere a bada la società) di invitare il gioioso volontarismo degli spalatori e delle spalatrici a farsi da parte “per non fare confusione”; per non intralciare l’ipotetica macchina organizzativa comunale, di cui non si sono viste tracce neppure nei giorni seguenti.

Tra l’altro, quello di non aver saputo predisporre e organizzare a livello accettabile stru-menti di intervento nelle emergenze (del resto, ormai ricorrenti), costituisce probabilmente il punto di massima delegittimazione per la politica ligure; per il ceto sedicente “dirigente”, finito nel discredito del dopo alluvione. Si badi bene, strumenti richiesti da quel Piano di Si-curezza urbana previsto dalla legislazione nazionale.

In effetti “i nuovi e le nuove genovesi” (che magari sono gli stessi volontari del 2011 o persino quanti partirono anni prima per prestare soccorso ai terremotati dell’Abruzzo) ri-sultano l’evidente riprova che l’abituale cliché di “regione dei vecchi” lascia nell’ombra un pezzo importante di realtà ligure. Quel prezioso pezzo di società su cui si può fondare la co-struzione di una vita civica democratica partecipata, deliberativa, proattiva.

Sempre che la sua disinteressata generosità trovi rapidamente una sponda nella politi-ca, nelle istituzioni. Per evitare l’ulteriore catastrofe (questa volta morale, dopo le tante mate-riali) di una disaffezione che scivoli nella frustrazione e nel fatalismo.

Si tratterebbe della cartina di tornasole per segnalare il formarsi di una classe dirigente locale davvero degna di questo nome.

Infatti, dai tristissimi giorni in cui la furia degli elementi ha definitivamente smasche-rato l’inettitudine di un ceto dirigente, tanto da poter risultare la cesura metaforica che mar-ca la fine di una fase storica (durata un quarto di secolo) nella vita pubblica ligure, emerge una lezione che le pagine di questo Libro Bianco andranno a declinare in svariati ambiti: la crisi da declino della Liguria può essere affrontata solo accantonando le sempre più improv-vide tentazioni verticistico-oligarchiche (quanto indelebilmente impresse nei retropensieri della cultura politica locale) per adottare coraggiose aperture di credito, scommettendo sulle capacità/qualità delle persone. Le si chiamava collettivamente “il demos”. E a qualcuno po-trebbe saltare all’orecchio l’assonanza con il termine “democrazia”.

Dunque, alleanze civiche democratiche. A partire dal territorio ferito.

Un ruolo attivo (partecipativo, deliberativo, proattivo) della società nel governo dello spazio pubblico – sia in termini di vigilanza diretta come di buone pratiche indotte dalla con-vinzione – può essere declinato a vari livelli:

A Il primo passo per offrire una sponda politica all’impegno disinteressato dei “nuo-vi genovesi” è quello di lanciare una vasta campagna per la riconquista del paesaggio come valore primario, assoluto. Un punto di partenza fondamentale per la ricostruzione della ci-vile convivenza. Campagna che assume i connotati di una lotta di liberazione rivolta contro gli “interessi organizzati del disordine”; chiamando a raccolta le tutte le risorse civiche oggi disperse. Scriveva Leonardo Benevolo: «la distruzione del paesaggio italiano non è stato un fatto casuale o un risultato dell’incuria: è stata pagata in contanti. L’ammontare di questo esborso lo vediamo ristagnare nell’economia del nostro paese e lo riconosciamo nel preva-lere del comparto finanziario rispetto a quello industriale, della rendita rispetto al profitto d’impresa»13;B Conseguentemente, va messo in cantiere un Piano di sistemazione del territorio a par-tire dalla rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, che ove possibile vanno “stappati” dagli inter-venuti tombamenti (da molto tempo ormai la migliore cultura idraulica rifiuta la cementi-ficazione dei corsi d’acqua). Una tutela dell’habitat che potrebbe proseguire rivalorizzando

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il sistema dei parchi liguri, tanto acquatici come terrestri, facendoli ascendere a parte inte-grante dell’economia regionale; non una realtà lasciata vivacchiare ai margini;

C «Il sistema di relazioni, nuove e rinnovate, materiali e immateriali, fisiche e simboli-che, costituisce alla base la riconoscibilità»14 del luogo abitato dalla comunità. Ragione per cui – specie in presenza di ricostruzioni a seguito di calamità naturali – occorre valorizzare la struttura di relazioni dando la priorità alla ricomposizione dei legami sociali. Operazione che – secondo l’architetto/urbanista Annalaura Spalla – segue la regola delle “quattro C”: co-erenza con la storia e l’identità; concertazione tra soggetti pubblici e rappresentanze sociali; condivisione da parte delle persone; compatibilità con gli stanziamenti previsti e con le tem-pistiche degli interventi. Il motivo per cui andranno inventate forme di partecipazione alla progettazione di ogni intervento valorizzando il ruolo dell’associazionismo. Ruolo partico-larmente significativo in ogni forma di progettazione strategica di territorio, in cui si defini-sce la destinazione d’uso dello spazio pubblico. E che richiede di essere istituzionalizzato in forme permanenti (ad esempio consulte assembleari e consultazioni referendarie);

D Molti comportamenti inadeguati nei confronti del territorio possono essere scorag-giati dal diffondersi di modelli virtuosi, che svolgano anche il ruolo di sanzioni sociali nei confronti di atteggiamenti divergenti. Una mentalità che va coltivata. Il diffondersi di una cultura civica per il presidio dello spazio collettivo abbisogna della creazione incubativa di luoghi pubblici aperti (parchi e giardini) affidati all’autotutela da parte delle persone. Luoghi di incontro in cui si riscopre il piacere di vivere bene in una dimensione collettiva; in cui si affermino i principi della manutenzione e del rispetto come impegno individuale. In cui si comprende l’assurdità – come oggi troppo spesso avviene – di riempire ogni buco di auto e motocicli. Occorre invece favorire un atteggiamento fruitivo di tali luoghi anche in termini di accesso mediante mezzi pubblici o comunque non invasivi. Tenendo bene a mente che una direttiva dell’Unione europea prevede entro il 2050 il divieto alla circolazione dei mezzi privati nello spazio urbano;

E Il problema dei rifiuti e del loro smaltimento ha evidenti attinenze con la qualità dei luoghi della vita. Attualmente stiamo assistendo al fallimento dell’operazione raccolta differenziata. Esito che può essere evitato solo da forme di partenariato civico tra aziende e utenti. Argomento di cui si parla già in altra parte di questo documento. L’impostazione che – comunque – una più stretta partnership società-istituzioni potrebbe favorire parte dal principio che il miglior rifiuto è quello che non si produce. Principio che può essere praticato efficacemente grazie alla fattiva collaborazione tra cittadini e istituzioni, in termini sia pro-gettuali che organizzativi. Un piccolo esempio potrebbe essere quello di orientare gli esercizi commerciali di prodotti alimentari ad attenersi – a differenza di quanto sta avvenendo – con più attenzione e rispetto alle norme in materia di smaltimento di quegli imballi che oggi intasano i cassonetti destinati alle famiglie. Un problema tanto di vigilanza della comunità come di convinzione da parte di operatori sensibilizzati a un’idea più alta di civismo, tradotta in pratiche quotidiane;

F Alla luce di queste considerazioni emergono nuove funzioni in termini “propositivi” da parte del governo locale. In particolare – come evidenziato dall’urbanista Jordi Borja e dal sociologo urbano Manuel Castells – quello di «instillare un ‘patriottismo civico’ negli abitan-ti, un senso di appartenenza, un desiderio collettivo di partecipare, nonché fiducia e ottimi-smo rispetto al futuro»15. Questa promozione interna deve essere basata su opere e servizi visibili, sia di carattere monumentale e simbolico, sia diretti al miglioramento della qualità delle aree pubbliche sia al benessere dei cittadini. Al tempo stesso, questo patriottismo ci-vico deve tradursi in vigilanza attiva. Troppo a lungo la cittadinanza – intesa come pubblica opinione – ha ritenuto di potersi disinteressare rispetto al tema della messa in pratica dell’at-

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tuazione delle scelte regolative. Va detto che, nel caso di Liguria, questo si giustificava con il fatto che tali scelte non sono mai state prese. La spinta per un’inversione di tendenza, come vasto movimento civico, impone di non limitarsi a reclamare atti dovuti in materia di piani-ficazione territoriale, bensì di svolgere una costante opera controdemocratica; di effettivo controllo sui metodi attuativi delle scelte pianificatorie, sia economici che amministrativi.

Sempre Manuel Castells – oltre dieci anni fa – sosteneva che «la vetta da scalare è la salvaguardia della natura (nelle sue diverse forme) nei limiti di parametri compatibili con il mantenimento dell’attuale sistema economico e istituzionale. I loro avversari sono lo svilup-po incontrollato e le burocrazie irresponsabili»16.Si direbbe l’epitaffio dell’alluvione genovese 2014!Vicenda che ha indicato per l’ennesima volta che l’interferenza dell’uomo con l’ambiente non-umano ha raggiunto livelli eccessivi (e la situazione è in rapido peggioramento). E che la prima forma di reazione a tale situazione è un cambiamento che parte – innanzi tutto – a livello della mentalità. Opera in cui fondamentale diventa il ruolo della politica di territorio, in quanto medium nobilitatore delle coscienze.

«L’embrionale connessione tra movimenti di base e mobilitazioni simboliche in nome della giustizia ambientale reca il marchio di un progetto alternativo. Che tende al supera-mento dei logori [aihmé, ndr.] movimenti sociali dell’età industriale per rielaborare, nelle forme storiche appropriate, l’antica dialettica tra dominio e resistenza, tra Realpolitik e uto-pia, tra cinismo e speranza»17.Ripristinando lo storico rapporto di fertile interdipendenza tra città e territorio che era stato interrotto dalla cesura industrialista e che ora diventa primaria condizione di sopravvivenza.

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Note

6 “98% della Liguria a rischio idrogeologico”, www.la Repubblica Genova. it, 11 novembre 2012

7 L. Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma/Bari 2011 pag. 70

8 V. Gregotti, Diciassette lettere sull’architettura, La-terza, Roma/Bari 2000 pag. 123

9 M. Preve, Parcheggi, ville e palazzine abusive: così il cemento continua il suo assedi, “la Repubblica” Genova, 17 ottobre 2014

10 ibidem

11 M. Preve e F. Sansa, Liguria, l’unione fa il cemento, “MicroMega” 5/2006

12 M. Travaglio, prefazione a Il Partito del cemento di M. Preve e F. Sansa, Chiarelettere, Milano 2008 pag. XVI

13 L. Benevolo, La fine della città, cit. pag. 150

14 A. Spalla, Fare un paese, Diabasis, Reggio Emilia 2008 pag. 31

15 J. Borja e M. Castells, La città globale, De Agostini, Novara 2002 pag. 108

16 M. Castells, Il potere delle identità, Università Bocconi Editore, Milano 2003 pag. 125

17 ibidem pag. 146

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3. La politica industriale che non c’è

Il “modello di sviluppo novecentesco” ligure, centrato sulla Grande Fabbrica partecipata dal-lo Stato, è giunto a esaurimento nell’ultimo quarto del secolo scorso. E ad ora non si intravedono azioni che mobilitino la società locale verso “un nuovo inizio”; che rimetta in funzione i pur preziosi lasciti del passato fornendo loro indirizzi rivitalizzanti. Ossia, prevedere per progettare e – quindi – coinvolgere tutte le componenti di territorio in strategie condivise; che non possono prescindere – pur nelle differenti declinazioni – da un forte orientamento al partenariato. All’interno di cornici di senso (e di investimento) disegnate dalle istituzioni nei termini di politica industriale: le scelte strate-giche sul come allocare le risorse disponibili, trasformandole in attivazione di crescita (aggettivata) e coesione sociale.

Lo stato dell’arteUn’area centrifuga, quella ligure. Che ora affonda in ordine sparso nel declino.

Dunque, immobile ma anche in grado di ruminare ogni stimolo esterno, capace di ridurre il cambiamento alla maschera per una nuova conservazione, frantumata in tanti “pezzi” re-frattari al sistema: un Levante spezzino, con i suoi modelli ad un tempo artigianali e giganti-stici, attratto dal richiamo tosco-emiliano e rissoso incubatore di imprenditori di se stessi; il Tigullio patria dell’integralismo (terreno di coltura della locale CL come – in passato – delle BR) e impegnato in una guerra anti-genovese ma incapace a difendere la propria banca terri-toriale, quel Banco di Chiavari e della Riviera ligure finito in bocca a Fiorani; proseguendo a Ponente, nella Savona silenziosamente invasa dal cemento del nuovo millennio e proiettata al ruolo di hub del nord-ovest del traffico crocieristico nella sostanziale indifferenza (per non dire ostilità) della società locale, tuttora molto più sensibile alle sirene dalla rendita immo-biliare; giungendo, in direzione della Francia, nella provincia di Imperia, in cui alimentare e agricoltura sono state possibilità importanti che ora si degenerano in problemi.

Insomma, la Liguria che si aggira nella crisi lo fa con passo incerto e priva di una mappa condivisa, grazie alla quale orientarsi.

Il territorio più vecchio d’Europa, con il doppio di morti a fronte di ogni nascita, è af-fetto da “anoressia demografica che ne fa tra le regioni d’Italia, quella più povera, anche di prospettive”; come afferma il demografo Roberto Volpi (Allegato G.).

Simbolicamente la vicenda della Concordia, nata qui e qui “definitivamente distrutta”, segna non tanto un’occasione di lavoro (certo, meglio del nulla) quanto il simbolo di un pas-saggio verso un futuro difficile. Il coro e “l’ansia da inaugurazione” che ha attraversato alcune espressioni istituzionali liguri sull’arrivo del “rottame” fotografa la modestia delle idee cor-renti e disponibili.

Candidare Genova a “capitale della rottamazione” può essere un’opzione tra altre. Ma acquista significato solo all’interno di una politica industriale; che – purtroppo – latita. Fer-mo restando che, appurata l’onerosità e le difficoltà tecniche insite nel trasporto dei relitti, l’ascesa a una tale primazia presupporrebbe nei prossimi anni il susseguirsi di naufragi tipo motonave Concordia in un teatro catastrofico la cui distanza non deve superare quella che separa il porto genovese dall’isola del Giglio…

Ciononostante e comunque, la grancassa della stampa locale rilancia, informando come il capoluogo ligure sia in corsa per il prestigioso (sebbene a rischio di facili doppi sensi) titolo di “regina del rottame”.

Negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva quanto costante uscita dalla storica pro-duzione manifatturiera. Trauma collettivo con effetti estranianti dalla realtà, che ha contri-buito a indurre alcune “suggestioni speculative tendenti allo psichedelico” – spesso annun-ci destituiti di fondamento, tra il consolatorio e il dilatorio – di cui “capitale del rottame” è

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soltanto l’ultima versione. In precedenza il trionfalismo da Arrivano i Nostri aveva ipotizzato sempre nuovi “destini eccellenti”, prossimi venturi; attraverso artifizi imbonitori, in cui veni-va riproposta – in maniera volta per volta rinnovata – la (stucchevole) retorica della “capitale di qualcosa”; l’immagine di un territorio alla rincorsa di purchessia:

→ hub della grande distribuzione organizzata (nell’alimentare monomarca);→ inconsapevole “Florida della salute e della riabilitazione” della Padania arricchita e

in cerca di un “care giver” con condizioni climatiche miti;→ il sistema degli scali marittimi liguri come centro della portualità mediterranea;→ milieux d’innovazione di un high-tech qualsivoglia e purchessia

Programmazione del riutilizzo di spazi – urbani e non – sempre con l’elemento della “rendita immobiliare” a prescindere, ma con la gustosa particolarità di condividere nei vari livelli rappresentativi scelte che porzioni o intere rappresentanze poi non “portano avanti”.Condividere per non decidere.

A questa lettura andrebbe contrapposta un’altra (sia chiaro: quella che dovrebbe essere effettivamente praticata); in cui analisi, ascolto, decisione, realizzazione possono costituire le fasi del nuovo motore con cui tentare “la svolta che serve”. Una scelta di indirizzo.

Il tutto nella consapevolezza (almeno per “le menti pericolose” disponibili a farlo, gene-rosamente e disinteressatamente) che:

→ la “nota banca del territorio” non è più confinata nel territorio (anche in quello uma-no oltre che geografico) e può attrarre risorse da fuori;

→ è finito un ciclo decennale di governo regionale. Consumato tale esperimento pecu-liare, chi segue sarà comunque “altro”.

In questo senso, la consapevole desertificazione delle classi dirigenti genovesi è un dato certo. Semmai è da capire se la venuta di figure delle “terre di confine” sia un aspetto dotato di qualche significato o un semplice fenomeno migratorio sostitutivo.

Le possibili risposteIl territorio ci salverà se salveremo il territorio, se vi sarà un nucleo di direzione della

Comunità che sappia:→ dedicare le energie della propria tecnostruttura alla ricerca e al veicolamento di ri-

sorse europee verso l’area;→ dare alla rete umana, sociale, imprenditoriale, culturale, tecnologica e mediatica la

funzione di verbo ausiliario di ogni azione di governo e di sostegno allo sviluppo;→ acquisire il meglio che la crisi può darci in quanto opportunità: farci pensare, ripen-

sarci. Il tema serio che ogni rottura può tradursi in un “nuovo inizio” (anche se non vi è ga-ranzia alcuna che questo avvenga); quanto la retorica consulenzialese sintetizza nel giochino d’aula di formazione, per cui l’ideogramma cinese weiji (crisi) è composto da due caratteri, rispettivamente per “pericolo” e “occasione”.

Il mainstream sulle vocazioni socio-economiche del territorio ligure (e relative specia-lizzazioni competitive storiche) parla di “modello polimorfo”, poggiato su tre gambe: indu-striale, portuale e turistico; cui la comunicazione cosmetica di questi ultimi anni ne aggiunge una quarta, quella high-tech (stanti gli insediamenti di comunità scientifiche esistenti; cui si aggiungerebbero quelli prospettati e ancora in stand-by… o defintivamente archiviati).

Prendendo per buona tale rappresentazione di una vocazione plurale, occorre valoriz-zarne i punti di forza, contenendone quelli di debolezza.

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A) la vocazione turisticaLa vocazione ligure all’accoglienza risulta ancora largamente inespressa. A partire dal capoluogo genovese che – nonostante l’opportunità rappresentata dalla

designazione nel 2004 quale “capitale europea della cultura” – resta tuttora caratterizzato dall’essere città a bassa identificazione nell’opzione-turismo, magari congressuale e/o di nicchia. Il resto della regione, con particolare attenzione al Ponente, storicamente leader nell’accoglienza, presenta un evidente indebolimento della sua capacità attrattiva. In aggra-vamento, data la costante contrazione dei flussi in arrivo, anno dopo anno.

Tale indebolimento si avvita, con caratteristiche peculiari, nel generale declino del set-tore turistico nazionale. Declino già evidenziato dalle perdite di presenze provenienti dalla Germania (dai 6 milioni di arrivi nel 1999 ai 5 del 2004) – tra l’altro il primo acquirente del “prodotto-Liguria” – come dal crollo dell’utilizzo delle strutture di ricettività. Secondo i se-guenti dati comparativi:

Italia 41,7%Spagna 57,34%Francia 59,54%

L’elemento prevalente del declino nazionale, l’assenza di una politica di settore, nel “caso Liguria” viene accentuato dalla totale assenza di tendenze al partenariato tra gli operatori di settore che rendano possibili sinergie e azioni comuni.Operazione che presuppone una profonda trasformazione della cultura in quanto a logiche dell’accoglienza: il passaggio da un atteggiamento mentale orientato alla rendita di posizio-ne a uno di tipo manageriale: la concezione tradotta in comportamenti coerenti dell’eserci-zio turistico come impresa. Con tutto quanto ciò concerne: dall’arricchimento dell’offerta base con un bouquet di proposte aggiuntive, alle alleanze con i tour operator internazionali che controllano i grandi numeri dei flussi della domanda.

Un’azione mirata alla valorizzazione della vocazione turistica ligure – dunque – deve far leva tanto sull’azione delle istituzioni, volta a promuovere la visibilità della proposta e sup-portare l’animazione locale (calendarizzazione di eventi e strutture dedicate), non meno che sulla capacità delle categorie stesse di collaborare in un’azione promozionale condivisa di rilancio. In altre parole, l’intervento sulla “scelta primaria” del turista (l’area da privilegiare in quanto destinazione) come missione pubblica, la “secondaria” (quale specifico esercizio privilegiare) come compito dell’imprenditore turistico.A tale riguardo può rivelarsi decisivo un maggiore orientamento all’associazionismo di setto-re, il cui spirito appare – ad oggi – non molto diffuso e radicato.

Tale salto di qualità (visione strategica e impegno diretto) richiede una politica attiva che parta dalla sensibilizzazione, attraverso la messa a fuoco dei punti di debolezza e delle sfide di settore, per arrivare alla definizione di piani operativi in cui pubblico e privato colla-borino nei comuni disegni concordati.

B) la vocazione portualeQuello dei porti liguri è il sistema marittimo italiano preminente. Nel declino delle anti-

che vocazioni manifatturiere e nel mancato decollo di quelle terziario-turistiche, la logistica portuale sembra essere l’unico motore ancora funzionante per l’accumulazione di ricchezza sociale destinabile alla produzione di beni collettivi (Allegato E).

Purtroppo latita una vera politica portuale, che tenga conto delle condizioni effettive in cui tale settore opera; cui non apporterebbe nessun effetto migliorativo il falso efficienti-smo degli accorpamenti dei soggetti preposti alla governance (sinergie sono ipotizzabili tra Savona e Genova, non certo con La Spezia che gravita verso altri bacini di provenienza delle

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merci). Del resto, un’analisi demistificante in materia evidenzierebbe che i porti liguri – a partire da Genova – sono eminentemente “regionali”; in larga misura dipendenti dal sistema produttivo lombardo; la cui decelerazione determina il fatto gravissimo che l’80% dei con-tainer provenienti dal Far East riparte vuoto. Tanto che i principali player di settore stanno valutando il “salto” dei nostri porti per più profittevoli rotte atlantiche

Aspetto che va evidenziando crescenti difficoltà nell’affrontare la sfida competitiva glo-bale in atto. Questo perché – da un lato – non si dimostra in grado di intercettare i flussi cre-scenti di merci in transito nel Mediterraneo provenienti dal Far East; dall’altro, ad oggi non è stato capace di progettare e implementare politiche di risposta alle azioni dei competitori diretti (in particolare il sistema dei porti spagnoli), volte a scalzarne la preminenza nell’area.

In particolare risulta in stallo davanti alle conseguenze della rivoluzione logistica globa-le, confinandosi in una prospettiva declassificante di regionalizzazione (ad esempio il porto di Genova è per consistenza di flussi delle merci sempre di più “lo scalo di Milano”; tra l’altro, scontando gravemente gli effetti negativi della perdita di capacità esportativa dell’area di pre-valente riferimento).

Indubbiamente pesa la totale assenza di una politica nazionale nel settore marittimo e trasportistico in genere (il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica del 2000 è rimasto lettera morta). Questo non esime certo dall’impegno di elaborare strategie attraverso forme di governance territoriale che favoriscano la collaborazione pubblico/privato e alleanze che ne potenzino la spinta propulsiva.Tanto per dire, ad oggi lo slogan “i porti liguri come porta dell’Europa sull’altra sponda del Mediterraneo” resta soltanto una brillante formula da convegni!

Un’azione programmatoria di tale tipo – anche in questo caso – passa per la costruzione di scenari che evidenzino minacce e opportunità, punti di forza e debolezza, per avviare una vasta opera di confronto tra i soggetti interessati, al fine di aggregare le masse critiche e la condivisione necessarie all’azione strategica. In primo luogo la definizione delle plausibili forme di coordinamento istituzionale e le possibili sinergie affinché “il sistema” dei porti liguri diventi realmente tale.

Magari chiarendo preliminarmente cosa si intenda davvero per “fare sistema”: la messa in comune degli investimenti in promozione, le politiche formative e gli interventi in materia di security/safety o – invece – l’idea di spartirsi sistemicamente i flussi delle merci?Idea – quest’ultima – a dir poco irrealistica, visto che è la merce a decidere il porto in cui tran-sitare, non viceversa.

Ad oggi – comunque – permane in tutta evidenza il dato esiziale della profonda cesura che di-vide i waterfront dai rispettivi hinterland, proprio a partire dalle città su cui i porti gravitano. E questo tanto nel caso di mero presidio gestionale dell’esistente – in assenza di spinta pro-pulsiva allo sviluppo del territorio, come nel caso dell’Authority di Genova – non meno che – altrettanto – nella situazione opposta, di individuazione e concretizzazione di una visione strategica (specializzazione) di territorio sotto la spinta delle categorie economiche portuali; quanto è avvenuto – in contro-tendenza, rispetto al resto della regione – ”nel caso Savona”: le opportunità marittime quale uscita dall’afflizione da deindustrializzazione; seppure in as-senza di una regolazione da parte del soggetto politico, in grado di ricondurre il dinamismo economico a interesse generale, e nella sostanziale indifferenza (con punte di infastidita ostilità) da parte della prevalente opinione pubblica savonese.

In generale, una cesura che rende oltremodo problematico sviluppare tutte le potenzia-lità competitive e occupazionali insite in un rapporto virtuoso tra città e scalo; che – dunque –potrebbe trovare una prima ricucitura – e non soltanto a livello simbolico – già dall’unifica-zione in un unico atto amministrativo del Piano Regolatore urbano con quello Portuale.

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C) la vocazione industrialeLa Liguria non risulta ancora essere uscita dalla crisi del modello produttivo novecente-

sco, deflagrata nella seconda metà degli anni Ottanta.Ciò nonostante, il lascito di quell’industrializzazione è ancora vivo e può svolgere una funzio-ne propulsiva importante.

Infatti, sin dagli albori manifatturieri ottocenteschi, la Grande Industria (dagli anni Trenta del XX secolo partecipata dallo Stato), tipica del modello produttivo locale, ha eviden-ziato una grande capacità “sistemica”. Cioè, l’integrazione di tecnologie di matrice diversa in sistemi articolati e intelligenti, grazie a uno stretto rapporto tra ricerca e impresa. Basti pensare alle locomotive, ai motori e alle turbine, alle macchine utensili, ai cannoni e alle navi a vapore: tutti prodotti made in Genoa and Savona. Cui si aggiunse nel dopoguerra l’industria-lizzazione spezzina, con l’insediamento di Grandi Imprese IRI operanti in settori strategici.Una tradizione che ha disseminato nell’area importanti competenze e attivato centri di ricerca, ha consolidato pratiche sinergiche nella logica già citata dei milieux d’innovazione (Allegato D).

Attualizzando la suddetta vocazione sistemica, si può prendere atto che il settore dei “Sistemi Intelligenti” mantiene importanti potenzialità di sviluppo. Ad esempio:

→ sistemi cognitivi interattivi; come i sistemi per la produzione/distribuzione di ener-gia, reti di comunicazioni avanzate, centri di comando e controllo basati su network centric operations, sistemi complessi interoperabili;

→ elettronica invisibile e pervasiva; come microsensori, sistemi multisensoriali, domo-tica (la cosiddetta “casa intelligente”);

→ automazione e logistica; come diagnostica e comunicazioni protette per sistemi di trasporto, controllo e automazione di processi industriali, intelligent transport systems, moni-toraggio e pedaggio veicoli;

→ qualità della vita; come sistemi di indagine medica e diagnostica, robot di servizio e per disabili.

Tale patrimonio deve essere gestito in una logica strategica (sempre che nel frattempo non venga svenduto…):

— ovviamente, in chiave di marketing territoriale promuovendo la sua reputazione al fine di favorire l’attrazione di investimenti diretti esterni (nelle forme della partnership come dei greenfield);

— contestualmente, attraverso la facilitazione di rapporti comunicativi di scambio tra i vari soggetti già presenti nel territorio (dalle comunità della ricerca alla business/industry community) per azioni di fertilizzazione incrociata.

A fianco di queste opportunità di valorizzazione del prezioso lascito d’impresa, che di-scendono dalla messa a frutto di saperi avanzati e complessi, non minore attenzione merita di essere rivolta all’accompagnamento dei segnali di vitalità, riscontrabili nell’ambito della micro-azienda, pilotandoli verso il loro rafforzamento attraverso il partenariato; in tutte le modalità organizzative ipotizzabili, dal cluster alla filiera.Ad esempio (e come anticipato nelle pagine precedenti), si registrano non disprezzabili potenzialità imprenditoriali nel settore alimentare di nicchia; destinate rivelarsi fertili se sapranno entrare in una logica cooperativa: dal Consorzio della focaccia di Recco, filiera promossa da CNA, alle oltre 340 aziende alimentari censite dalla Camera di Commercio di Imperia; cresciute nell’indotto dei grandi pastifici/oleifici dell’area e ora chiamate a consor-ziarsi per operare in assenza dei vantaggi (“beni da club”) che in passato derivavano loro dalla relazione con marchi “forti”, quali quelli di Agnesi, Fratelli Carli o di Olio Dante.

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Dunque, una politica territoriale per la ripresa della competitività, anche nel settore indu-striale, passa per la messa a fuoco di vocazioni, fattori (presenti e/o da attivare), saperi e op-portunità, come momento di individuazione dei percorsi auspicati dall’intera comunità; e delle scelte conseguenti. Al tempo stesso si pone con urgenza il problema dell’internaziona-lizzazione del nostro sistema produttivo. Oggi a livello insufficiente.

L’accompagnamento preso sul serio delle nostre aziende nei mercati esteri deve misurarsi con le insuperabili condizioni di contesto: nel nostro territorio operano alcune Grandi Im-prese, più che attrezzate ad affrontare i mercati esteri con le proprie sole forze, e una miriade di piccole/piccolissime entità, sovente artigiane (la cui presenza supera di dieci punti le me-die nazionali).

Inoltre, nel caso delle micro imprese l’azione promozionale dovrà tenere anche conto delle peculiari tipologie merceologiche. Infatti, nel succitato caso dell’alimentaristica, alcu-ni prodotto tipici (vedi olio o pasta) richiedono di essere promossi valorizzandone la reputa-zione su mercati esteri, per favorirvi la penetrazione; in altri – come il prodotto “fresco” da consumarsi sul posto (ad esempio la focaccia di Recco) – l’effetto di spinta verrà ottenuto inserendo la proposta alimentare nel basket di argomenti messi in campo dalle campagne per l’attrattività turistica enogastronomica d’area.

Questo è quanto abbiamo effettivamente a disposizione; tenendo conto del ruolo non particolarmente significativo delle Medie Imprese liguri che in altre realtà, magari come “multinazionali tascabili”, svolgono il ruolo di capofila in operazioni di insediamento ne-gli spazi internazionali. Ciò precisato, appare inevitabile puntare con particolare decisioio-ne sull’impresa locale di taglia minore. Purtroppo una realtà che tuttora manifesta scarsa propensione all’export (9,8%, a fronte del 28,2 media Nord Ovest e 31,9 Nord Est). E laddove esporta, sceglie in prevalenza mercati limitrofi; fra i quali è prima la Francia.D’altro canto, risulta evidente che, al fine di fuoriuscire dalla crisi, il comparto è obbligato ad allargare la propria presenza a più vasti mercati esteri. Ma – a tale scopo – deve prima essere sensibilizzato a farlo, poi dotato di supporti concreti.D’altro canto, il bersaglio di mercato verso cui indirizzarsi discende esclusivamente dall’in-dividuazione di potenzialità effettive di penetrazione in una logica realisticamente adattiva, nel rapporto concreto tra offerta e domanda disponibili.

Di conseguenza l’impostazione corretta parte da una questione assolutamente priorita-ria: cosa serve davvero ai nostri piccoli imprenditori che si affacciano su realtà sconosciute? Stando a quanto risulta da indagini qualitative sul campo, è presto detto: figure professionali esterne che colmino i vuoti di risorse aziendali interne in materia di promozione e interme-diazione negoziale con l’estero, tecnologie di Mktg internazionale, competenze linguistiche e comunicative (a partire dal cosiddetto “internet divide”).

La prima mossa è quella di individuare – pur nella storica assenza di bacini d’area con omogeneità di produzione – settori e merceologie esportabili da sensibilizzare/attivare (ad esempio l’alimentare di nicchia di cui si diceva, la nautica da diporto, la filiera dei prodotti della subacquea/diving…). Tra l’altro, favorendo coalizioni a rete e per filiere che suppliscano alle carenze produttive dal punto di vista quantitativo dei singoli operatori (ossia, aggrega-zione di “masse critiche” e definizione di standard merceologici consortili che garantiscano i “numeri” necessari per rispondere a domande consistenti dei nuovi mercati come conditio sine qua non d’entrata). Un altro ambito in cui la risorsa fornita dall’associazionismo d’im-presa diventa particolarmente preziosa.

* * *

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In conclusione, ogni settore che va a costituire una delle gambe su cui poggia (e grazie alle quali cammina) il sistema produttivo regionale richiede piani di rilancio/sviluppo e azio-ni di coinvolgimento delle categorie interessate, declinate in politiche ad hoc (infrastruttura-zione, marketing, accompagnamento).

A tale riguardo, i casi europei di successo dimostrano che il buon esito di tale operazio-ne richiede la presenza di una serie di pre-condizioni:

1. vocazione del territorio all’espansione;2. esistenza di soggetti locali che accettino il collegamento;3. sensazione diffusa di una crisi di crescita o di una perdita di opportunità;4. leadership (personale o condivisa).

Nel caso della Liguria tali condizioni non sembrano essere presenti in misura adeguata. Sicché, compito della politica è quello di incrementarne la presenza attraverso la costruzione di un’identità progettuale ligure.

Se il metodo alla base di una politica industriale di territorio in senso lato è quello del-la “strategicizzazione” (“strategia” non è “opportunismo” [ottimizzazione delle chance] e neppure “tattica” [applicazione alle circostanze], bensì programmazione a lungo termine di azioni coordinate sul campo per migliorare la posizione in cui si opera), l’asset fondamentale su cui basare tale strategia è quello della qualità relazionale; ossia le sinergie finalizzate alla competitività tra soggetti e settori. Per dire così, interaziendali e infraziendali.

Va rilevato che le (presunte) scelte di indirizzo regionali hanno tradizionalmente e reitera-tamente vanificato tale importantissima potenzialità, a partire dai tentativi fallimentari di innestare dinamiche distrettuali canoniche nel territorio; simboleggiati dal clamoroso flop della cosiddetta “Legge Gatti” (Legge regionale 13 agosto 2002 N° 33, Interventi da realizzarsi nell’ambito dei sistemi produttivi locali e dei distretti), che non è stata in grado di produrre il benché minimo effetto positivo. Questo in primo luogo a causa dell’arretratezza dell’approc-cio culturale che guidava l’intervento regolativo; legato alle logiche di contiguità dei distretti canonici (a cluster), quando ormai le più aggiornate riflessioni di territorio privilegiano quel-le di contiguità, proprie dei metadistretti: filiere di cooperazione a partnership.

Nella stessa logica di partenariato va affrontato anche il tema delle politiche per la pro-mozione del territorio.

La questione del Mktg territoriale (e delle scelte strategiche)La promozione (o – con terribile espressione – “la vendita”) del territorio in Liguria ri-

mane tuttora confinata in una dimensione meramente promopubblicitaria (campagne di vi-sibilità a slogan). Quando – invece – il tema essenziale dell’attrattività, tanto di investimenti esterni diretti (Ide) come di flussi di visitatori, richiede un approccio totalmente diverso; e mai neppure ipotizzato: quello della gestione attiva attraverso politiche volontaristiche.

Questo significa concretamente road map per contattare interlocutori e stringere alle-anze. Ad esempio con i grandi tour operator per il turismo e – per gli Ide – con le istituzioni europee che intermediano l’investimento tra soggetti imprenditoriali/finanziari e territori.

Lo stesso ragionamento vale per il polo fieristico, la cui eventuale ripresa in termini dinamici (seppure a rischio di essere ormai “fuori tempo massimo”) richiede la costruzione di reti di relazioni per attirare nuove iniziative espositive che saturino il calendario annuale, facendo lavorare il quartiere a pieno regime (non solamente l’Expo della nautica).

Non a caso si cita la questione Expo, in quanto eccellente (o meglio, tragico) esempio della interminabile dissipazione di opportunità consumata dalle classi dirigenti che via, via si sono avvicendate nel governo della Liguria.

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Nata nel lontano 1962 con dotazioni di assoluto pregio – quali la Nautica ed Euroflora – la Fiera di Genova si è limitata – grazie a leadership manageriali assenteiste (e qualche volta non propriamente “disinteressate”) – a covare uova di pietra; riuscendo a farsi raggiungere e superare da altri quartieri fieristici nazionali (ad esempio Bologna) che partivano da posi-zioni svantaggiate rispetto alle nostre. Tanto che Genova non è mai stata in grado di inserirsi nella “dorsale dell’internazionalizzazione”, scivolando rapidamente nella marginalità.

Oggi si impone un’operazione verità: continuiamo a pensarci “città fieristica” oppure – visto che troppi treni sono transitati senza che nessuno fosse in grado di salirvi – vanno ipo-tizzate soluzioni alternative? Magari un po’ meno grottesche e impraticabili di utilizzare gli spazi per uno stadio calcistico.

Il territorio ha urgente bisogno di decidere “cosa vuol fare da grande”. Ciò significa – ad esempio – “quale destinazione d’uso”, coerente con una visione condivisa e d’alto respiro, si vuole attribuire agli spazi che l’evaporazione delle precedenti destinazioni mette a dispo-sizione. Del resto, questo è quanto si è reclamato parlando di “politica industriale”, che poi significa scelta strategica sul come allocare le risorse disponibili, trasformandole in dinamo di sviluppo e coesione sociale.Al riguardo, facciano riflettere le passate vicende dell’area Campi; gli spazi che la crisi della siderurgia andava liberando alla foce del Polcevera.Qualcuno ne ipotizzò la trasformazione nientemeno che in “una piccola Rhur”. Ebbene, l’a-rea “preziosa” venne “riempita” con le Ikee…

La stessa sorte toccata alla Fiumara, cuneo altrettanto “prezioso” tra porto, vocazione in-dustriale e civica convivenza di quartiere. Lo spazio urbano che il sindaco Sansa prospettava come possibile insediamento del polo universitario e che successivamente venne consegnato alla speculazione, per trasformarlo in una “cattedrale del consumo”. Con i ben noti effetti di straniamento ed extraterritorialità insiti in questi “non-luoghi” (disneyficazione in sedicesimo!).Oggi – nel caso in questione – territori di conquista e scontro delle bande etniche.Infatti la “vicenda Fiumara” è un po’ “la madre” di tutte le destinazioni improvvide del terri-torio in una stagione ben identificata (quella del rinnovamento rampantistico – anni Ottanta – della classe politica del dopoguerra: la Genova da bere…); preceduta negli anni Sessanta dalla stagione democristiana, di cui lo scempio-simbolo potrebbe essere Corso Europa; e che adesso – nella fase terminale della stagione post-tavianea – sembrerebbe rinnovarsi in scelte tipiche da “ultimi giorni di Pompei!”; la cui icona perfetta viene indicata da taluno nell’outlet a Levante costruito su terreno alluvionale (!).

A prescindere dai fenomeni penalmente perseguibili, sempre e comunque esempi ri-correnti di un’incredibile miopia dissipatoria, che impone risposte improntate a ben alte im-postazioni. Coalizionali e strategiche.

Dunque, prevedere per progettare. E non solo per quanto concerne la destinazione d’u-so delle aree. Ma anche – soprattutto – le prospettive competitive.

L’esatto contrario – ad esempio – di quanto avvenuto per la cantieristica ligure (Fincan-tieri). Settore a cui (e già negli anni Ottanta era largamente intuibile) la concorrenza coreana, basata sul basso costo della sua forza lavoro, avrebbe creato problemi di sopravvivenza. Alme-no sul medio periodo.

Sfide rivelatesi missione impossibile per un management che non sapeva promuove-re vantaggi competitivi differenti da quelli circoscritti al prezzo. Quello stesso management che trent’anni dopo, insieme alle parti sociali e alle dirigenze politiche, sarebbe venuto giù dal pero innanzi alla crisi terminale della propria azienda; e che ora ricerca vie di fuga dalle scelte industriali (mancate e – quindi – svanite all’orizzonte) attraverso la finanziarizzazione (o – magari – la soluzione immobiliaristica).Vicenda dall’andamento pluridecennale, svoltasi nella totale indifferenza (cecità) sia degli attori politici, sia delle parti sociali (datoriali non meno che sindacali).

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4. Spazio pubblico, tempi della vita

Il dato che emerge con estrema nettezza è la totale assenza di regolazione del territorio, evi-denziata dal fatto clamoroso che la Liguria attende da quarant’anni il suo Piano Regionale (PTR). Da questo consegue un vivere alla giornata che produce effetti caotici (la “spianificazione”), con ef-fetti devastanti sui tempi stessi della vita. L’opera di razionalizzazione ha uno dei suoi punti cruciali nell’organizzazione della mobilità, in cui il trasporto pubblico deve trovare la propria valorizzazione secondo i migliori esempi europei (l’economicità attraverso il potenziamento); mentre le soluzioni alternative all’uso privato dell’automobile richiedono supporti infrastrutturali. Ad esempio pedo-nalizzazione e ciclabilità sono resi possibili dal passaggio dalla “città in salita” a quella “in discesa” (ascensori, tapis roulant, ecc.).

Lo stato dell’arteLa questione da cui risulta inevitabile prendere le mosse è che l’Ente Regione Liguria – nei suoi oltre quarant’anni di vita – non è stato ancora in grado di produrre un Piano Territoriale Regionale (PTR) avente funzione strategico-regolativa ed efficacia giuridica. Infatti la propo-sta di adozione di tale documento, ad oggi, non è stata ancora presentata al Consiglio Regio-nale18; fatto incontestabile da cui discende una duplice domanda; l’una a monte e l’altra a valle: come mai e con quali conseguenze?

Il “come mai” di tale abdicazione al proprio ruolo da parte dell’Ente indirizza le rifles-sioni verso due possibili bandoli interpretativi: in una prima ipotesi, la pressoché inesistente attitudine strategica – già più volte rilevata e sottolineata in questo documento – propria di un ceto politico prevalentemente orientato a logiche adattive-opportunistiche, che lo indu-cono a vivere alla giornata (anche perché portato – quasi a livello inconscio – a evitare terreni che evidenzierebbero i suoi limiti culturali e di capacità di governo. A fronte dei fortissimi istinti animali che lo spingono a concentrarsi sulla propria sopravvivenza; ad ogni costo e purchessia); in alternativa, si potrebbero scorgere nella pluridecennale inattività gli effetti potenti di una colonizzazione ideologica (la deregulation), che inizia a produrre i suoi effetti a mainstream già nel corso degli anni Ottanta.

Del resto, effetti riscontrabili nella deriva ampiamente autoritaria e privatistica della nuova legge urbanistica regionale 201419.

Infatti, sulla base di tale normativa la giunta regionale potrà, in esclusiva, senza sentire né consiglio, né comuni, né comitati, deliberare sulle grandi opere della legge obiettivo (im-pianti di smaltimento rifiuti, produzione energetica, grandi strade, ospedali, porti, carceri, ecc) relazionandosi con i cosiddetti “poteri forti” locali (banche e grande imprenditoria).Sicché ai Comuni non rimarrà che soccombere, gestendo la cementificazione del territorio come unica possibilità per ripianare i deficit di bilancio; avendo poche possibilità di difen-dersi dall’attacco speculativo ai beni comuni, all’insegna berlusconiana del “ciascuno è pa-drone a casa sua”.

Questa scelta politica intrinsecamente caotica (la “spianificazione”) della Regione Li-guria è in linea con il principio secondo il quale tutto il territorio nazionale è costruibile, generalizzando un indice medio di fabbricabilità su tutte le aree del nostro paese, dalle coste marine, dalle città ai fiumi e alle montagne. Principio che si evince dall’insieme delle norma-tive contenute nella proposta di legge urbanistica nazionale20, presentata dal Ministro Lupi alle Amministrazioni e ai principali stakeholder il 24 luglio 2014.

Ma quello che colpisce di più nella proposta di PTR della Liguria, in corso di approva-zione, è il modo generico col quale affronta le singole tematiche della tutela del paesaggio e dei beni culturali, della difesa e consumo del suolo, della dotazione dei servizi e degli spazi

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pubblici; tutti valori fondamentali per la crescita culturale e civica delle popolazioni liguri.In particolare, il PTR in via di adozione, strumento principe di pianificazione della Re-

gione Liguria, non risponde ai requisiti disposti dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e – quindi – non riveste specifica valenza paesaggistica contrariamente a quanto enunciato dell’articolo primo delle norme di piano21.

Di conseguenza, il PTR non risulta un piano paesaggistico. Un dato che rischia di met-tere in forse le tutele esistenti conclamate del paesaggio ligure, dando un colpo mortale alla cultura della conservazione.

Nel sito del MiBACT (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo) si legge che “la Regione ha predisposto una bozza di protocollo d’intesa che è stata oggetto di osser-vazioni da parte dell’Ufficio Legislativo, osservazioni alle quali la Regione non ha dato segui-to”22.

Significativo è il fatto che le associazioni ambientaliste siano ancora in attesa di essere coinvolte nel processo di formazione dello strumento, come previsto dal Codice, in quanto il coinvolgimento non può essere indirizzo di mera informazione.

Quindi, siamo lontani dal conferimento di valore paesaggistico al PTR, strumento ela-borato in forma autonoma dagli Uffici Regionali, nonostante siano state espresse forti riserve dagli stessi organi consultivi.

Per quanto concerne “le conseguenze” di tali scelte/non-scelte, innanzi tutto ci si può riferire alla creazione di un vacuum nello spazio sociale, che ha determinato la proliferazione di specifici inciampi e diseconomie generali – in ogni caso e sempre accumulativi di ineffi-cienza, destinata a indurre pratiche di sopravvivenza individuale in ordine sparso – che han-no gravato e continuano a gravare sull’organizzazione del tempo dei singoli e collettivo.Inoltre, l’assenza di una chiara idea-guida sul come razionalizzare il tempo e lo spazio ha comportato sovente l’adozione acritica di modelli d’importazione in quanto a stili di vita; nella recezione maldestra e artificiosa anche in questo ambito di un “americanismo” non facilmente metabolizzabile con lo specifico locale (in particolare per quanto riguarda distri-buzione/consumo e relativi flussi indotti).

Una questione in larga misura urbana. Assunto che quasi l’80% della popolazione italia-na vive in città. E questo vale in particolar modo per l’area ligure.

Le città – per le funzioni direzionali, cognitive e di servizio che svolgono – sono i centri propulsori e diffusori dello sviluppo regionale e nazionale. Ciò significa che la gestione del-le risorse umane, naturali e patrimoniali del Paese dipende in larga misura da come sono organizzate le città e le reti di relazioni che fanno capo alle città. Ma il modo sregolato con il quale l’urbanizzazione si è sviluppata in Italia nell’ultimo mezzo secolo ha fatto sì che, oltre a essere una importante risorsa, le città siano anche divenute problemi per le criticità derivanti dalle radicali trasformazioni fisiche e sociali di cui sono investite per ineguaglianze e conflit-ti, per il contributo al peggioramento ambientale e alla qualità della vita, in termini di utilizzo del suolo, di inquinamento, consumo energetico, spreco del tempo, e senso di insicurezza. Soprattutto perché il loro malfunzionamento contribuisce a convincere i cittadini che né le forme tradizionali di rappresentanza, né le istituzioni siano in grado di governare e risolvere i problemi comuni.

Per questi motivi il governo delle città dovrebbe essere oggetto prioritario delle politiche pub-bliche e del dibattito politico culturale. In molti paesi lo è, ma non in Italia, dove la scarsa consapevolezza del ruolo economico e sociale che le città svolgono nel loro insieme, fa sì che manchi una politica urbana a livello nazionale.

Più in generale dal governo delle città dipendono la ri-definizione e il riequilibrio di rap-porti essenziali per la vita democratica: tra particolare e generale, tra immediato e strategico,

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tra pubblico e privato, tra centro e periferia, tra autonomia e interdipendenza, tra governo e governance; tra sviluppo, occupazione, uso del suolo e rendita immobiliare e finanziaria; tra rappresentanza democratica, partecipazione, scelte e responsabilità degli eletti.

A prima vista, questi temi potrebbero sembrare oggetto di tante trattazioni distinte del problema urbano; ma se vogliamo andare oltre la semplice analisi dobbiamo cogliere le loro interdipendenze. In questa prospettiva una questione-chiave è quella del rapporto pubblico/privato, visto nei termini dell’esperienza concreta quotidiana che intessa la governance della città e la vita dei cittadini.

Nell’ambito dei processi di individualizzazione che investono sia la società, sia l’esisten-za privata, questo profilo acquista un’importanza non inferiore a quella di temi macro-sociali più tradizionali. Quello che i singoli individui si aspettano dalla governance è essenzialmente una città per vivere bene: un luogo, cioè, ove affrontare al meglio i problemi connessi con la loro vita famigliare, con il lavoro, lo studio, il tempo libero, la salute e così via. Problemi non banali, perché sul piano esistenziale vivere significa anche maturare aspirazioni e progetti tra speranze e timori, cercare realizzazioni di sé, intravedere futuri praticabili per se stessi e per i propri figli e nipoti.

Da qui la cruciale interdipendenza tra i tempi della vita e i criteri con cui lo spazio viene con-servato, organizzato e valorizzato. A fronte di «un progressivo spostamento da una posizione tempo come processo fisiologico, inteso come successione cronologica di momenti nella vita individuale e collettiva, a tempo come progetto, considerato cioè una risorsa da investire con il migliore rendimento possibile»23.

Ma se il tempo non diventa progetto e lo spazio viene dissipato, favorendo pratiche spe-culative o anarcoidi, lo stato dell’arte si riduce a un campionario di criticità irrisolte (su cui aleggia sempre il sospetto di “altri interessi inconfessabili” retrostanti). Ad esempio:

→ il malcostume di mistificare scelte di intervento e destinazioni d’uso di estrema impor-tanza, trasformandole in problematiche illusionistiche: a tale proposito le Grandi Opere di territorio (Gronda, già Bretella, e Terzo Valico, in particolare) sono da decenni il campo di esercizi dialettici privi di attinenza con la realtà. Questioni di lana caprina” perché trasfor-mate in “Guerre di religione”. Il “dibattito Gronda” si è focalizzato su problematiche fan-tasiose quando il vero problema (su cui occorrerebbe concentrarsi per trovarvi soluzione) è che il Ponte Morandi sta avviandosi a collassare; il progetto “Terzo Valico” dovrebbe chiarire pregiudizialmente se l’Opera serve per l’alta capacità (merci) o l’alta velocità (viaggiatori). Nel primo caso andrebbe tenuto conto che i trend dei flussi containerizzati si prospettano in declino sul medio periodo (tempo che corrisponde alla realizzazione dell’Opera); nell’altro (l’idea “mirabolante” di trasformare Genova nel quartiere residenziale di Milano), sono ipo-tizzabili già oggi soluzioni di ben minore invasività per collegamenti diretti Ge-Mi nell’arco dei canonici sessanta minuti;

→ il prevalere del paradigma (americanizzante) di un consumo “cannibalizzato” dalla gran-de distribuzione: — elimina i piccoli esercizi azzerando la funzione socializzante da loro svolta nella di-mensione del quartiere;— tende a creare le cosiddette “cattedrali del consumo” situate alle periferie urbane, che impongono l’uso dell’automezzo per la spesa (e necessita di infrastrutturazione a servizio del collegamento, nella logica store-higway): lo sprawl dell’area milanese e nel Nord-est, ripreso negli ipermercati di Bozaneto, nel centro tipo Orio al Serio di Fiumara, negli outlet di Serra-valle e Bugnato, il cui modello di riferimento è quello delle inner cities circondate da distese di villette, ben diverso dalla cultura urbana che abbiamo ricevuto in eredità;— impone forme oligo/monopolistiche nell’offerta (“Coopizzazione” del punto vendita);

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— induce la formazione di iper-luoghi dedicati alla colonizzazione degli immaginari, deter-minando pericolose dipendenze psicologiche (la presunta “democratizzazione dei desideri”)24;

→ la delega al pneumatico per la movimentazione delle merci e alla motorizzazione privata per la mobilità delle persone; in linea con le scelte operate nell’immediato secondo dopo-guerra con l’assoluta priorità accordata al “Piano autostrade”, a totale scapito del trasporto pubblico e della rotaia. Scelta – non a caso – coincidente con la collocazione nel settore auto-mobilistico della principale azienda italiana (oltre che primaria lobby privata). Ora, mentre stiamo transitando dal tempo industriale a quello post-industriale, in cui la produzione è soppiantata dalla distribuzione e dal just-in-time, il sistema è ormai ampiamente collassato. Come si evidenzia in Liguria, dove l’impatto dei trasporti nella vita civica rivela l’improvvi-da pericolosità della persistente assenza di previsione progettuale. Mentre cresce il timore di aver raggiunto il punto di non ritorno per interventi ormai (forse?) fuori tempo massi-mo. Mentre le leggende metropolitane ricordano tragicomiche occasioni mancate genove-si. Come il progetto degli anni Sessanta (elaborato disinteressatamente da alcuni ingegneri Ansaldo) di utilizzare le gallerie del treno per una metropolitana leggera da Voltri a Nervi. Progetto approvato in prima istanza dal Ministero dei Lavori Pubblici e poi accantonato per inadempienze amministrative del Comune. Si disse (sottovoce), perché l’opera risultava pra-ticamente a costo zero…;

→ la generale indifferenza nei confronti del rapporto qualità/vivibilità dello spazio pubblico e il livello di civismo; che dovrebbe tradursi in promozione della socialità a partire dalla con-figurazione urbana (piazze e verde), come nelle pratiche manutentive; cominciando dal ciclo del rifiuto inteso come risposta sociale a sfida. Altrettanto degno di menzione è il recupero economico e di antropizzazione dell’Appennino, ricreando “filiere del bosco e del legno” gra-vemente e incoscientemente trascurate.

Si potrebbe portare a sintesi emblematica l’elenco di questi item diversi facendo riferi-mento allo “squarcio” verificatosi nel continuum dello spazio urbano, a seguito della cosid-detta “gentrificazione”, in “quartieri vetrina” e “suburbi del degrado”.

Dunque, la configurazione della città postindustriale che azzera le dinamiche inclusi-ve proprie della stagione welfariana fordista; nella politica urbanistica che cede totalmente il campo alle ragioni economicistiche. Da cui derivano quei dislivelli reddituali e sociali tra le differenti zone che costituiscono sbarramenti reali e virtuali In primo luogo la cosiddet-ta “gentrification” del contesto residenziale, indotta dall’alto reddito25; e dalla contestuale espulsione di quanti non appartengano a tale fascia reddituale. Con un codicillo: la specia-lizzazione del territorio non corrisponde necessariamente e strettamente a meccaniche peri-metrazioni dentro/fuori: sono ipotizzabili zone periferiche nell’area centrale (vedi le suburre come cisti dei Centri Storici) e – di converso – aree a funzione centrale nelle fasce più esterne (le cosiddette edge city, le città ai bordi, quali «consistenti concentrazioni di uffici e attività economiche lungo gli assi residenziali di aree periferiche che sono collegate a localizzazioni centrali mediante apparati elettronici avanzati»26, come nei casi de La Defense a Parigi o il Docklands londinese). Lo stesso vale per segmenti importanti del Centro Storico genovese.

Una gerarchicizzazione degli spazi urbani che porta a definire le odierne “periferie” come i luoghi della marginalità e della subalternità. Non più le fasce fisicamente esterne della città; dove l’attività economica urbana iniziava a sfocarsi, trascolorando senza soluzione di conti-nuità in quella rurale. Quanto un tempo ci rappresentava il senso comune: dalle “città aperte” dell’antichità greca e romana fino alla città industriale della Modernità. Ossia fino a quando – grossomodo dopo il 1973 – non è avvenuto lo svuotamento del contratto sociale tra capitale, lavoro e Stato; frutto ben poco commestibile della stagione NeoLib, che ha segnato l’ultimo quarantennio. Ed è iniziata ad avanzare una nuova fase di capitalismo deregolato che – come

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si diceva – pretende di ricondurre a sistema economico ogni mondo della vita. Con immedia-to impatto – tra l’altro – anche sulla configurazione urbana e la messa in gerarchia dei suoi spazi, nella logica dell’egemonia e della conseguente subalternità indotta. Perché la città – ce lo ricordava lo storico del fenomeno urbano Lewis Mumford – sono sempre un prodotto del tempo 27.

La questione “mobilità cittadina”Nel generale malfunzionamento del trasporto pubblico urbano ligure, la situazione del

bacino genovese è quella che presenta il massimo di criticità; infatti, «un chilometro di servi-zio (su gomma) per Amt costa 6,6 Euro. Molto di più delle consorelle liguri, dove si posiziona attorno ai 3,5 Euro. E di più dell’Atac di Roma, considerata il simbolo di inefficienza. Più alto anche il costo del lavoro: 4 Euro circa a chilometro, contro i 2-2,5 delle quattro cugine»28.

Fermo restando che anche negli altri bacini le carenze di politiche dedicate, e – quindi – la mancata messa a punto di un vero e proprio “sistema della mobilità”, gravano pesan-temente sugli abitanti (ad esempio lo spostamento della ferrovia a monte in molti comuni rivieraschi, non affiancato da interventi di efficientamento che virassero l’opportunità a mi-glioramento, si è trasformato in una fonte di ulteriori disagi per l’utenza). Dunque, il trasporto urbano non gestito strategicamente si rivela una punta di parti-colare inefficienza nella contrazione generale del servizio pubblico locale. Dato di profonda gravità, considerando il ruolo decisivo che i modi della mobilità assumono nella vita delle città; andando a incidere in maniera significativa sulla determinazione del valore tanto dello spazio urbano come del tempo per gli abitanti.

A proposito della quantificazione del “bene” trasporto, una ricerca del 2001 evidenziava che – a livello di percezioni – «il costo medio globale degli spostamenti urbani è costituito per circa l’80% dal valore del tempo impiegato (con punte massime dell’89% per imprenditori e professionisti e minime del 74% per i pensionati) e solo per il 20% dal costo monetario»29 diretto. A livello aggregato, tale determinazione dipende soprattutto dalle categorie “deboli” (pensionati, disoccupati, studenti, casalinghe), data la loro maggiore consistenza numerica.

L’analisi dell’influenza del tempo sulla scelta della modalità di mobilità suffraga e con-ferma – così – la natura di “bene inferiore” propria del trasporto pubblico locale; la cui do-manda diminuisce al crescere del reddito (con la conseguente preferenza accordata al mezzo privato da parte delle fasce “ad alto reddito” degli abitanti. Mentre la moto va soppiantando l’auto quale prima scelta individuale; con effetti di non minore invasività).

Ne consegue che ogni peggioramento del servizio assume implicazioni altamente pe-nalizzanti in primo luogo sul piano sociale, determinando l’allargamento della “forbice di-suguaglianza”; come si è constatato – proprio nell’area genovese – a seguito della clamorosa contrazione del servizio nel periodo 1993-2013: da 16.244 corse a 11.814, pari a una diminu-zione del 27%30. Registrata anche in termini di impoverimento relativo.

Un andamento che discende da scelte che in apparenza si direbbero incomprensibili: nella città guidata – per tutto il periodo preso in considerazione – da giunte di centro-sinistra, le politiche di settore – al di là delle dichiarazioni ufficiali – si sono sistematicamente orien-tate a scoraggiare l’utilizzo del mezzo pubblico in una logica da neoDestra!

In altre parole, il singolare fenomeno per cui tali amministrazioni hanno adottato prin-cipi strategici elaborati nei laboratori NeoCon anglosassoni, poi diventati fondamento della controrivoluzione conservatrice mondiale, e finalizzati a rompere il blocco sociale welfaria-no/newdealista (il sostegno dei ceti medi al riformismo democratico-progressista) dequali-ficando i servizi – trade-off tra politica e consenso – mediante la sistematica riduzione delle risorse loro dedicate.

Ad altra sede interpretarne le ragioni (insipienza? Smarrimento dell’identità costituti-va? Che altro?). Il dato di fatto fuori discussione è che si è deciso di affrontare le difficoltà di

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bilancio del servizio pubblico con ricette riconducibili al più puro dottrinarismo liberistico tatcher-reaganiano: intervenire sul fronte dei costi riducendo la qualità e la quantità dell’of-ferta collettiva.Approccio in perfetta antitesi rispetto a quello adottato nelle più innovative città europee: migliorare il servizio rendendolo sempre più veloce e comodo per attrarre un numero sempre maggiori di utenti. E – così facendo – aumentare i ricavi.

Difatti, l’azienda trasporti genovese per abbattere i costi riduce i chilometri serviti (gli investimenti). Con l’effetto di operare un “taglio” che non pareggia neppure minimamente le abissali perdite in termini di mancati ricavi (le entrate). A prescindere dagli effetti sociali.

Tra l’altro, una politica pervicace che ha anticipato il disastroso mainstream dell’Ue sull’austerity recessiva (gabellata per “espansiva”) e che impone una immediata e radicale inversione di tendenza: risanare attraverso il miglioramento delle performance.

Del resto non mancano esempi virtuosi al riguardo, cui fare riferimento. Si parta dai comuni di Asti e Grugliasco per arrivare a un modello europeo come Zurigo; caso esemplare di cambio nel modello di mobilità attraverso la programmazione, che in dieci anni ribalta le scelte pregresse (auto privata e parcheggi al centro) per tornare al tram rivalutando com-petenze di territorio, come ad esempio la manutenzione nelle officine comunali (tra l’altro, abilità che in Amt si sono gravemente perdute).

Ma che cosa accomuna comuni piemontesi e la metropoli svizzera? Il fatto che tutte queste scelte scaturiscono da vaste consultazioni popolari, chiamate a deliberare in materia. L’esatto contrario di quanto avviene in Liguria, dove è di notte che si tracciano le “righe gial-le” per lo scorrimento facilitato dei mezzi pubblici. Una scelta “clandestina” per evitare di confrontarsi con la cittadinanza. E – così facendo – aumentare il discredito nei confronti di quanto è “collettivo”.

Venendo al dunque, nel passato le politiche della mobilità si sono collocate a valle delle scelte (o non scelte) di sviluppo urbano, risultando una sorta di “terapia sintomatica per le patologie trasportistiche della città” (E. Musso).Al contrario, ora occorre legare strettamente la questione mobilità alle scelte di pianificazio-ne strategica urbana. Non più un intervento a posteriori ma una priorità essenziale nel modo di pensare/organizzare complessivamente lo spazio cittadino e i tempi della vita collettiva. Il che significa rovesciare l’approccio: non partire dal traffico ma dalle persone. E magari dalla storia patria…La Genova dell’Ottocento si appropria delle sue zone “alte” (vedi Castelletto) grazie a una se-rie di mezzi dedicati a favorirne l’accesso (ascensori e teleferiche). La scelta di favorire l’odier-na pedonalizzazione e la ciclabilità in Genova (la riappropriazione dello spazio pubblico in base a una prospettiva diversa…) presuppone analoga operazione, che veda l’inversione della “città in salita” (della poesia di Giorgio Caproni: «Genova/ la mia città dagli amori insalita») in una “città in discesa”; grazie a cremagliere, funicolari, scale mobili, tapis roulant e – ancora – ascensori, che trasformino l’orografia da vincolo in vantaggio.

Una rivoluzione nei comportamenti sociali originata dal ribaltamento del punto di os-servazione (“alto/basso”) della realtà fisica.

Aspetto di certo non marginale, appurato che in Liguria è quella del pedone la prima modalità di spostamento urbano.

Le possibili risposteLa ricostituzione di un fertile rapporto tra lo spazio e i tempi della vita, in base alla tria-

de concettuale conservare-organizzare-valorizzare, passa attraverso scelte orientate alla rico-struzione di legature sociali coltivate mediante regolazione e infrastrutturazione.

In particolare:

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A Programmare la strutturazione spazio-temporale attraverso la stesura di documenti ad hoc (PTR e PUC urbani). In particolare recependo i principi europei, corretti e rifinalizzati; Per mettere in atto quanto previsto nei paragrafi precedenti e rivedere tanto la nuova Legge Urbanistica31 come la proposta di PTR32 della Regione Liguria, il criterio concettuale e me-todologico che si propone è quello di prendere a modello sia la nuova Legge Urbanistica33, sia il nuovo PIT34 della Toscana. La riforma di Legge Urbanistica toscana si qualifica perché adotta strumenti di pianificazione semplici, chiari, efficaci per: 1 valorizzare il patrimonio territoriale e paesaggistico (nuovo concetto spaziale che supera quello puntuale esistente), 2 programmare uno sviluppo regionale sostenibile e durevole, 3 contrastare il consumo di suo-lo, riconoscendo il ruolo multifunzionale del territorio rurale, 4 sviluppare la partecipazione come componente ordinaria delle procedure di formazione dei piani, 5 promuovere la riqua-lificazione e il riuso delle aree urbane dismesse. Molto importante nella riforma toscana, al fine di ridurre e controllare il consumo di suolo, aver distinto il territorio urbanizzato da quel-lo in aree esterne al territorio urbanizzato, prescrivendo l’inedificabilità per quest’ultimo, però lasciando la possibilità di intervenire in esso solo previa verifica e parere obbligatorio della Conferenza di Co-pianificazione di Area Vasta, chiamata a verificare che non sussistano alternative di riutilizzazione. Va comunque ribadito che la stesura del PTR ligure è a forte rischio di rivelarsi un’opportunità mancata se si limiterà a individuare tracciati di strade o elencare opere varie. Il vero compito (anche nella funzione orientativa di vai PUC) è quella di operare chiare scelte politiche attraverso l’indicazione di Obiettivi Alti. Ad esempio, come la succitata legge toscana ha stabilito il principio del “non consumo del territorio”, allo stesso modo la legge ligure dovrebbe statuire il non consumo di territorio nella sua esigua quanto preziosa fascia costiera;

B Affrontare la necessaria opera volta a ricreare l’unificazione perduta tra i vari segmen-ti urbani; in primo luogo combattendo le derive anomiche che si innestano nei processi di frantumazione della città in parti tra loro non comunicanti. Obiettivo prioritario raggiun-gibile grazie alla precisazione – attraverso l’orientamento alla pianificazione strategica – di visioni atte a ridare valore agli spazi periferici e – di conseguenze alle persone che vivono in quell’ambito. In una lettera35 all’architetto/urbanista padre nobile del “Progetto Barcellona” Oriol Bohigas, Vittorio Gregotti elencava le possibili azioni per ridare identità alle aree peri-feriche a partire da «sette condizioni:

→ una sufficiente articolazione delle destinazioni d’uso e dei servizi e la presenza, al proprio interno, di un servizio superiore, di valore territoriale, che renda necessario lo scam-bio con le altre parti della città e dell’area;

→ un’utenza socialmente differenziata, al proprio interno, per attività, capacità di spe-sa, mescolanza di origini, di età e condizione;

→ una cura nel disegno del suolo e nella gestione degli spazi aperti e collettivi: strade, piazze, verde, viali ecc.: lo spazio di relazione tra costruito è altrettanto importante della qua-lità del costruito stesso;

→ un sistema di mobilità che consenta un accesso efficiente e differenziato al sistema, senza accumulare al proprio interno movimenti impropri;

→ un disegno urbano ordinato da un preciso principio insediativo, di chiara leggibilità, sufficientemente fitto da costituire un sistema ricco e concatenato di intenti urbani e insie-me di relazioni differenziate tra le parti;

→ una struttura in grado di ordinare e far riconoscere parti e spazi identificabili o va-riati nella loro concatenazione in modo da favorire un sistema di orientamento semplice e possibilità di percezione a più livelli di approfondimento;

→ un conferimento di senso proprio, tramite la localizzazione, in esso, di alcuni grandi servizi di valore territoriale». Ad esempio, l’insediamento di Facoltà universitarie, un teatro, sedi di grandi imprese…

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C Affrontare il collasso incombente della mobilità – parafrasando l’ex prosindaco di Roma Walter Tocci – attraverso una robusta “cura del ferro e del pedale”. Ciò significa privile-giare sempre e ovunque il trasporto pubblico, corroborato da scelte coerenti quali l’adozione di soluzioni tranviarie “di nuova generazione” (la forza del tram di fronte ai problemi del-la città contemporanea è quella di mettere «in campo una forza integrativa che contrasta la tendenza a diradare lo spazio. La nuova generazione del tram europeo è un integratore della città prima ancora che una modalità di trasporto»36) accompagnate da zonizzazioni pedonali e predisposizione di piste ciclabili – laddove possibile –come modalità alternativa di mobili-tà. Scelta – quella della ciclabilità – che la Liguria affronta in maniera ancora troppo timida: i 22 chilometri della pista a Ponente da San Lorenzo a San Remo, i progetti in materia del Comune di Genova per via XX Settembre e Corso Italia e così via. Inoltre, nello specifico della “cura del pedale” (come della pedonalizzazione), l’orografia del territorio richiede interventi facilitativi delle risalite (al fine di passare – come si diceva – dalla “città in salita” a quella “in discesa”);

D Una politica per ridare centralità al trasporto pubblico deve perseguire la sua econo-micità attraverso l’attrattività. Questo presuppone una vasta opera di riorganizzazione della vita cittadina tanto sotto il profilo dei collegamenti come degli orari e dei funzionamenti dei luoghi collegati. In particolare:

→ ridurre la domanda di mobilità contraendo, attraverso la riorganizzazione, le distan-ze medie negli spostamenti (riavvicinamento e commistione fra insediamenti residenziali, uffici e servizi);

→ aumentare la velocità del trasporto collettivo e ridurre la congestione trasferendone la maggior quota possibile dalla gomma alla rotaia;

→ minimizzare le perdite di tempo decentrando l’offerta di servizi pubblici e differen-ziando gli orari di alcune attività – in particolare servizi – per attenuare i picchi di traffico;

→ sostituire ove possibile la mobilità delle persone fisiche con la telematica;→ favorire la complementarità tra trasporto pubblico e privato attraverso forme di in-

terscambio (sia nella modalità di lay-out e collocazione di tali parcheggi come nelle azioni tariffarie: ad esempio, integrazione fra ticket dei parcheggi di interscambio e titoli di viaggio nei trasporti collettivi);

E Reimpostare la politica della raccolta differenziata, rilanciandola nei termini di una Grande Alleanza Civica. Attualmente stiamo assistendo al difficile decollo dei progetti di sud-divisione del rifiuto proprio in quanto ridotti a una questione amministrativa. Dunque, con-centrati sull’efficientamento delle procedute messe in campo dalle public utilities dedica-te. Invece, i risultati ottenuti, ben distanti dai livelli ottimali, dimostrano chiaramente che il raggiungimento dei risultati attesi è anche – se non soprattutto – una questione di civismo: il mix tra qualità dell’azione aziendale e la partecipazione collettiva a un progetto inteso come una sfida collettiva, una meta condivisa cui tendere. Opera che inizia dalla sensibilizzazione della cittadinanza e può trovare il proprio primo alleato nel mondo della scuola. A fronte di una tale re-impostazione, andrebbe reintrodotta la vera logica, oggi dimenticata, propugnata dalla direttiva europea, che in materia di rifiuti parlava di recupero, non di raccolta differen-ziata. Anche in questo caso, per quanto riguarda la questione del recupero, si rivela fonda-mentale il riferimento a un elevato ethos civico;

F Tutelare e promuovere i diritti delle donne, compatibilizzandone l’esercizio con la ri-definizione del tempo e dello spazio sociali vigenti. Ossia la difesa attiva dei portati di una grande “rivoluzione novecentesca”, rappresentata dall’emancipazione femminile dal servag-gio domestico. Come è stato precisato più volte, «la comparsa degli elettrodomestici, insie-me all’elettricità, le condotte per l’acqua e il gas, ha radicalmente trasformato il modo in cui vivono le donne, e di conseguenza gli uomini. Ha permesso a molte di accedere al mercato

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del lavoro… L’aumento della partecipazione al mercato del lavoro ha elevato lo status delle donne in casa e nella società, riducendo la preferenza per i figli maschi e aumentando gli in-vestimenti nell’educazione femminile»37. Una rivoluzione che in Italia ha visto storicamente la Liguria svolgere un ruolo di battistrada: la massiccia immissione di lavoro femminile – già nel corso della Prima Guerra Mondiale – in tutte le mansioni delle grandi fabbriche siderurgi-che ed elettromeccaniche. D’altro canto, molto spesso questo processo di emancipazione si è tradotto nel servaggio della sovrapposizione di nuovi ruoli a quelli della tradizione patriarca-le. Di conseguenza si rendono indifferibili al riguardo scelte, tanto in materia di infrastruttu-razione in ambito di servizi come di regolazione, la cui declinazione pratica deve scaturire da una vasta campagna di ascolto. Per quanto riguarda le due tematiche portanti si osserva – in generale – che:

→ la madre lavoratrice, per poter contemperare le esigenze di flessibilizzazione della propria giornata relative al doppio impegno, abbisogna di supporti pubblici (strutture di wel-fare, a partire da nursery e asili), la cui carenza determina quanto rilevato da recenti survey eu-ropee: le maternità auspicate dalle donne italiane sono all’incirca il doppio di quelle effettive38;

→ la doppia presenza femminile, divisa tra la cura familiare e l’attività professionale (in attesa che il superamento dell’ordine patriarcale consenta il generale accantonamento di questa divisione del lavoro fortemente sbilanciata a sfavore del femminile), richiede un’at-tenta riconsiderazione di orari e servizi della città. A partire dalla modalità di fruizione di tali servizi: trasporti, rete commerciale (aperture/chiusure degli esercizi), sanità, banche, struttu-re per il tempo libero e lo sport e – ovviamente – uffici della pubblica amministrazione.

Quindi, nella crisi del paradigma canonico a base lavoristica e centrato sulla figura “cano-nica” del breadwinner (capofamiglia maschio, occupato a tempo pieno), le nuove politiche di welfare a base regionale dovranno orientarsi sempre meno nel sostegno monetario a vantaggio dei consumi, sempre di più all’investimento in servizi pubblici come “diritti sociali”. Come è stato detto, «i diritti sociali sono le stecche di corsetto della cittadinanza democratica»39.

In conclusione, il significato intrinseco del complesso di indicazioni precedenti è quello di invitare a ragionare in termini di “sistema”, contrastando la frammentazione di società sempre più chiuse nelle loro (pur legittime) preoccupazioni del disturbo privato o dei dan-ni alla salute, ma ben raramente a causa della decadenza morfologica delle nostre città. Nell’assunto che sulla filiera conservare – organizzare – valorizzare scorre “l’utopia positiva” di tempi e stili di civile convivenza in uno spazio pubblico che si riappropria della bellezza, in sinergia con l’indispensabile funzionalità.

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Note

18 www.regione.liguria.it Il percorso di approvazione del Ptr: “dal 1970 solo nel 2011 la Giunta Regionale, con delibera n.1579, partorisce il Documento prelimi-nare; nel 2012 prima Bozza di Piano; nel 2013 pubbli-cazione di cartografia e normativa; nel 2014, parere favorevole CTR”, 2014

19 DDL GR n.139 del 04-02-2014 “Modifiche della legge regionale 4 settembre 1997n. 36 e s.m. (LUR)”

20 www.mit.gov.it “Principi in materia di politiche pub-bliche territoriali e trasformazione urbana”, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti Segreteria Tecni-ca del Ministro, Gruppo di Lavoro “Rinnovo Urbano”, 2014.

21 www.regione.liguria.it PTR - Quadro Strutturale - Norme di Piano 30 maggio 2014Art. 1 1. Il PTR costituisce il quadro generale di riferi-mento della pianificazione urbanistica, paesaggistica ed infrastrutturale del territorio della Liguria …Il PTR assume il valore di piano urbanistico territoria-le, con specifica considerazione dei valori paesistici e sostituisce il Piano Territoriale di Coordinamento Paesistico …

22 www.pabaac.beniculturali.it Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte con-temporanee del Ministero dei beni e delle attività cul-turali e del turismo (MiBACT): “La Direzione generale PaBAAC ha intenzione di attivare un confronto per l’elaborazione di un nuovo testo”

23 A. Gazzola, La città e i suoi tempi, Angeli, Milano 2001 pag. 112

4 G. Ritzer, La religione dei consumi, il Mulino, Bologna 2000 pag. 55

25 S. Sassen, Le città globali, il Mulino, Bologna 1997 pag. 102

26 ibidem pag. 121

27 «Le città sono un prodotto del tempo. Esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli uomini», L. Mumford, La cultura delle città, Ed. Comunità, Torino 1999 pag. 213

28 Roberto Sculli, “AMT, tagliare il costo del lavoro”, il Secolo 18 marzo 2014

29 E. Musso, “I trasporti nell’economia dei tempi urbani” in La città e i suoi tempi, cit. pag. 145

30 Metrogenova, “Diagnosi ed evoluzione del traporto pubblico a Genova”, 18 marzo 2014

31 DDL GR n.139 del 04-02-2014 “Modifiche della legge regionale 4 settembre 1997n. 36 e s.m. (LUR)”

32 Ibidem

33 Proposta di Legge Regionale Toscana “Norme per il governo del territorio”

34 Piano di Indirizzo Territoriale PIT n. 72/2007 e suc-cessive modificazioni, con l’adozione dell’integrazio-ne del PIT con valenza di Piano paesaggistico

35 V. Gregotti, Diciassette lettere sull’architettura, Laterza, Roma/Bari 2000 pag. 211

36 W. Tocci, I. Insolera e D. Morandi, Avanti c’è posto, Donzelli, Roma 2008 pag. 10

37 H-J Chang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, il Saggiatore, Milano 2014 pag.47

38 G. Esping-Andersen, Le nuove sfide per le politiche sociali del XXI secolo, Stato&Mercato 2/2005

39 J. Habermas, La costellazione postdemocratica, Feltrinelli, Milano 1999 pag. 20

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5. Sanità condizione della cittadinanza

Il sistema sanitario ligure si trova nel bel mezzo di un guado: da un lato il modello estrema-mente “generoso” del buon tempo che fu, finito sotto la mannaia della crisi fiscale dello Stato (oltre che nel cappio di sprechi e gravissimi errori gestionali); dall’altro una impostazione innovativa, in grado di mettere a frutto le opportunità delle attuali tecnologie informatiche e organizzative, che – a tutt’oggi – non riesce ancora a decollare. Mancato decollo le cui cause sono molteplici. Certamen-te di volontà politica e di carenze comunicative. Ma altrettanto dell’incapacità di aggregare masse critiche “positive”, sotto forma di partenariato tra istituzioni e cittadinanza. A tutela di quel “diritto alla salute”, che è probabilmente il fondamento più importante del patto sociale della Modernità e del principio di cittadinanza.

Luci e ombre nella sanità ligureSe malauguratamente il signor Parodi dovesse sentirsi male, svenire e cadere a terra,

verrà soccorso in tempi rapidi; grazie all’intervento di un’autoambulanza o di un’automedi-ca. A quel signor Parodi un intero sistema fornirà cure di grado variabile, compresa l’ospeda-lizzazione.

Per questo nessuno farà precedere la prestazione sanitaria dall’affannosa ricerca nella giacca del malcapitato di una carta di credito (attestante – né più né meno –il diritto ad essere curato. Dunque, a “comprarsi un pezzo di vita”): l’american way of life non ha ancora attecchi-to da queste parti…

Tutto questo avviene ancora oggi in una Regione Liguria in cui la vecchiaia, più o meno attiva, è la condizione più diffusa. Vecchi e – quindi – sanitariamente costosi, appartenenti a una comunità con problemi e opportunità; dove spesso i primi sono enfatizzati e non af-frontati e le seconde sono semplicemente ignorate per quel micidiale ligurian way of life che tende a “conservare mugugnando”.

Un quadro che – come si diceva – presenta aspetti contradditori:→ una rete di ospedali ancora troppo indifferenziata e distribuita sul territorio con lo-

giche superate (ospedali sotto casa) e antieconomiche;→ una rete di nove tra Asl (cinque, da Ventimiglia a Sarzana) ed enti (quattro); come San

Martino fusosi con l’Ist, il Galliera e il Gaslini, tradizionali espressioni della Curia, l’Evange-lico con annesso l’Ospedale di Voltri gestito dalle chiese protestanti.

A livello di conglomerato si tratta – comunque – della prima impresa ligure, intesa come or-ganizzazione operante nell’ambito dei servizi, con 26mila addetti (in passato arrivati fino a 28mila). Una struttura che – ad oggi – assorbe all’incirca l’80% dell’intero bilancio di Regione Liguria.

Lo stato dell’arteJürgen Habermas ebbe a dichiarare che «i diritti sociali sono le stecche di corsetto della

cittadinanza democratica»40. Quello alla salute – reso effettivo attraverso il pieno accesso a un adeguato sistema sanitario – è di certo preminente.

L’Italia del dopoguerra si è collocata a lungo nelle prime posizioni europee in materia. E la Liguria in particolare.

Oggi la situazione risulta drasticamente ribaltata.

Infatti, il quadro recentemente tracciato da Eurostat, riguardo al dato storico delle con-dizioni generali della salute nel nostro Paese, ci rappresenta una realtà dove – tutto sommato – si stava bene, si viveva più a lungo rispetto alle altre Nazioni e la qualità della vita era buona.

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Da qualche anno non è più così. L’Italia è rimasta – sì – una nazione longeva; tuttavia nel pe-riodo 2004-2012 si è abbassata l’età in cui si inizia a ricorre alle cure mediche per problemi gravi. In media, se nel 2004 gli uomini si ammalavano a 69 anni e le donne a 71, nel 2012 gli uomini si ammalano a neanche 62 e le donne a 61. Ben al di sotto della media europea dove, nello stesso periodo, si è guadagnato un biennio di salute; passando dai 61 ai 63 anni.

Commenta il Rapporto: «il fatto che l’Italia rimanga comunque un Paese longevo (la durata della vita media, di 80 anni per le donne e 85 per gli uomini, è superiore a quella europea, che nello stesso periodo 2004-2012 è di 76 anni per le donne e 82 per gli uomini) dimostra che non si è di fronte a un mutamento antropologico: il problema è per lo più sociale».Un problema politico.

Trend nazionale che si è fedelmente riprodotto nel nostro territorio, con una particolare pro-pensione da parte degli amministratori locali a mistificare la questione nei suoi aspetti cri-tici con idilliache descrizioni consolatorie, quanto destituite da qualsivoglia fondamento. Secondo inveterate abitudini.

Chiamato in causa con durezza critica da un quotidiano nazionale sulle condizioni del-la sanità ligure, al tempo della campagna elettorale 2010 per il rinnovo dell’Ente Regione, così rispondeva sulla stessa testata il Governatore ligure uscente (e poi rientrante) Claudio Burlando: «il risanamento dei conti della sanità, avvenuto dal 2007, è stato certificato dai tec-nici del ministero, e i liguri in questi ultimi anni hanno visto nelle loro buste paga sparire gradualmente le addizionali IRE che eravamo stati costretti a imporre (ciò vale per i redditi sino a 30 mila euro, l’85% dei contribuenti). I servizi sanitari territoriali sono cresciuti mentre sono finanziati e in via di progettazione e appalto nuovi ospedali al Galliera di Genova e alla Spezia. Le “devastazioni” al S. Martino e le “villette” al posto del Santa Corona sono altre pure fantasie che sfido a dimostrare con qualche pezza di appoggio»41.

Ad elezioni concluse, nel corso di una conferenza stampa tenutasi lunedì 24 maggio 2010, il Governatore Burlando – accompagnato dall’assessore alla sanità Claudio Montaldo – rappresentava una situazione diametralmente opposta a quella dichiarata solo quattro mesi prima: la denuncia di “un buco nella sanità ligure”, per cui occorreva «recuperare subito 184 milioni di Euro, per rimettere a posto un bilancio che dall’inizio del 2010 ha iniziato di nuovo a galoppare»42 (sic!).

In effetti ormai da più parti si parla di un sistema che presenza disavanzi cronicizzati di circa 100 milioni ogni anno e con aspetti disfunzionali gravissime: ad esempio, il tempo per eseguire un’ecografia mammaria si aggira sui 16 mesi, a partire dal momento della prescri-zione di tale richiesta.Una realtà che non è più possibile mantenere celata con acrobazie illusionistiche!43

Nel frattempo venivano disperse eccellenze sanitarie liguri a livello internazionale; come la scuola di ematologia legata al nome del suo maestro: il professor Alberto Marmont. Si vani-ficavano contributi preziosi, come quello del professor Lucio Luzzatto, richiamato da New York (dove dirigeva il Dipartimento di Genetica Umana al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center) per guidare l’Istituto Tumori genovese (Ist) e rapidamente “licenziato in tronco” ad-ducendo ragioni risibili.

Sicché le responsabilità dei gruppi dirigenti dedicati – in primo luogo politici, ma anche la categoria medica – sono acclarate e ormai evidenti. Così come l’impossibilità di ritornare alla sanità “oltremodo generosa” del pur recente passato (quella che consentiva – tra l’altro – un approccio irresponsabilmente consumistico al servizio e al tempo stesso pre-moderno; come il ricorso immotivatamente allarmistico, dunque dissipatorio e conseguentemente produt-

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tivo di effetti di intasamento, alle prestazioni di primo soccorso, a prescindere dalle effetti-ve necessità. Non meno di un rapporto feticistico con il farmaco, tramutato in una sorta di amuleto): situazione che si potrebbe definire come de “l’ospedale di prossimità, al limite a domicilio” (la comodità consentita dal proliferare di strutture a un tiro da casa); il ricorso scriteriato e bulimico all’accaparramento di medicine a stock, reso possibile dall’esserne i costi largamente a spese del sistema (e – dunque – della comunità). Con o senza ticket.

Come si diceva, niente è più come prima. Soprattutto sotto la scure di scelte nazionali in materia di sottrazione di risorse alle Regioni (che lascerebbero intravedere disegni ispirati da ideologie che puntano all’anemizzazione dello Stato Sociale).Di conseguenza, i tempi odierni (e la difesa/tutela di quanto è salvabile in materia di conqui-ste sociali preziose) impongono l’ottimizzazione draconiana delle risorse, attraverso l’ado-zione di modelli organizzativi che consentano la coniugazione dell’efficacia con l’oculatezza.

Dunque, la messa in campo dell’intelligenza per il superamento delle ristrettezze materiali.

Le possibili risposteLa contraddizione apparentemente insuperabile tra attese di elevata qualità della prestazio-ne medica, a fronte di crescenti carenze materiali, può trovare un convincente superamento facendo ricorso ai “modelli avanzati” propri di quest’epoca: i paradigmi della rete e la cosid-detta “knowledge governance” (la gestione della conoscenza grazie alle opportunità dell’Ict, l’Information & Communication Technology). Tradotto in concreto, l’idea di uno spazio sani-tario regionale in cui specifici punti unici di eccellenza costituiscono i nodi di una rete (che filtra ogni antieconomica duplicazione sul territorio), cui si accede attraverso numerose sta-zioni d’entrata (gate) che svolgono una triplice funzione:

→ orientare il paziente nell’universo dell’offerta sanitaria locale al fine di individuare il punto preciso cui fare ricorso per la prestazione richiesta (compito primario);

→ svolgere le operazioni di prima assistenza come presidio delle situazioni di emergen-za (nel caso del soccorso);

→ assicurare il necessario sostegno psicologico al paziente (ripristinando indispensa-bili elementi “umanizzanti” del servizio tramite il rapporto face-to-face).

Questo comporta la creazione in ambito sanitario di quanto il sociologo Luciano Gallino de-finiva – riferendosi all’organizzazione produttiva – “un sistema cognitivo distribuito”44.

In tale sistema diventano essenziali due azioni: da un lato l’immagazzinamento delle conoscenze, dall’altro l’intermediazione delle stesse con i bisogni; secondo un’opera che si potrebbe definire di “brokeraggio sociale”: l’indirizzo del malato verso il nodo della rete sani-taria (punto di eccellenza) specializzato in quel dato tipo di prestazione richiesta.

Va osservato come già da tempo le tecnostrutture dell’Ente Regione riflettano su un tale modello. Il problema è capire per quale motivo non si riesca ad implementarlo. Quali sono gli impedimenti ostativi?

→ Resistenze difensive da parte di una politica che ragiona esclusivamente in termini di puro presidio di potere? Indubbiamente risulta molto più vantaggioso promettere la difesa retrò di una proliferazione indiscriminata delle infrastrutture dedicate (appunto, di prossimità), secondo collaudate logiche di pura acquisizione del consenso elettorale da parte di una po-polazione a cui non viene mai presentata la situazione reale di penuria crescente; che rende inevitabilmente anacronistico – o meglio, impensabile – un ritorno a situazioni precedenti. Oltre il retropensiero demagogico, indubbiamente gioca negativamente per il ceto partitico il dover adattarsi a impostazioni che riducono gli ambiti di potere arbitrario e – comunque

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– pretendono competenze gestionali (quale quelle in materia di networking) a dir poco inar-rivabili per chi vive ancora nella dimensione dello scambio negoziale e del paternalismo (in-confessabilmente “demofobico”) quale essenza dell’agire politico;

→ Cortocircuiti comunicativi? Indubbiamente non è semplice esporre in maniera fru-ibile da parte dei non addetti ai lavori l’idea non ancora metabolizzata e sempre ostica di sa-nità come sistema cognitivo diffuso. Al tempo stesso, risulta troppo impegnativo diffondere tra l’intera popolazione le relative “conoscenze previe” (ossia le istruzioni che indicano come far funzionare i vari strumenti sociali complessi di questa Modernità; che il profano – come spiega Anthony Giddens – dovrebbe “imparare a cavalcare”)45. Saperi pratici necessari per rapportarsi a tale sistema, cogliendone tutti i vantaggi. D’altro canto – in quanto necessita di essere “spiegata” – l’idea stessa di “sanità in rete” sconta il rigetto preventivo da parte di una pubblica opinione sospettosa e refrattaria a innovazioni non immediatamente comprensi-bili; anche perché nessuno si è preso la briga di fargliele comprendere. Sensibilizzare e pro-muovere. Probabilmente, pure in questo caso varrebbe la pena di stipulare accordi di fattiva cooperazione con il sistema scolastico, quale canale d’accesso privilegiato ai cittadini del fu-turo: i ragazzi e le ragazze;

→ Sottovalutazione di possibili sinergie? Come rilevato altre volte, il codice genetico oligarchico insito nella cultura politica del luogo impedisce perfino di concepire una riparti-zione del compito orientativo nel nuovo sistema sanitario tra segmenti della società locale; i particolare quelli che presentino particolari caratteristiche di posizionamento rispetto alla sanità. L’idea stessa della partnership sociale per l’inclusione democratica. Operazione che – tra l’altro – presenterebbe reciproci vantaggi. Ad esempio le farmacie potrebbero svolge-re efficacemente funzioni di “gate”, riguardo alla farmacopea, specie in particolari casi (la puerpera, l’anziano, l’allergico…); traendo dalla fornitura di questo servizio evidenti vantaggi in termini di fidelizzazione della clientela. In ogni caso si dovrebbe far passare il messaggio che la “nuova sanità” è un orizzonte da costruire collettivamente; rinunciando al tradizionale verticismo del “non disturbare il manovratore”; a vantaggio anche in questo caso della demo-crazia dei cittadini declinata nelle sfide locali.

Sia come sia, resta il fatto – ad altissimo tasso di pericolosità, per quanto concerne un diritto sociale dell’importanza civile quale la salute – di una regione in mezzo al guado; in cui la vecchia sanità degrada giorno dopo giorno e quella di nuova concezione non riesce a prendere campo.

Con tutti gli effetti negativi inerenti per la convivenza democratica, tanto riguardo all’abbassamento della prestazione ai pazienti (particolarmente drammatica in una regio-ne in larga misura popolata da anziani), non meno che per la disaffezione generalizzata nei confronti di istituzioni incapaci di assicurare livelli di servizi adeguati a una società che si pretende civile e moderna.

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Note

40 J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999 pag. 2041 Nove risposte di Burlando a Pellizzetti, “il Fatto Quotidiano”, 30 gennaio 201042 Primocanale.it, “Sanità, Montaldo propone più esa-mi a pagamento”, 24 maggio 201043 «Spot elettorali realizzati con i soldi della sanità pubblica devastata dai tagli, era l’accusa. Adesso è arrivata la sentenza: Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) ha bocciato gli spot pagati dal-la sanità ligure in periodo elettorale perché trasmessi in violazione della par condicio: “Non erano essen-ziali per le funzioni dell’Ente”. Un macigno nell’acqua dell’informazione ligure, che mette in discussione il rapporto tra politica targata centrosinistra, giornali e tv. Tutto parte da un’inchiesta del Fatto: la Asl 3 di Genova aveva varato una campagna pubblicitaria de-finita “istituzionale” da 654mila euro. Un record: due-mila euro al giorno, mentre la Regione annunciava tagli alla Sanità. Denaro speso per centinaia di spot che puntellavano i bilanci degli organi di informazio-ne. Gli spot, reclamizzando i servizi della ASL, mette-vano in buona luce il governo della Regione Liguria. Di più: la pubblicità sulle quattro maggiori emittenti tv si svolgeva in pieno periodo elettorale. Anzi, come confermavano gli interessati, la trasmissione si era in-terrotta proprio nei giorni delle elezioni che videro la vittoria del centrosinistra di Claudio Burlando. La stessa giunta che aveva nominato i vertici della Asl incriminata». F. Sansa, Regione Liguria, il Governatore Burlando e gli spot elettorali pagati con pubblico de-naro, “il Fatto Quotidiano”, 13 novembre 2010

44 «Le innumerevoli molecole di conoscenza esplici-ta e implicita che lo formano stanno nella memoria delle persone, pur nei casi in cui non ne sono consa-pevoli, sia negli archivi, dossier, classificatori, file di ogni reparto, divisione, officina o ufficio… Non meno essenziali sono le particolari relazioni che si sono stabilite tra le tante molecole cognitive: sono infatti esse che fanno la differenza tra una congerie caotica di elementi e un sistema funzionante». L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003 pag. 75

45 «Nessuno può interagire con i sistemi astratti sen-za padroneggiare alcuni dei rudimenti dei principi sui quali si basano…La vita moderna è un fenomeno complesso in cui agiscono molti processi di ‘filtrazio-ne di ritorno’ attraverso i quali i profani si riappropria-no in qualche modo del sapere tecnico e lo applicano comunemente nel corso delle loro attività giorna-liere». A. Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna 1994 pag. 143

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6. L’Università laboratorio territoriale

Il nostro Ateneo, se vuole essere effettivamente una “risorsa” per la comunità che lo ospita, deve avere i piedi ben saldi nei territori ma la testa che guarda al Mediterraneo e al mondo. Solo superando tendenze isolazionistiche e localistiche, l’Università di Genova potrà diventare un’univer-sità macroregionale, attraendo studenti anche dalle regioni vicine con ritorni positivi per l’economia locale, e mettendo competenze a disposizione di coalizioni strategiche per la fuoriuscita dalla crisi e il rilancio complessivo dell’area. Un ruolo particolarmente importante può essere svolto dalle facoltà scientifiche: favorire la nascita dei cosiddetti milieux d’innovazione, in cui l’impresa chieda all’Uni-versità saperi da mettere a frutto e l’Università indichi all’impresa i nuovi settori da coltivare, senza subordinazioni reciproche.

Lo stato dell’arteA Genova l’università fa la sua apparizione ufficiale relativamente tardi, nel 1481, tre se-

coli dopo che a Bologna: anche se già dal tredicesimo secolo si ha notizia di collegi di teologi, avvocati e medici. In effetti, si fatica a immaginare associazioni di studenti e docenti forma-tesi spontaneamente all’ombra del Banco di S. Giorgio: per non parlare di nobili e mercanti genovesi che paghino per farsela raccontare dai teologi e dai giuristi, senza vederci “la loro bella convenienza”. Questo per dire che Genova non ha mai avuto una vocazione universi-taria più di quanto ne abbia avuto una turistica: eppure dovrà rapidamente convincersi di averle entrambe, se vorrà trovare una via di fuga dalla desertificazione.

Assurta faticosamente ad ateneo di prima classe, dotato di tutte le facoltà, sotto il Re-gno d’Italia, la nostra università ha poi vissuto la metamorfosi da istituzione elitaria, destina-ta ai benestanti e alimentata per cooptazione, a università di massa, veicolo di una mobilità sociale oggi declinante. Attualmente l’Università di Genova gode complessivamente di buo-na fama, tranne che sulla stampa genovese, impegnata soprattutto a denunciare le magagne. Fra gli atenei italiani medio-grandi si colloca ai primi posti in diverse classifiche; mentre fra le università mondiali veleggia brillantemente – si fa per dire – fra il cinquecentesimo e il seicentesimo posto.

* * *

In Liguria c’è una sola università, a Genova: ma, con l’aria che tira, non si può pretende-re di più. Fra le tante sedi decentrate sperimentate nei decenni scorsi, resistono Imperia, con corsi di Scienze del turismo e Giurisprudenza, Savona, con Ingegneria industriale-Gestione dell’energia e ambiente, La Spezia, con Ingegneria Nautica; altri corsi decentrati, istituiti nell’epoca sciagurata della moltiplicazione delle sedi, continuano ormai solo ad esaurimen-to: a testimonianza, da un lato, della disponibilità dei notabilati locali a sperperare le risorse pubbliche, dall’altro, dell’oggettiva complicità della corporazione accademica con la peggio-re politica.

Fra gli anni Ottanta e Novanta – ossia nello stesso periodo in cui l’Italia accumulava metà del suo debito pubblico – l’Università italiana passava dai 47 atenei del 1981 ai 73 del 1997 (oggi sono un centinaio). L’idea di portare l’università in ogni Provincia non era solo devastante, al punto da far sembrare inevitabili, con il senno di poi, gli impresentabili tagli lineari dell’era Tremonti-Gelmini. Era una presa in giro nei confronti delle comunità locali, e una bestemmia contro la vocazione universale dell’università. La mobilità degli studenti era essenziale già prima dell’istituzione della leva obbligatoria e lo resta, a maggior ragione, dopo la sua abolizione: al limite anche i programmi Erasmus – ai tempi di internet – servono meno alla serietà degli studi che alla sacrosanta sprovincializzazione della meglio gioventù.

Con la soppressione delle Province, del resto, l’idea stessa che le comunità locali liguri paghino professori genovesi per andare a insegnare a Imperia o La Spezia, invece di mandare

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gli studenti liguri a Genova o magari a Pisa e Nizza, oltre a essere divenuta impraticabile si rivela concettualmente sbagliata: apparteneva alla stessa logica che produceva atenei di serie B o C (eppure con lauree equiparate nei concorsi a quelle di serie A).

Tutto potrebbe andare bene purché funzioni. Ma è proprio così?Se l’Università ligure vuole essere un motore dello sviluppo regionale (ammesso che

davvero lo voglia, come qui si assume), e far lievitare un dibattito politico attualmente di infi-mo livello, invece che distinguersi per gli occasionali pistolotti dei suoi esponenti sulle pagi-ne dei quotidiani, non deve più disperdere risorse ma puntare a crescere.

Può farlo – così ci viene detto – in tre ambiti: (macro-)regionale; mediterraneo, fra Spa-gna e Africa; e ovviamente internazionale.

La nostra università – anzitutto – può crescere in un ambito macro-regionale che com-prenda le due Riviere o il Monferrato. Considerando l’ubicazione tra Alessandria e Vercelli dell’Università del Piemonte Orientale, ci si può chiedere se non fosse meglio quando i mi-gliori studenti monferrini venivano a Genova o andavano a Torino: e peggio per quelli che non avrebbero mai varcato le soglie di un’aula universitaria se non gliel’avessero portata sotto casa.

Certo, parlare della mobilità studentesca dal Monferrato e dalle due riviere sino al ca-poluogo ligure fa sorridere, se si pensa allo stato dei trasporti ferroviari su quelle tratte: per non parlare delle note due ore per Milano, delle cinque per Roma e, aggiungo, delle otto per Trieste. Qui peraltro ci si potrebbe chiedere perché mai preferire Genova a Torino, Milano o Pavia, per non parlare dell’estero: una meta cui numerosi docenti dell’Università italiana indirizzano ormai significativamente i loro rampolli.

La prospettiva di una crescita in quest’ambito macro-regionale va considerata realisti-ca. Ma non illuda, inducendo a trionfalismi, il dato sulla percentuale di studenti stranieri iscritti all’università di Genova ancora nell’anno accademico 2012/2013: l’8,7% degli iscritti complessivi46, che fa del nostro ateneo il primo nella classifica nazionale. L’analisi della com-posizione nazionale, infatti, parla di albanesi per il 15,9%, cinesi 14,6%, ecuadoriani 9,7%, spagnoli 6,2%. Insomma, non ci vuole molto per capire che l’internazionalizzazione esibi-ta “a fiore all’occhiello”, sinora, è soprattutto l’ingresso nel circuito universitario degli im-migrati di seconda generazione. “Diversamente italiani”, più che veri stranieri, comunque iscritti per ragioni di contiguità/economicità.

Una ulteriore conferma di una situazione estremamente statica (la solita gestione pas-siva della rendita come genius loci) ci viene fornita dagli aspetti più squisitamente quantitati-vi: a oggi il dato genovese – 32.000 studenti iscritti all’università su 608.000 abitanti, con una percentuale del 1/19 – non è neppure comparabile con quelli di antiche città universitarie come Pisa47, Pavia, Padova e Bologna (da 1/1 a 1/4). Ma come spiegare l’abisso che separa Genova da città magari dotate di più atenei, pubblici e/o privati, come Milano (1/7,3), Firenze (1/7,7), Torino (1/7.7), ma spesso molto meno friendly da tutti gli altri punti di vista, compresi clima e qualità della vita?

Ci sono evidentemente dei gravi ritardi, ma anche dei possibili margini di crescita non reperibili altrove; tutte cose di vivo interesse per la stessa comunità locale, se solo si riflet-te sulle ricadute economiche che avrebbe la trasformazione di Genova in città universitaria, come auspicato nel programma del nuovo rettore, Paolo Comanducci.

È stato calcolato in 14mila euro a studente l’impatto delle università milanesi sull’e-conomia locale48. Nel caso di Genova, l’indotto sarebbe proporzionalmente poco meno che mezzo miliardo di euro l’anno; ma con un minimo di spirito imprenditoriale (tutto da dimo-strare) potrebbe arrivare senza troppa fatica a raddoppiare.

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Ma in base a quali modalità/condizioni l’Ateneo può sul serio rivelarsi risorsa di territorio? Anzitutto aprendosi e riguadagnando posizioni nei ranking internazionali: come il comples-so dell’Università italiana, peraltro, rispetto alla quale l’Ateneo genovese non è messo peggio.

Nell’età, non della conoscenza (ogni epoca lo è) ma dell’informazionalismo (la fase del Capitalismo in cui l‘informazione e le conoscenze diventano strumenti di produzione, «nuova base materiale e tecnologica dell’attività economica e dell’organizzazione sociale»49), è possibile che un consistente numero dei nostri docenti siano analfabeti informatici, alme-no a giudicare dalle difficoltà/fobie che rivelano nei confronti di Aula web, il programma per la registrazione dei voti d’esame, operazione spesso delegata al personale. Programma più complicato di quelli probabilmente adottati in altre Università: ma i programmi si cambiano, non si impiega il personale per fare ciò per cui si è pagati!Sicché alla domanda di cui sopra si può rispondere così:

1. L’Ateneo diventa una risorsa di territorio se:a) fornisce soluzioni utili, intervenendo attivamente con suoi esponenti nel dibattito

pubblico sulle criticità d’area (in base alle proprie competenze);b) attrae flussi di studenti da fuori regione, che oltre al prodotto didattico comprino

anche “servizi di insediamento” (seppure venduti a prezzi calmierati: abitazione, refezione, intrattenimento, uso vario del luogo);

c) elabora nei propri “laboratori” idee innovative virabili a impresa (non solo i “mitici” spin-off, ma anche mood che fertilizzino iniziative pofit oriented innestate su una base cultura-le generativa: la storia dell’editoriale bolognese il Mulino potrebbe fornire più che utili indi-cazioni, tanto al desolato panorama librario locale come ad auspicabili contesti intellettuali da far sorgere all’ombra delle strutture universitarie).

2. Per diventare risorsa di territorio, l’Ateneo deve riflettere criticamente su quanto questo realmente è. Partendo dalla presa d’atto che l’autonomia può funzionare anche da paravento dietro il quale si coltivano radicati corporativismi e una visione di stampo impie-gatizio dello status di docente. Basta controllare il livello di pubblicazioni per buona parte degli “umanisti” in cattedra; basta ricordare quanto diceva (sottovoce) Vincenzo Tagliasco riguardo agli “scienziati”, tra cui vigeva un pactum ad excludendum contro chi aveva la pretesa di mettere la testa fuori dalla palude della mediocrità. Quanti sono gli accademici locali la cui reputazione supera le cinte daziarie? Per quale motivo gli studenti forestieri dovrebbero privilegiare l’offerta ligure? Per il sole e il mare? Intanto vanno a Pisa.

3. Per diventare interlocutore di territorio l’Ateneo dovrebbe liberarsi di un atteggia-mento mentale di stampo “insulare”, secondo cui si pretenderebbe di dialogare con la Co-munità globale dei sapienti e non con le misere realtà della porta accanto. Albagia provin-ciale che si ritorce immediatamente contro chi la coltiva, visto che – di fatto – non c’è nello scenario mondiale una grande disponibilità a interloquire con le cosiddette “glorie locali”; mentre – al contrario – il territorio potrebbe esservi interessato in maniera consistente.

4. Gli stessi progetti di internazionalizzazione che emergono dal “nuovo corso” dell’Ate-neo, a seguito dell’abile campagna elettorale del nuovo rettore, sembrano risentire di questo differenziale tra aspirazioni planetarie e malinconica realtà: “vorrei ma non posso”. Di qui, forse, il tanto decantato, sulla stampa locale, programma di collaborazione con il Mediterra-neo e con l’Africa, come obiettivo di medio termine che potrebbe sostituire la vera interna-zionalizzazione, a lungo termine. Avendo ben chiaro un fatto: giocare la partita nel Maghreb non corrisponde propriamente a farlo su un campo di Champion League!

Forse sarebbe meglio guardare in faccia la realtà, concentrandosi su fatti concreti e alla nostra portata:

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→ cominciare a riqualificare l’offerta didattica anche con apposite “campagne acquisti”;

→ apprendere dal territorio “cosa gli serve” e mettersi a disposizione (in primo luogo cercando di capire qual è e com’è fatto il contesto in cui quotidianamente si esercita la pro-pria professione, e probabilmente si vive;

→ magari – come si diceva – partire indirizzando verso lo sbocco al mare (ligure) i baci-ni studenteschi del Basso Piemonte e del Monferrato (nell’attesa di essere in condizione di fare concorrenza a competitori più robusti). Ricordando l’antico insegnamento di Fernand Braudel, secondo cui “Genova nasce dall’avvaloramento di alcune brecce nell’Appennino”: il passo dei Giovi50.

Il nuovo corso genoveseIl recente ricambio al vertice dell’Ateneo genovese, accompagnato da manifestazione di

intenti rinnovativi, impone una contestuale apertura di credito da parte della società ligure. A quanto è dato di capire, il nuovo Rettore Magnifico ripropone a livello di ateneo la felice stra-tegia messa in atto nel dipartimento di Filosofia del Diritto – la scuola fondata da un intellet-tuale di vaglia come il compianto Giovanni Tarello – di cui è stato sino ad ora il coordinatore.Da vent’anni – in effetti – il dipartimento lavora in misura ridotta con gruppi italiani e assai di più con la migliore ricerca “latina”: spagnola, latino-americana, francese. La collaborazione ha prodotto tre riviste di fascia A, venti convegni annuali, un dottorato a Genova, un master a Imperia, tutti rigorosamente internazionali51.

Collegarsi prima con altri gruppi di eccellenza nei paesi latini del vecchio e nuovo mon-do ha permesso di potersi poi presentare senza sfigurare al confronto con i più noti gruppi angloamericani di Teoria del diritto (Jurisprudence), anche tramite canali istituzionali deri-vanti da donazioni private quali le annuali Fresco-Lectures.

La proposta di “Genova città universitaria” sembra nascere dallo stesso schema concet-tuale. Il problema è appurare quanto sia riproducibile a livello di Ateneo. In effetti l’Universi-tà è una confederazione di saperi diversissimi; sicché considerare medici, ingegneri e filologi romanzi soggetti alle stesse regole produce equivoci che nella pratica hanno inevitabilmente prodotto disastri.

Questo il motivo per cui – al fine di renderla effettivamente credibile – andrebbero in-vertiti i termini di tale proposta: non un territorio che si mette al servizio dell’Accademia, ma l’Accademia che si fa territorio; per dirla con Albert Camus, “situandosi”.

Di conseguenza, quando il neo Rettore propone periodici “Stati Generali” delle varie aree dell’Università, al fine di cercare una (opinabile) omogeneità di missione, probabilmen-te sopravvaluta la capacità dell’università genovese di fare sistema, non solo con se stessa, ma anche con i territori. Sicché – per coerenza – più che assise della corporazione si renderebbe-ro necessarie iniziative di interlocuzione a largo raggio e del tutto prive di steccati.

In questa fase di smaccato americanismo imitativo, forse andrebbero meglio meditati (e recepiti) gli sperimentati modelli organizzativi made in Usa per favorire il dialogo costrutti-vo, reciprocamente fertile, tra comunità locali del sapere e della ricerca con il territorio: inte-so come business community, società civile, sistema produttivo, sfera pubblica o in qualunque altro modo piaccia esprimere il concetto.

Un paradigma dell’innovazione attraverso processi comunicativi che – a detta degli sto-rici – si forma negli Stati Uniti tra il 1870 e il 1890, viene teorizzato dal filosofo John Dewey come “comunità democratiche del sapere” e ispira il New Deal rooseveltiano. Molti sono in-clini a indicarlo quale primario fondamento del Novecento come “secolo americano”.Chiamarono questo modo di organizzare la conoscenza “matrice istituzionale”.

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Le possibili risposteScrive lo storico dell’Università della Virginia Olivier Zunz: «alla base del secolo ameri-

cano sta la capacità degli americani, via via più sofisticata, di trasformare la conoscenza del mondo fisico in vantaggi militari e di mercato, sfidando la supremazia economica, scienti-fica e tecnologica dell’Europa. A partire dagli anni 1870-1890 essi crearono infatti un’am-pia matrice istituzionale di ricerca in vista di questo obiettivo. Ambiziose università come la Johns Hopkins (1876) e la Chicago University (1892), finanziate con generose donazioni di ricchi uomini d’affari e dirette da leggendari imprenditori accademici, furono soltanto i pun-ti più visibili di una rete di nuove istituzioni che arrivarono a comprendere università statali e private, scuole superiori di agricoltura, istituti tecnologici specializzati, laboratori aziendali grandi e piccoli, fondazioni pubbliche e private. Questa matrice istituzionale si rafforzò per tutta la prima metà del Novecento… In quanto organizzazione del sapere, la matrice consentì a studiosi e istituzioni attivi in diversi campi della ricerca di entrare in contatto e collaborare. Tale rete istituzionale aveva il vantaggio fondamentale di essere flessibile, permettendo la circolazione di industriali, manager, scienziati, tecnici, inventori autodidatti e altri impren-ditori fra istituzioni diverse, che invece in Europa restavano isolate e indipendenti»52.

A prescindere dalla ricerca di “ricchi uomini d’affari e le loro generose donazioni”, dif-ficilmente reperibili nel contesto ligure (!?), lo schema della veneranda “matrice” descritta da Zunz può fungere da utile modello concettuale per uscire dal solipsismo di territorio, cui un’Ateneo diventato propulsivo e radicato potrebbe assicurare contributi decisivi, sia pure con modalità tutte da inventare e sperimentare.

Il ragionamento che sottende tale schema si è tradotto nell’ultimo dopoguerra in quello che ormai è il format organizzativo del “paradigma tecno-economico” dominante nell’attua-le fase storica. I cosiddetti milieux d’innovazione.

Un apparato concettuale che in Liguria è mancato in tutti questi anni, quale criterio orientativo dei progetti di riqualificazione delle specializzazioni produttive d’area, orientan-dole all’high-tech.

Progetti naufragati sul nascere, tra l’infertilità programmatica di Morego (l’Iit che si disinteressa deliberatamente di sgocciolare sul territorio) e i secondi fini speculativi sma-scherati a Erzelli (il Progetto Leonardo stravolto da cemento e mattone). Altro che “milieu d’innovazione”.

Così descrive questo paradigma tecno-economico il massimo teorico della società dell’informazione Manuel Castells: «concentrazione spaziale di centri di ricerca e istituzioni universitarie, di società di tecnologia avanzata, una rete ausiliaria di fornitori di beni e servizi e reti d’affari di venture capital per il finanziamento»53.

L’elemento decisivo in tale modello è rappresentato da un insieme specifico di relazio-ni basate su un’organizzazione sociale che condivide una cultura e obiettivi volti alla genera-zione di nuova conoscenza, nuovi processi e nuovi prodotti.

Non la clonazione di una velleitaria Silicon Valley genovese – dunque – ma la definizio-ne di una mentalità tutta da costruire: il terreno su cui l’Università complessivamente consi-derata dovrebbe/potrebbe felicemente incontrare la società e la politica.

La visione (un po’ alla John Dewey) che viene proposta è quella della coalizione territo-riale tra tutti i soggetti portatori di risorse per un obiettivo condiviso: quello di costruire un futuro. A Barcellona si misero insieme Università, amministrazione comunale, parti sociali, associazioni varie (196) e perfino l’Arcivescovato per mettere a punto il Piano della renaixen-cia cittadina. Io penso a qualcosa come un network di intelligenze e saperi uniti da una poli-

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tica generosa e strategica. Ma a Genova l’Ateneo se ne sta lì a covare le sue uova di pietra (pri-vilegi di corporazione). Senza andare troppo lontano già a Milano e Torino è diverso: il piano anti-crisi torinese 1999-2000 fu scritto da una coalizione analoga a quella catalana.

In questo quadro auspicato, la rimessa in pista dell’ipotesi di riposizionamento compe-titivo del sistema produttivo locale aprirebbe straordinarie opportunità di contestuale riqua-lificazione per tutti i soggetti in ballo:

→ La nuova Università “situata” e integrata diventerebbe un laboratorio di innovazioni che produrrebbero straordinari ritorni sui suoi stessi processi di valorizzazione/crescita in-terna e di potenziamento della reputazione all’esterno. Il caso dell’Università di Catalunya, attrice primaria della Renaixencia di Barcellona negli anni Novanta, può fare testo al riguardo;

→ Le istituzioni territoriali (ente Regione e Comuni coinvolti) potrebbero apprendere per sperimentazione le nuove logiche dell’agire amministrativo come politiche keynesiane declinate su scala locale, promovendo attivamente “l’ecosistema dell’innovazione”54 attra-verso l’aggregazione di coalizioni pubblico/private dedicate, cementandole attraverso strate-gie condivise e finanziando progetti;

→ Le parti sociali e la società tutta coltiverebbero democrazia civica partecipando deli-berativamente al varo del Piano e controllandone (controdemocrazia) la corrispondenza del-le premesse con i consuntivi;

→ Il sistema d’impresa praticherebbe finalmente il tanto a lungo auspicato dialogo fe-condativo con la ricerca e verrebbe stimolato dalla nuova “atmosfera” a farsi carico di quel “rischio d’impresa” che da troppo tempo non è un suo tratto distintivo. Magari (stante la rarefazione dello spirito imprenditoriale indigeno, profondamente contagiato dalla propen-sione alla rendita. Forse in maniera irreversibile?) si potrebbero attirare davvero iniziative esterne “non fasulle”, proprio grazie all’habitat fertilizzato da una vasta opera di sinergie fi-nalizzate a definire il modello di sviluppo ligure per il Terzo Millennio; e relative opportunità.

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Note

46 https://statistica.regione.liguria.it/File/Pubblicazioni/ RapportoStatisticoLiguria_2013.pdf

47 G. Pagano, Un’università internazionale che guarda al Mediterraneo e all’Africa, “la Repubblica – il Lavoro” 4 agosto 2014

48 http://www.meglio.milano.it/studi impatto.htm

49 M. Castells, La nascita della società in rete, Universi-tà Bocconi Editore, Milano 2002 pag. 14

50 «Genova si innalzò alla dignità di grande città sol-tanto nel secolo XI, quando decadde il predominio saraceno sul mare e le popolazioni del Nord (special-mente gli Artigiani) giunsero fino a Genova per im-padronirsi dei vantaggiosi traffici marittimi. Genova nacque da questa conquista continentale, dall’avva-loramento del colle dei Giovi», F. Braudel, Il Mediterra-neo al tempo di Filippo II (Vol. I), Einaudi, Torino 1986 pag. 334

51 cfr. il sito istitutotarello.org

52 O. Zunz, Perché il secolo americano? Il Mulino, Bolo-gna 2002 pag. 31

53 M Castells, Nascita della società in rete, cit. pag. 69

54 M. Mazzuccato, Lo Stato innovatore, Laterza, Roma/Bari 2014 pag. 261

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7. La legalità, bene comune

Troppo a lungo ignorati dalla pubblicistica e dall’azione preventiva/repressiva degli ordini preposte, gli attacchi sistematici alla legalità sono diventati un fenomeno endemico in vaste zone di Liguria; sia come insediamento della grande criminalità organizzata, sia come formazione di gang etniche quale reazione alla mancata integrazione. Fenomeno che può essere combattuto e vinto solo da una chiamata unitaria di società e istituzioni: la scoperta e la valorizzazione della legalità quale “bene comune” di territorio presuppone coordinamento tra i vari ruoli e monitoraggi delle dinamiche significative. Ma anche assunzione collettive di responsabilità. A partire dalla politica, chiamata a emendarsi da comportamenti che hanno gettato nel discredito il rapporto tra società legale e società giusta.

Narrano le cronache che il vecchio mafioso Tommaso Buscetta, nel suo lungo confronto con Giovanni Falcone, decise di collaborare nel preciso momento in cui percepì che il magi-strato servitore delle istituzioni era portatore di un’idea di moralità incommensurabilmente più alta di quella – primordiale, dove l’onore, ormai, ammantava la prevaricazione – che sino ad allora aveva ispirato la sua vita da boss di Cosa Nostra.

In tempi di infiltrazioni mafiose, ormai giunte sino ai confini liguri con la Francia, ma anche ben oltre, non sembra inutile ricordarlo.

Stato dell’arteLa legalità non è un bene che si possa acquistare o perdere, cui si possa rinunciare o del

quale sia possibile dotarsi, La legalità è – piuttosto – una qualità del vivere sociale in quanto democratico. La legalità – la rule of law, il governo del diritto di cui si parla nei paesi pro-testanti, dove basta la scoperta di aver copiato una tesi di laurea per indurre i governanti a dimettersi – è “il colore” stesso della vita civile. In nome della legalità noi non ci limitiamo a “osservare, rispettare, ubbidire” la legge; noi “siamo” la legge; e “lo siamo” proprio in quanto la legge ci rispecchia. E noi ci rispecchiamo in essa.

Lo Stato è andato assumendo nel tempo il monopolio della legalità, assicurandone il ri-spetto attraverso l’esercizio della forza “legittima”. Ma la forza legge è prescrizione “generale e astratta” che promana da un’autorità. L’eccezione si misura continuamente con la legge, mettendola alla prova. In che misura e in quali circostanze una comunità sente il bisogno di ricorre alla generalità e all’astrattezza della legge, allo Stato e al suo monopolio della forza legittima? In che misura e in quali circostanze, a quali condizioni una comunità può tollerare l’eccezione, la devianza, anche la contrarietà proclamata alle proprie prescrizioni?

Una legge – un regime di rule of law – saranno, paradossalmente, tanto più forti e credi-bili quanto più accetteranno di misurarsi con la prospettiva e le ragioni di chi vi resiste.

Al di fuori di questa prospettiva, crediamo, non esiste democrazia possibile.

Una comunità è necessariamente limitata sia territorialmente che dal punto di vista della popolazione che la compone. Essenziali a una comunità sono condizioni diffuse di ri-conoscibilità, partecipazione alla cosa comune, dibattibilità delle questioni vitali che essa si trova a dover affrontare. In questo senso si impone l’ulteriore distinzione tra “comunità peri-metrale”, che si chiudono davanti all’irruzione crescente dei flussi esterni nel mondo globa-lizzato, e “comunità di progetto”, in cui la dimensione “glocal” (il locale attraversato dal glo-bale) viene affrontata come impegno strategicamente attivo per anticipare e accompagnare le dinamiche del cambiamento.

Questo per dire che la legalità dello Stato deve misurarsi con una legalità relativamente inedita: quella della comunità territoriale e delle sub-comunità che include e riassume.

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Temi, problemi, esigenze diversi da quelli propri della società nazionale chiedono di venire regolati e disciplinati in maniera peculiare.

La gestione del territorio; l’urbanistica e la pianificazione urbana; i rapporti tra indu-stria , agricoltura, turismo; la logistica; il rapporto con le sub-comunità formate dalle etnie che si sono stabilizzate in loco; il dialogo tra città e periferie ; quello tra lavoratori e imprese; gli spazi e le risorse da destinare alla cultura, alle pratiche religiose, all’istruzione e alla for-mazione dei giovani: ecco solo alcuni tra i temi che richiedono una legalità specifica e, per così dire, su misura. Il termine “autonomia” non copre adeguatamente queste frontiere ine-dite, che la legge dello Stato fatica sempre più a coprire.

Una riflessione in questo senso – proprio perché drammaticamente urgente – non può permettersi obiettivi troppo ambiziosi in termini di riforme costituzionali (che richiedono tempi lunghi, prudenza, saggezza e cultura ordinamentale ), ma deve partire dall’esistente, individuando terreni limitati ma praticabili, sui quali erodere o recuperare pazientemente un potere che compete alle comunità.

Mauro Barberis, commentando le tesi sui beni collettivi del premio Nobel per l’eco-nomia 2009 Elinor Ostrom: «le regolazioni che funzionano meglio sono elaborate dal basso (bottom-up), imparando dall’esperienza e sotto il controllo dei diretti interessati. Falliscono egualmente, invece, sia la regolamentazione top-down da parte di organizzazioni pubbliche centralizzate e incapaci di usare la conoscenza diffusa degli interessati, sia lo sfruttamento mordi-e-fuggi da parte di macroimprese capitalistiche, motivate solo dal profitto a breve»55.

* * *

In questa logica (ambiziosamente pro-attiva) ha senso ragionare sullo stato dell’arte della convivenza territoriale partendo dall’angolo visuale dei pericoli che la minacciano: con-centrati o diffusi, micro e macro. Partendo dalla considerazione che la tutela di un ordine legale condiviso presuppone azioni a differenti livelli, in una virtuosa divisione del lavoro tra istituzioni e reti sociali: quello della prevenzione e della repressione dei comportamenti ano-mici, cui sono preposte la magistratura e le varie forze di polizia, e quello del controllo sociale, come presenza attiva nello spazio comune propugnando principi di civiltà, proponendo mo-delli di comportamento attraverso il meccanismo dell’apprezzamento e penalizzando con il discredito (disapprovazione e isolamento) i comportamenti improntati a principi divergenti.

A fronte di queste considerazioni va sottolineato come – prescindendo dagli allarmi-smi genericamente stereotipati – a lungo sia difettata la percezione di minacce incombenti sull’area ligure; che – nel frattempo – si sono giovate della disattenzione collettive per meglio radicarsi ed espandersi.

Scriveva – infatti – ancora una diecina di anni fa un noto sociologo, specializzato nelle te-matiche della devianza, analizzando la situazione nel capoluogo della regione: «la scena crimi-nale di questa città non fa sensazione. Se si esclude la questione dell’insicurezza urbana, frutto di una costruzione sociale in larga parte recente, i mondi criminali di Genova non suscitano, oggi come ieri, un allarme particolare. Il consumo di eroina, che negli anni Ottanta era molto diffuso in città, è ora circoscritto a cerchie di sopravvissuti e di clienti occasionali, mentre lo spaccio non è gestito direttamente da organizzazioni di rilievo. La cocaina e le droghe sintetiche sono trattate da operatori indipendenti e non monopolizzate da veri e propri gruppi. Le associa-zioni mafiose, che qui non hanno mai esercitato il controllo integrale del territorio, sono da tem-po nel mirino della magistrature e, dopo essere state scompaginate da processi e condanne, si stanno probabilmente riorganizzando nei loro principali campi di interesse, il gioco d’azzardo e l’usura. Quanto alla prostituzione maschile e femminile, per quanto diffusa, non si può parlare di reti criminali consistenti, ma di una pluralità di microimprese e di iniziative individuali»56.

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Insomma, si direbbe trattarsi di “un’isola felice”. Oppure di “una costruzione sociale” speculare, di segno opposto rispetto a quella denunciata all’inizio del testo citato.

Lo stesso dicasi per i soggetti inquirenti, troppo a lungo orientati a negare la presenza in Liguria di forme malavitose organizzate e penetrazioni mafiose.

Uno dei primi casi in cui una vicenda criminale con evidenti tratti “organizzati” non ri-uscì a trovare un’adeguata collocazione in tali fattispecie risale al 14 giugno 1984; ed è legato al nome del socialista savonese Alberto Teardo.

“Il caso Teardo” vide l’arresto dell’ex Presidente di Regione Liguria alla vigilia delle elezioni politiche che avrebbero dovuto consacrarlo deputato (con relativa immunità parla-mentare). Le accuse mosse dalla Procura di Savona erano gravissime: associazione mafiosa, concussione, peculato ed altro. Fu una delle prime applicazioni della nuova legge antimafia: sin dalla prima sentenza di merito però, la teoria del giudice istruttore non venne accolta. Secondo l’accusa erano ravvisabili i connotati dell’associazione di tipo mafioso: evidente l’in-timidazione, l’assoggettamento degli imprenditori, la finalità dei profitti ingiusti nella quale venivano fatti rientrare i numerosi illeciti amministrativi consumati (assunzioni senza con-corso, contratti conclusi con trattativa privata in luogo del bando pubblico ecc.).

Teardo sarà condannato, ma non per associazione mafiosa. Vengono dimostrati la con-cussione ambientale, il sistematico rastrellamento di tangenti, l’intimidazione agli imprendi-tori: la Liguria era dominata da un sodalizio politico-affaristico che configurava sì un’associa-zione per delinquere, ma per il Tribunale non era connotata da mafiosità. Emblematiche le parole dei giudici: «occorre non perdere di vista la differenza tra l’arroganza del potere, che è degenerazione del costume politico, e la metodologia mafiosa, attraverso la quale il potere politico viene snaturato. È ben noto che in politica il potere acquisito agevola l’acquisizione di ulteriore potere; è altrettanto noto il fenomeno della lottizzazione politica; è un dato di comune esperienza che il partito o le coalizioni di partiti si sostituiscano alle sedi propri istituzionali, ma tutto ciò non è ancora espressione di violenza mafiosa e nemmeno di illegalità diffusa».

Anche grazie (?) alla rimozione indotta da questo speculare ottenebramento (tanto in-vestigativo come analitico/mediatico) dei fenomeni di sistematica illegalità in radicamento nel territorio, gli ultimi venticinque anni assistono alla trasformazione di vaste aree liguri in zone franche, sempre di più condannate a passare sotto il controllo malavitoso.

Uno stallo durato almeno fino al 2010 quando il fenomeno ‘ndranghetista, investigato senza successo negli anni precedenti, emergeva in tutta la sua consistenza. Negli ultimissi-mi anni si sono infatti susseguiti fatti gravissimi: i politici intercettati e indagati per voto di scambio, l’indagine “Maglio 3”, lo scioglimento dei Comuni di Bordighera e Ventimiglia, il procedimento “La Svolta”, andato a sentenza il 7 ottobre 2014 dinanzi al Tribunale di Imperia.

Del resto non è solo la ‘ndrangheta, ossia l’organizzazione mafiosa attualmente più po-tente, a cercare riparo o fortuna in Liguria. Il centro storico di Genova – in particolare – vide prima le scorribande dei camorristi napoletani, poi l’insediamento dei mafiosi siciliani. Tra l’altro, l’azione dura della magistratura nei confronti in particolare di Cosa Nostra ha consen-tito, per effetto collaterale, alla ‘ndrangheta di rafforzarsi, sfruttando il noto cono d’ombra.

Sin dagli anni ’60 arrivarono numerose famiglie criminali. I napoletani furono i primi, sotto la guida di Giovanni Fucci (Mano e Pece) e della compagna Carmela Ferro (Marechiaro). Parallelamente si insediò a Genova Antonio Rampino, ritenuto a lungo il capo della comuni-tà calabrese, al cui funerale nel 2008 parteciparono Mimmo Gangemi, Onofrio Garcea Mezza-lingua, Carmelo Gullace, i Barilaro, Antonio Romeo, Giuseppe Caridi, tutti soggetti indagati per mafia negli anni successivi.

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All’inizio degli anni ‘90 l’operazione “Taurus” fece luce sulle cosche Asciutto-Neri-Gri-maldi e Avignone-Zagari-Viola, aspramente rivali nel corso della seconda guerra di mafia e anche per questa ragione rifugiatesi con alcuni esponenti al Nord.Arrivarono le condanne, anche severe, per traffico di droga in particolare, ma non fu ricono-sciuto il 416 bis.

Ancora una volta, i giudici ebbero problemi a dimostrare il clima di assoggettamento ed omertà come connessione organizzativa.

Si nota – così – una profonda distonia con quanto sostenuto dal Ros e dalla stessa magi-stratura inquirente: come accadrà anche in seguito, le ricostruzioni dell’accusa non trovano fortuna presso i collegi giudicantii, poco inclini ad attribuire la patente di mafiosità alle co-sche delocalizzate sul nostro territorio.

Alla fine della prima decade di questo secolo la Liguria si risveglia di soprassalto dopo un lungo torpore, sebbene già il sindaco Marta Vincenzi avesse più volte lanciato l’allarme ‘ndrangheta. Infatti il Prefetto Musolino, subentrato ad Anna Maria Cancellieri, denuncia chiaramente la sottovalutazione del fenomeno: a tale scopo nel 2011 consegna alla Commis-sione parlamentare antimafia in visita a Genova una relazione durissima, in cui si Sottolinea il mimetismo delle cosche, dedite al riciclaggio nell’investimento speculativo, alle attività commerciali, all’edilizia; ancora, l’infiltrazione del movimento terra, il traffico illecito di ri-fiuti, l’usura, il traffico di droga, il subentro nelle imprese in crisi. Immancabile, infine, il condizionamento della politica. Il velo di ipocrisia era stato squarciato.

A seguire, all’alba del 3 dicembre 2012, un elicottero dei Carabinieri atterra sulla piazza del Comune di Ventimiglia: una sessantina di soggetti sono indagati, 13 finiscono in carcere, le abitazioni dei sindaci Scullino (Ventimiglia) e Bosio (Bordighera) vengono perquisite. La ri-chiesta di misura cautelare del pm Arena vedeva coinvolte 36 persone. Troviamo nomi storici già finiti nel “Colpo della strega”, come quello di Antonio Palamara; vi sono poi i Marcianò: il padre Giuseppe, il figlio Vincenzino e il nipote Vincenzo; ci sono i quattro fratelli Pellegrino di Seminara (RC); ancora, Giuseppe Gallotta attivo nell’usura e nel traffico di droga, Omar Allavena (ex vigile), Nunzio Roldi ed Ettore Castellana.

L’indagine rappresenta il necessario completamento di una precedente, denominata “Maglio 3”, cui – in effetti – avrebbe dovuta essere riunita per fornire un quadro dettagliato e completo sull’attività delle cosche liguri. Non a caso ritroviamo indagati alcuni soggetti assol-ti nel primo procedimento: Fortunato e Francesco Barilaro, Benito Pepé e Michele Ciricosta.

Finalmente vengono evidenziati numerosi reati-fine: estorsioni, traffico di droga, usu-ra, voto di scambio; c’è l’infiltrazione documentata negli appalti pubblici. Il metodo mafioso tanto agognato dalla magistratura giudicante finalmente viene fuori in tutta la sua portata.

L’esempio più lampante è costituito dai Pellegrino, domini di Bordighera, contro i quali si scaglia talora lo stesso Marcianò, che li reputa troppo “rumorosi”. I Pellegrino infiltrano pesantemente l’amministrazione comunale, sono “amici” su Facebook di alcuni consiglieri ed hanno avuto un uomo nella giunta, Rocco Fonti. Sostengono Eugenio Minasso sin dalle politiche del 2006.

L’amministrazione è talmente contaminata da “dimenticare” la richiesta del casellario giudiziario ai Pellegrino, che regolarmente vincono commesse. Si accaparrano subappalti, detengono il monopolio del movimento terra, realizzano attentati incendiari a danno di al-tre imprese, come accade ai mezzi della “Tesorini” di Bordighera. Nel frattempo, il night “Le grotte del drago”, feudo di ‘ndrangheta e serate bollenti, è fatto passare per circolo sportivo col benestare del Comune.

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I Pellegrino avevano dato rifugio a Carmelo Costagrande, latitante arrestato nel 2006, hanno un tenore di vita spropositato e trafficano droga.

Come scrivono due giornalisti genovesi, al di là del singolo episodio, è evidente il mo-saico che «al sud si chiama mafia, senza tanti giri di parole». Poi ci sono – sempre oggetto di sussurri, più che di esplicite e coraggiose prese di posizione – i rapporti della malavita organizzata con la politica: anche se – al riguardo – si sono accesi i riflettori sulle Regio-nali del 2010, che hanno visto un sicuro inquinamento del voto. E, non a caso, si registra-no nelle intercettazioni telefoniche addirittura scontri tra gli uomini dei clan, in quan-to i paesani da sostenere erano “troppo numerosi”. In particolare nell’area centro-ovest. Il 7 ottobre 2014 è giunto sentenza il processo “la Svolta” (‘ndrangheta nel Ponente) con le storiche 16 condanne per 416 bis e pene fino a 16 anni.

In conclusione, che il Ponente sia terra pesantemente infiltrata non è più una novità. E non mancano neppure esempi di “servitori infedeli”. Basti ricordare il caso del Presidente del Tribunale di Imperia Boccalatte, condannato per corruzione in atti giudiziari per aver “aggiustato” alcuni procedimenti riguardanti i clan.

Ma il quadro non si riduce soltanto a questi aspetti, già di per sé oltremodo inquietante.Infatti, nel frattempo mettono radici fenomeni di anomia strettamente dipendenti dal vuoto di governo politico in materia di accoglienza: le bande etniche.

In larga misura di matrice latino-americana: di comune provenienza equadoriana i “La-tin Kings”, che presidiano in prevalenza l’area di Fiumara; mentre “Los Toros” sono una forma-zione multietnica di giovanissimi (trai 15 e i 21 anni), oggi data per sgominata, che operavano nel centro storico: una baby gang dedicata a sfogare il proprio risentimento da emarginazio-ne praticando una sorta di “esproprio proletario” (quello che chiamavano “rapine ai figli di papà”: i loro coetanei indigeni aggrediti in quanto possessori di articoli con marchi del lusso).

Tutte aggregazioni generazionali date in continua ricostituzione e – al tempo stesso – segnalate sempre più frequentemente in contatto con la malavita organizzata (senior) dei loro Paesi d’origine.

Un fenomeno, quello dei guerrieri della notte” extracomunitari, che ora tende a esten-dersi pure alla componente maghrebina, come verificato in recenti risse che hanno terroriz-zato le notti nel quartiere di Sampiedarena.

* * *

A fronte di un quadro penale oltremodo inquietante, sussistono problemi infinitamen-te meno cruenti ma non per questo trascurabili in materia di giustiza civile, che si inserisco-no nella situazione nazionale già di per sé tendente al collasso.

L’Italia al momento si attesta su una media di circa 570 giorni per la definizione in pri-mo grado di una lite, un tempo spropositato, unico nel panorama occidentale (che rimane ampiamento entro l’anno, 240 giorni). La durata complessiva della causa, complici i tre gradi di giudizio, può arrivare a 7 anni (dati Ocse).

Per quanto riguarda la situazione ligure, il dato che balza immediatamente agli occhi è l’accumulo di pratiche pendenti. Anche se – in base a quanto viene ufficialmente dichiarato dal Palazzo di Giustizia genovese – “nel corso del 2012 è stato potenziato l’obiettivo di smal-timento dell’ arretrato civile che ha portato all’abbattimento del 92,7% delle cause ordinarie iscritte a ruolo ante 2009 ( alla fine del 2008 le controversie pendenti erano 16.084 ), per cui l’ attuale pendenza residua risulta essere del 7,3%, corrispondente a n. 1167 controversie, di cui n. 537 anteriori al 2008 e n. 630 del 2008, a cui vanno aggiunte le cause iscritte nel 2009 tuttora pendenti in n. 1564, quindi in totale n. 2731 controversie relative a procedimenti ar-retrati iscritti da più di tre anni. La pendenza relativa alle cause iscritte da oltre tre anni incide attualmente nella misura del 19,7% sulla pendenza complessiva ( nel 2010 rappresentava il

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30,3% della pendenza complessiva ), per cui oggi i giudici del Tribunale di Genova trattano controversie che, per oltre l’ 80% del totale, sono di durata inferiore alla soglia dei tre anni”.

Questo è quanto si legge nella Relazione in data 12-12-2012 predisposta dal Presidente del Tribunale ed annessa al Programma di gestione relativo al Settore civile.

Le soluzioni che si dichiara di voler mettere in campo sono la razionalizzazione degli uffici e l’informatizzazione. Ossia ricette di generico buon senso astratto, che ritengono di risolvere il problema operando per linee interne, facendo appello a mosse presunte risolutive quanto miracolistiche. Forse una maggiore attenzione al contesto culturale e antropologico del luogo in cui avvengono i contenziosi, alla ricerca di cooperazione e sinergie, potrebbe fa-vorire l’acquisizione di buone pratiche e comportamenti facilitativi. Ad esempio il diffonder-si di composizioni extragiudiziarie delle liti, quale inversione di tendenza della vertenzialità oltre la ragionevolezza, tipica di società arretrate.

Le possibili risposteÈ crescente convinzione che, al di là dei Governi (locali o nazionali) e delle norme (buo-

ne o meno buone), sia fondamentale dare vita un movimento culturale e sociale di cittadini per risolvere i problemi del nostro tempo. In primo luogo la riconquista alla legalità dello spazio pubblico.

Quindi, si tratta di condividere una visione di società che pretenda l’impegno di ognu-no, nel rispetto dell’altro. A tale proposito diventa indispensabile insegnare lo “stare insie-me” sin da piccoli, il senso del dovere, l’importanza delle regole.

Fa testo la situazione del centro storico genovese: dopo anni di obiettivo abbandono, caratterizzati dalla rassegnazione dei cittadini anche più volenterosi, negli ultimi tempi il contesto inizia a cambiare. Non si può negare che – per esempio – alla Maddalena sia fiorita una serie di attività che mirano al riscatto sociale e alla rinascita del territorio. Si pensi a Libe-ra, associazione antimafia, che cogestisce una bottega confiscata al mafioso Rosario Caci in Vico Mele 14; all’associazione AMA, abitanti della Maddalena, che si occupa di alcuni spazi, promuove eventi e occasioni di incontro, lavora ad un giornalino di quartiere ed altro ancora; ci sono poi gli scout ed il Cngei, c’è la parrocchia delle Vigne, c’è il doposcuola del Formicaio dedicato soprattutto ai figli di stranieri. Andando verso la zona di Principe c’è la Comunità di San Benedetto che, pur orfana di Don Gallo, prosegue le proprie attività; e così via. Non c’è realtà a Genova in cui il degrado non si affianchi a qualche meritevole iniziativa.

Questa la ragione per cui si può affermare tutto, tranne che sia mancata la volontà di im-pegnarsi sul territorio: l’educazione alla legalità, pur con i limiti propri dell’improvvisazione, è stata effettivamente portata avanti. Eppure, dovendo fare un primo bilancio dell’esperien-za, permangono situazioni di grave disagio; che non di rado sembrano aggravarsi.Lo spaccio di droga e la prostituzione pullulano in pieno giorno anche in zone centrali, uniti al consumo di alcoolici sempre massiccio. La politica ha deciso di abbandonare intere aree del centro storico, di non occuparsene, da molto tempo. I carabinieri e i vigili non si azzardano (per loro stessa ammissione) ad entrare in feudi che ormai appartengono a bande più o meno pericolose.

Che fare? Abbiamo toccato con mano che anche le migliori iniziative non riescono a sfondare, se collocate nei posti inadeguati. La bottega di Libera, che vende prodotti realizzati sui beni confiscati alle mafie e potrebbe essere un punto di incontro per il quartiere, è sem-pre deserta, perché sostanzialmente la cittadinanza ha paura di entrare in certi caruggi; se ne guarda bene. Gli unici momenti in cui il quartiere sembra rinascere, davvero, nella sua inte-rezza, sono costituiti dalle periodiche fiere, come quella di maggio, in cui l’abbondanza dei

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banchetti per le strade costringe la criminalità alla ritirata. Ma non si può vivere di fiere tutto l’anno. Occorre, alla Maddalena come altrove, che sia possibile girare serenamente. È noto che i passanti, autoctoni o turisti, percorrono serenamente via San Lorenzo, Campetto, via degli Orefici, piazza Banchi, ma non si azzardano ad entrare nel cuore del sestiere più difficile.

Prima di ipotizzare qualunque nobile iniziativa è dunque imprescindibile – è l’ora di dirselo chiaramente – garantire elementari condizioni di sicurezza. Lo spaccio avviene da-vanti ai nostri occhi, ogni giorno: le Istituzioni non lo sanno? Certo che sì, ma non se ne oc-cupano. Perché?

La situazione del centro storico deve avere la priorità: si tratta di reprimere le emergen-ze delittuose ma soprattutto comprendere l’origine di certi fenomeni. Chi gestisce la prosti-tuzione? Chi traffica la droga? Le forze dell’ordine non possono occuparsi di manifestazioni (pacifiche), eventi sportivi, multe e quant’altro senza volersi cimentare con questa situazio-ne. Qui si gioca la partita vera.

Una volta bonificato il territorio con una inevitabile repressione di certi fenomeni delit-tuosi, si tratta di creare le condizioni per un ritorno a nuova vita di questi luoghi.

Una volta diffusasi l’idea che un quartiere non è più luogo di criminalità, tutte le attività già presenti acquisirebbero nuovo appeal. Non possiamo continuare a straparlare di educa-zione alla legalità come panacea di tutti i mali, comodo alibi per non affrontare i temi relativi alla sicurezza e alla rilevanza penale di certe manifestazioni. Ognuno faccia la sua parte: la politica e le forze dell’ordine la loro, l’associazionismo la sua. Non sta a Libera o ad AMA combattere il traffico di droga: costoro si occupano semmai di evitare che i giovani ragazzi entrino nel giro.

Alla Maddalena ci sono ancora splendide e storiche botteghe, un teatro, asili e scuole: i cittadini non frequenteranno intensamente questi posti (come sarebbe necessario per la necessaria bonifica sociale) finché non saranno le istituzioni a dimostrare con i fatti di voler puntare su questa zona, sottraendola alla criminalità (anche mafiosa, come recenti inchieste hanno documentato).

Peraltro, sono stati recentemente confiscati alla famiglia Canfarotta, originaria di Pa-lermo, responsabile di sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento dell’immigrazio-ne clandestina un centinaio di immobili(seppure di piccole dimensioni e in cattivo stato). Il riutilizzo di tali beni a scopi collettivi offre grandi prospettive di sviluppo e rinascita. Il Comune se ne sta occupando: occorre trovare i fondi per dare linfa ai vari progetti. Si tratta di raggruppare questi beni, metterli a posto e promuovere bandi che effettivamente ne garan-tiscano un reimpiego proficuo. È un’occasione unica, mai avutasi prima.

La buona politica si gioca su questo terreno: il rifiuto del degrado morale come destino ineluttabile che divenda grido generalizzato.

Dunque,→ il primo passo spetta alla politica: la promozione di un clima di mobilitazione collet-

tiva per la riconquista dello spazio pubblico all’agibilità civile e democratica. A cui deve fare seguito la stipula di un’Alleanza per la Legalità, che abbia come contraenti le istituzioni, le forze dell’ordine e l’intera cittadinanza organizzata. Tale Alleanza può tradursi nel dare vita a un forum di coordinamento, incontro e socializzazione tra i vari soggetti per fornire indirizzi unitari ai rispettivi ruoli. Il primo passo potrebbe essere la realizzazione di un osservatorio permanente sulla devianza e la criminalità (per fraccogiere informazioni ma anche dove tro-vare il coraggio di denunciare fenomeni collusivi). Può servire da esempio l’esperienza (per certi versi pittoresca) di Bogotà legata al nome di Antanas Mockus, il matematico e filosofo già rettore dell’Università cittadina, che, eletto alcalde (sindaco) nel 1995, ha lottato con suc-

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cesso per riportare alla legalità una delle metropoli con più alto tasso di inquinamento ma-lavitoso al mondo, quale la sua. Le sue armi, rivelatesi vincenti, erano l’esempio e il convinci-mento. Ma anche la teatralizzazione (arrivando al punto di abbassarsi i pantaloni in pubblico per protestare platealmente contro l’inciviltà);

→ l’esperienza insegna che occorre ritornare a vivere nelle aree attualmente sottratte alla fruizione da parte della vita civile quotidiana. Per la loro riappropriazione collettiva. E – al riguardo – decisivi si rivelano gli insedamenti a cluster dell’economia legale, che assicu-rino loro un rinnovato valore d’uso; come un sistematico ritorno alla frequentazione da parte della cittadinanza, giovanile e non. A tale riguardo le recenti retoriche da “sindaci sceriffi” in guerra contro le “movide” che riportano la rivitalizzante presenza giovanile in quartieri altri-menti abbandonati sono da respingere con decisione, in quanto negative e controproducenti (ovviamente a fronte del necessario rispetto delle elementari regole di civile convivenza. Ma senza eccessi intimidatori, in base a una logica benpensante da Maggioranza Silenziosa del tutto fuori luogo). Dunque, favorire la rifioritura nei quartieri oggi abbandonati di botteghe artigiane, piccoli esercizi commerciali (magari la libreria all’angolo come luogo d’incontro), locali vari che illuminino con le loro vetrine vie oggi finite in penombra e – con la loro stessa presenza – fungano da presidio civico. L’economicità come attivatore di civismo;

→ anche in questo caso acquisisce particolare valore il fattore umano, in quanto testi-monianza esemplare in chiave comunicativa e relazionale. Come ribadito già in altri ambiti, la cultura della legalità si coltiva attraverso un’opera sistematica di trasmissione accreditati-va, a “catena di Sant’Antonio”, che sovente parte dalla scuola e rimbalza attraverso studenti e studentesse fino alle rispettive famiglie. Allo stesso modo sono ipotizzabili campagne di sensibilizzazione attraverso eventi (magari mirati a specifici target; di quartiere, etnici o ge-nerazionali), che forniscano il senso dell’impegno unitario come sfida collettiva E ridiano ai partecipanti il coraggio di reagire e resistere grazie al conforto assicurato dalla vicinanza solidale. Ma affinché tutto questo si realizzi diventa fondamentale far percepire che dietro la forma esiste una sostanza, assolutamente reale quanto preziosa: la società obbediente alle leggi come società giusta. Un messaggio che passerà nella misura in cui la politica territorale saprà essere “vetrina”, combattendo ogni degenerazione sul fronte etico a partire dal proprio interno; dalle proprie pratiche quotidiane, oggi troppo sovente sporcate da una serie inin-terrotta di scandali. La legalità tutelata e promossa come “bene comune” di territorio (non meno dell’acqua o dei boschi), per cui valga la pena che ognuno si impegni a difenderla; nel rifiuto di civiltà della sequenza barbarica prepotenza – violenza – umiliazione.

Per quanto riguarda il miglioramento possibile in materia di legalità civile – ferma re-stando l’ovvia considerazione secondo cui la crisi della giustizia è questione che fuoriesce dagli ambiti regionali – appare comunque opportuna la promozione di modalità alternative di risoluzione delle controversie: in ottica deflattiva, si offe alle parti una serie di strumenti per porre fine ad una lite evitando il processo civile ordinario. Negli Usa si chiamano Adr (alternative dispute resolution). Si continua a puntare sulla mediazione, si è introdotta la ne-goziazione assistita, si vuole potenziare l’arbitrato.

Václav Havel, straordinario combattente per la libertà al tempo delle “rivoluzioni di vel-luto” a Est, propugnando la legalità come “il potere dei senza potere”, scriveva: «un futuro più luminoso è veramente e sempre soltanto il problema di un lontano là? Non è, invece, qualco-sa che è già qui da un pezzo e che solo la nostra miopia e la nostra fragilità ci impediscono di vedere e sviluppare intorno a noi e dentro di noi?»57.

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Note

55 M. Barberis, L’eresia e l’abracadabra, “Critica Liberale”, maggio-giugno 2013

56 A. Dal Lago ed E. Quadrelli, La città e le ombre, Feltrinelli, Milano 2003 pag. 29

57 V. Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991 pag. 103

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8. Guerre tra ultimi, abitare e integrare

In un territorio che decresce demograficamente e del tutto carente in materia di politiche dell’accoglienza, si stanno scatenando pericolosissimi conflitti tra ultimi e penultimi. La “questione casa” diventa uno dei punti di maggiore criticità, che – anche a seguito della dismissione del patri-monio abitativo pubblico – tocca non soltanto le fasce “estreme” della popolazione ma coinvolge in misura crescente i presunti “garantiti” (in caduta libera verso la proletarizzazione). Il ripristino di legature sociali passa anche attraverso la valorizzazione dell’associazionismo di quartiere. Soprat-tutto perseguendo una “Alleanza Civica per l’integrazione” e forme sistematiche di collaborazioni triangolari tra istituzioni, scuole e aggregazioni di territorio. Una politica per l’abitare a vantaggio delle categorie più deboli.

Lo stato dell’arteCome già prevalentemente sottolineato, l’area ligure è affetta da decrescita demografi-

ca e da contestuale invecchiamento di lunga durata. Un saldo negativo che può essere inverti-to solo grazie a una gestione attiva dei flussi immigrativi (Allegato H). Partendo dal principio che tali flussi sono strutturati e – quindi – gestibili. Fermo restando che – come denunciato dalla sociologa urbana Saskia Sassen – «si continua a trattare l’emigrazione per lavoro come se fosse l’esito di azioni individuali, come se le cause fossero estranee alle possibilità di con-trollo dei luoghi di destinazione, e dunque la politica in materia dovesse limitarsi a un’acco-glienza più o meno benevola»58.

In un tale contesto, il già tratteggiato deficit ligure relativamente alle politiche per la coe-sione, va a saldarsi nelle speculari carenze in materia di accoglienza e integrazione; tanto da de-terminare un vero e proprio cortocircuito nella civile convivenza. In particolare – a fronte – del ce-dimento delle tradizionali istituzioni sociali dell’integrazione primaria, a partire dalla famiglia.

Fenomeno che comincia ad evidenziarsi nei nuclei di immigrati provenienti dal Mah-greb, sotto forma di conflitto generazionale in atto tra genitori e figli, soprattutto i ragazzi di età attorno ai 18/20 anni (mentre le ragazze – allo stato attuale dei fatti – appaiono ancora in-serite nell’ordine gerarchico-patriarcale); i quali ventenni extracomunitari ostentano una oc-cidentalizzazione spinta quale manifestazione di indipendenza rispetto al nucleo originario; che crea rotture insanabili nel tessuto familiare e – soprattutto – recepisce il peggio del nuovo modello. Non solo simbolicamente. In particolare l’abitudine ad assumere superalcolici.

Un fenomeno di rifiuto delle tradizioni che nei Paesi occidentali di più antica immigra-zione – ad esempio la Francia – e nelle terze/quarte generazioni immigrate viene sostituito dal fenomeno inverso, a seguito della frustrazione da mancato inserimento nella società in-digena: l’ostentazione di simboli identitari – ad esempio il “velo islamico” – per l’afferma-zione provocatoria, al limite plateale, di un’appartenenza antagonistica in cui si è rifluiti/e, sostanzialmente come rivalsa.Comunque, terreno simbolico altamente conflittuale. Tra l’esclusione e l’assimilazione.

Ovvero, un uso simbolico di ritorno. Come è stato messo in luce da un’osservatrice esperta quale la professoressa Nilüfer Gole, già docente dell’Università del Bosforo e ora di-rettore a Parigi dell’École des hautes études en sciences sociales, «è certamente vero che il velo è un simbolo politico, ma la difficoltà risiede precisamente nel fatto che esso non è più indos-sato dalle donne anziane, e lo è invece da giovani donne attive e ambiziose, che insistono per essere incluse nello spazio della modernità… Il modo scelto per reintrodurre la religiosità negli spazi della modernità laica esprime una resistenza contro l’assimilazione, una critica della modernità»59.

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In ogni caso – per quanto attiene alla governance di territorio – queste dinamiche de-terminano la sostituzione della “logica del branco” alla relazione familiare. Cioè le tribù generazionali caratterizzate da una totale omologazione interna e da una chiusura – per così dire – “militarizzata” nei confronti dell’esterno.

Fenomeno riscontrabile – per altri versi – anche nelle comunità provenienti dall’Ecua-dor; sebbene, in questo caso, non si tratti più di famiglia patriarcale quanto di “matriarcato per necessità” (le badanti venute a lavorare in Liguria con i figli ma lasciando il marito in patria), in cui la madre non è in grado di svolgere le proprie funzioni in quanto impegnata nella propria attività larga parte della giornata. Difatti questi ragazzi abbandonati a se stessi si ritrovano in luoghi di incontro tra affini (ad esempio la genovese Fiumara), dando vita a bande etniche (le Pandillas) tendenzialmente anomiche (si segnalano contatti con la mala-vita organizzata dei Paesi d’origine che potrebbe trasformare i giovani immigrati in futura manovalanza del crimine; ad esempio come pusher).

Una casistica altrettanto preoccupante – determinata anch’essa dall’assenza di qualsi-voglia politica dell’accoglienza e dell’integrazione – è quello che riguarda le comunità cilene, per l’abitudine a far ritornare in patria le partorienti e poi lasciare i figli in custodia ai parenti: saranno fatti venire in Italia per la ricongiunzione al proprio nucleo soltanto attorno agli otto anni; con evidenti problemi di inserimento (vedi l’educazione scolastica) di questi bambini, che li predispone a un impietoso destino di disadattati; con effetti forieri di ulteriori aggra-vamenti sociali.

In effetti si direbbe che le antenne del soggetto pubblico locale, a fronte di questa con-gerie di problemi, che partendo dall’integrazione vanno a investire le problematiche della convivenza, segnalino soltanto aspetti economicistici sostanzialmente marginali (a fronte di potenzialità a dir poco esplosive); tipo il pagamento dell’affitto dell’abitazione. Questo di-pende dal fatto che non è stata attivata alcuna opera di educazione/presidio del territorio, mentre si segnala il depauperamento di quel poco che si faceva in passato per il presidio, a seguito dei ricorrenti tagli alle risorse materiali ed umane (in una malintesa e – di fatto – irre-sponsabile spending review). In effetti va rilevato che questo si verifica a fronte di dati numeri-ci ormai di non più accantonabile rilevanza nella composizione sociale del territorio.

Nel caso di Genova, sui 600mila abitanti circa del capoluogo, 16mila risultavano immi-grati dall’Ecuador (dato del 2006, oggi si ritiene arrivino a 30mila) e oltre 5mila dal Mahgreb. Sicché risulta drammaticamente evidente come lo governo della questione abbia dissipato importanti opportunità coalizionali.Infatti, a fronte di spinte centrifughe rappresentate da componenti (minoritarie) delle gene-razioni più giovani, questi gruppi mantengono al proprio interno valori coesivi (leggi spirito comunitario; ancora fortissimo – ad esempio – nelle comunità marocchine) che avrebbero dovuto essere valorizzati dalle amministrazioni locali per migliorare la qualità della convi-venza e l’integrazione. In pratica, le istituzioni locali preposte alle questioni relative alla so-cialità non hanno mai coltivato le potenzialità relazionali insite nella cultura di questi gruppi sociali; nella logica del “finché la barca va…”. Tanto da risultare prive della capacità di gover-nare la situazione qualora inizino a manifestarsi tendenze alla disgregazione produttive di effetti incontrollabili.

A peggiorare ulteriormente un quadro, già di per sé gravido di potenziali conflitti mol-teplici (all’interno delle stesse comunità immigrate nell’impatto con l’ambiente, tra diverse etnie di immigrati e tra immigrati ed indigeni), si aggiunge un fenomeno deteriore, tipico della politica in questa fase storica: il prevalere di una cinica logica da marketing, in cui gli esponenti di partito inseguono il loro target elettorale su contenuti a prescindere.

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Tradotto, questo significa che viene segnalato il fatto per cui talune componenti po-litiche dei vari Municipi gettino benzina sul fuoco agitando tematiche xenofobe in chiave verbalmente terroristica, nella convinzione di vellicare – così facendo – i bassi istinti sciovini-stici della cittadinanza: la traduzione in chiave di quartiere delle cosiddette “politiche della paura”, finalizzate demagogicamente a mettere contro; i conflitti indotti dei penultimi con-tro gli ultimi. Ad esclusivo vantaggio di spregiudicati “imprenditori di partito (e di se stessi)”.

D’altro canto, la crisi dell’ordine tradizionale a fondamento familistico, in l’assenza di qualsivoglia opera di socializzazione di rimpiazzo, è riscontrabile altrettanto nel caso delle giovani generazioni indigene.

Aspetto che assume particolare evidenza e rilevanza, date le maggiori dimensioni urba-ne, proprio nella realtà genovese. Il tutto acuito dalla crisi economica del modello produttivo novecentesco che diventa sociale.

In effetti – venendo meno una proposta unificane dell’universo urbano, surrogatoria di quella che era l’antica idea di “città industriale” – si assiste a una fuga per la tangente e in or-dine sparso dei vari quartieri, alla ricerca di una personale uscita di sicurezza dall’impasse. In larga misura attingendo all’idealizzazione di una memoria storica con funzione identitaria (la tradizione operaia da “cittadella rossa” a Sestri Ponente o – forse e in misura minore – al Lagaccio, dove tracima in “rabbia da abbandono”; la visione favolistica da “comune rusti-co” a Molassana e Pontedecimo, come nostalgia dell’ambiente incontaminato di un passato pre-industriale agricolo e artigiano).

Dunque, la sopravvivenza di quartiere come costruzione di “identità resistenziali” quali sostitutivi di ragioni “alte” (civiche) della convivenza. Che – proprio in quanto non riconduci-bili a unità più generali – aumentano le fratture da separatezza isolazionistica che segmenta-no lo spazio urbano, aumentando l’incomunicabilità tra le sue varie parti.

A fronte dell’incapacità della politica di proporre “identità progettuali”, in quanto in-venzione propositiva di un comune futuro.

Soprattutto, opera di rassicuramento psicologico che parla in un linguaggio compren-sibile solo e soltanto alle generazioni degli over quaranta, quanto del tutto privo di intellegi-bilità per ventenni sprovvisti di riferimenti culturali che consentano di ricostruire mental-mente, – fornendo senso e significati – a mondi per loro remoti; quali la fabbrica o il modo di produrre agricolo/artigiano.

Una realtà in cui si diffonde la tipologia del cosiddetto Neet (not engaged) in educa-tion, employement or training), ossia la fascia generazionale tra i 15 e i 29 anni che si è pre-ventivamente ritirata dalla corsa per costruirsi un futuro ponendosi ai margini della società, scegliendo di rinunciare alla competizione ancora prima di esservi entrata. Secondo l’Agen-zia Lavoro Liguria, al 2010 i Neet assommerebbero al 15,6% della coorte generazionale corri-spondente (18.000 soggetti); mentre alla stessa data gli abbandoni scolastici erano segnalati al 16%.

La “questione casa”Per quanto riguarda l’aspetto più direttamente “materiale” della questione, si può no-

tare come le politiche abitative in Liguria (e nel resto dell’Italia) siano un valido punto di vista al fine di mettere a fuoco stringenti criticità per quanto riguarda le condizioni di vita delle persone; anche in questo caso nell’ottica della loro prima agenzia di socializzazione sotto minaccia: il nucleo familiare.

Un sensibilissimo sensore del “disagio”, dunque; intendendo con tale formulazione le condizioni di quanti sono costretti a destinare il 40% del proprio reddito ai costi dell’abitare (in passato la soglia era fissata al 30%).

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Il primo dato che emerge dall’adozione di tale ottica è la smentita dell’assunto che que-sta condizione si circoscriva soltanto a fasce estreme della popolazione.

Infatti autorevoli ricerche – condotte da Nomisma e Banca d’Italia – hanno quantificato (probabilmente sottostimandolo) tale “disagio” in almeno 3,5 milioni di casi: ossia il 17/18% dell’intero universo famigliare (il dato complessivo ammonta a 21 milioni). Quindi, non solo le fasce sociali del lavoro precario/intermittente/assente, bensì soggetti inseriti nell’area pre-sunta “garantita” e ora in caduta libera da impoverimento; di cui attualmente un milione di casi è sottoposto a procedure escussive del bene-abitazione e un altro milione vive nell’ango-scia dell’incombere di tali atti ingiuntivi nell’arco dei successivi 12 mesi.

Quanto risulta è un diffuso processo di proletarizzazione, nel radicale cambiamento delle quote nazionali di detenzione della proprietà: solo il quintile più agiato si può concede-re ancora il lusso dello shopping; a fronte dell’ultimo ormai regredito a livelli del 1974. Per di più emerge in tutta evidenza l’aspetto mistificatorio del luogo comune secondo cui esistereb-be una propensione nazionale alla proprietà del bene abitativo.Semmai – a tale proposito – assumono piena evidenza gli effetti derivanti dalla scomparsa di un ruolo pubblico relativo. Abbandono articolato in tre modalità, già a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso:

→ pressione sui privati ad accedere alla proprietà abitativa attraverso l’indebitamento facilitato con gli Istituti di Credito. In questo caso si è in presenza di una pionieristica appli-cazione del cosiddetto “keynesianesimo privatizzato”60, che caratterizzerà le politiche Neoli-berali del decennio successivo, volte a operare mastodontici trasferimenti di ricchezza verso gli strati più elevati della società (se nel modello originale – legato alle teorizzazioni di John M. Keynes – l’uscita dalla crisi avveniva attraverso l’indebitamento, nelle forme dell’investi-mento pubblico, ora l’onere dell’assunzione del debito grava sull’area mediana della società attraverso precarizzazione e impoverimento);

→ dismissione del patrimonio abitativo pubblico. Ad esempio nel 1990 il Comune di Genova era titolare in proprio di 4.500 alloggi, poi esitati al 90% (4.000) durante l’amministra-zione Pericu. Sicché, a fronte del prosciugamento di importanti risorse al servizio di politiche attive per abitare, riscontrabili in tutte le aree liguri, la Regione ora si fa carico di mettere a disposizione, di chi acquista la propria casa, contributi a pioggia e a costo zero; che – in effetti – ripropongono logiche di spinta all’indebitamento di cui al punto precedente;

→ tentativo di spegnere i focolai di crisi con un’apertura di credito nei confronti della rendita fondiaria, facilitando con la de-regolazione (riduzione degli oneri edificativi, conces-sione di aree a titolo gratuito e a destinazioni d’uso miste, autorizzazione di ampliamenti volumetrici) la costruzione di nuovi edifici, definiti di “edilizia sociale” (“Piano casa” 2008 del governo Berlusconi) In tale contesto le Regioni erano chiamate a legiferare per il discipli-namento e l’Ente Liguria si è distinta in quanto a lassismo: tanto per gli aumenti volumetrici come per l’abbassamento dei parametri di accesso agli incrementi.

Scelte profondamente erronee, che discendono – tra l’altro – da un ritardo culturale: se nelle due precedenti crisi immobiliari dell’età repubblicana (1949, le distruzioni belliche affrontate con una certa efficacia dal “Piano Fanfani”; 1971, rarefazione dell’offerta a seguito della migrazione biblica verso il Nord industriale di 9 milioni di meridionali) nascevano da carenza di alloggi; la situazione attuale, con i suoi 2,5 milioni di alloggi non turistici abban-donati, nasce da condizioni totalmente diverse; e richiede approcci alternativi: il problema non è più costruire, bensì quello di portare a condizioni di accessibilità un mercato impazzi-to per assenza di regolazione.

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In effetti, anche grazie alle dissennate dismissioni di cui si diceva, il patrimonio pub-blico nazionale è andato riducendosi al 3% del complessivo; a fronte di medie europee del 10/12%, con punte del 20%. Una situazione che determina conflitti. I più drammatici dei qua-li sono quelli che solitamente vengono definiti “guerre tra ultimi”, in cui antagonizzano tra loro homeless, abitanti a rischio di sfratto e quanti sono in attesa delle assegnazioni di abita-zioni pubbliche (in quest’ultimo caso, 900mila famiglie già vivono in tali alloggi; a fronte di altrettante le quali sono in graduatoria ma ancora attendono l’effettivo riconoscimento del proprio titolo. Mentre cresce il numero di quanti rinunciano perfino a richiedere l’accesso all’opportunità, per frustrazione da attesa).

A fronte di tutto questo, il sentiero virtuoso è quello di rilanciare politiche pubbliche; in controtendenza rispetto al disastro creato dalla passata politica privatistica: in particolare, quella che vide il già palazzinaro primo ministro Berlusconi e “i dogi” territoriali alla rincorsa del padronato edile (Ance), interessato ad aggredire la crisi e riattivare l’edilizia abbattendo-ne i costi. Ma sempre mantenendo gli elevati prezzi speculativi che impediscono l’accesso all’offerta da parte di larghi strati di popolazione impoverita.

Riassumendo: al disagio abitativo di questo lungo ciclo segnato dalla negatività, le isti-tuzioni pubbliche hanno preteso di rispondere in base al cliché classico di ridurre i vincoli alla realizzazione di nuove edificazioni; quasi che – come in occasione di quanto accadde nel dopoguerra e all’epoca dei grandi flussi immigratori interni – il problema consistesse nell’in-capacità di rispondere a un’esplosione della domanda e non – piuttosto – nell’espulsione dal mercato per effetto dell’accresciuta rendita fondiaria da un lato e nei fenomeni di vasta proletarizzazione dall’altra.

In questa direzione sono andati tanto il tentativo di consegnare alla finanza il ruolo di regista nell’edilizia sociale (istituzione dei fondi immobiliari istituzionali, a partire da quello promosso da CdP), quanto l’imposto Piano casa del governo Berlusconi alle Regioni, che au-torizzava incrementi volumetrici in deroga alle prescrizioni urbanistiche vigenti.Deroghe delle quali – come già detto – la Liguria si è dimostrata tra le più ostinate e convinte sostenitrici, al punto di prorogarne la durata, inizialmente straordinariamente prevista per un solo biennio. Evidentemente questi provvedimenti, più che mirare al disagio abitativo, si proponevano quale sostegno al comparto dell’edilizia, accompagnando i desiderata del-le imprese di provare a superare la fase recessiva utilizzando le tradizionali ricette liberiste dell’abbattimento dei costi (nel caso specifico, quello delle aree e del lavoro dove, nel frat-tempo, si è assistito ad uno dimagrimento delle imprese tradizionali maggiori e ad un pullu-lare di aziende individuali sub-appaltatrici).

Questa cura omeopatica che pretendeva di aggredire il forte rallentamento del settore con un surplus di volumi da immettere nel mercato, è stato ovviamente incapace sia di alle-viare la domanda di alloggi a costo sostenibile (i pochi realizzati risultano di valore assoluta-mente allineati a quelli di mercato), sia di dare beneficio alla filiera delle costruzioni; come attestano l’interruzione di progetti, il giacere di titoli edificatori presso i Comuni e l’insuc-cesso di tante scellerate operazioni immobiliari di questi anni, che hanno solo concorso ad un’ulteriore perdita di suolo.

Come per gli altri comparti economico-produttivi, anche quello delle costruzioni ha evitato di investire sulle uniche materie che in prospettiva possono acconsentire ad immagi-nare una sua ripresa: innovazione e ricerca. E il soggetto pubblico – per parte sua – invece di interpretarsi come propulsore di iniziativa attraverso un diverso utilizzo del suo patrimonio (indebolito sì, ma ancora ingente) si è limitato a svolgere un ruolo esecutivo del volere delle élite più retrive e rapaci dell’imprenditoria.

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È mancato dunque un serio intervento di rigenerazione urbana e di messa in sicurezza del territorio; di efficientamento energetico e messa in sicurezza dei patrimoni pubblici a partire dal patrimonio scolastico e dai presidi sanitari; di integrazione tra trasporto pubblico e periferie; unici interventi che avrebbero messo a profitto competenze e saperi.

Insomma, anche sul versante dell’abitare la politica ha scelto di abdicare e di ridurre il suo ruolo ad esecutore di voleri ed interessi egoistici e corporativi.

Per quanto riguarda il territorio ligure, qui si assiste a una “rapallizzazione di ultima generazione” che ha già prodotto grandi volumi abitativi sfitti; e continuerà a produrli in as-senza di una chiara inversione di tendenza: dalla Torre Faro nei pressi del terminal portuale di Genova alle prospettive edificative su un’area affetta da inquinamento chimico pluride-cennale come quella dell’ex colorificio Boero di Molassana.Aree invendute, che la speculazione si premurerà di esitare ponendole a carico del soggetto pub-blico, come avvenne a Genova nel caso del “Matitone”. O magari localizzando, sempre a spese dell’Ente Regione, un improbabile ospedale nella collina di Fiumara (permanendo l’assenza delle preventivate folle di acquirenti). Come regalia della politica agli investitori finanziari.

Le possibili risposteLa ricerca della ricostituzione di legature sociali nelle comunità liguri, pericolosamente

tranciate (o mai intrecciate) da questo configgere di mondi troppo spesso incomunicanti, richiede un vasto repertorio di scelte.

Esposto il tema generale, qui di seguito se ne propongono alcune come tracce per l’in-venzione sociale:

A Prendere sul serio l’appello alla partecipazione, mediante la valorizzazione delle po-tenzialità insite nell’associazionismo di quartiere. Infatti l’impegno di task force volontarie può svolgere funzioni decisive in chiave surrogatoria dei compiti del soggetto pubblico; tanto sotto il profilo conoscitivo quanto dell’assunzione diretta di compiti per l’animazione locale. Una Alleanza Civica per l’integrazione tra istituzioni e cittadini presuppone un’opera da pare del soggetto pubblico volta alla certificazione dell’effettivo radicamento nel territorio dei vari comitati e un adeguato coordinamento tra le azioni di base. Si potrebbe prevedere una Con-sulta del volontariato per l’integrazione, in cui il peso dei vari soggetti venga misurato sulla effettiva rappresentatività in quanto ad associati. Opera che dovrebbe in primo luogo contra-stare le segnalate tendenze xenofobe riscontrate in alcuni Municipi;

B Mettere a disposizione luoghi per il possibile radicamento. Confermando quanto già detto in precedenza riguardo all’infrastrutturazione sociale per le giovani generazioni (Pro-getto “Case della gioventù”), il primo passo per favorire il reciproco riconoscimento – stan-ti le innumerevoli, reciproche, incomprensioni pregresse – non può che essere unilaterale. Dunque, un atto di volontà/generosità come apertura di credito: offrire all’Altro luoghi in cui riconoscersi a funzioni polivalenti; dal culto al doposcuola per i bambini, alla pura e sempli-ce aggregazione interpersonale tra affini. Si tratti di una moschea, si tratti di una palazzina in cui far giocare i figli e – magari – arricchire le loro competenze linguistiche, queste scelte valgono per smentire il timore/sospetto di una volontà avversa pregiudizialmente alle altrui radici comunitarie. Quale premessa per incontri e confronti reciprocamente arricchenti del-le rispettive identità. Il tutto – appunto – reso possibile da una creazione di spazi al servizio della convivenza;

C Perseguire forme di collaborazione triangolari istituzioni – scuola – associazionismo che suppliscano da un lato alla contrazione del ruolo dell’istituto familiare nell’ambito for-mativo e di accompagnamento all’inserimento nella vita adulta; dall’altro, consentano di

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raggiungere e intercettare target altamente sfuggenti, quali quelli giovanili odierni. Soprat-tutto, favorendo il riconoscimento dell’altro, eliminare ogni possibile “conflitto per errore”; causato da pregiudizi e false rappresentazioni conseguenti alla carenza di conoscenze diret-te. In particolare:

→ combattere la dispersione scolastica attraverso modalità didattiche definite median-te processi di ascolto delle attese e dei bisogni delle popolazioni studentesche; coinvolgendo il territorio in tale progettazione, in quanto memoria storica e contenitore di specificità da valorizzare;

→ favorire la relazione multietnica in sede didattica, attraverso processi di scambio del-le rispettive esperienze come reciproco arricchimento;

→ creare calendari di “eventi aperti”, in cui scuola e quartiere – in forme il più possibi-le innovative – mettano in scena i patrimoni culturali dei diversi pubblici giovanili presenti nell’area, proposti dai diretti interessati,

→ costruire programmi formativi finalizzati a diffondere orientamento al civismo, mo-tivando attraverso sperimentazioni sul campo (ad esempio il coinvolgimento diretto nei pro-grammi di raccolta differenziata come qualificazione della vita del proprio quartiere).

D Promuovere una politica per l’abitare a vantaggio delle categorie più deboli comples-sivamente considerate; oltrepassando l’attuale impostazione che relega e circoscrive tali po-litiche nell’ambito, pur importantissimo ma parziale, del disagio sociale strictu sensu (tossi-codipendenza, extracomunitarietà, ecc.):

→ calmierare il mercato della locazione combattendo l’obbrobrio della “libera contratta-zione” (espressione benevola e accattivante per occultare sbilanciamenti nei rapporti di forza tra contraenti, che non di rado si traducono nell’imposizione di condizioni iugulatorie e patti leonini). A tale riguardo vale la considerazione avanzata dall’assessore del Comune di Roma Giovanni Caudo: «in materia di prestito di denaro il Codice Penale prevede il reato di usura. Tale criterio andrebbe esteso anche alla relazione negoziale tra proprietario e conduttore»;

→ utilizzo della leva fiscale non solo in “chiave premiante” per i proprietari che affittano, ma anche in quella “sanzionatoria” nel caso di immobili vuoti senza ragionevoli giustificazioni;

→ esaminare la possibilità di una trasformazione in alloggi sociali dei beni demaniali che vengono retrocessi a beni comunali (ad esempio la Caserma Gavoglio nel genovese quar-tiere dl Lagaccio):

→ valorizzare le agenzie sociali per la casa, strumenti che coinvolgono anche il non-pro-fit e non ancora disciplinati, quali facilitatori della relazione locativa. Previsti in Regione Li-guria dal 2008, andrebbero rinforzati estendendone la missione all’intera popolazione; dun-que, oltrepassando l’iniziale mandato circoscritto ai soli immigrati.

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Note

58 S. Sassen, Migranti, coloni, rifugiati, Feltrinelli, Milano 1999 pag. 144

59 N. Gole, L’Islam e l’Europa, Armando, Roma 2013 pag. 108

60 C. Crouch, Il potere dei giganti, Laterza, Roma/Bari 2012

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9. “Abolire la miseria”

La povertà è il sintomo palese di una profonda malattia della società; e come tale va curata. A fronte di una costante espansione dell’impoverimento; che da relativo diventa assoluto (anche in Li-guria). Eppure il dibattito odierno in materia di politiche pubbliche, concentrato sulla tematica della promozione di ricchezza al tempo della globalizzazione finanziaria, continua a rimuovere la que-stione. È pensabile intervenire nella dimensione civica, avviando una sorta di keynesianesimo terri-toriale come investimento anticiclico nella creazione di lavoro? Di certo la lotta alla povertà richiede approcci ben diversi da quelli assistenziali e caritativi: il riscatto dal disagio come riconquista della dignità, grazie alla valorizzazione di capacità e alla riscoperta della solidarietà (l’antico mutualismo).

Orgogliosi e non facilmente domabili, sprovvisti di una cultura etnica tramandata nep-pure in tradizioni orali, i Liguri fin dalle origini furono un popolo vulnerabile, tanto da parte della Natura come di conquistatori esterni, per mancanza di qualsivoglia organizzazione so-ciale strutturata che agevolasse il fare fronte comune. Questo favorì la dominazione romana e il giudizio fondamentalmente negativo degli storici nei loro confronti61. Ma anche la man-cata fuoriuscita da un’economia di pura sussistenza. Suddivisi in comunità agricolo-pastora-li senza classi, seppure cementate da solidarietà originaria, i Liguri coinvolgevano anche le donne nella quotidiana fatica per piegare una terra sassosa, aspra e sterile.

Una storia di miseria, da cui i nostri progenitori iniziarono ad evadere nell’Età di Mezzo, im-boccando strade ascensionali attraverso i traffici (la scoperta del mare da parte di un popolo tendenzialmente ancorato alla terra; magari – inizialmente – perfino tradotta in imprese pi-ratesche). Ma – al tempo stesso – con ricorrenti cadute all’indietro. Non ingannino gli splen-dori palaziali del Lungo Rinascimento genovese o savonese; lasciti dei successi individuali o di un numero ristretto di famiglie, in larga misura dipendenti da pratiche di accumulazione finanziaria, premesse al consolidamento di posizioni di rendita in oligarchia plutocratica. Il ciclico stop and go dell’accumulazione come tratto distintivo di una società.

Del resto non è difficile riscontrare analogie tra l’attuale stato dell’arte e la realtà se-centesca descritta dallo storico Fernand Braudel: «nella città di san Giorgio venivano accu-mulandosi fortune enormi, tanto più colossali in quanto i guadagni di questo sfruttamento delle ricchezze mondiali finivano nelle mani di pochi, dando luogo a una concentrazione di ricchezza sorprendente. Se mai esiste una città diabolicamente capitalistica europea e mon-diale è proprio Genova, opulenta e sordida al tempo stesso»62.

Assetto conseguente agli esisti di uno scontro di interessi tra manifattura e finanza che risale al periodo precedente: «il secolo XVI fu anche la grande stagione della manifattura se-rica genovese, che prosperava sulle esportazioni e aveva nella Francia il suo principale mer-cato. Mentre nei traffici finanziari con Carlo V e i suoi successori si affermarono soprattutto i nobili antichi, gli ex popolari prevalevano nel settore serico, da cui traeva sostentamento un numero sempre crescente di persone impegnate nelle varie fasi della lavorazione di pre-ziosi e rinomati velluti. Dunque, la contrapposizione tra nobili e popolari, gli uni favorevoli a un esplicito allineamento filospagnolo e gli altri a una normalizzazione dei rapporti con la Francia, fu anche quella tra manifattura e finanza, tra seta e carta. Erano in gioco i destini della città, il suo modello di sviluppo, e su questi temi i genovesi si mobilitarono nei decenni successivi al 1528»63.

Come andò a finire è fatto noto: prevalse (grazie al controllo delle armi assicurato dal “padre della patria” Andrea Doria) la creazione di denaro a mezzo denaro e si impose il bino-mio Opulenza-Miseria sordida.

Una catastrofe sociale, da cui la società locale fuoriusciva gradatamente valorizzando il

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lavoro nei porti e poi negli opifici della prima industrializzazione. Quindi, vicende di lotte di-ventate epopea, ma anche testimonianze di solidarietà nelle forme del mutualismo operaio. Fino alla grande stagione novecentesca della Liguria protagonista a pieno titolo della “secon-da rivoluzione industriale italiana”. Almeno fino all’ultimo quarto del XX secolo. Vicende che declinano nel territorio la regola assolutamente lapalissiana secondo cui l’economia mate-riale include migliorando le condizioni di vita generali, quella virtuale non ha bisogno delle donne e degli uomini “concreti” (secondo l’opinione del sociologo Zygmunt Bauman, avan-zata già quindici anni fa, «la creazione di ricchezza sta emancipandosi dalle sue connessioni con la produzione. I vecchi ricchi avevano bisogno dei poveri per diventare o restare ricchi; e tale dipendenza mitigava sempre i conflitti di interesse e faceva fare un qualche sforzo, per quanto tenue, per prendersi cura degli altri. I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei poveri»64).

Continua a valere – al tempo stesso – il principio secondo cui la lotta alla povertà è reden-zione da condizioni sociali intollerabili attraverso la conquista della dignità e della responsa-bilità. Diritti, non obolo caritativo. “Riscatto”, nel linguaggio dei primi movimenti del lavoro.

Lo stato dell’arteIl punto di partenza di ogni ragionamento sulla disuguaglianza ingiusta detta che la

povertà è sintomo di una grave disfunzione della società. Di converso, è ricco un Paese non con un cospicuo numero di abbienti, bensì dove il numero dei poveri è limitato. Sempre in-tendendo con “povertà” due condizioni distinte: quella relativa e quella assoluta.In quest’ultimo caso “povero” è «chi non riesce a provvedere ad alcune funzioni vitali che gli assicurino la sopravvivenza»; nel primo «possono essere considerati poveri quegli individui e quelle famiglie le cui risorse, nel tempo, si riducono notevolmente rispetto alle risorse che sono possedute dagli individui e dalle famiglie medie nella comunità in cui essi vivono»65.

«La Liguria strippa di soldi», diceva negli anni Ottanta l’allora presidente Iri Roma-no Prodi (riferendosi tanto ai capitali pigri imboscati dalle famiglie ma anche ai costanti, robusti, trasferimenti da parte dello Stato; effetto degli “scambi politici” del dopoguerra). Da allora la situazione è drasticamente mutata, tanto che oggi si assiste al crescente impove-rimento dell’area e alla contestuale conversione di “povertà relative” in “assolute”.Le ragioni sono certamente legate alla congiuntura nazionale e mondiale; tuttavia subiscono una precipua accelerazione in sede locale. Per l’evidente perdita di forza propulsiva da parte del sistema sociale, economico e politico.

Fenomeno in cui confluiscono con effetti moltiplicativi tutti i punti di debolezza già evidenziati nelle pagine precedenti; in larga misura riconducibili all’incapacità di mettere a punto risposte strategiche alle sfide in corso (esaurimento delle specializzazioni competitive novecentesche e irruzione destabilizzante di flussi globali di particolarmente complessa go-vernabilità) e – conseguentemente – di oltrepassare attraverso la progettualità i vizi incistati nelle pratiche di gestione dell’esistente in chiave di puro controllo; da nomenclatura mera-mente presidiatrice.

Venendo agli aspetti più direttamente quantitativi, il Rapporto Istat 2013, relativamente al periodo 2007-2012 (quinquennio), evidenzia i seguenti dati:

— 112mila persone sotto la soglia di povertà assoluta, pari al 10% della popolazione;— 57mila in stato di deprivazione (ossia che lottano per i pasti principali66);— 30% il livello dell’inoccupazione giovanile (15% non cerca più alcun lavoro: Neet people);— 3% perdita del reddito delle famiglie liguri;— da 5.558 a 14.295 i beneficiari d’indennità di disoccupazione (2007-2012);— 32mila posti di lavoro persi.Per quanto poi riguarda il rapporto reddito-deprivazione:

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«Nel 2012 [in Liguria, ndr] diminuisce il reddito disponibile delle famiglie, calano i con-sumi nonostante le famiglie intacchino i propri risparmi; aumenta il numero di famiglie in condizione di deprivazione e di povertà; si riduce la soddisfazione degli individui per la pro-pria situazione economica e per la vita nel complesso»67.

Italia

Macroregioni

LiguriaNord- ovest

Nord-est Centro Mezzogiorno

Diminuzione del reddito disponibile x famiglia -1,9%* -2% -1,8% -2% -1,6% -2,8%

*La spesa per i consumi invece è diminuita del 1,6%. La Liguria è la regione che in assoluto ha avuto la contrazione più con-sistente del reddito disponibile, con evidenti conseguenze più tragiche a livello lavorativo e sociale68.

La seconda fase recessiva – iniziata nel 2011 – ha avuto come elemento centrale una ulteriore caduta del reddito disponibile, che già nel quinquennio 2007-2012 era sceso del 10%. La metà di questo crollo si attesta nell’anno 2011-2012 che segna da solo una riduzione del reddito di 4,8%. Aspetto che può essere spiegato con il fatto che tra il 2008 e il 2010, le fa-miglie avrebbero vissuto «di rendita», attingendo ai risparmi e quindi contenendo gli effetti della crisi; liquidizzando risorse non riproducibili. Nel 2011 si sono contratti o esauriti i ri-sparmi, riducendo definitivamente la propria disponibilità di reddito

«Il protrarsi della crisi economica e la conseguente diminuzione del reddito disponibile delle famiglie si riflette sull’andamento recente degli indicatori di deprivazione materiale e di disagio economico, che nel 2012 registrano un ulteriore peggioramento, dopo quello già osservato nel 2011, in discontinuità rispetto agli anni precedenti»69.

“Numeri” relativi alla Liguria nell’anno di riferimento 2012:

Liguria

Nord-Ovest

Media Regioni Nord Lombardia

Valle d’Aosta Piemonte

Famiglie «deprivate»70 sul totale delle famiglie residenti 17,1% 15,7% 10,2% 11,9% 16,3%

Sicché – conclude l’Istat – la «deprivazione delle famiglie liguri» è la più alta di tutto il Nord. Questi i dati di fatto, le cui cause vanno individuate e curate alla radice in quanto – scriveva Ernesto Rossi nel lontano 1946 – «la miseria è una malattia infettiva, giacché la causa maggio-re della miseria è la miseria stessa»71. Ma dove stanno tali radici?Come osservava quattro decenni fa un buon maestro – quale Paolo Sylos Labini – e come con-ferma la più recente star dell’economia mondiale Thomas Piketty, queste vanno scorte prima di tutto nei rapporti di forza vigenti in una data epoca e in una data società.

Annotava Sylos Labini: «senza dubbio, se la miseria esiste, i capitalisti la sfruttano; ma questo non autorizza ad affermare che la miseria è indispensabile al capitalismo… se le forze private sono lasciate a se stesse, è certo che si formerà una striscia della miseria… ma non è af-fatto certo che questa striscia sia funzionalmente necessaria allo sviluppo del capitalismo»72. Dello stesso avviso era anche Antonio Gramsci, che nel suo saggio Americanismo e Fordismo parlava di “rivoluzione passiva” (l’industrialismo come agente indiretto di democratizzazione).

Ora fa loro eco Piketty: «La diminuzione delle disparità di reddito tra il 1914 e il 1975 è stata determinata sia dallo shock dei due conflitti mondiali sia dalle risposte politiche che ne

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sono seguite. Alcuni cambiamenti politici radicali (aumento della progressività delle impo-ste, costruzione dello Stato sociale, peso del movimento operaio organizzato eccetera) han-no senz’altro svolto un ruolo enorme in questo senso… Precedentemente al 1914 non vi era alcuna tendenza naturale alla riduzione della disuguaglianza. Il sistema politico era formal-mente democratico, ma non dava affatto risposte al fenomeno della concentrazione della ricchezza, all’epoca molto alta e in aumento. La riduzione della disuguaglianza nel XX secolo è stata fondamentalmente un effetto di sconvolgimenti politici»73.

Anche alla luce di queste autorevoli testimonianze si ribadisce che la povertà è un pro-blema eminentemente sociale e – dunque – politico; da affrontarsi in tale sede, in quanto luogo di progettazione degli assetti di civile convivenza intesi come primarie poste in gioco.

Le possibili risposteSe la povertà è una malattia della società, essa va curata politicamente partendo dalla

società stessa (e mettendo in campo tutti gli strumenti sociali a disposizione).Ovviamente – in attesa di “salti di civiltà” che presuppongono trasformazioni mondiali/epocali – nella coscienza dei limiti di un’azione che parta dalla circoscritta dimensione dei luoghi, ma anche nella consapevolezza che “qui siamo” e che qualcosa qui si può pure fare; agendo nelle due dimensioni operative del sociale organizzato dalla politica democratica: la decisione pubblica, che si traduce in progetto implementato; la sfera del relazionale come irrinunciabile risorsa per l’azione.

A Nel suo saggio di oltre mezzo secolo fa – “Abolire la miseria” – Ernesto Rossi propone-va di combattere la striscia di povertà che avvolge gli strati più bassi della popolazione e che si chiama disoccupazione, lavoro nero, emarginazione. La risposta rossiana era formulata nei termini de “L’esercito del lavoro”, qualcosa che assomigliava molto a una sorta di corvée democratica. Possiamo mantenere la formula suggestiva come slogan per proporre iniziative altrettanto visionarie: un programma di politiche keynesiane su scala regionale. Il punto di partenza dell’idea è che la “povertà in quanto malattia sociale” ha pesanti costi collettivi, per cui investire in chiave anticiclica, creando occasioni di lavoro, è non solo socialmente apprez-zabile ma anche economicamente conveniente. Dunque, creazione di occupazione per lavori socialmente utili nel ripristino e nella manutenzione (del territorio, dell’edilizia scolastica, del verde pubblico, eccetera), ma anche nell’assistenza, come attivazione di “volani virtuosi”; che attraverso l’opportunità di impiego e legittimo guadagno, riducano l’area della sofferen-za individuale e – al tempo stesso – producano beni collettivi come capitale locale. Al tempo stesso svolgano un’indispensabile funzione di rafforzamento dell’autostima in persone che si ritenevano definitivamente condannate all’inutilità;

B La tradizione ligure del mutualismo nasce dallo sforzo organizzativo del lavoro por-tuale e poi industriale volto a costituire legature sociali come “fronte comune contro le mi-nacce”. Si pensi alla fioritura ottocentesca e primonovecentesca di cooperative d’acquisto, di consumo e di resistenza. Attività collettive rese possibili dalla contiguità fisica degli associati sui luoghi di lavoro e dal comune ruolo sociale coperto. In questa stagione – che taluno de-finisce “postindustriale” – viene meno, in larga misura, l’elemento aggregativo rappresenta-to dal luogo di lavoro (a tale proposito David Harvey eccepisce che «l’urbanizzazione è essa stessa un prodotto… perché allora non concentrarsi sulla città, invece che solo sulla fabbrica, come luogo centrale di produzione di plusvalore?»74). Comunque sia, rimangono sempre a disposizione le potenzialità di cooperazione proprie del relazionale; il rapporto interperso-nale come reciproco riconoscimento e possibile sinergia. E le straordinarie opportunità in-site nell’innovazione sociale. Che andrebbero risvegliate e stimolate come sperimentazioni accompagnate e assistite. Ad esempio, favorendo il diffondersi delle “banche del tempo”, in

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cui si scambiano attività pratiche reciprocamente utili sulla base dei rispettivi saper fare. Ad esempio supportando forme di microcredito per iniziative nel settore dei servizi e dell’arti-gianato, in cui le persone mettono al lavoro quanto appreso in ambiti anche diversi;

C Mettere a punto strumenti atti a riconoscere e valorizzare (anche economicamente) le disparate conoscenze delle persone; e di seguirne gli sviluppi nel tempo, in termini oc-cupazionali. In base al principio che “tutti sanno qualcosa” (l’individuo è definito in base a quello che sa, non da ciò che non sa). Si veda ad esempio le esperienze in materia di “alberi di conoscenza”: ideati nel 1992 dal sociologo Michel Authier e dal massmediologo Pierre Lévy, sono insieme una filosofia di condivisione dei saperi e un dispositivo informatico. Infatti, «di tutti i saperi della vita, solo un’infima parte si accompagna a un riconoscimento ufficiale, sanzionato da titoli o diplomi. Ma un’infinità di conoscenze, che possono possedere tutti, in un momento o nell’altro, qui o là, la loro pertinenza economica, ludica, sociale, scientifica ecc., circolano alla chetichella, crescono in silenzio, invisibili, attive, pronte a servire»75. Del resto, ponendo il principio che ciascuno sa, si enuncia la più semplice verità, restituendo contemporaneamente a ogni essere umano la sua dignità;

D La crisi del welfare generalista attiva anche in Italia interessanti forme integrative per esperimenti di cui non si ha traccia nell’area ligure. Ad esempio alcuni accordi aziendali pi-lota, come quello in provincia di Belluno stipulato da Luxottica. Nella moria di grandi fabbri-che e nell’assenza di imprese di taglia media, in Liguria si potrebbero sperimentare la costi-tuzione di pool tra piccole imprese coinvolgendo nell’operazione le parti sociali (associazioni datoriali e rappresentanze sindacali). Allo stesso modo si potrebbe tentare di attivare forme di assicurazioni sociali nell’ambito delle prestazioni alla persona, sensibilizzando a tale sco-po l’investimento etico (le modalità con cui un’organizzazione economica profit accredita la propria sensibilità sociale come strategia di immagine);

E La lotta contro la povertà non può prescindere dal problema del destino di povertà che incombe sul capo delle nuove generazioni. Un primo problema è quello della “disper-sione scolastica” (l’abbandono del percorso educativo anzitempo, fattosi sempre più grave con il dilagare della Neet generation, ragazzi che rinunciano prima di aver provato; che ormai ha superato il 20% della coorte generazionale tra i 15 e i 25 anni di età), ma altrettanto grave è l’abbassamento della qualità scolastica determinato da spending review scriteriate (che si direbbero finalizzate a creare uno spartiacque “di classe”, tra i pochi in grado di pagarsi istru-zione di qualità e i tanti condannati a intrupparsi in un esercito del lavoro dequalificato). A tale proposito, è possibile immaginare azioni di sostegno all’education su base regionale? Le modalità dovrebbero essere suppletive, laddove i tagli nazionali depauperino l’offerta, e di recupero nei confronti di abbandoni che vanno capiti e rimessi in pista. L’idea è quella di un territorio educante come scelta di civiltà democratica. Per quanto attiene al finanziamento di questa contro-azione, rispetto alle ormai prevalenti (seppure mascherate) logiche dell’e-sclusione, si potrebbe trovare la necessaria provvista analizzando l’intero elenco delle voci destinate a finanziare i programmi formativi locali con i fondi dell’Unione europea; sulla cui effettiva validità andrebbe fatta un’attenta ricognizione al fine di individuare gli sprechi ed eventuali “distorsioni” e dirottamenti verso scopi “indebiti” (sempre in presenza del sospet-to di ruberie e “creste” varie…). Dunque, riqualificando la spesa.

In conclusione, la lotta alla povertà (Ernesto Rossi diceva “abolire la miseria!”) deve diventare un impegno collettivo. Con le parole di Rossi, «la collettivizzazione non è un fine desiderabile per se stesso. A noi sembra che la collettivizzazione si possa dire socialmente conveniente, per motivi economici e di giustizia sociale»76.Comunque la lotta alla povertà resta una lotta. Una lotta che non culmina in una definitiva battaglia campale, ma si articola in tante specifiche azioni; le quali, assommandosi, costitu-

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iscono una massa critica come creazione di civiltà. A tale riguardo va sottolineata l’attuale disattenzione del dibattito pubblico e delle riflessioni politologiche al tema delle politiche pubbliche di contrasto dell’impoverimento: un effetto della focalizzazione comunicativa sull’apologia dell’arricchimento, tipica di questi anni.

Eppure, se il cooperativismo emiliano ebbe i suoi Camillo Prampolini, la Liguria vanta i nomi dei propri eroi alla guida del mutualismo operaio: i Pietro Chiesa, i Gino Murialdi, i Ricciotti Leoni; grandi organizzatori sociali che costituivano leghe, si battevano per il riscatto sociale attraverso i diritti e – magari – raccoglievano i fondi per fondare il primo quotidiano interamente finanziato dai lavoratori: il Lavoro. È in Liguria che sorge (1856) la prima coope-rativa di produzione italiana: i vetrai di Altare.

Un impegno a vari livelli da cui prendeva vita quella “cittadella rossa del lavoro” che suscitò ammirazione anche nella città borghese.

Lo racconta una storia italiana dei primi anni del Novecento: la lotta dei portuali geno-vesi in difesa della loro Camera del Lavoro; nonché gli effetti di quello scontro con il Governo nazionale sugli equilibri politici generali.

Nel fiorire di iniziative associazionistiche proletarie alla fine dell’Ottocento per la pro-mozione e tutela delle condizioni di vita e lavoro, dai contatti con i compagni di Marsiglia era maturata nelle aristocrazie operaie nazionali l’idea di recepire il modello della Bourse du Travail; cui, nel passaggio in Italia, si erano aggiunte alle finalità di promozione dell’occu-pazione e di intermediazione fra la domanda e l’offerta anche funzioni di resistenza e lotta.

Fra il 5 e il 6 gennaio 1896, l’assemblea generale dei lavoratori genovesi dichiarò costitu-ita la propria Camera del Lavoro. Intuendo la pericolosità dell’iniziativa, che creava una sal-datura organizzativa tra questione sociale e questione portuale, un decreto prefettizio dell’8 dicembre di quello stesso anno ne ordinava lo scioglimento. Il pretesto fu fornito dall’opera di dissuasione dal recarsi ad Amburgo, per svolgere azioni crumiraggio contro le locali ma-estranze in sciopero, esercitata mesi prima dalla Camera nei confronti dei propri aderenti.

Ciò nonostante, la sera del 20 luglio 1900 l’istituzione venne ricostituita, per essere sot-toposta ancora per la seconda volta a un decreto di scioglimento, il 18 dicembre. Questa volta l’immediata reazione dei camalli contro l’illegalità subita si tradusse nella proclamazione di un epico sciopero generale che bloccò per giorni ogni attività in Genova, mentre tutte le altre categorie lavoratrici cittadine si stringevano attorno ai portuali in lotta sostenendone con collette la resistenza (persino gli osti e gli scalpellini del cimitero di Staglieno si tassarono in questa gara di solidarietà). L’impatto fu tale da scuotere le stesse posizioni governative, al punto da costringere il primo Ministro a ritirare il provvedimento e determinare – nel febbra-io successivo – la caduta del reazionario gabinetto Saracco. Da qui l’avvio del nuovo corso Za-nardelli-Giolitti, che aprì una fase nuova nella storia del movimento operaio italiano e nello sviluppo democratico del Paese.

In quei giorni radiosi nella storica battaglia per i diritti sociali, il “Corriere della Sera” chiese a un suo collaboratore – un giovane economista torinese di nome Luigi Einaudi e di orientamento liberale moderato – l’analisi di quanto stava avvenendo nello scalo ligure. Ei-naudi si recò sul posto, esaminò le ragioni delle parti in lotta e concluse che in quella vicenda “i veri liberali” erano proprio gli scaricatori portuali. Una lezione che riassunse nel celebre ar-ticolo intitolato “La bellezza della lotta” (poi raccolto dall’editore Piero Gobetti in un volume dal titolo altrettanto significativo: “Le lotte del lavoro”): «il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli del lavoro, a pensare, discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia… A tanta distanza di tempo, riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunate operaie sui terrazzi di via Milano in

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Genova, o discorrevo la sera in simili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e commuovo. Quegli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano». Poi precisò: «li-berale è colui che crede nel perfezionamento materiale e morale conquistato colo sforzo vo-lontario. Col sacrificio, coll’attitudine a lavorare d’accordo con gli altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi»77.

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Note

61 Per Esiodo (sec. VIII-VII a. C.; v. Strabone [60 a.C. -23 d.C.], La Geografia VII 3,7), Liguri, Etiopi e Sciti, «allevatori di cavalli», figurano tra i più antichi abitan-ti dell’Occidente; nel sec. II e I a.C., per Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), Diodoro Siculo (90-27 a.C.), Publio Virgilio Varrone (70-19 a.C.) e Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), tra i popoli conosciuti, i Liguri, pur ester-nando un’immagine ferina e un aspetto terrificante, erano considerati primitivi e «inliterati» (Vittorio Cale-stani, Dai Liguri moderni agli antichi Liguri, in «Gior-nale Storico e Letterario della Liguria», fondato da Achille Neri e Ubaldo Mazzini, Pubblicazione Trime-strale, Nuova Serie, Genova, Palazzo Rosso, Anno VIII, Gennaio-Giugno (1932), Fascicolo I-II, p. 1.). Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), rigido e austero censo-re non solo definiva i Liguri ignoranti, ma aggiungeva per buon peso che erano anche bugiardi e privi della memoria delle loro origini.

62 F. Braudel, Il secondo rinascimento, Einaudi, Torino 1986 pag. 77

63 A. Pacini, “Il dogato a Genova, tra tardo Medioevo ed età moderna” , El siglo de los Genoveses (a cura di P. Boccardo e C. Di Fabio), Electa, Milano 1999 pag. 56

64 Z. Barman, Dentro la globalizzazione, Laterza Bari/Roma 2001 pag. 80

65 I. Cipolletta, La responsabilità dei ricchi, Laterza, Bari/Roma 1997 pag. 9

66 Hanno lo stretto necessario per la sopravvivenza, ma sono costrette a rinunciare a servizi fondamen-tali come le cure mediche. Nel corso del convegno della Cgil «Via d(a)lla povertà, reddito di inserimento sociale e nuovo welfare: una rete di protezione contro l’emarginazione», svoltosi al Porto Antico di Geno-va il 30 ottobre 2013, è emerso che la Liguria soffre sempre di più gli effetti della crisi economica, tanto da essersi guadagnata il ben poco invidiabile primato di regione più povera del nord.

67 G. De Candia (Istat Liguria), «L’impatto della crisi sulle condizioni socio-economiche delle famiglie» in rapporto Statistico per la Liguria 2013, p. 87.

68 Per un approfondimento dei dati dettagliati sulla situazione ligure, in rapporto alle condizioni nazionali e con altre Regioni, in modo particolare per l’esame della formazione del reddito nel suo complesso, cf G. De Candia (Istat Liguria), «L’impatto della crisi sulle condizioni socio-economiche delle famiglie» in rapporto Statistico per la Liguria 2013, p. 87 e in particolare la Tav. 1 e la Fig. 1 di p. 88.

69 Nota metodologica. «L’indicatore sintetico di deprivazione misura il disagio economico generato dall’esclusione dal godimento di un bene o dalla sod-disfazione di un bisogno. Esso rappresenta la quota di famiglie che dichiarano di aver sofferto di almeno tre delle nove seguenti deprivazioni: 1) non riuscire a sostenere spese impreviste; 2) avere arretrati nei pagamenti (mutuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); 3) non potersi permettere una settimana di

ferie in un anno lontano da casa, 4) un pasto adegua-to (proteico) almeno ogni due giorni, 5) il riscalda-mento adeguato dell’abitazione, 6) l’acquisto di una lavatrice, 7) o di una televisione a colori, 8) o di un telefono, 9) o di un’automobile» (Ibid., p. 89)

70 Si definisce «famiglia deprivata» quella che pre-senta almeno tre difficoltà tra le nove considerate (v.sopra, in corpore texti, nota metodologica).

71 E. Rossi, Abolire la miseria, Laterza, Roma/Bari 1977 pag. 27

72 P. Sylos Labini, introduzione ad Abolire la miseria, cit. pag. XV

73 T. Piketty, Combattere la disuguaglianza con la tra-sparenza, “MicroMega” 4/2014

74 D. Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano 2013 pag.156

75 M. Authier e P. Lévy, Gli alberi di conoscenza, Feltri-nelli, Milano 2000 pag. 88

76 E. Rossi, Abolire la miseria, cit. pag. 188

77 L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Piero Gobetti Editore, Torino 1924 pag. 7

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10. Un’agenda strategica per la Liguria

Intervenendo sullo stato dell’arte del capoluogo ligure, così scrive un noto giornalista enfant du pays, Ferruccio Sansa: «Fino a trent’anni fa Genova aveva tre quotidiani. Il Secolo XIX, che arrivava a vendere 150mila copie. Il glorioso Lavoro, diretto nel Dopoguerra da San-dro Pertini. Infine il Corriere Mercantile. E oggi?… il punto è che Genova sta scomparendo. Senza che nessuno ci abbia fatto caso, le leve del potere locale paiono ormai in mani esterne: per le elezioni regionali del 2015 in lizza ci sono finora Raffaella Paita (delfino di Burlando, spezzina) e Federico Berruti (sindaco di Savona). Il presidente del porto di Genova è uno spez-zino (impensabile fino a pochi anni fa), quel Luigi Merlo marito della stessa Paita. Ancora: a guidare la Fiera di Genova c’è Sara Armella, savonese. È moglie del segretario regionale PD (pure lui savonese)… La vera diaspora genovese è quella dell’industria, dell’economia. Della cultura. Così si ritorna a parlare del trasferimento della Facoltà di ingegneria navale di Ge-nova, in passato una delle più prestigiose del mondo… Senza che la città insorga. Poi ci sono le industrie: non passa giorno che una non fugga. L’ultima pare la Piaggio Aeronautica, un secolo di tradizione e progetti geniali come il bimotore a eliche p-180 Avanti (oggi sa svilup-pando un drone). Lo stabilimento di Genova sembra destinato a essere chiuso, poco importa che sia in una posizione preziosa, quasi unica: attaccato all’aeroporto. Ma il rosario è lungo: Ansaldo Industria è da tre anni in mani straniere, il settore energia passerà alla Cina. Per i Trasporti si sta studiando… Intanto la potente famiglia Malacalza ha spostato parte delle attività verso Spezia. La Erg dei Garrone ha ormai ceduto le raffinerie per concentrarsi sulle energie alternative. E ancora: i Messina, altra storica dinastia portuale, vorrebbero cedere l’attività terminalistica nel porto. Così come potrebbe fare un altro protagonista della vita portuale genovese, Aldo Spinelli»78.

Insomma, deindustrializzazione liquidatoria, evaporazione delle classi dirigenti locali, mattanza di posti di lavoro. In un contesto di irriducibile fatalismo.

Mentre appare sempre più surreale il motivetto di fondo della “capitale di qualcosa”. E chi dirige l’orchestrina.

Oltre lo sterile gioco locale del rancore generico fattosi rumore (“il mugugno”), varreb-be la pena di prendere atto che un ciclo di durata venticinquennale è al termine in Liguria.Il dopo può essere una lunga bonaccia in cui la dissipazione e l’usura corrodono giorno dopo giorno il contesto bloccato; oppure una salutare rottura con relativa discontinuità, tradotta in sperimentazioni innovative nelle pratiche e nei linguaggi: L’invenzione di una prospettiva mobilitante. Questo sarà possibile solo se l’uscita dalla fase attuale avverrà nei termini di una liberazione critica del passato. I cui vizi vanno riconosciuti ed emendati.

In caso contrario si ripeteranno gli esiti involutivi della Sinistra italiana, che dopo il trauma del 1989/1992 pensò di cambiare pelle senza mettere in discussione il proprio DNA. E il trasformismo prevalse sul rinnovamento: una delle tabe più gravi tra quelle che marcarono nel profondo la Seconda Repubblica, tanto da farla nascere affetta da rachitismo politico (e facile preda della peggiore Destra europea).

Esito di cui – francamente – non si sente l’esigenza del bis in chiave regionale.

* * *

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Il viaggio della “ciurma” di Controvento nei gironi danteschi del “caso ligure” fornisce conferme empiriche alla congettura di partenza: in questo particolare contesto il campo dei processi decisionali significativi si ripartisce in due soli ambiti: il Palazzo delle istituzioni e il Mercato degli interessi.

Di converso, non si trova quasi traccia del mitico spazio intermedio in cui la pubblica opinione informata elabora discorsivamente giudizi ed esercita controllo. Quanto il politolo-go francese Pierre Rosanvallon definisce “controdemocrazia”79; mentre – in effetti – si tratta molto più semplicemente di democrazia presa sul serio, nelle sue pratiche virtuose di parte-cipazione, allargata quanto possibile, ai processi deliberativi della società locale.

Nel deficit democratico che caratterizza lo stato dell’arte ligure, risulta evidente l’eterno riproporsi di assetti oligarchici, pur sotto rinnovate spoglie; raccontati in sempre rinnovate modalità comunicative.

Ma, al di là delle rappresentazioni di facciata, resta ben chiaro il fatto che in larga misura le istituzioni che governano il territorio sono – in effetti – stanze di compensazione tra interessi: rapporti di forza e di negoziazione tra gli equilibri di vertice. In una logica di auto-perpetuazio-ne collusiva. Da qui l’apparente paradosso che, a causa di un’ottica concentrata su specifiche poste in gioco nel risiko di potere, le istituzioni che governano il nostro territorio non hanno cultura di territorio (in linea – dl resto – con il centralismo miope che contraddistingue il pen-siero politico nazionale, rare eccezioni a parte: la Bologna di un tempo? La Torino dell’unico Piano strategico italiano degno di questo nome, quale risposta alla prima crisi Fiat?).

Non deve stupire – quindi – il fatto che questa del “centralismo di Palazzo” risulta la filo-sofia di cui sono prevalentemente intrise le sedi canoniche della politica professionale. Sem-mai potrebbe indurre qualche sorpresa vederla adottata paro, paro, dalle rappresentanze di categoria, o – piuttosto – dall’istituto bancario diventato dal dopoguerra il braccio finanziario regionale (la Carige; e – successivamente – anche Fondazione Carige), per arrivare al siste-ma mediatico locale. Soggetti in larga misura al servizio di questa impostazione verticistica finalizzata al controllo e al presidio; a cui si accede(va?) per cooptazione e da cui si fuoriesce (fuoriusciva?) solamente per espulsione (per “apostasia”).

Il limite di tale impostazione asfittica emerge ormai in tutta la sua palese angustia, con-fermata dall’inventario – dettagliato nelle pagine precedenti – dei nodi gordiani che serrano il contesto locale:

— l’inadeguatezza a fronteggiare collettivamente le sfide della globalizzazione finan-ziaria di un’ideologia circoscritta all’individualismo tenace della tradizione;

— la mancata messa in sicurezza di un territorio per l’assenza di governo strategico;— l’assenza di un embrione di politica industriale, nella dissoluzione del modello di

sviluppo novecentesco;— il vacuum di regolazione dello spazio pubblico, che priva i tempi personali della vita

di senso/significato e riferimenti certi;— la ricerca del difficile equilibrio tra economicità, qualità dei servizi e ricerca scienti-

fica mettendo all’opera innovazioni tecnologiche e gestionali;— le spinte corporative e l’autoreferenzialità che rischiano di rendere velleitarie le pre-

tese universalistiche dell’Ateneo, privandolo di legami col territorio;— le minacce alla legalità, a lungo ignorate che hanno trasformato in terra di nessuno

vaste zone liguri; a rischio d’occupazione da parte della grande criminalità;— la preminenza attribuita agli “interessi forti” che scarica i costi della crisi sulle fasce

più deboli, spesso messe l’una contro l’altra per diversive “guerre tra ultimi”;— il dilagare di una povertà che da relativa va cronicizzandosi in assoluta, come sinto-

mo di una società malata; che impone radicali cambi di rotta.

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Inventario aggravato dall’amarissima constatazione che tali punti di crisi subiscono un’ulteriore accelerazione involutiva nel drastico peggioramento delle condizioni materiali complessive della società locale; nell’avvitarsi del declino economico in un crescente degra-do della convivenza e dell’ambiente: a questo punto non ci sono più tempi a disposizione del traccheggiamento, del patologico rinvio per sistema.

Constatazione che reclama immediato impegno collettivo per una svolta altrettanto “si-stemica”, questa volta virtuosa.

Controvento lo declina in due “mosse”; prestando particolare attenzione ai prossimi appuntamenti elettorali regionali, considerati lo spartiacque decisivo tra l’accelerazione a precipizio della recessione/depressione e la possibile inversione di tendenza verso il risana-mento. A partire dai processi politici finalizzati alla decisione. Ossia:

→ indicare temi, problemi e linee operative che vadano a costituire il necessario arric-chimento/qualificazione di un’agenda del confronto tra candidati alla leadership regionale; che non deve– a differenza del passato – limitarsi a elencare ovvietà consolatorie e questioni addomesticate;

→ proporre gli item di un ordine del giorno per “l’araba fenice” di un pubblico dibattito coinvolgente; attivato dall’effetto verità che la formulazione di temi solitamente rimossi do-vrebbe auspicabilmente innescare.

Quindi, una sfida e una scommessa. Sfida alla politica, perché sappia elevarsi alla di-mensione di grande orientatore/collettore strategico verso un futuro condiviso; scommessa sulla democrazia, come principio fondativo della civile convivenza.

Non è più tempo di danze macabre sulla pelle dei cittadini, di messe in scena elusive per sfuggire le responsabilità insite nel ruolo pubblico e il dovere della trasparenza per una rendicontazione permanente.

È tempo di Buona Politica (secondo taluno: “Altrapolitica”). Dunque, impegno di don-ne e di uomini che se ne facciano promotori; a partire da quel livello regionale che alle sue origini era stato promesso come la fucina di un nuovo modo di governare dalla parte della cittadinanza, mentre si è trasformato nell’epicentro della Mala Politica.

Un deterioramento dell’etica pubblica che chiama alle proprie responsabilità non sol-tanto quella parte (pure cospicua) di ceto politico ligure scoperto con “le mani nel sacco”; visto che anche chi ad oggi non è stato lambito dal sospetto penale si è caricato – comunque – di colpe gravissime per mancata vigilanza (ed eventuale connivenza). Ovviamente, in ag-giunta alle ormai acclarate macchie politiche collettive di essersi assunti – in quanto ceto di-rigente – la non apprezzabile “benemerenza” dell’aver lasciato sistematicamente precipitare nel degrado il territorio amministrato.

Democratici senza illusioni, regionalisti amareggiati ma non pentiti, quelli e quelle di Controvento continuano a confidare nella (Buona/Altra) Politica a scartamento locale.In questo confortati dal più recente pensiero in materia di territorio, che individua nelle cit-tà il punto prioritario per la rifondazione del discorso pubblico. La ritrovata centralità della dimensione urbana, nel passaggio dalla società industriale a quella postindustriale, dalla cit-tà-fabbrica alla città-progetto; al limite – parafrasando l’antropologo/geografo David Harvey – nella transizione della soggettività antagonistica dal proletariato al precariato80.Una possibile chiave per leggere le dinamiche in atto consiste nella presa in esame dell’op-posizione tra due dimensioni spaziali (e mentali): lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi. Quello dei flussi organizza la simultaneità delle pratiche sociali a distanza, utilizzando i mez-zi di telecomunicazione e informazione. Quello dei luoghi valorizza e istituzionalizza l’inte-razione sociale sulla base della contiguità fisica.

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Indubbiamente, per quanto concerne la concentrazione di potere, ricchezza e influen-za, i processi più rilevanti avvengono nella dimensione dei flussi. Mentre gran parte dell’e-sperienza umana trova il proprio fondamento nel livello locale.

«La disgiunzione delle due logiche spaziali è un meccanismo essenziale di dominio nel-le nostre società, in quanto consente di dirottare i fondamentali processi economici, sim-bolici e politici al di fuori della sfera in cui si costruisce senso sociale e si esercita controllo politico»81. Appunto, il primo banco di prova della ragione politica ritrovata.La ragione ritrovata in una politica rinnovata che sappia:

— intermediare tra domande sociali e soluzioni tecniche;— praticare responsabilità e idealità, coniugando pragmatismo e rigore;— chiamare, selezionare e inserire energie nuove nei processi decisionali;— convertire a obiettivi sistemici generali l’individualismo tenace dell’ethos ligure;— riequilibrare progettualmente le tradizionali dinamiche centrifughe dell’area

(l’estremo Ponente che guarda verso il Piemonte e l’estremo Levante rivolto verso Emilia e Toscana);

— promuovere coalizioni pubblico/privati strategicamente orientate;— stimolare l’innovazione politica, economica e sociale;— diffondere cultura della trasparenza;— parteggiare per gli ultimi e gli indifesi, ri-attribuendo loro valore e tutelandone i diritti;— ridare speranza alle comunità liguri, prospettando un plausibile futuro collettivo cui

tendere.

In sostanza, l’appello a un’Altra/Buona Politica per la ripresa di un cammino da tempo interrotto. E che non può essere “graziosamente concessa” discendendo dall’alto, secondo in-veterate pratiche paternalistiche (proprie della versione “benevola” del conservatorismo “com-passionevole”). Deve scaturire da una conquista collettiva, come nuova consapevolezza attiva. Come riappropriazione democratica.

Siamo consapevoli che il cammino è lungo, gli ostacoli (a partire dai nodi di potere e dalle mentalità consolidate) quasi insuperabili. Il nostro è un messaggio nella bottiglia. A cui intenderemmo fare seguire – dopo le imminenti consultazioni regionali – ulteriori azioni finalizzate a infrasrutturare un “nuovo inizio” della politica in Liguria.Dell’Osservatorio sulle dinamiche significative d’area già si è detto. Altrettanto impellente è un’azione organica rivolta alle nuove generazioni, i cittadini del futuro.

Per quanto riguarda i nostri e le nostre under, questo Libro Bianco ha già sottolinea-to l’urgenza di luoghi dedicati alla socializzazione (la proposta delle “Case dei Giovani”). Il passo successivo – dall’aggregazione al protagonismo – potrebbe essere rappresentato dal varo di una “Scuola di cultura politica”; in cui sia possibile fornire – al tempo stesso – orien-tamento negli odierni labirinti di un discorso pubblico colonizzato dalla mediatizzazione e apprendimento delle tecniche per partecipare direttamente ed efficacemente alle procedure deliberative.

Questo sarà possibile solo evitando con estrema cura e nella misura più assoluta il ri-schio di assemblare un marchingegno di indottrinamento, bensì favorendo la creazione di un luogo dove coltivare visioni plurali e critiche; che può nascere solo come scelta politica dell’intera comunità e nel fertile rapporto con un Ateneo che (auspicabilmente) faccia del radicamento territoriale una propria scelta prioritaria.

* * *

Concludendo, il principio-guida che ha ispirato questa ricerca è quello del dialogo in-formato, finalizzato al controllo delle decisioni pubbliche in sede locale, quale mossa per la rifondazione della democrazia “dal basso”.

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Dunque, nel generale smarrimento di questi anni, un’opera orientativa di non trascura-bile importanza. Cui si aggiunge un’ulteriore (imprevista) acquisizione dell’indagine: nella memoria storica del territorio – al limite, nel suo genius loci – emergono i bandoli indispensa-bili per dipanare buona parte del plesso di problemi che ci affliggono.

Infatti,→ la lotta contro la povertà, quale sintomo di una profonda malattia sociale, richiede il

recupero di quello spirito cooperativo che si tradusse in azioni concrete e nella costruzione di soggettività politiche; per un riscatto attraverso la conquista dei diritti proprio della tra-dizione mutualistica maturata sulle banchine portuali medievali e nelle prime fabbriche di fine Ottocento;

→ l’individuazione di nuove specializzazioni di territorio (indispensabili per accumula-re le risorse con cui finanziare la qualità sociale) non può prescindere da approcci strategici di tipo coalizionale; in qualche misura analoghi a quelli dei nostri antenati, quando vararono il Consorzio del Porto di Genova coinvolgendo nel CdA i rappresentanti delle Cciaa e delle Province di Milano, Torino e Alessandria;

→ la peculiarità delle ricerca ligure nella divisione del lavoro tra comunità scientifiche italiane non può prescindere dalle competenze maturate, già durante la prima industrializ-zazione, nell’integrazione sistemica tra tecnologie: le grandi navi e i locomotori costruiti in pezzi unici coniugando competenze meccaniche, elettriche, elettromeccaniche, ecc. Oggi at-tualizzabili in robotica, domotica o infomobilità;

→ la transizione verso una mobilità civica che realisticamente riporti a nuovo soluzioni pedonali e di ciclabilità, va accompagnata con un ribaltamento del modo stesso di concepire la nostra particolare orografia urbana. L’operazione compiuta ai primi ‘900 avvalorando la fascia collinosa retroportuale grazie a infrastrutture (ascensori e teleferiche) che trasforma-rono in “città in discesa” quella che era una “città in salita”;

→ la ricerca di forme di civile convivenza improntate al reciproco riconoscimento trar-rebbe forza e motivazione ricordando secolari tradizioni di scambi mercantili e contamina-zioni culturali, i cui lasciti sono individuabili nella toponomastica (piazza Raibetta da Rabat, mercato) non meno che nel nostro idioma (da darsena dar-el-sennah, casa delle costruzioni, a camallo; da kamal, portare).

La nostra storia patria – dunque – non narra soltanto la periodica apparizione di avven-ture individuali nello spazio dello scambio e della finanza. È anche caratterizzata da ricor-renti epopee che promuovevano Grandi Idee, progetti di vastissimo respiro; talvolta perfino generosi e disinteressati.

I giorni che stiamo vivendo avrebbero assoluto bisogno di questa grandezza ritrovata.

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Note

78 F. Sansa, Samp e Secolo perduti – Genova non c’è più, “il Fatto Quotidiano”, 14 agosto 2014

79 «[La] sfiducia democratica si esprime e organizza in molti modi. Ne distinguerò tre modalità principali: i poteri di sorveglianza, le forme di interdizione, l’e-spressione di un giudizio. All’ombra della democrazia elettorale-rappresentativa, questi tre contro-poteri delineano i contorni di quel che propongo di chiama-re una contro-democrazia»,P. Rosanvallon, Controdemocrazia, Castelvecchi, Roma 2012 pag. 13

80 D. Harvey, Città ribelli, cit. pag. 14

81 M. Castells, Il potere delle identità, EGEA, Milano 2003 pag. 136

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Allegati

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A

Note di pianificazione strategica

Le nuove politiche a base territoriale derivano da una profonda trasformazione concettuale dell’a-zione amministrativa e dello stesso modo di rap-presentare lo spazio fisico/sociale, intervenuta negli ultimi decenni, a seguito dei processi economici e culturali indotti dalla globalizzazione.

Trasformazione traducibile nei due paradigmi della cosiddetta “amministrazione catalitica” e del “territorio come soggetto competitivo”.

Il paradigma della amministrazione catalitica:la nascita dei processi decisionali inclusivi è una delle più importanti innovazioni introdotte nell’azione am-ministrativa.

Mentre in passato l’azione amministrativa si basava sul presupposto dell’autorità, ossia sull’idea che la pubblica amministrazione fosse l’unica deposi-taria dell’interesse generale e che proprio per questo avesse il diritto-dovere di farlo valere nei confronti di tutti, oggi – in un numero crescente di casi – l’ammi-nistrazione tende a svolgere un ruolo diverso: di sti-molo, di sollecitazione, regia o coordinamento. Non si presenta più come un’autorità indiscussa, ma piutto-sto come partner fra altri partner.

Due autori americani, David Osborne e Ted Gaebler, in un famoso libro intitolato Reinventare l’amministrazione, hanno definito l’amministrazione post-burocratica come amministrazione catalitica. Il catalizzatore, come sappiamo, è quella sostanza chi-mica che non partecipa direttamente a una reazione ma la favorisce o addirittura la rende possibile.

Allo stesso modo l’amministrazione proposta da Osborne e Gaebler, non assume le decisioni stra-tegiche e operative in prima persona, ma cerca di prenderle con gli altri o farle prendere da altri; ossia stimola la partecipazione, l’iniziativa e la correspon-sabilizzazione della società civile1.

il paradigma del territorio come soggetto competitivo:

La crisi del modello fordista e keynesiano (ba-sato sulla grande fabbrica integrata e sull’investimen-to anticiclico dello Stato), accentuatasi nell’ultimo ventennio, sposta le priorità economiche e politiche dalla stabilità alla flessibilità competitiva.

Avanzano ingenti processi di deindustrializza-zione e – contemporaneamente – di entrata nel mer-cato di nuove aree industrializzate.

La globalizzazione avvicina i luoghi acceleran-do le trasformazioni organizzative e tecnologiche nel modo di produrre. Soprattutto, libera il capitale finanziario dai precedenti vincoli, rendendolo assolu-tamente “volatile” nelle sue decisioni di investimento.

Inoltre, la produzione/distribuzione di ricchez-za, generata dalla crescita economica, aumenta – al tempo stesso – il reddito e il tempo libero a disposi-zione delle popolazioni di un numero sempre mag-giore di Paesi. Con espansione conseguente della do-manda turistica mondiale.Nella rivoluzione in atto si creano – dunque – immense opportunità/minacce. Le minacce possono essere con-trastate o subite. Le opportunità perse o colte.

È – in buona misura – una questione di capaci-tà di governo delle dinamiche in atto.

L’insieme di questi fenomeni riporta al centro dell’attenzione il ruolo dei territori (e del loro capitale sociale) nello sviluppo.

L’azione consapevole e organizzata, volta ad attrarre investimenti e iniziative esterne in una deter-minata area, si può considerare – dunque – come un aspetto dello spazio crescente che si è aperto per le reti di relazioni cooperative tra soggetti locali nel promuo-vere la valorizzazione di un territorio (governance).

La crescente importanza territoriale determi-na uno spostamento nell’odierna sfida competitiva: in concorrenza tra loro non sono più le imprese ma i luoghi. Con un ulteriore aspetto cruciale: nel riasset-to mondiale in corso, l’offerta localizzativa è sovrab-bondante. Ne consegue una sostanziale situazione di dominio della domanda che determina la stretta dipendenza della competitività dall’attrattività, attra-verso la valorizzazione delle risorse di territorio. Tan-to materiali come immateriali

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L’insieme di questi fenomeni riporta al centro dell’attenzione il ruolo dei territori (e del loro capitale sociale) nello sviluppo. L’azione consapevole e organizzata, volta ad attrarre investimenti e iniziative esterne in una determinata area, si può considerare - dunque - come un aspetto dello spazio crescente che si è aperto per le reti di relazioni cooperative tra soggetti locali nel promuovere la valorizzazione di un territorio (governance). La crescente importanza territoriale determina uno spostamento nell’odierna sfida competitiva: in concorrenza tra loro non sono più le imprese ma i luoghi. Con un ulteriore aspetto cruciale: nel riassetto mondiale in corso, l’offerta localizzativa è sovrabbondante. Ne consegue una sostanziale situazione di dominio della domanda che determina la stretta dipendenza della competitività dall’attrattività, attraverso la valorizzazione delle risorse di territorio. Tanto materiali come immateriali

IL TERRITORIOINSIEME DIELEMENTITANGIBILI EINTANGIBILI

Posizione geografica e caratteristichemorfologiche

Strutturaurbanistica e patrimonio immobiliare

Il patrimonio culturale e i

bacini di conoscenza

L’intensitàdegli scambieconomici e culturali con l’esterno

Il grado dimaturazionesociale e ladistribuzionedel benessere

La leadership economica o culturale

Lo “spiritodel luogo”

Il sistema divalori civili e sociali

Il livello dicompetenzedel tessutoproduttivo e sociale

Il tessutoindustrialelocale e lecaratteristichedel mercato

Il sistema dei servizi pubblici

Leinfrastrutture pubbliche

Elementi tangibili Elementi intangibili

Il potenziamento dell’attrattività si traduce - in primo luogo - nella creazione di esternalità positive che svolgano la funzione di “calamita”. Ossia, orientino le scelte dei soggetti esterni verso la propria area (investimenti e consumo turistico). D’altro canto, l’esperienza dimostra che - a tale proposito - il puro costo (prezzo dei fattori produttivi, tariffe turistiche) è risorsa debole. Sempre di più - infatti - giocano un ruolo determinante altri elementi, di tipo qualitativo. Sul fronte dell’investimento industriale: accessibilità, incubatori di ricerca, serbatoi di

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Il potenziamento dell’attrattività si traduce – in primo luogo – nella creazione di esternalità positive che svolgano la funzione di “calamita”. Ossia, orienti-no le scelte dei soggetti esterni verso la propria area (investimenti e consumo turistico).

D’altro canto, l’esperienza dimostra che – a tale proposito – il puro costo (prezzo dei fattori produtti-vi, tariffe turistiche) è risorsa debole.

Sempre di più – infatti – giocano un ruolo de-terminante altri elementi, di tipo qualitativo. Sul fron-te dell’investimento industriale: accessibilità, incuba-tori di ricerca, serbatoi di competenze, orientamento all’innovazione, facilitazioni procedurali e finanziarie, risorse umane formate, semplificazione delle modali-tà di insediamento...

Sul fronte dell’intercettamento dei flussi turi-stici: campagne d’immagine, controllo degli standard di ricettività. Valorizzazione delle proposte d’intrat-tenimento, offerte “a pacchetto” e consortilizzazioni, animazione del tempo libero...

Dall’affermarsi di questi paradigmi derivano le nuove politiche di territorio, giocate – appunto – sulle leve relazionali e comunicative.

Tali politiche si strutturano come Piani Strate-gici Territoriali, di cui uno dei principali strumenti è il Piano di Marketing territoriale.

Le nuove politiche industriali territorialiSi tratta di politiche ‘volontaristiche’, cioè che

valorizzano la capacità da parte di singoli territori di lanciare e sviluppare strategie, cui si ispirano poi altri attori locali, e inoltre la capacità di trarre vantaggio dalle politiche che altri soggetti perseguono (Stato, organismi internazionali, imprese globali).

Una nuova frontiera delle politiche volontari-stiche è rappresentata dalla pianificazione strategica. Nata come strumento di diagnosi e pilotaggio azien-dale, essa oggi è diventata una forma praticata da entità pubbliche, agenzie, governi locali.

L’obsolescenza della pianificazione tradiziona-le – cui aveva fatto seguito la controversa (oggi da molti giudicata “disastrosa”) fase della deregulation neoliberistica anni Ottanta e Novanta – ha contribui-to alla sua adozione. Infatti, la crisi della pianificazio-ne “totalitaria” (che sostituisce il mercato) da un lato, di quella “razionale” (costruita secondo gerarchie di obiettivi) dall’altro, ha aumentato lo spazio a disposi-zione di azioni strategiche da parte del governo loca-le. Che così viene definita:

«la pianificazione strategica è un modo per indirizzare il cambiamento sulla base di un’analisi collettiva di una situazione e della sua possibile evo-luzione, e su una strategia di investimenti in alcuni punti critici delle risorse limitatamente disponibili. La diagnosi prende in considerazione gli investimenti (globalizzazione), il territorio (nelle sue dimensio-ni variabili) e l’amministrazione (o il sistema di enti pubblici). Particolare considerazione viene attribuita alle dinamiche e agli interventi in atto, alla domanda

sociale, ai suoi punti critici, a eventuali ostacoli o colli di bottiglia, e al potenziale. La diagnosi viene utiliz-zata per determinare le situazioni prevedibili, i possi-bili scenari e la situazione ottimale, che viene presa come punto di partenza per tracciare un progetto ivi mirato. La realizzazione include l’identificazione degli obiettivi, l’implementazione di una linea strategica e alcuni progetti specifici che possono essere attuati a breve termine (programmi economici o sociali, misu-re amministrative, campagne civiche, ecc.)2».

Attraverso azioni strategiche – dunque – il go-verno locale, lungi dal sostituirsi al mercato, contribu-isce a costruire e orienta al futuro le mete collettive. I principali attori di mercato – imprese, associazioni, interessi – sono visti come portatori di strategie ri-spetto alle quali la pianificazione strategica offre un luogo di confronto, verifica e sintesi. Ma essa è anche una forma di comunicazione di strategie, sia all’inter-no sia all’esterno della città: funziona da forum degli interessi e insieme da agenzia di marketing che pre-senta un’immagine condivisa di collettività locale agli utenti e investitori esterni3.

Il primo esempio di pianificazione strategica territoriale nel nostro continente è stato quello ca-talano (Barcellona, 1988), cui hanno fatto seguito al-meno una cinquantina di Piani di grandi città euro-pee, tra gli ultimi dei quali troviamo quello di Londra 2004. La totalità di tali esperienze – infatti – confer-ma l’importanza crescente che assume, per il gover-no locale, la capacità di fare sistema, coordinando al meglio una pluralità di decisori.

Un’esperienza ormai codicizzata nei suoi pas-saggi:

→ l’aggregazione del consenso attraverso una discussione civica orientata,

→ creazione di una cabina di regia composta dalle istituzioni pubbliche e private più rappresenta-tive (nel protomodello di Barcellona le dieci più im-portanti istituzioni della città: Comune, Camera di Commercio, associazioni imprenditoriali e sindacali, Consorzio industriale e Fiera, Università e Circolo di Economia),

→ passaggio a una fase progettuale che indi-vidui le vocazioni territoriali da virare a locomotive di sviluppo,

→ verifica delle linee strategiche emerse in un vasto forum dell’associazionismo locale come sede deputata a coltivare fiducia reciproca e cooperazione (a Barcellona era un’assemblea generale composta da 193 istituzioni economiche, sociali e culturali),

→ varo di azioni mirate (e affiancate da un opera di costante riscaldamento dell’idea, evidenzia-ta dal processo, di territorio come identità comune).

Un Piano Strategico Territoriale – dunque – è uno strumento profondamente innovativo rispetto alle forme pianificatorie tradizionali. Secondo il se-guente schema4:

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Piano strategico

ha per fine la progettazione integrale con alcuni obiettivi territoriali;

accorda priorità ai progetti ma non li colloca necessariamente nello spazio;

è basato sul consenso e la partecipazione In tutte le sue fasi;

utilizza analisi qualitative e fattori critici;prevede un piano di impegni e accordi tra soggetti per gli interventi immediati e a medio termine;

è un piano d’azione.

Piano convenzionale

ordina gli spazi urbani;

determina l’uso del territorio come insieme e localizza con precisione i sistemi generali e le grandi opere pubbliche;

il progetto è di responsabilità della pubblica amministrazione, con una partecipazione “a posteriori”;

utilizza studi sul territorio e sull’ambiente;

prevede un piano regolatore che fissi le norme per eventuali interventi privati nel futuro;

è un piano normativo.

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Quindi, un Piano Strategico, per essere tale, dovrebbe per prima cosa indicare una plausibile congettura di specializzazione territoriale come mo-tore di sviluppo competitivo.

Lo faceva – appunto – il documento di Barcel-lona, aggiornando la tradizionale vocazione d’area (essere la porta di entrata/uscita del mercato iberi-co) nell’idea di realizzare una città nodale che fun-gesse da polo commerciale dell’intero Mediterraneo attraverso una rete di coalizioni tra porti spagnoli e retroterra castigliano (le piattaforme logistiche cata-lane sono in Castiglia: il Puerto Seco di Barajas, alle porte di Madrid); Lione, grazie alla costituzione di Tecnopoles, candidandosi ad attrarre nel Röne-Alpes l’high-tech; Lisbona, con il piano del 1992 centrato su “sei assi di sviluppo”, proponendosi un rinnovamento /specializzazione del tessuto economico con partico-lare attenzione al turismo (principalmente congres-suale); Stoccarda, capitale del Baden-Württemberg, puntando sul trasferimento tecnologico come sull’ec-cellenza scientifica e formativa assicurata da istitu-zioni quali la Fondazione Stembeis, con i suoi 200 poli decentrati presso i 23 istituti tecnici e politecnici del Land. Come nel Piano di Londra, approvato il 10 febbraio 2004 e guidato dalla visione «di bilanciare e integrare tre direttrici di sviluppo – sociale, ambien-tale ed economica – quali componenti fondamentali di una ‘città sostenibile’»5 così articolate:

→ Villaggio globale (centro dell’economia europea, statura internazionale e mantenimento dello spirito locale);

→ Città multiculturale (differenziazione etni-ca, pluralismo culturale);

→ Città a flusso continuo (mobilità, adattabili-tà, flessibilità);

→ Città civile (coesione sociale, equità, inclusione);

→ Città verde (modello globale di città valida dal punto di vista ambientale);

→ Città perno (perno internazionale per il commercio, i media, la cultura e le tecnologie dell’informazione)6.

Ne consegue che, attraverso politiche volon-taristiche di territorio in chiave neoregionalistica, si risponde con l’innovazione democratica a tre “do-mande civiche”:

→ di competitività,→ di qualità della vita,→ di governabilità.

Come già anticipato, la comunicazione e il marketing svolgono un ruolo fondamentale nella de-finizione e nell’implementazione delle azioni strategi-che attraverso la formulazione e la gestione di azioni promozionali strutturate e pianificate:

→ definizione dei soggetti di riferimento della comunicazione,

→ definizione dei messaggi,→ selezione dei canali e dei media,→ piano operativo.

Le esperienze internazionali«La pianificazione strategica nasce negli Stati

Uniti in ambiente aziendale e solo in seguito viene trasferita e sperimentata in ambiti urbani e territo-riali»7.

I socio-economisti ne individuano una prima esperienza pionieristica già alla fine degli anni Set-tanta nella città di Baltimora, Maryland, quale reazio-ne al declino urbano e al conseguente spopolamento derivatone8. Infatti a quel tempo, per iniziativa di in-vestitori privati, prese avvio un piano di riqualifica-zione urbana a partire dal waterfront. Intervento che perseguiva tanto l’ammodernamento delle strutture portuali, attrezzandole a operare nella rivoluzione lo-gistica innestata dalla continerizzazione dei traffici, quanto la creazione di uno spazio si attrattività turi-stica, vivibilità residenziale ed edutainment nel polo cresciuto attorno all’acquario, uno dei più grandi e importanti al mondo.

Come si può constatare, nel caso americano tali pratiche presentano un chiaro taglio privatistico e un forte approccio di mercato. Come apparve chia-ramente negli anni Ottanta nel primo e più famoso Piano made in Usa – quello di San Francisco – che conserva molti segni di questa impostazione (analisi SWOT, benchmarking, Vision), tanto che venne de-finito “un accordo tra municipalità e comunità degli affari”. Mentre, nello stesso periodo, anche in Europa iniziavano analoghe esperienze.

La pianificazione strategica europea accanto-na buona parte dei criteri aziendalistici acquisendo una più ampia dimensione di nuove politiche pubbli-che di partenariato. In particolare:

→ La platea degli attori coinvolta è molto più ampia e coincide quasi con l’intera società locale organiz-zata;→ Arene e fori di discussione impegnano i vari attori a dichiarare valori e preferenze riducendo gli spazi di negoziazione bilaterale e spesso occulta;→ L’introduzione di variabili progettuali di medio/lungo periodo dà tempo di svolgersi al processo deliberativo, oltrepassando gli orizzonti ristretti del ciclo amministrativo;→ Le pratiche discorsive e partecipative impongono il passaggio dal government (centralizzato e verticistico) alla governance (coalizionale: strategia + condivisione);

Si fa gradatamente strada l’idea che le econo-

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mie locali sono essenzialmente beni relazionali.Infatti questi processi decisionali basati sul

consenso valorizzano automaticamente il capitale sociale (o relazionale) di territorio e aggregano nella modalità del network.

Fermo restando che gli studiosi di organizza-zione individuano ben tre modelli diversi con cui si sono attuate esperienze programmatorie di questo tipo:

Il modello top-down: è quello che più risente delle influenze manageriali definendo ex ante la “mission” del territorio-impresa, operando per task-force di esperti e coordinando su base gerar-chica;

Il modello bottom-up: parte dall’individua-zione di problematiche più circoscritte attraverso l’ascolto e il negoziato per una policy di tipo “curati-vo” (problem solving);

Il modello reticolare: non si propone di trat-tare questioni settoriali o tornare a visioni calate dall’alto. Il suo obiettivo è di tipo inclusivo9.

Un altro aspetto fondamentale di questi pro-cessi strategico-deliberativi è la specificità, ossia for-malizzano punti di forza e opportunità, vocazioni, memoria collettiva e perfino sogni in cui ogni diverso spazio umano si riconosce, diventandone una sorta di “mappa cognitiva”. Ovviamente, una differente dall’altra.

Si passa dal caso della città fordista impegnata nella transizione a città della qualità e della cultura (Torino) a quella della città in declino che individua il proprio futuro nelle tecnologie dell’informazione (Sheffield); magari il caso di città eterne seconde (vedi Lione) che si candidano a diventare capitale di un arco sud-europeo.

Le varie declinazioni programmatorie – dun-que – sono strettamente dipendenti dal meccanismo sfida/risposta territoriale. In particolare:

Sfida della crescita urbana, che trova risposta in Piani metropolitani, schemi di agglomerazione, creazione di regioni urbane e conferenze regionali (i casi di Lione, Stoccarda e Barcellona);

Sfida regolativa con altri livelli di governance, che trova risposta un patti e accordi con il governo centrale (i casi dei Contrats de ville francesi e il Piano Berlino-Brandeburgo);

Sfida dell’individuazione di un ruolo-chiave nello spazio nazionale/europeo, che trova risposta nelle strutture di marketing territoriale e di attrazio-ne degli investimenti (i casi di Barcellona Olimpica, Lione-Aderly e Torino Internazionale);

→ Sfida del declino urbano, che trova risposta in agenzie di sviluppo e nella valorizzazione di nuovi stakeholder socio-economici (i casi di Glasgow, Bil-

bao, Lisbona e Sheffield);→ Sfida della creazione/adesione a reti di

città europee, che trova risposta in network leggeri, segretariati e azioni di lobbying (i casi di Eurocities);

→ Sfida del coinvolgimento delle business community e dell’associazionismo di interessi, che trova risposta in commissioni e gruppi di lavoro misto, finanza di progetto, partnership pubblico/privata (dai casi eponimi di San Francisco e Barcellona a quelli successivi: Londra, Parigi, Amsterdam, Valencia…).

Tirando le fila, in tutte queste esperienze co-ronate da successo – come è stato osservato – «gli strumenti di pianificazione volontaristica sono stati avviati da un’élite locale che ha saputo funzionare da network integrato, sviluppando giochi di cooperazio-ne e coinvolgendo tutti gli interessi economici e so-ciali… un fattore chiave- per stabilire basi permanenti per la collaborazione tra pubblico e privato, e per la disseminazione di pensiero strategico tra gli attori economici e sociali»10.

Il risultato di questo diffuso movimento è stata la (ri)acquisizione di centralità da parte dello svilup-po locale. Solo in apparenza paradossalmente, pro-prio in virtù dei processi di accresciuta integrazione economica globale, offrendo una visione alternativa a un tipo di modello economico improntato esclusi-vamente al mercato e alla finanza.Questo perché «parlare di sviluppo implica prestare prevalente attenzione a processi che mirano al mi-glioramento della qualità della vita e del benessere, rispetto a dinamiche esclusivamente quantitative di crescita di indicatori economici come il prodotto in-terno lordo»11. Sicché – come ha autorevolmente os-servato Castells – «la tecnologia e l’economia posso-no avere il controllo assoluto delle nostre vite solo in assenza di democrazia. Solo quando il mercato ha la meglio sulla cultura, e la burocrazia ignora gli abitan-ti, la rivoluzione spaziale [la globalizzazione finanzia-ria, ndr.] può annientare la funzione di sistemi comu-nicativi pluridimensionali propri della città»12.

Insomma, la rifondazione della democrazia dei postmoderni – stando ai più importanti esperimenti europei – trova nei territori uno straordinario punto di ripartenza.Come dice il sociologo Arnaldo Bagnasco, uno degli esperti che concorsero alla stesura del Patto di Tori-no, «i processi di costruzione di un piano sono una pedagogia di buona democrazia»13.

Le esperienze nazionaliIl saggio di apertura apparso in un recente vo-

lume collettaneo sulle esperienze amministrative ita-liane in materia di policies su scala locale adottava la “metafora del calabrone”, l’insetto che vola a di-spetto di ogni legge della fisica. Per poi concludere che la pianificazione territoriale «sta ormai al cuore di più generali e strategici processi programmatori e di riposizionamento strategico dei territori e delle loro

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comunità, dai quali dipende, e dipenderà sempre più in futuro, la ricchezza, il benessere, la qualità stessa della vita dei cittadini di ciascuna nazione. Tutti i di-versi sistemi-paese si stanno attrezzando, su queste prospettive, con la migliore ingegneria a loro dispo-sizione. Non potremo confidare per molto tempo ancora sulle sole virtù del calabrone per tenere loro testa in questa ardua gara di volo»14.

Fuori di metafora, questo significa che i cronici ritardi e le inadempienze nazionali nel governo dello sviluppo locale continuano a produrre i loro effetti negativi.

Cioè quelle politiche che tendono a coniugare coesione sociale e competitività economica.

In un brevissimo excursus storico, si può os-servare come in generale e – per quanto ci interes-sa – almeno dal dopoguerra, il processo di sviluppo italiano abbia attinto in misura estremamente limitata (se non per nulla) alle potenzialità specifiche dei luo-ghi, il cosiddetto “valore aggiunto territoriale”. Infatti nella Ricostruzione e poi al tempo del Miracolo Eco-nomico le politiche industriali riguardo alle «scelte localizzative strategiche obbedivano unicamente a criteri di posizione e accessibilità in un territorio pen-sato come semplice supporto passivo di azioni eso-gene»15. E si potrebbe osservare per inciso che anche qui sta la ragione del fallimento degli investimenti nel Mezzogiorno che si astenevano dal fare leva sulle po-tenzialità locali e sulle dinamiche endogene.Questa la ragione di fondo per cui l’intervento locale ha continuato per lungo tempo a essere concepito come un atto meramente amministrativo e calato dall’alto.

Sotto l’influsso di esperienze e stimoli prove-nienti dall’estero, il quadro cambia a partire dagli anni Novanta, in cui vengono sperimentate forme parte-nariali pubblico/privato. Ad esempio i programmi Ur-ban e Leader, legati alla programmazione dei fondi comunitari, i Progetti integrati territoriali (PIT), come modalità di attuazione del Quadro comunitario di sostegno per le Regioni dell’Obiettivo 1, e persino le esperienze delle Agende 21.

Le metodologie concertative strategiche d’a-rea, nella denominazione “atti territoriali”, sono sta-te introdotte nel nostro ordinamento dalla legge 341 dell’8 agosto 1995. Anche se la destinazione primaria indicata dal provvedimento sono le aree depresse, l’impostazione della norma ricalca le logiche euro-pee: “accordi tra soggetti pubblici e privati per l’in-dividuazione, ai fini di una realizzazione coordinata, di interventi di diversa natura finalizzati alla promo-zione dello sviluppo locale”. E al 2003 i Patti stipulati erano già oltre duecento. Con quali risultati?

Il bilancio che si può trarre da questa diffusa esperienza è sostanzialmente negativo, come ne dà riprova il fatto che l’operazione pattizia non ha mini-mamente tratto i territori interessati fuori dal decli-no. Anche perché troppe volte “i tavoli” concertativi erano luoghi di negoziazione sottotraccia tra notabili del luogo delle rispettive aree di influenza, interessati soprattutto a incassare i finanziamenti dello Stato.

Non di rado nella logica del mordi e fuggi.Quasi in contemporaneo partivano le prime

esperienze di pianificazione strategica sulla falsariga del modello europeo. Ma, anche in questo caso, all’i-taliana…

Infatti, leggendo i testi costitutivi del Piano si ritrova una prevalente “impronta consulenziale” a de-trimento di effettive pratiche deliberative partecipate dal basso. Testi che gabellavano come attività pia-nificatorie inclusive di territorio semplici programmi di marketing di stampo promopubblicitario. In cui il problema della specializzazione d’area come motore di sviluppo competitivo e coesione veniva immedia-tamente rimosso; sostituito da slogan privi di capa-cità mobilitante. Vuoti: come l’ipotetica e generica “missione” di “fare di Verona una città europea della cultura” (Documento di programma Verona 2020) o l’identificazione misteriosa de “il mare come risorsa identitaria” prospettata nel Piano Strategico di La Spezia (ovviamente rimasto lettera morta).

In sostanza – scrive Giuseppe Dematteis, pro-fessore emerito del Politecnico di Torino – «il ciclo delle urban policies variamente connotate come in-tegrate, strategiche, partecipate e così via presenta molti tratti ambigui e può considerarsi, nel comples-so, un insuccesso dal punto di vista degli effetti ge-nerali»16.

Forse uno dei rari documenti in controtenden-za è il Patto di Piacenza 2001, che individuava nel polo Le Mose e l’aeroscalo San Damiano l’area su cui rafforzare il peso piacentino nella mezzaluna dell’in-termodalità. Non per niente, una scelta che ha fat-to scattare la rinascita economica locale, invertendo le tradizionali carenze di dinamismo imprenditoriale che aveva confinato l’area tra le cosiddette “cerniere deboli” del Nord17.

Insomma, prevalentemente un rito, una moda. Non un processo politico. Pura teatralizzazione este-rofila che si è ripetuta da Trento a Barletta, da Cata-nia a Belluno.Tanto che si potrebbe affermare come l’unico Piano di respiro realmente europeo si stato quello di Torino. Infatti tra il 1998 e il 2000 ispirandosi esplicitamen-te al “modello Barcellona” il capoluogo piemontese – primo in Italia – vara un Piano strategico finalizzato a “non restare ai margini di un movimento di rinnova-mento, che vede le più attive amministrazioni urbane europee lanciare programmi e progetti per migliora-re la loro visibilità sul piano internazionale”.

Il Piano tiene conto del nuovo clima di compe-tizione globale e di crescita urbana traducendoli in sei linee strategiche:

→ Integrare l’area metropolitana nel sistema internazionale.

→ Costruire il governo metropolitano;→ Sviluppare formazione e ricerca come

risorse strategiche;→ Promuovere imprenditorialità e occupazione;→ Promuovere Torino come città di cultura,

turismo, commercio e sport;→ Migliorare la qualità urbana.

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Tra il 1995 e il 2001 Torino avvia una ventina tra Programmi integrati di recupero, riqualificazione e rigenerazione urbana. Soprattutto, dalla partnership tra Pubblico e Privato prendono vita i due distretti del wireless e dell’automotive.

Lo stesso non avviene altrove, soprattutto nel-le due capitali: Milano e Roma. Per la prima vale il giudizio liquidatorio di Giuseppe Dematteis, profes-sore emerito del Politecnico torinese, che parla di «innovazione senza politica». Mentre, per la città ca-pitolina, il suo ex vicesindaco Walter Tocci punta il dito contro la rendita immobiliare e la speculazione: «l’abusivismo è l’antipiano, ma anche il motore di tra-scinamento del piano»18.

Nel quadro sconfortante del sostanziale falli-mento delle classi dirigenti urbane, va affermandosi l’impostazione proposta dalla sociologa Saskia Sas-sen di collocare la governance territoriale in dimen-sioni più vaste, come ha funzionato tanto per l’area di Silicon Valley come per il Baden Wűrttemberg o la Catalogna: le world city-regions.

Tale indicazione ha ottenuto un interessante recepimento – a giudizio del direttore del centro di ricerche sullo sviluppo locale dell’Università di Bolo-gna, Lorenzo Ciappetti – nel caso dell’Emilia-Roma-gna, con un mix positivo tra politiche a favore delle imprese e quelle di coesione sociale. In particolare sembrano efficaci le politiche per il trasferimento tec-nologico delineate nel PRRIITT 2002, grazie al quale è nata la nuova rete regionale della ricerca industria-le: 14 laboratori di ricerca, 8 centri per l’innovazione dislocati su tutto il territorio regionale e operanti su sei aree tematiche.

In questa ottica, sempre Cippetti indica sette nodi ancora da sciogliere per un effettivo rilancio del-lo sviluppo territoriale19:

→ Una rinnovata cultura della programmazione;

→ Un collegamento maggiore tra politica e politiche in una visione dello sviluppo;

Una strategia sulle risorse finanziarie, in tempi di cres → centi vincoli di spesa;

→ L’assoluta necessità di un coordinamento nazio-nale;

→ Una maggiore attenzione agli aspetti qualitativi (coesione, benessere, ambiente);

I → nvestimenti rinnovati in capitale umano, ricerca e infrastrutture (viarie e digitali);

Un incremento delle ricerche comparate per visioni di più largo periodo.

Le nuove politiche e il caso LiguriaNella generale congiuntura sfavorevole del

sistema-Italia (a giudizio generale la peggiore del dopoguerra) numerosi indicatori convergono nel se-gnalare come la Liguria si collochi nella posizione di maggiore sofferenza tra tutte le regioni del Nord.

Tale situazione impone azioni in controten-denza di matrice sistemica, messe a punto attraver-so processi concertativi tra tutti i soggetti pubblici e privati in grado di contribuirvi; nella convinzione che solo grazie alla capacità di creare ricchezza sociale è possibile accumulare quelle risorse materiali che rendono possibile “fare società”: valorizzazione della persona attraverso l’occupazione, mantenimento di adeguati livelli di welfare, produzione di beni collettivi.

Allo stato attuale dei fatti risultano ancora troppo labili le proposte – sia a livello metodologi-co, sia operativo – per operare una fuoriuscita dalla crisi. Proposte che presuppongono indubbiamente la dimensione strategica di una politica industriale a di-mensione regionale, mirata a favorire le attività pro-duttive attraverso l’individuazione di specializzazioni che mettano a frutto il saper fare d’area e dando vita a sistemi territoriali per competere.

Al tempo stesso – in attesa di tali strategie di sviluppo che forniscano adeguati quadri di riferi-mento per scelte coerenti – è stata avanzata l’indi-cazione di puntare sul rafforzamento dell’esistente sostenendo processi di internazionalizzazione e di innovazione, attuando politiche formative, regolando il sistema degli appalti con accordi-quadro, facilitan-do l’accesso al credito da parte delle imprese mino-ri. Supportando consulenzialmente le micro imprese emergenti.

A tale proposito, è opportuno sottolineare come tutte le volte che sono state avanzate propo-ste a misura delle reali esigenze d’impresa (come nel caso del bando per i finanziamenti POR con fondi eu-ropei) la risposta positiva è stata immediata. Insom-ma “il cavallo beve” – eccome! – visto che più di mille nostre imprese hanno presentato piani di investimen-to con una personale scommessa per la bellezza di 280 milioni di Euro.

Un dato che – nell’evidente desertificazione delle risorse finanziarie dirette dell’Ente Regione – in-dica la giusta via da battere: ancora una volta coglie-re l’opportunità europea, con tutti i vincoli che questo comporta. Ossia ragionare in termini di “sistemi inno-vativi territoriali”, come impone chiaramente il nuovo programma-quadro presentato a Bruxelles il 30 no-vembre scorso (Horizon 2020) che si predispone a stanziare 87 miliardi di Euro nel settennio 2014-2020.

Ciò premesso, il tema prioritario su cui riflet-tere e concordare nell’interlocuzione tra parti sociali e istituzioni, tra soggetti della rappresentanza d’im-presa e Regione Liguria, è come favorire derive siste-miche nel sistema produttivo ligure. Sempre tenendo conto dell’esistente. Visto che è solo su questo che possiamo contare davvero (e – come è stato detto – a tempi lunghi saremo tutti morti…).

Dunque, prestando una particolare attenzione al settore manifatturiero di Piccola Impresa e artigia-

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na, un comparto di 46mila imprese e 120mila addetti che concorre con il 16% alla determinazione del PIL regionale. Questo appare il soggetto su cui fare so-prattutto conto (appurato che la Grande locale è lar-gamente in fase di smobilizzo e la dimensione Media è presente nel territorio in misura non particolarmen-te significativa).

Per quanto riguarda la specializzazione pro-duttiva, va osservato che gli occupati manifatturieri in medium e higt-tech nel Nord Italia sono sopra la media europea, tanto da rappresentare la seconda piattaforma continentale. Mentre, a proposito della questione dimensionale, risulta evidente l’importanza dell’associazionismo d’impresa; come è stato detto, agendo da “lubrificante”20 che favorisce il costituirsi di reti di relazioni finalizzate al mettere a fattore co-mune le rispettive risorse per competere.

Funzione che dovrebbe essere supportata da un sistematico affiancamento da parte delle istituzio-ni locali. Ma perché ciò avvenga in misura adeguata occorrerebbe prioritariamente operare una revisio-ne radicale della cultura che impronta gli approcci correnti (ed esiziali) alle politiche liguri di territorio da parte dei decisori pubblici: accantonare il criterio della contiguità a favore di quello della complemen-tarietà.

Ciò precisato, la definizione di politiche volon-taristiche – in coerenza con i modelli europei già de-lineati – per una strategia di Regione Liguria, presup-pone l’avvio di momenti concertativi che sviluppino estese “identità progettuali”. Con identità progettuali si intende:

il comune sentire che produce fiducia e coo-perazione indirizzando l’azione sociale verso obiet-tivi condivisi. Non identità difensive (o resistenziali, “trincerate all’interno di paradisi comunitari e che rifiutano di farsi spazzare via dai flussi globali e dall’individualismo radicale”21) e neppure utopiche proclamazioni di sogni, bensì impegno per affermare modelli alternativi di sviluppo economico, di socialità e di governo.

Un’identità progettuale deve partire dalla pre-sa d’atto del contesto concreto in cui le donne e gli uomini vivono ed operano, delle trasformazioni che lo attraversano e ristrutturano.Tali identità progettuali – dunque – si precisano af-frontando i punti di crisi e valorizzando le potenziali-tà del territorio.

Nel caso ligure, queste discendono dalle vo-cazioni polimorfiche del modello produttivo locale, seppure oggi in grave perdita di spinta propulsiva.

Note

1 A più voci (a cura del Dipartimento della Funzione Pubblica), Esi Napoli 2004, pag. 10

2 Jordi Borja e Manuel Castells, La città globale, De Agostini, Novara 2002 pag. 142

3 Paolo Perulli, La città delle reti, Bollati e Boringhieri Torino 2000, pag. 96

4 Borja e Castells, op. cit. pag. 143

5 Pierfranco Pellizzetti e Giovanni Vetritto, Italia disorganizzata, Dedalo, Bari 2006 pg. 121

6 fonte The London Future Group, 1998

7 Paolo Perulli, Piani strategici, Angeli, Milano 2004 pag. 69

8 Lorenzo Ciapetti, Lo sviluppo locale, Il Mulino, Bologna 2010 pag. 72

9 P. Perulli, Piani, op. cit. pag. 74

10 P. Perulli, La città, op. cit. pag. 97

11 L. Ciapetti, Lo sviluppo, op. cit. pag 7

12 Manuel Castells, La città delle reti, Marsilio, Venezia 2004 pag. 71

13 Arnaldo Bagnasco, L’esempio di Torino in “Spazio & Porti” ottobre/dicembre 2011

14 Giovanni Vetritto, “Eppur si muove” in Carlo Gelosi e Simona Totaforti (a cura di)., Governo locale e tra-sformazione urbana, Angeli, Milano 2011 pag. 51 15 Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, Tendenze e politiche dello sviluppo locale in Italia, Marsilio, Vene-zia 2005 pag.30

16 Giuseppe Dematteis, Società e territori da ricomporre, Marsilio, Venezia 2011 pag. 391

17 Aldo Bonomi, Il capitalismo molecolare, Einaudi,Torino 1997 pag. 113

18 Walter Tocci, Avanti c’è posto, Donzelli, Roma 2008 pag. 81

19 Lorenzo Cippetti, lo sviluppo, op. cit. pag. 129

20 Giancarlo Provasi, Le istituzioni dello sviluppo, Donzelli, Roma 2002 pag. 83

21 Manuel Castells, Il potere delle identità, Egea Milano 2003, pag. 391

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B

Logiche della VAS in materia di Grandi opere

La Valutazione Ambientale Strategica (VAS) è un processo finalizzato ad integrare considerazioni di natura ambientale nei piani e nei programmi di svilup-po, per migliorare la qualità decisionale complessiva. In particolare l’obiettivo principale della VAS è valu-tare gli effetti ambientali dei piani o dei programmi, prima della loro approvazione (ex ante), durante ed al termine del loro periodo di validità (in-itinere, ex post). Ciò serve soprattutto a sopperire alle mancan-ze di altre procedure parziali di valutazione ambien-tale, introducendo l’esame degli aspetti ambientali già nella fase strategica che precede la progettazio-ne e la realizzazione delle opere. Altri obiettivi della VAS riguardano sia il miglioramento dell’informazio-ne della gente sia la promozione della partecipazione pubblica nei processi di pianificazione-programma-zione.

Le procedure di VAS sono un’evoluzione di quelle relative alla Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). La Direttiva europea 85/337/CEE (conosciuta come la Direttiva VIA) si rivolge solo a determinate categorie di progetti. Questo approccio per progetti ha dei limiti perché interviene solo quando decisioni potenzialmente dannose per l’ambiente rischiano di essere già state prese a livello strategico, di piano o di programma. Il concetto di valutazione strategica è nato nell’ambito della pianificazione e degli studi regionali per cercare di risolvere i limiti dell’approccio per progetti. Nel 1981 l’Housing and Urban Develop-ment Department degli Usa ha pubblicato il Manuale per la Valutazione d’Impatto di area vasta che può considerarsi il progenitore della metodologia di valu-tazione strategica.

La Direttiva Europea sulla Vas (2001/42/CE) ha imposto a tutti gli stati membri dell’Unione Euro-pea la ratifica della direttiva nelle normative nazio-nali entro il 21 luglio 2004. Molti degli Stati membri hanno iniziato a implementare la Direttiva a partire dai temi più strettamente connessi alla pianificazione territoriale, per poi estendere l’approccio a tutte le politiche con effetti rilevanti per l’ambiente. La Diret-tiva Vas è collegata direttamente alle Direttive Via e Habitat, oltre a diverse altre direttive (acque, nitrati, rifiuti, rumore, qualità dell’aria) che fissano requisiti per l’istituzione e la valutazione di piani/programmi. Il processo di ratifica della Direttiva Vas è avvenuto con tempi differenti molte nazioni che hanno una tradizione consolidata nell’ambito delle procedure di approvazione ambientale, come la Danimarca, l’Olan-da, la Finlandia e la Svezia, hanno ratificato la Diret-tiva VAS in tempi assai brevi; tutti gli Stati membri hanno recepito la direttiva entro il 2009.

In Italia la Direttiva Vas è stata recepita con il D.Lgs del 3 aprile 2006, n. 152, ed è entrata in vigo-re solo il 31 luglio 2007. Come spesso succede nel sistema legislativo italiano, anche la normativa sulla VAS è stata ripetutamente revisionata ed aggiusta-

ta, con numerosi altri decreti nazionali o con leggi regionali[3]. Tutte queste variazioni normative, che certamente continueranno a susseguirsi anche nel prossimo futuro, rendono complesso il corretto rece-pimento della Direttiva Vas con modalità omogenee tra le varie Regioni italiane. Attualmente la VAS si ap-plica in Italia a molti tipi di piani-programmi; viene effettuata una VAS per tutti i piani e i programmi dei seguenti settori (ex. artt. 6 e 7 del D.lgs n. 152/2006): agricolo, forestale, della pesca, energetico, industria-le, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli. Viene effet-tuata una Vas anche per tutti i piani che definiscono il quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizza-zione, l’area di localizzazione o comunque la realizza-zione dei progetti sottoposti a VIA. Viene effettuata una Vas anche per i piani o programmi concernen-ti i siti designati come zone di protezione speciale (ZPS) per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria (SIC) per la protezione degli habitat naturali e del-la flora e della fauna selvatica. In quest’ultimo caso è necessaria anche una valutazione d’incidenza, ai sensi dell’articolo 5 del decreto del Presidente del-la Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni. Per i piani-programmi che determina-no l’uso di piccole aree a livello locale e per le loro modifiche minori, la valutazione ambientale è neces-saria qualora l’autorità competente valuti che possa-no avere impatti significativi sull’ambiente, secondo le disposizioni della verifica di assoggettabilità (scre-ening) ed i criteri riportati nella normativa. L’autorità competente valuta nella procedura di screening, se i piani e i programmi, diversi da quelli precedenti, che definiscono il quadro di riferimento per l’autorizza-zione dei progetti, possono avere effetti significativi sull’ambiente. Sono comunque esclusi dal campo di applicazione della Vas:

a) i piani e i programmi destinati esclusivamen-te a scopi di difesa nazionale caratterizzati da somma urgenza o coperti dal segreto di Stato,

b) i piani e i programmi finanziari o di bilancio,c) i piani di protezione civile in caso di pericolo

per l’incolumità pubblica,d) i piani di gestione forestale o strumenti

equivalenti, riferiti ad un ambito aziendale o sovra-ziendale di livello locale, redatti secondo i criteri della gestione forestale sostenibile e approvati dalle regio-ni o dagli organismi dalle stesse individuati.

Sono sottoposti a Vas in sede statale i piani e programmi la cui approvazione compete ad organi dello Stato. Sono sottoposti a Vas secondo le dispo-sizioni delle leggi regionali, i piani e programmi la cui approvazione compete alle Regioni e Province auto-nome o agli enti locali.

La Commissione europea prevede di verificare periodicamente lo stato di ratifica e l’efficacia della Direttiva Vas. Il primo rapporto di verifica indica che la Commissione ha avviato studi per verificare la con-formità del recepimento ed ha condotto diversi pro-

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cedimenti d’infrazione per recepimento non corretto. La maggior parte degli Stati membri ha indicato che la Vas ha contribuito a migliorare l’organizzazione delle procedure di pianificazione. Alcuni Stati mem-bri hanno evidenziato la necessità di ulteriori orien-tamenti, in particolare in merito al legame tra Vas e VIA. In futuro la Commissione potrebbe considerare alcune modifiche per ampliare l’ambito di applicazio-ne della direttiva (es. su cambiamenti climatici, biodi-versità, rischi) e per rafforzare le sinergie con altri atti della normativa ambientale.

La Convenzione sugli Studi di Impatto Am-bientale in Contesti Transfrontalieri (Convenzione ESPOO) ha creato altri presupposti per la diffusio-ne della Vas; questa Convenzione, adottata nel 1991 nell’ambito della Commissione economica delle Na-zioni Unite per l’Europa, è stata integrata nel 2003 da un protocollo Vas che, oltre ai piani ed ai programmi, si applica a vari strumenti politici e della legislazione attualmente non compresi nella procedura di Vas.

In linea generale il processo di Vas precede, ma non necessariamente determina, una procedura di VIA. Le due tipologie di valutazione agiscono in due fasi diverse su due oggetti diversi, con finalità diverse complementari; mentre la Vas è una proce-dura che agisce per valutare gli effetti ambientali (soprattutto i determinanti, le pressioni e le risposte ambientali) prodotti da piani o programmi, la VIA è una procedura che agisce per valutare gli impatti ambientali (cioè le variazioni di stato delle compo-nenti ambientali) causati da progetti od opere. Ciò significa che la valutazione degli effetti ambientali dovrebbe fluire per approssimazioni successive in tutti i passaggi della pianificazione-progettazione. Sotto un profilo giuridico il principio guida della VAS è quello di precauzione, che consiste nell’integrazio-ne dell’interesse ambientale rispetto agli altri interes-si (tipicamente socio-economici) che determinano piani e politiche. Il principio guida della VIA è invece quello, più immediatamente funzionale, della preven-zione del danno ambientale. Sulla base di questa di-stinzione di principi la VAS è talvolta definita come processo, mentre la VIA è definita come procedura, con soggetti, fasi e casistiche di esiti definibili molto più rigidamente. Le procedure di VIA in Italia sono a tutti gli effetti strumenti di tipo comando-controllo (cioè basati sull’imposizione di limitazioni, di norma-tive, di autorizzazioni prescrittive e sul loro control-lo anche attraverso attività ispettive o sanzioni); con approccio analogo in Italia si sono istituite anche le procedure di Autorizzazione Integrata Ambientale e di Valutazione di incidenza ambientale. Le procedu-re basate sull’approccio del comando controllo sono fondamentali ed insostituibili, ma nei casi decisionali più complessi hanno molte limitazioni. È impossibi-le governare la complessità ambientale solo con ap-procci comando-controllo, soprattutto perché al cre-scere del numero e della complessità degli interventi e delle richieste di sviluppo aumentano a dismisura sia i carichi di lavoro degli enti pubblici sia la discre-zionalità decisionale sia i rischi di errori gravi nella

valutazione. I progetti sottoposti a VIA singolarmen-te presi di solito sono ambientalmente compatibili, ma quando si sommano molti progetti ed istanze sullo stesso territorio allora si possono creare squili-bri molto significativi. In pratica le procedure coman-do-controllo come la VIA da sole non bastano, non colgono la complessità territoriale, non riescono ad essere abbastanza efficienti ed efficaci. I problemi delle procedure comando-controllo in Italia sono ag-gravati dalla complessità del quadro legislativo am-bientale, spesso difficile da applicare.

Per superare queste difficoltà servono stru-menti strategici di supporto decisionale, come le VAS. Il processo di VAS in Italia, a differenza di altri Stati europei, è spesso interpretata come fosse una procedura comando-controllo e non tanto come uno strumento di supporto decisionale strategico, in pra-tica la VAS è spesso erroneamente considerata come fosse una “grande VIA”. Questa interpretazione, cau-sata anche dalla confusione delle norme italiane, non coglie le differenti possibilità offerte della Direttiva europea sulla VAS, complica le burocrazie e rischia d’inficiare le finalità di supporto decisionale proprie della procedura. Una sentenza del Consiglio di Stato italiano, intervenendo sulla VAS di un piano urbanisti-co, ha di fatto rigettato il carattere comando-control-lo delle procedure di VAS italiane, stabilendo che esse non devono costituire momento di controllo sull’atti-vità di pianificazione e che le autorità procedente e competente devono collaborare tra loro per formula-re piani o programmi attenti ai valori della sostenibili-tà e della compatibilità ambientale. Con questa inter-pretazione in una corretta procedura di VAS l’autorità competente in materia ambientale dovrebbe essere vicina (o addirittura all’interno) all’ente che procede alla formazione/approvazione del piano/programma; in questo modo le due autorità possono collaborare meglio tra loro, fin dalle fasi iniziali di formazione del-lo strumento in valutazione. In questo caso ideale è molto rilevante il ruolo del monitoraggio degli effetti ambientali operato da un ente terzo (es. un’agenzia ambientale) rispetto alle autorità competente/proce-dente: il monitoraggio ambientale di un ente terzo è garanzia di veridicità degli effetti ambientali del pia-no/programma, periodicamente misurati nella loro realtà e rendicontati alla popolazione.

Le procedure comando-controllo come la VIA possono essere strumentalmente molto utili a valle della VAS: un’opera rilevante prevista da un piano, prima di essere autorizzata definitivamente, può ri-chiedere approfondimenti di valutazione. In questo caso la valutazione di compatibilità ambientale del progetto deve essere svolta da un’amministrazione pubblica, indipendente rispetto al proponente, e deve produrre una decisione d’autorizzazione, un “coman-do” appunto, eventualmente comprensivo di prescri-zioni, che poi deve essere rispettato dal proponente e “controllato” dall’amministrazione pubblica.

La Direttiva sulla VAS si applica alla valutazio-ne degli effetti ambientali di piani e programmi, non delle politiche o delle leggi (benché alcune delle po-

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litiche espresse nei piani vengano valutate e la pro-cedura di VAS possa essere volontariamente appli-cata anche ad altri strumenti di governo territoriale contenenti politiche, come le “linee guida”). Un altro scopo fondamentale della VAS è promuovere la par-tecipazione sociale in materia di ambiente durante i processi di piano/programma, così da migliorare la qualità decisionale complessiva

Il processo di VAS previsto nella normativa si basa sulle seguenti fasi

Screening, verifica del fatto che un piano o programma ricada nell’ambito giuridico per il quale è prevista la VAS,

Scoping, definizione dell’ambito delle indagini necessarie per la valutazione,

Valutazione dei probabili effetti ambientali si-gnificativi, espressi anche attraverso l’uso di indica-tori ambientali,

Monitoraggio degli effetti ambientali del piano o del programma,

Informazione e consultazione del pubblico e dei vari attori del processo decisionale, anche sulla base di tutte le valutazioni ambientali effettuate.

Strumenti fondamentali delle VAS sono i rap-porti ambientali (preliminari all’approvazione degli strumenti di piano-programma, di monitoraggio in-i-tinere e di verifica ex post). I contenuti fondamentali dei rapporti ambientali elencati dalla normativa sono generici.

Per rendere più sistematica la redazione di un rapporto ambientale i contenuti possono essere strutturati e raggruppati nelle parti seguenti.

Valutazione degli ambiti di riferimento. Questa prima parte del rapporto valuta le condizioni am-bientali di riferimento per il piano-programma e, per il suo carattere di riferimento preliminare, dovrebbe essere scritto per primo. È addirittura possibile, anzi è auspicabile, redigere questa parte prima dell’ela-borazione del piano-programma in valutazione. Una domanda fondamentale a cui dare risposta è: “Quali sono le questioni ambientali rilevanti, i fattori di for-za, di debolezza, le opportunità, i rischi presenti nel territorio in valutazione?”. Esempi di attività da ef-fettuare per redigere questa parte potrebbero essere la revisione della documentazione rilevante esistente (piani precedenti o valutazioni ex ante già effettua-te, studi specifici sullo stato dell’ambiente, relazioni sull’ambientale, ecc.). Sono utili anche le interviste sulle condizioni ambientali con le autorità di gestio-ne, i responsabili di progetti, le autorità ambientali, le Agenzie ambientali, gli esperti, gli esponenti di enti locali, ecc. (da definire in modo selettivo in modo da individuare gli attori significativi da intervistare in ogni contesto).

Valutazione di coerenza ambientale degli obiettivi di sviluppo. Questa parte mira a definire la coerenza tra gli obiettivi del piano-programma in va-lutazione e quelli definiti dalle politiche ambientali predefinite. I valutatori possono scrivere questo ca-pitolo per secondo e possono affrontarlo anche se dispongono solo di elaborati di pianificazione-pro-

grammazione preliminari. Questa analisi serve soprat-tutto per affrontare preventivamente, e per gestire, eventuali contrasti tra gli attori interessati dal piano, prima che i problemi sfocino in conflitti sociali in ma-teria d’ambiente. Domande fondamentali a cui dare risposta sono: “Gli obiettivi del piano-programma in valutazione prendono in considerazione le questioni ambientali rilevanti? La strategia di sviluppo prevede obiettivi con situazioni reciproche di antagonismo o di sinergia? Gli obiettivi di sviluppo in valutazione in che misura sono coerenti con gli obiettivi ambienta-li prestabiliti? Quali sono i soggetti consultati nella procedura di VAS e in che modo si è tenuto conto nel piano dei risultati delle consultazioni?”. Esempi di at-tività da effettuare nella redazione di questo capitolo sono: l’acquisizione di informazioni sui contenuti di piano, fin dalle fasi iniziali della sua formazione; l’in-terlocuzione per contribuire ad ottimizzare gli obiet-tivi di piano; l’individuazione di sotto-gruppi di attori da coinvolgere in virtù delle loro implicazioni am-bientali significative; l’effettuazione di interviste con le autorità ed i soggetti interessati al piano, in grado di offrire prospettive aggiuntive o complementari.

Valutazione degli effetti ambientali indotti dal piano-programma. Questa parte della valutazione è la più complessa; perciò va completata dopo le altre, quando sono state bene analizzate le azioni di piano, con le eventuali alternative. In sostanza si tratta di sti-mare gli effetti ambientali causati dalle alternative di piano, facendo ricorso ad analisi di scenario, a model-li e a indicatori ambientali. La Direttiva Europea parla di effetti ambientali in riferimento ad aspetti quali la biodiversità, la popolazione, la salute umana, la flora e la fauna, il suolo, l’acqua, l’aria, i fattori chimici, i beni materiali , il patrimonio culturale, anche architet-tonico ed archeologico, il paesaggio. In molti Paesi europei l’ambito di attenzione è stato ulteriormente esteso includendo fattori economico-sociali della so-stenibilità. La Direttiva Europea sulla VAS comunque non parla mai di “impatti” ambientali (intesi secondo lo schema DPSIR), come avviene invece nella Diret-tiva sulla VIA, ma solo di “effetti” ambientali. Tali ef-fetti ambientali possono essere: i fattori determinanti (drivers), cioè le attività socio-economiche previste e significative per l’ambiente (come ad esempio il nu-mero di abitanti presenti in un bacino, oppure l’esten-sione fisica di un insediamento); i fattori di pressione, cioè le azioni previste in grado di causare modifiche di stato delle componenti ambientali (come i prelievi di risorse naturali, di acqua o di ghiaia, le emissioni di inquinanti o i reflui scaricati in un fiume). In una VAS, considerato il livello generale delle scelte da valuta-re, difficilmente è possibile stimare le variazioni dello stato di qualità ambientale; cioè nella VAS spesso non è possibile prevedere gli “impatti” ambientali indotti (che invece sono l’obiettivo conoscitivo precipuo e fondamentale nelle procedure di VIA). Ciononostan-te la normativa italiana in materia di VAS parla spesso di “impatti”, invece che di “effetti” ambientali”, travi-sando quindi l’originaria impostazione della Direttiva Europea ed ingenerando confusione tra gli operatori

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del settore. Per valutare gli effetti ambientali è quindi necessario studiare soprattutto gli indicatori ambien-tali, selezionare gli interventi più rilevanti dal punto di vista ambientale, interagire con vari esperti e parti sociali per confrontare ipotesi alternative, applicare modelli per prevedere gli effetti ambientali indotti.

Monitoraggio e controllo degli effetti ambien-tali indotti dal piano-programma. Questa parte è molto importante, ma nella pratica è spesso trascura-ta. Domande fondamentali a cui dare risposta sono: “Come rilevare gli effetti ambientali effettivi causati dal piano/programma? Qual è il programma di mo-nitoraggio degli effetti ambientali indotti?” È meglio parlare di “programma” e non di “piano” di moni-toraggio, essendo necessario definire un tipico ela-borato programmatico, che appunto elenca “cosa” monitorare, “quando”, da parte di “chi”, con “quali” risorse. Esempi d’attività da effettuare per la redazio-ne di questo capitolo sono: definizione e revisione, nell’ambito del sistema complessivo di monitoraggio, degli indicatori di interesse; consultazioni con tecnici, amministrazioni, esponenti di associazioni, soggetti preposti alla gestione del sistema di monitoraggio ambientale per verificare la qualità degli indicatori; analisi del ciclo d’attuazione degli interventi per veri-ficare il ruolo giocato dai vari soggetti.

Sintesi del rapporto ambientale scritta in lin-guaggio non tecnico. Questa parte del rapporto è ri-chiesta espressamente dalla normativa e va sempre redatta; essa è essenziale per favorire la partecipa-zione della gente comune nel processo decisionale. Essendo una sintesi dei capitoli precedenti questa parte deve essere scritta per ultima, ma può essere conveniente premetterla agli altri capitoli del rappor-to. In pratica nella sintesi non tecnica sono riportate le domande più importanti circa gli effetti ambien-tali del piano/programma in valutazione, le questio-ni ambientali a cui comunque bisogna dare risposta. È utile verificare la facilità di trasmissione di questa parte; perciò il file relativo alla sintesi non tecnica non dovrebbe essere troppo pesante.

C

Processi decisionali inclusivi: le tecniche

I processi “inclusivi” sono tali in quanto ten-dono a includere un certo numero di persone inte-ressate a un dato problema per farle partecipare alle scelte.

In campo amministrativo, sono ormai due de-cenni che le leggi prevedono forme di decisione in-clusiva, come le conferenze di servizi, gli accordi di programma o i diversi processi istituzionalizzati che vanno sotto il nome di programmazione negoziata.

Il coinvolgimento delle associazioni e dei cit-tadini viene esplicitamente previsto in numerosi pro-grammi di riqualificazione urbana, come i contratti di quartiere. Sullo stesso criterio si basano anche i piani di zona previsti dalla legge-quadro sulle politiche sociali.

L’Unione europea ha dato un fortissimo impul-so in questa direzione. Infatti è difficile trovare pro-grammi comunitari in cui non compaiano espressioni come partenariato, coinvolgimento dei cittadini, par-tecipazione. Soprattutto, sono state vaste sperimen-tazioni a livello continentale di “decisioni a più voci” a livello locale che ora vanno a costituire un ricco pa-trimonio di buone pratiche cui ispirarsi. La dottrina ripartisce tali tecniche in tre famiglie, a seconda dei problemi che ci si propone di affrontare:

tecniche per l’ascolto, che aiutano a capire come i problemi sono percepiti dagli stakeholder e dai cittadini in genere. Possono essere impiegate in ogni fase preliminare di un processo inclusivo, quando è necessario individuare i possibili interlocutori e mettere a fuoco i temi su cui lavorare;

tecniche per l’interazione costruttiva, ossia i metodi che aiutano i partecipanti a relazionarsi reciprocamente e produrre conclusioni costruttive;

tecniche per la risoluzione dei conflitti, riguardano i criteri operativi che aiutano ad affrontare questioni controverse.

La distinzione tra queste tre famiglie è tutt’al-tro che netta (spesso stanno a cavallo tra ambiti di-versi) ma sono utili ai fini espositivi.

Approcci e tecniche per l’ascoltoIn questo caso si tratta di “ascolto attivo”, che

si fonda su alcune regole:

Se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo devi chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva;

Quello che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cam-biare il tuo punto di vista;

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Le emozioni sono strumenti conoscitivi fonda-mentali, se sai comprendere il loro linguaggio: non ti informano su cosa si vede, ma su come lo si guarda.

Tale logica trova prevalente applicazione nei seguenti modelli operativi:

Outreach, ossia andare a cercare – secondo il principio che “è la montagna che va da Maometto…” – attraverso vasti strumentari di modalità, tra cui:

Distribuzione di materiale informativo nelle case o in situazioni di aggregazione (mercati, assemblee, ecc.);

Articoli su stampa locale, spot su radio e TV,Interventi informativi nell’ambito di riunioni di

specifici gruppi (ad esempio, una bocciofila, un’as-sociazione ricreativa, ecc.);

Strutture mobili (caravan, camper, container) come presenze simboliche sul campo che fungano da “uffici volanti” per indurre momenti di consulta-zione;

Svolgimento di camminate di quartiere,Attivazione di punti di riferimento in loco.

Animazione territoriale, simile all’Outtreach, viene adottata soprattutto nei progetti di sviluppo locale concentrati (Patti territoriali, progetti integrati, ecc.). La premessa è che lo sviluppo socio-economi-co d’area passa attraverso un approccio progettato e gestito in prima persona dagli attori pubblici e privati di un dato contesto (enti locali, rappresentanze asso-ciative degli interessi, parti sociali, autonomie funzio-nali, terzo settore, ecc.) attraverso quattro fasi:

Dinamizzazione e sensibilizzazione dell’area,Acquisizione e socializzazione di informazioni

ed esperienze,Incremento della cooperazione tra gli attori,Elaborazione condivisa di progetti di sviluppo

territoriale;

Ricerca-Azione partecipata. La cosiddetta Action Research che pur avendo scopi conoscitivi promuove un attivo coinvolgimento di tutti gli attori sociali significativi del contesto in cui si opera. Il coin-volgimento degli stakeholder della comunità, ricono-sciuti non solo come portatori di interessi ma anche come risorse, porta alla successiva attivazione di un Forum Locale chiamato ad alimentare tutte le fasi della Ricerca-Azione (messa a punto dello strumento di indagine, campionamento, pre-test, somministra-zione, elaborazione dati, analisi e interpretazione, re-dazione del report finale, restituzione pubblica);

Camminate di quartiere, quale tecnica per s uperare la separazione tra progettisti e urbanisti, che in prevalenza lavorano su carte e dati, e gli abi-tanti, che conoscono molti aspetti significativi che non possono essere colti se non vivendo sul cam-po. Tali camminate sono il metodo informale per

superare tale fossato e – di solito – si concludono in un luogo di riunione, per proseguire le conversazioni avviate e concordare una sintesi.

Punti, si tratta di sportelli ubicati all’interno di aree urbane oggetto di interventi di trasformazione, accompagnano tali interventi per tutta la loro durata svolgendo la funzione di interfaccia tra abitanti, im-prese costruttrici e committente pubblico:— Ascoltare vissuti, bisogni e aspettative in merito alla riqualificazione,— Contenere i disagi creati dai lavori attraverso una capillare informazione preventiva,— Raccogliere segnalazioni,— Facilitare un’atmosfera positiva,— Favorire la partecipazione/controllo degli abitanti del quartiere interessato. Al limite, arrivando a con-cordare modifiche del progetto iniziale.

Focus group, ossia un piccolo gruppo di per-sone che discutono uno specifico tema. Si ricorre a questa tecnica quando emerge la necessità di inda-gare in profondità su uno specifico argomento. Tale tecnica può essere adottata per diversi scopi:— Definire obiettivi operativi,— Identificare un problema dalle differenti sfaccettature,— Impostare un vero e proprio lavoro di progettazione,— Studiare quali reazioni l’intervento susciterà in talune categorie di persone.

Brainstorming, come scambio destrutturato di idee per un processo di ideazione creativa, viene utilizzato per individuare soluzioni che innovino i mo-delli correnti. Viene condotto da un facilitatore, co-stantemente attento a:— Proporre il tema iniziale in modo chiaro e semplice,— Invitare i partecipanti a sospendere il giudizio,— Favorire le proposte estreme e spiazzanti, acco-gliendo qualunque proposta,— Registrare su una lavagna o foglietti adesivi ogni idea espressa, in modo che sia visibile e – dunque – utilizzabile per successive elaborazioni,— Incoraggiare le variazioni sulle idee espresse da altri;

Approcci e tecniche per l’interazione costruttiva

Tali metodi si basano su un presupposto: ciò che conta è il modo con cui vengono presentati i pro-blemi (i tempi previsti per l’interazione, la disposizio-ne spaziale dei partecipanti, l’assistenza di facilitatori, la suddivisione dei lavori in piccoli gruppi e fasi, la comunicazione tra i partecipanti, ecc.). Alcune tec-niche si basano sulla costruzione di scenari (EASW, Action Planning, Search Conference), avviando un dialogo che ha per offetto un futuro in cui interessi e contrapposizioni contingenti si stemperano, altri sulla simulazione (Planning for Real), ad esempio un plastico, altre ancora sulla spontaneità (Open Space

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Technology, Laboratori di Quartiere), in cui si destrut-tura l’incontro in modo da favorire ogni forma di ini-ziativa personale:

EASW (European Awareness Scenario Work-shop), nato in Danimarca e adottato nel 1994 dalla Commissione europea, il “processo di consapevolez-za (awareness) pone la propria enfasi sullo sviluppo tecnologico, con particolare attenzione alle politiche ambientali. Si tratta in pratica di un workshop di due giorni in cui una trentina di partecipanti (politici/am-ministratori, operatori economici, esperti e cittadini utenti) si impegnano a elaborare due visioni alter-native del futuro (una idilliaca e una catastrofica) e poi elaborare idee relative. Suddivisi in quattro sot-togruppi i partecipanti elaboreranno un pacchetto di proposte da sottoporre alla validazione in plenaria;

Action Plannng, un metodo nato in ambiente anglosassone con cui progettare coinvolgendo por-tatori di disagi, invitati prima a ricostruire il proprio contesto negli aspetti negativi e positivi, poi a espri-mere previsioni sui cambiamenti che interesseranno il quartiere e sugli effetti attesi;

Search Conference, progettata dal teorico di sistemi complessi Fred Emery, SC ha per oggetto un futuro realizzabile sulla base delle opzioni espresse dai partecipanti;

Planning for Real, rivolto a persone non abitua-te alla presa della parola in pubblico, il suo punto di partenza è sempre un modello tridimensionale il cui scopo è quello di aiutare i residenti a identificare ogni elemento del proprio quartiere e a individuare su di esso gli interventi che ritengono necessari. Il PfR è un metodo di progettazione partecipata sviluppao, a partire dagli anni ‘60-‘70, dalla Education for Neigh-borhood Charge dell’Università di Nottingham;

Open Space Technology, messa a punto nel-la metà degli anni ‘80 dall’esperto di organizzazione americano Harrison Owen, responsabilizza i parteci-panti nel darsi le proprie regole di lavoro. Obiettivo è quello di eliminare la noia, sempre in agguato in queste consultazioni guidate. Pericolo che si cerca di evitare con quattro regole:— Chi partecipa è la persona giusta,— Qualsiasi cosa succeda va bene,— Quando si inizia si inizia,— Quando si finisce si finisce;

Laboratorio di quartiere, teorizzato dall’im-prenditore teorico dell’organizzazione Gianfranco Dioguardi come strumento didattico coinvolgente, più che una particolare metodologia definisce un luogo: una sede attrezzata dove amministratori, pro-gettisti, abitanti, operatori economici ed esponenti dell’associazionismo possano incontrarsi con la me-diazione di un facilitatore;

Incontri di scala, sono strumenti di ascolto com-positi che combinano in modo coerente un insieme di

principi e strumenti di intervento relativi all’ascolto at-tivi del territorio e della simulazione progettuale.

Approcci e tecniche per la gestione dei conflittiMolto spesso processi di tipo inclusivo si ren-

dono necessari proprio perché esiste un conflitto in atto o perché si presuppone plausibilmente che un in-tervento pubblico (esempio classico: la localizzazione di una discarica) possa suscitare forti opposizioni.Tali conflitti – potenziali o in essere – si presentano come un gioco a somma zero: o vince l’uno o vin-ce l’altro, con evidenti effetti dissipatori in materia di coesione e convivenza sociale. Per trasformare un conflitto in un’operazione a somma positiva ci sono due sinergiche modalità possibili: la negoziazione e la discussione.Questo è possibile attraverso alcuni passaggi:

— Portare le parti attorno a un tavolo;— Orientare la negoziazione al compromesso;— Concentrarsi sugli interessi e non sulle posizioni;— Inventare soluzioni reciprocamente vantaggiose;— Definire strumenti di controllo sull’attuazione dell’accordo.

A tale scopo sono stati messi a punto alcune metodologia ad hoc:

Conflict Spectrum, elaborato dal Berghof Center di Berlino, si tratta di un metodo per trattare un conflitto che si trova in uno stadio iniziale; dando alle persone – attraverso giochi di ruolo – la possibilità di capire il senso delle posizioni altrui e di avere un’idea più precisa di quante sono le persone che le condividono;

Processi deliberativi, sulla base degli studi del politologo americano James Fiskin, platee di cittadini sorteggiati mettono a fuoco le condizioni di una decisione (to deliberate) avendo ottenuto le informazioni necessarie da un soggetto terzo (e – quindi – neutrale);

Analisi muticriteri, in presenza di una serie di soluzioni alternative predefinite tra cui bisogna ope-rare una scelta. In questi casi è possibile trovare una soluzione condivisa ragionando insieme sui criteri di scelta, piuttosto che sulle singole alternative. In sinte-si le tappe sono le seguenti:— Definizione dei criteri (quali aspetti sono rilevanti e misurabili),— Assegnazione dei pesi (messa in gerarchia dei criteri individuati),— Valutazione delle alternative rispetto ai criteri,— Realizzazione di un algoritmo di analisi multicriteri;

Giurie di cittadini, in presenza di una questione controversa da risolvere. Negli anni ’90 il parlamen-to danese ha introdotto le consensus conference per sottoporre al giudizio di cittadini comuni questioni tecnico-scientifiche. La stessa tecnica, raccomandata

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dall’Unione europea, è stata applicata in Francia con la conference des citoyens sugli organismi genetica-mente modificati, tenutasi nel 1998 presso il Parla-mento. Altri esempi si segnalano negli Stati Uniti e in Germania. In tali giurie i cittadini vengono selezionati in modo a essere rappresentativi dell’intera popola-zione dal punto di vista socio-demografico. La fase iniziale si articola in tre momenti principali.— Invito formale che descrive gli scopi dell’iniziativa,— Incontro domicilio – da parte di un membro del gruppo di coordinamento – con ogni potenziale partecipante per chiarire l’iniziativa e predisporre la partecipazione,— Alternanza di informazione, discussione e lavoro di gruppo, sia in riunione plenaria, sia in sottogruppo;

Bilancio partecipativo, introdotto nella città di Puerto Alegre negli anni Novanta e poi applicata in un numerose altre di città brasiliane si è diffuso in tut-to il mondo. Nasce dall’esigenza di ripartire in modo trasparente ed equilibrato le spese in conto capita-le previste dal bilancio comunale tra i vari quartieri cittadini. Si tratta di una politica di tipo distributivo con potenzialità conflittuali, visto che la somma da ripartire è fissa. Il problema è stato risolto attraverso l’applicazione di un metodo multicriteri.

D

Innovazione come scambio comunicativo

Il ParadigmaNell’attuale fase storica il paradigma tecno-e-

conomico dominante attribuisce particolare rilievo al “capitale sociale territoriale”, con un ruolo sempre maggiore svolto dalla presenza di “comunità della scienza e del sapere” d’area (Università e Centri di Ricerca) disponibili a cooperare e integrarsi con le “comunità d’impresa” dirimpettaie.

Tali comunità locali sono l’incubatore primario di sviluppo high-tech.

L’incontro tra i due know how (tecnologico e imprenditoriale), necessari per innescare il fenomeno chimico dell’intraprendenza, avviene nei cosiddetti milieux d’innovazione: luoghi deputati a facilitare lo scambio comunicativo tra ricercatori, imprenditori e manager nelle forme dello spin-off, dello start-up e del trasferimento tecnologico.

Il sociologo di Berkeley Manuel Castells defini-sce questo milieu “un insieme specifico di relazioni di produzione e di management, basate su un’organizzazione sociale che condivide una cultura del lavoro e obiettivi stru-mentali volti alla generazione di nuova conoscenza, nuovi processi e nuovi prodotti”.

Quindi, Università e Centri di Ricerca non ven-gono impegnati soltanto quali contenitori di saperi, ma anche attraverso un coinvolgimento in prima per-sona. Cioè, la creazione di imprese per la valorizza-zione diretta di risultati scientifici e tecnologici delle istituzioni di ricerca, attuata attraverso l’imprendito-rializzazione diretta di quei ricercatori (al limite, di quegli studenti) che hanno messo a punto l’idea base del nuovo business.

Vale il caso dell’università di Stanford, che con oltre 4mila incubazioni aziendali ha svolto un ruo-lo determinante per il decollo di Silicon Valley; non meno importante quello del Massachusetts Institute of Tecnology (Mit), agente fecondatore del distretto high-tech bostoniano (Route 128).

Al riguardo, i cronisti della rivoluzione informa-tica americana – nata con l’improbabile ubicazione in un’area semirurale della California settentrionale (Si-licon Valley) – raccontano una storia che risale a oltre mezzo secolo fa: nel 1951 Friederick Terman, allora preside della Stanford University, promosse la nasci-ta in quell’area di un Parco Tecnologico, convincendo due suoi allievi – William Hewlett e David Packard – a localizzarvi l’azienda elettronica (Hp) che avevano fondato già nel 193822.

Ben presto, per effetto attrattivo del primo in-sediamento, il Parco si riempì di imprese del settore, dando vita a una dinamica distrettuale. Prese forma e si precisò – così – il paradigma tipico dei distretti

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tecnologici, in cui la condizione primaria per l’avvio e il successivo consolidamento dipende strettamente dalle qualità relazionali e comunicative tra soggetti diversi, che mettono a fattore comune le rispettive competenze.

Il modello affermatosi negli States si è ormai radicato anche in importanti centri universitari eu-ropei, da Lund (Svezia) a Cambridge (UK), a Twen-te (Olanda); fino a diventare patrimonio dell’intera Unione, intenzionata a “fare dell’economia europea la più competitiva e dinamica del mondo, fondandola sulla conoscenza”.

La cosiddetta “Strategia di Lisbona”; ossia, la risposta alla sfida della globalizzazione e della Net Economy, propugnata nel Consiglio europeo stra-ordinario tenutosi – appunto – a Lisbona nel marzo 2000.

A tale scopo il Consiglio ha individuato una serie di azioni. In particolare, la creazione di piatta-forme che raggruppino il know how tecnologico, le industrie, gli organismi di regolamentazione e le isti-tuzioni finanziarie per rafforzare i legami tra ricerca e impresa.

Questo – appunto – il modello teorico di riferi-mento, i cui successi si misurano sul metro delle im-prese e dei (buoni) posti di lavoro creati rinnovando merceologie.

Come tale paradigma viene declinato in Italia? Cioè un Paese alla disperata ricerca della riqualifica-zione del proprio modello di sviluppo, a partire dal mix produttivo.

Perché – al di là delle chiacchiere da convegno – si compete offrendo beni e servizi che suscitino inte-resse. Come fu al tempo del Miracolo Economico; trainato da prodotti di rinomanza mondiale quali la 600 Fiat, la Divisumma Olivetti, la Vespa Piaggio o il Moplen della Montedison (con cui il capo ricerca Alessandro Natta vinse il premio Nobel). Mentre il catalogo su cui giochiamo la nostra sempre più fle-bile partita ormai presenta livelli di creatività incor-porata medio/bassi, con soglie minime alla riprodu-cibilità in Paesi a costi del lavoro inferiori.

Dunque una partita vitale. Ma in cui si eviden-ziano ancora una volta le carenze della nostra men-talità formalistico-burocratica, inchiodata alla cultu-ra degli adempimenti a scapito del problem solving, incapace di dare concrete applicazioni in tema di networking competitivo. Ci si limita a occultare il fal-limento con retoriche mistificatorie di un high-tech salvifico, stile manna dal cielo; simulando mirabilie inesistenti.

L’osservatorio genoveseUn buon punto di osservazione è l’area di Ge-

nova, nella cui periferia opera da quasi un decennio l’Istituto Italiano di Tecnologia, fortemente voluto dall’allora ministro Giulio Tremonti e ora adottato dal governatore Claudio Burlando; destinatario di ci-

clopici finanziamenti pubblici (a fronte del prosciu-gamento dei trasferimenti per il resto della ricerca nazionale). Dello strombazzato lavorio IIT non per-vengono notizie in termini di effetti fertilizzanti del territorio limitrofo, devastato dalla deindustrializza-zione. Ma se ne chiedi ragione al direttore scientifico Roberto Cingolani, ti risponde che i mandati ricevuti dal finanziatore pubblico sono ben altri: in primo luo-go “mantenere un alto profilo”.

Dunque, fornire spunti per le solite campagne d’immagine.

Come pura immagine si sta rivelando la cit-tadella tecnologica in costruzione dall’altro lato di Genova, sulla collina di Erzelli. Progetto a cui Renzo Piano, l’iniziale progettista, ha tolto quasi immediata-mente la “firma” perché stravolto da logiche specula-tive; fatte proprie già da chi sta installandosi nei suoi 45 ettari. Come la Ericsson che, appena ricevuti i fi-nanziamenti pubblici compensativi del trasferimento di sede, ha subito provveduto a licenziare il proprio reparto Ricerca&Sviluppo: alla faccia del milieu d’in-novazione.

In effetti questo gran parlare di high-tech sen-za traduzioni reali induce il sospetto che si tratti di fumisterie a copertura di operazioni sostanzialmente immobiliaristiche. Come ormai a Genova si sta dicen-do sempre più frequentemente.

Niente a che fare con casi di successo con-seguiti a poco più di un centinaio di chilometri dal capoluogo ligure: ossia quelle cinquemila imprese innovative attivate da un’abile gestione delle ferti-lizzazioni incrociate nel distretto scientifico di Niz-za-Sophie Antipolis.

Tendenze ampiamente confermate dal dato nazionale, con l’Italia che stenta a tenere il passo dell’innovazione tecnologica europea.

A tale proposito le statistiche parlano chiaro: al 2010 le spese nazionali in R&S ammontano all’1,26% del PIL, a fronte di una media europea del 2,01% (con punte che arrivano al 3,9% in Finlandia); per ogni mi-lione di abitanti i nostri brevetti si aggirano sui 78, a fronte dei 111,6 del continente. E via seguitando.

Parlandone con i diretti interessati i colli di bot-tiglia saltano fuori: l’afasia delle comunità scientifi-che, in assenza di intermediari che ne accompagnino l’interlocuzione con il mondo industriale, l’approccio delle imprese all’opportunità tecnologica tendente alla questua (interessate a incassare sussidi pubblici, più che alle possibili partnership innovative).

Difatti – a parte minime eccezioni – non emer-gono effettive specializzazioni di territorio fondate sull’opportunità tecnologica.

Anche perché non ci sono decisori pubblici in grado di operare quelle scelte di indirizzo che inne-scano strategie.

Questa la ragione per cui, al fine di affrontare il tema strategico cruciale del rapporto tra saperi e innovazioni per lo sviluppo locale, risulta inevitabile

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affrontare il tema delle politiche industriali su base territoriale.

Per quanto riguarda il “capitale sociale territo-riale”, come si diceva un ruolo sempre più importan-te è rappresentato dalla presenza di “comunità della scienza e del sapere” (Università e Centri di Ricer-ca) pronte a integrarsi e cooperare con le “comunità d’impresa”.

Infatti, queste comunità locali della conoscen-za sono l’incubatore primario dell’impresa high-tech. L’incontro tra i due know how (tecnologico e im-prenditoriale), necessari per innescare la chimica ne-cessaria agli start-up, avviene nei cosiddetti milieux d’innovazione; luoghi deputati a facilitare lo scambio comunicativo tra ricercatori, imprenditori e manager nelle forme dello spin-off e del trasferimento tecno-logico.

Infatti l’Università e i Centri di Ricerca non ven-gono coinvolti nello sviluppo competitivo d’area so-lamente attraverso il trasferimento tecnologico. Una seconda modalità altrettanto importante è rappre-sentata dai cosiddetti spin-off. Cioè, la creazione di imprese che nascono dalla valorizzazione diretta di risultati scientifici e tecnologici delle istituzioni di ri-cerca, attuata attraverso l’imprenditorializzazione di quei ricercatori (e – al limite – di quegli studenti) che hanno realizzato l’innovazione alla base del nuovo business.

Da anni, il modello affermatosi a Stanford e al Mit si è ormai radicato anche in importanti centri universitari europei, da Lund (Svezia) a Cambridge (UK), a Twente (Olanda); fino a diventare strategia fatta propria dall’intera Unione Europea: “fare dell’e-conomia europea la più competitiva e dinamica del mondo, fondandola sulla conoscenza”.

Con questo si fa riferimento alla cosiddetta “Strategia di Lisbona” e relativa “Agenda”; ossia, la risposta dell’Unione alla sfida della globalizzazione e della Net Economy, definita nel Consiglio europeo durante la sessione straordinaria tenutosi – appunto – a Lisbona nel marzo 2000.

Nel giugno 2005 l’Unione europea ha dato in-carico a un gruppo multidisciplinare di esperti, co-ordinato da sociologo Brian Wayne, di verificare lo stato avanzamento lavori impostati dall’Agenda co-munitaria di cinque anni prima.

Tale ricerca si è conclusa nel gennaio di due anni dopo e i risultati sono stati raccolti nel rapporto “Taking European Knowledge Society Seriously”.

Nel quadro continentale ovviamente variega-to, per quanto riguarda il mondo delle imprese tale Rapporto evidenzia diffuse resistenze all’innovazione soprattutto nei ruoli manageriali, mentre gli impren-ditori manifestano una accentuata propensione al rischio, in particolare nelle piccole e medie imprese.Con una significativa precisazione ulteriore: l’impor-tanza essenziale rappresentata dalla presenza di forti mediatori culturali per far dialogare impresa e ricerca.

Ovvero, il cosiddetto “tecnological push”: l’ef-fetto spinta23 attraverso le filiere del trasferimento tecnologico. Nella convinzione in base alla quale l’in-novazione scientifica non è “il sapere per il sapere”, bensì il sapere per la competitività.

Il problema ancora una volta evidenziato è come mettere a disposizione tali informazioni in ma-niera efficace, rendendole immediatamente fruibili.

A tale riguardo il Rapporto mette in guar-dia dalle “retoriche dell’economia della conoscen-za” vigenti, che alimentano il rischio di considerare il pubblico in genere come una controparte dl tutto all’oscuro dei fondamenti della scienza. Da qui l’indi-cazione dell’importanza di azioni per la sensibilizza-zione alla tematica a sempre più largo raggio.

La via per ricreare l’industrial atmosfhere del XXI secolo.

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Niente a che fare con casi di successo conseguiti a poco più di un centinaio di chilometri dal capoluogo ligure: ossia quelle cinquemila imprese innovative attivate da un’abile gestione delle fertilizzazioni incrociate nel distretto scientifico di Nizza-Sophie Antipolis. Tendenze ampiamente confermate dal dato nazionale, con l’Italia che stenta a tenere il passo dell’innovazione tecnologica europea. A tale proposito le statistiche parlano chiaro: al 2010 le spese nazionali in R&S ammontano all’1,26% del PIL, a fronte di una media europea del 2,01% (con punte che arrivano al 3,9% in Finlandia); per ogni milione di abitanti i nostri brevetti si aggirano sui 78, a fronte dei 111,6 del continente. E via seguitando. Parlandone con i diretti interessati i colli di bottiglia saltano fuori: l’afasia delle comunità scientifiche, in assenza di intermediari che ne accompagnino l’interlocuzione con il mondo industriale, l’approccio delle imprese all’opportunità tecnologica tendente alla questua (interessate a incassare sussidi pubblici, più che alle possibili partnership innovative). Difatti – a parte minime eccezioni – non emergono effettive specializzazioni di territorio fondate sull’opportunità tecnologica. Anche perché non ci sono decisori pubblici in grado di operare quelle scelte di indirizzo che innescano strategie. Questa la ragione per cui, al fine di affrontare il tema strategico cruciale del rapporto tra saperi e innovazioni per lo sviluppo locale, risulta inevitabile affrontare il tema delle politiche industriali su base territoriale. Per quanto riguarda il “capitale sociale territoriale”, come si diceva un ruolo sempre più importante è rappresentato dalla presenza di “comunità della scienza e del sapere” (Università e Centri di Ricerca) pronte a integrarsi e cooperare con le “comunità d’impresa”. Infatti, queste comunità locali della conoscenza sono l’incubatore primario dell’impresa hi-tech. L’incontro tra i due know how (tecnologico e imprenditoriale), necessari per innescare la chimica necessaria agli start-up, avviene nei cosiddetti milieux d’innovazione; luoghi deputati a facilitare lo scambio comunicativo tra ricercatori, imprenditori e manager nelle forme dello spin-off e del trasferimento tecnologico.

PRODUZIONE

MILIEU D’INNOVAZIONE

Necessità di accesso allaconoscenza tecnologica

Lavoro innovativo qualeprincipale fattore di produzione

Ambiente innovativocome condizione generaledi produzione perché illavoro innovativo siaforza produttiva

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Note

22 M. Castells, La nascita della società in rete, Egea Milano, pag. 66

23 Fabio Biscotti e Arianna Santero, “Esperienze e progetti”, Queste istituzioni, aprile-giugno 2008

E

Una possibile interdipendenza virtuosa:

“il porto invisibile”24

A titolo di esempio si propone una riflessione sulle possibili sinergie relazionali attivabili strategica-mente sulla residua eccellenza di territorio: il sistema portuale ligure.

Il porto immateriale e le relazioni competitiveLa questione del “valore invisibile” di un porto

(quanto nel lessico dell’Unione europea viene ormai correntemente definito “soft value”) risulta assolu-tamente cruciale nella determinazione degli scambi positivi tra waterfront e hinterland. In particolare, al fine di comunicare efficacemente alle cittadinanze che vivono e lavorano in una città portuale quanto la presenza del proprio scalo risulti essere un fondamen-tale asset di sviluppo; quindi, di interesse generale.

Aspetto che – ad oggi – non viene adeguata-mente messo in evidenza. Tale deficit conoscitivo (e poi comunicativo) si riscontra, in maniera a dir poco singolare, proprio da parte dei diretti interessati (os-sia le port communities); dato che la comunicazione istituzionale corrente si limita per lo più alla fredda esposizione burocratica di dati quantitativi (merci sfuse e teus trattati o passeggeri transitati), quando l’obiettivo di una effettiva informazione richiedereb-be particolari attenzioni rivolte a dati anche qualita-tivi e molto spesso immateriali (intangibili), di non sempre facile individuazione. Soprattutto a fronte del fatto che le implicazioni negative, direttamente come indirettamente derivanti dalle attività portuali, sono sempre molto evidenti, “visibili” (consumo di spazi, gravami sul traffico urbano ed extraurbano, ecc.), e favoriscono il consolidarsi della pericolosa, tendente all’autolesionistica, percezione da parte delle popola-zioni che il porto risulterebbe molto più un costo che non un vantaggio, un ricavo sociale.

Dal punto di vista analitico e concettuale, que-sto risulta – in qualche misura – lo stesso problema che viene affrontato dal marketing territoriale quan-do, nella sua azione promozionale rivolta all’attrattivi-tà (di investimenti industriali come di flussi turistici), si sforza proprio di affiancare al tangibile l’intangibile:

Infatti, ogni territorio è costituito da un insieme complesso di elementi materiali (tangibili) e di ele-menti immateriali (intangibili). Si potrebbe aggiunge-re che è caratterizzato – appunto – dalle relazioni di interdipendenza tra di loro esistenti:

— fattori, cioè risorse economiche, sociali e culturali per “il fare impresa”;

— vocazioni, cioè orientamenti produttivi interiorizzati dalla società locale;

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— saperi, cioè conoscenze, competenze e abilità dif-fuse che il territorio raccoglie e mette a disposizione delle iniziative;

— opportunità, cioè scelte politiche (locali, nazio-nali, europee) e dinamiche globali che attendono di essere colte dall’iniziativa imprenditoriale virandole a business.

Sicché l’attrattività complessiva discende di-rettamente dal loro interagire positivo.

In particolare, gli elementi “intangibili” sono assolutamente specifici di un’area: lo spazio perime-trato dove si manifestano in modalità specifiche, dif-ficilmente riproducibili altrove.

Tra tali componenti, le principali sono: il si-stema dei valori civili e sociali, le attività rivolte alla conoscenza, il livello di competenza del tessuto pro-duttivo e sociale locale, la qualità delle risorse uma-ne, l’intensità degli scambi con l’esterno, il grado di attrazione dell’area rispetto ad altri territori, il grado di maturazione sociale, il livello di benessere e la sua distribuzione, l’efficienza/efficacia dei meccanismi amministrativi locali...L’insieme di questi elementi costituisce “lo spirito del luogo”. Ossia, un prodotto storico che esprime ideal-mente una tradizione (genius loci, come capitale so-ciale) che diventa fattore competitivo nella misura in cui è orientabile allo sviluppo.

In conclusione, l’insieme di elementi tangibili e intangibili di un territorio costituisce il suo “capitale sociale”. È lecito affermare che – grosso modo – lo stesso criterio vale anche per il porto: una serie di interdipendenze positive che determinano opportu-nità competitive. D’altro canto questa è la tesi che emerge dai modelli di rappresentazione che vengono proposti dall’Europa (in materia di soft value).

La difficoltà – come detto – risulta essere quella di fare emergere con precisione le “interdi-pendenze apparentemente invisibili”. Del resto e per inciso, questa è l’operazione ricostruttiva che sta alla base dei cosiddetti “Bilanci Sociali” (l’evidenzia-zione degli effetti indotti da una certa attività); stru-mento analitico, e non meramente contabile, diffu-sosi già da alcuni decenni in altri settori, ma che solo da poco tempo comincia a essere recepito anche da quello portuale.

Dunque, un problema conoscitivo al servizio di una comunicazione capace di produrre rappresen-tazioni più complete e realistiche dell’attività legate al mare. Al limite, la loro “desiderabilità”, da parte di quegli abitanti d’area che – come anche in questo caso si diceva – percepiscono sulla propria pelle sol-tanto le negatività.

Visto che – appunto – le positività non sono sempre di facile individuazione. E – ribadiamo – le stesse comunità portuali sembrano indifferenti alla questione, pur così importante per la loro stessa va-lorizzazione sociale.

Uno specifico quanto del tutto trascurato cam-po di ricerca per la network analysis.

Al riguardo, un segnale in assoluta controten-denza ci giunge ora dal Report 2010 dell’Osservatorio sul traffico delle crociere nel Mediterraneo promosso da EBNT, l’Ente Bilaterale Nazionale del Turismo.

Ovviamente limitato all’aspetto crocieristico.Il rapporto inizia con una provocazione: “in soldoni la questione è molto seria: il boom delle crociere non starà avvenendo a scapito dell’incoming? E il rischio di un effetto-sostituzione richiama ad una questione più generale: se cioè la crocieristica sia un fenomeno ed un comparto produttivo a stretto senso riconducibile all’industria turistica di un Paese o di un territorio”.

Ecco ribadito il punto: “tutte le analisi italiane disponibili, condotte soprattutto a livello locale sotto la spinta di una opinione pubblica che si chiede quale sia il vero vantaggio che rimane sul territorio per ef-fetto del business crocieristico, tentano di dimostrare l’importanza del comparto per le economie locali ma lo fanno in termini piuttosto sommari”.

“Termini sommari”, l’aspetto su cui il Report si sofferma domandandosi “che senso ha, allora, conta-re e magnificare la crescita del numero di viaggiatori, se non si sa distinguere il loro effettivo coinvolgimen-to nel sistema turistico locale?”. “Infatti ogni volta che una nave si accosta ad un molo oggettivamente si crea un flusso economico di cui beneficiano il porto ed, indirettamente, il territorio. Quando i viaggiato-ri scendono a terra anche solo per escursioni, ed a maggior ragione se pernottano prima o dopo l’im-barco, questo flusso si rafforza e prende oggettiva-mente le forme di un fenomeno turistico”.

Per cui, tirando le fila, “la nuova stagione della crocieristica in Italia, leader quantomeno Mediterra-neo e continentale del comparto, dovrà giocoforza portare con sé anche questa nuova capacità di di-scernimento degli effetti di costi sociali e investimen-ti pubblici da un lato, ed investimenti privati e spese finali dall’altro, con il loro portato di redditi ed occu-pazione”.

Enunciato il principio, il documento passa a esplorare l’annunciata questione delle interdipenden-ze positive; precisando che le metodologie correnti di analisi d’impatto applicabili al comparto crocieri-stico sono riferibili a diversi filoni, corrispondenti ai diversi aspetti del sistema, come alle varie “maglie” della filiera produttiva specifica. Quindi:— la cantieristica per la produzione e la manutenzio-ne delle unità di crociera;

— l’azienda portuale complessiva, intesa come l’in-frastruttura in grado di dare ricovero a un’imbarca-zione e di assicurare tutte le operazioni necessarie;

—la gestione armatoriale delle attività connesse, nei vari aspetti aziendali di rilievo, dall’amministrazio-ne all’operatività al marketing, fino alla vendita del prodotto;

— gli acquisti e le varie spese che i cruise operators sostengono in relazione alle attività portuali e ai rifornimenti necessari sia per le navi che i loro equipaggi, oltre che evidentemente per i passeggeri;

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— il turn-around degli equipaggi stessi;

— la vendita vera e propria del prodotto crocieristi-co, nel momento in cui viene affidata ad apposite strutture professionali specifiche;

— le spese dirette dei crocieristi che rientrano nel pacchetto acquistato, che variano ovviamente a se-conda che esse comprendano o meno attività a terra (normalmente opzionali) come visite, escursioni, ecc.;

— le spese extra dei crocieristi, sia in relazione al raggiungimento del porto di imbarco (home port) ed all’eventuale pernottamento in loco pre e post crociera, che alle relative escursioni a terra (ristora-zione, shopping, ecc.).

Sicché, osservando il quadro europeo com-plessivo, emerge che l’industria crocieristica nel 2008 ha fatto registrare una spesa diretta di 14 miliardi di euro, e un contributo totale all’economia (diretto+in-diretto+indotto) di 32 miliardi, attivando oltre 311mila posti di lavoro e distribuendo 10 miliardi annui in re-tribuzioni. Molto interessanti le dinamiche interne di tali impatti, che derivano dall’analisi del biennio 2007 al 2008:

— la spesa per l’acquisto di beni e servizi da parte del comparto è cresciuta del 15% (commissioni agli Agenti, servizi finanziari e assicurativi, food & beverage, ecc.);

— le spese dei crocieristi crescono dell’8% (escursioni, soggiorni alberghieri, ecc.);

— gli investimenti in cantieristica (costruzione, manutenzione, rifacimenti) sempre dell’8% (va sottolineato che nel 2008 erano in costruzione 20 navi nuove e 36 erano già state ordinate);

— nello stesso periodo la massa degli stipendi e salari, 1.100 milioni erogati a circa 5.000 lavoratori a terra e 50mila imbarcati (con riferimento ai soli cittadini europei) è rimasta pressoché invariata.

fonte: European Cruise Council 2009

Sulla base di questi item, il Report prosegue: “l’analisi disaggregata di questi dati generali, resa possibile dalla metodologia input-output, mostra un quadro molto stimolante e per ceri versi inedito, con riferimento sia ai flussi di spesa, che soprattutto alla componente del lavoro e delle retribuzioni”.

Infatti, prendendo in considerazione il quadro allargato (diretto+indiretto+indotto) del comparto, si evince quanto segue:

— la parte del leone viene assunta dal settore manifatturiero, con il 30% dei posti di lavoro e il 36% delle retribuzioni (che – dunque – sono più remunerative rispetto ad altri settori). Si tratta naturalmente di cantieristica, ma è tutta l’industria dei mezzi di trasporto a essere coinvolta, così come metallurgia e metalmeccanica;

— al secondo posto si piazzano i Cruise Operators con il 17,5% di addetti ma solo l’11% delle retribuzioni;

— seguono i servizi assicurativi, finanziari e business-oriented, con il 16% degli addetti e il 20% della massa salariale;

— i trasporti e le utilities impiegano il 12% dei lavoratori coinvolti e il 20% della massa salariale;

— tra i comparti che sono ancora interessati troviamo il commercio, soprattutto all’ingrosso (7% di addetti, ma solo il 2% al dettaglio) e l’ospitalità (5%, di cui i due terzi negli hotel).

Osserva ancora il documento di EBNT: “la par-ticolarità di questo quadro è piuttosto evidente, an-che se non molto conosciuta: la crocieristica fa la-vorare soprattutto altri settori, diversi e “lontani” dal turismo, e li remunera relativamente bene”.

Un messaggio estremamente significativo per l’Italia, che – come è noto – beneficia maggiormente della spesa diretta e dell’indotto crocieristico. A par-tire dalla cantieristica (il 43% del mercato mondiale delle navi da crociera è italiano), ma non solo. Come si è visto.

Indubbiamente “messaggio” di cui dovrebbero tenere maggiormente in conto le comunità portua-li, spesso in difficoltà nel valorizzare comunicativa-mente e politicamente il proprio ruolo; sempre sotto il tiro di una critica che – in larga misura – non è stata portata a conoscenza degli effetti di interdipendenza positiva di cui sopra.

Banalizzando il discorso – infatti – si potrebbe ricordare quest’ultimo dato, che emerge dalla ricer-ca in materia di impatti locali: nella media europea si stima che ogni crocierista abbia speso circa 90 euro nella città del suo porto di imbarco e 60 euro per ogni porto di toccata visitato.

Cifre complessive di tutto rispetto, che – in non trascurabile misura – rinviano la questione agli stessi territori; a cui – come si suole dire in gergo sportivo – sarebbe opportuno passare la palla: quanto queste opportunità sono state colte imprenditorialmente?

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• gli investimenti in cantieristica (costruzione, manutenzione, rifacimenti) sempre dell’8% (va sottolineato che nel 2008 erano in costruzione 20 navi nuove e 36 erano già state ordinate);

• nello stesso periodo la massa degli stipendi e salari, 1.100 milioni erogati a circa 5.000 lavoratori a terra e 50.000 imbarcati (con riferimento ai soli cittadini europei) è rimasta pressoché invariata.

19%

37%

36%

8%

personale

spese passeggeri

navi

merci e servizi

fonte: European Cruise Council 2009 Sulla base di questi items, il Report prosegue: “l’analisi disaggregata di questi dati generali, resa possibile dalla metodologia input-output, mostra un quadro molto stimolante e per ceri versi inedito, con riferimento sia ai flussi di spesa, che soprattutto alla componente del lavoro e delle retribuzioni”. Infatti, prendendo in considerazione il quadro allargato (diretto+indiretto+indotto) del comparto, si evince quanto segue:

A. la parte del leone viene assunta dal settore manifatturiero, con il 30% dei posti di lavoro e il 36% delle retribuzioni (che - dunque - sono più remunerative rispetto ad altri settori). Si tratta naturalmente di cantieristica, ma è tutta l’industria dei mezzi di trasporto a essere coinvolta, così come metallurgia e metalmeccanica;

B. al secondo posto si piazzano i Cruise Operators con il 17,5% di addetti ma solo l’11% delle retribuzioni;

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E di quanto potrebbero ulteriormente crescere, una volta che fossero oggetto di adeguate iniziative im-prenditoriali.

Anche perché attorno alle crociere possono crescere ulteriori opportunità soltanto nella misura in cui si è in grado di mettere in campo un sistema produttivo sempre più efficiente, diversificato e pro-pulsivo. La qual cosa significa che i reciproci interessi correttamente intesi di waterfront e hinterland im-porrebbero una sana divisione del lavoro per obiettivi comuni, invece dell’attuale situazione che – in genere – vede in campo separatezze. Non di rado reciproche ostilità.

Separatezze e ostilità che traggono origine proprio dalle difficoltà di avere un quadro comple-to della situazione, già per farci sopra bene “i propri conti”: un deficit di conoscenza che inevitabilmente sfocia in un distruttivo deficit di razionalità.

F

Strategie urbane contro la frammentazione

CSS Consiglio Italiano per le Scienze SocialiCommissione CSS sul “Governo delle città”Società e territori da ricomporreTesi finali del Rapporto Conclusivo aprile 2011

NOVE PROPOSTE PER LE CITTÀ

a) Politiche innovative1. Macro strumenti per macro obiettivi. Risul-

ta chiaro che il problema non è costruire le città, ma il loro governo: vale a dire gli obiettivi di fondo da perseguire, le politiche possibili per raggiungerli, gli strumenti necessari per porle in essere. Il che signifi-ca, per quanto riguarda gli obiettivi, permettere alle energie concentrate nella città di diventare elemen-ti positivi di sviluppo e di competizione, riportare la persona al centro del sistema, evitare lo sperpero del territorio. E per quanto attiene alla strumentazione, la formulazione di politiche innovative sui punti cruciali e la disponibilità di una attrezzatura e di una veste istituzionale adeguata. Con l’avvertenza che il riferi-mento è alle città più grandi, vale a dire non tutti i capoluoghi di regione, e che la loro collocazione (al nord o al sud) è da questo punto di vista indifferente dato che in ogni caso la soluzione deve essere diffe-renziata, e che si tratta di soluzioni non solo neces-sarie ma possibili, e dunque praticabili in un arco di tempo accettabile perché compatibili con i principi e le disposizioni costituzionali vigenti.

Resta ferma infatti la necessità che per il Mez-zogiorno venga adottato un intervento organico ba-sato non solo sulle risorse dei fondi di riequilibrio e perequativi previsti dal federalismo fiscale ma su una strumentazione, che in queste aree è necessaria, atta a garantire il determinante coordinamento decisiona-le e operativo tra istituzioni statali centrali e periferi-che, agenzie nazionali e autonomie territoriali.

2. Recupero del generale vs particolare. Se è improponibile muovere dall’a priori della volontà ge-nerale e della legge come sua storica espressione, è invece doveroso e possibile bilanciare le dinamiche verticalizzate delle politiche di settore e la pressione disordinata degli interessi particolari, non necessa-riamente solo privati, recuperando la dimensione di sistema e le reciproche interdipendenze e compatibi-lità grazie alla più ampia proiezione spazio-tempora-le delle politiche cittadine e all’aperto confronto dei diversi soggetti in gioco.

In sede locale, la realizzazione delle città me-tropolitane potrebbe attuarsi facendo della procedu-ra prevista dalla Legge 42/2009 una vera e propria negoziazione, caso per caso , tra centro e ciascun si-stema locale, con soluzioni ad hoc. L’ideale sarebbe che l’atto iniziale del procedimento fosse costituito da un sintetico documento politico/istituzionale ove si indichino le esigenze che la città metropolitana è

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chiamata a soddisfare, per quali ragioni le istituzioni esistenti non sono in grado di realizzarle, quale veste istituzionale (più tendente alla variante “pesante” o “leggera”) e quale ritaglio territoriale sia preferibile. Sembra preferibile evitare di introdurre un nuovo li-vello di governo, utilizzando l’ente provinciale o con attribuzione diretta di funzioni e competenze di go-verno metropolitano, o come promotore ecoordina-tore dell’intercomunalità metropolitana. In ogni caso:

→ a parte le competenze più scontate in ma-teria di ordine e sicurezza pubblica, si potrebbe pen-sare ad una legittimazione di massima ad intervenire (anche in forme incentivanti o consensuali) su nuo-vi ambiti come quelli riferibili al tempo, alla comu-nicazione, alla mobilità e alla logistica, sollecitando, qui come altrove, la presentazione di progetti o pro-grammi da parte di privati, di gruppi o associazioni, di agenzie di settore;

→ esercizio di poteri particolari inerenti alla gestione finanziaria delle risorse, entro i limiti comu-nitari, sia in termini di acquisizione (tributi, indebita-mento, ecc.) che di investimenti e di spesa;

→ il regime accordato deve contenere soluzio-ni, o consentire che la città o il sistema metropolita-no autonomamente vi provveda, sui temi della rap-presentanza politica, in particolare con riguardo alla legittimazione, oltre ai residenti, di forme ulteriori e diverse di espressione (anche telematica) di coloro che fruiscono della città e in varie forme vi pagano le tasse;

→ ritorno ai piani e programmi di nuova ge-nerazione; disponibilità di risorse supplementari, so-prattutto regolative, con finalità incentivanti; vincoli e procedure obbligatorie “di riscontro” preventivo, come la valutazione di impatto regolativo, o di coor-dinamento funzionale, come la previsione di aree fun-zionali a spesa necessariamente congiunta tra due o più apparati di settore;

→ sul piano delle strutture, accanto ad un ri-pensamento dei rapporti in sede locale tra politica e amministrazione e alla messa a punto delle rego-le per l’esternalizzazione di attività e servizi pubbli-ci, necessità di potere contare su strutture ad alta professionalità e istituzionalmente neutre (università, soprintendenze, ecc.) con un ruolo cruciale di garan-zia dei dati tecnici e di rapporto dialettico, esplicito e verificabile, con le sedi decisionali politico-ammini-strative.

La pianificazione strategica, sia pure con tutti i necessari elementi di gradualità e di costante aggior-namento, assicura insieme il respiro del tempo medio lungo, l’individuazione delle invarianti e il reciproco riconoscimento degli attori in gioco, il riequilibrio della domanda rispetto alla offerta. Ciò che confer-ma, e nello stesso tempo precisa, ruolo ed oggetto della partecipazione nelle diverse forme della società civile, specie nei confronti dei gruppi immobiliari e finanziari.

3. Risorse. finanziarie e regolative. Per para-

dossale che possa sembrare, le risorse finanziarie non sono le sole e forse neppure le principali risorse di cui le città necessitano.

Naturalmente quelle finanziarie giocano un ruolo importante, specie se accanto alle imposte da rendita fondiaria e immobiliare il quadro degli stru-menti disponibili si allarga fino a comprendere la ces-sione di asset pubblici urbani (mobiliari e immobiliari) e la costituzione di fondi di venture capital o di pri-vate equity municipali in partnership con investitori istituzionali e imprese private.

Con questi scopi si potrebbero sperimentare forme innovative di finanziamento delle pubbliche amministrazioni e in particolare dei Comuni. Posto che, nel nostro paese, si registra una inadeguata capi-talizzazione delle imprese e ancor più una strutturale scarsità di capitale destinato all’innovazione, che la disponibilità di capitale a sostegno dell’innovazione è un potenziale driver per la crescita delle economie urbane e che la dismissione di asset pubblici urbani (mobiliari e immobiliari) è destinata inevitabilmente a proseguire, l’idea dovrebbe essere quella di destinare una parte (da quantificare) delle risorse provenienti da future cessioni di asset al finanziamento di uno o più fondi di venture capital / private equity operanti a livello territoriale. Questi fondi dovrebbero funzionare con una logica di partnership / co-investimento fra il medesimo fondo di venture capital / private equity “municipale” e da un lato il socio / promotore delle iniziative imprenditoriali, dall’altro uno o più investito-ri istituzionali privati o pubblici. I fondi venture capital municipali potrebbero inoltre finanziare anche opere pubbliche innovative e interventi nei campi della rige-nerazione urbana e della sostenibilità ambientale

Ma egualmente rilevanti sono le utilità genera-te direttamente o indirettamente dalla disponibilità di risorse regolative; vale a dire, come riprenderemo più avanti, dalla possibilità di apportare adattamenti alla forma di governo, alla organizzazione amministrativa, alle regole procedurali e contabili in funzione della specificità del contesto.

Un terzo ordine di risorse, in parte latenti e in parte invece già disponibili, attiene alla creazione di valore derivante dalla convergenza verso beni comuni di attività in senso lato riferibili al terzo settore, al vo-lontariato, a prestazioni di carattere “civico” nonché, in determinati ambiti, alle stesse imprese. Anche in questo caso, la disponibilità di margini di adattamen-to o di integrazione della normativa vigente permet-terebbe alle città la messa a

punto di regolazioni appropriate al carattere specifico, e irrimediabilmente diverso, di ogni conte-sto.

4. Governo del territorio. Anzitutto, per rida-re credibilità ed efficacia al governo del territorio e ridurne una parte non trascurabile dei costi ammi-nistrativi, occorre un’opera di semplificazione legi-slativa e regolamentare. L’obiettivo è rendere più trasparenti i processi decisionali, specie per quanto

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riguarda la pianificazione urbanistica, riducendo al minimo indispensabile le opere di mediazione tecni-ca e giuridica, anche per contrastare le occasioni di scambio politico e professionale, fonti di corruzione politica e amministrativa.

Il rapporto delle città con i privati ritorna deter-minante nel caso del governo del territorio, che anzi per l’ambito urbanistico-territoriale ne rappresenta storicamente il luogo di elezione. Un governo effetti-vo del territorio richiede anzitutto la capacità di agire sulla rendita fondiaria e immobiliare e ciò presuppo-ne da parte delle amministrazioni pubbliche l’attrez-zatura tecnica e professionale (eventualmente con strutture ad hoc condivise tra più enti locali) neces-saria per operare con tempestività in materia di de-terminazione di valori fondiari e di conti economici. Ciò, oltre a favorire il controllo sui consumi e sugli usi del suolo, fornirebbe le risorse necessarie per finan-ziare servizi, housing sociale e rigenerazione urbana.

Per quanto riguarda la pianificazione territo-riale e urbanistica, va detto che le attuali forme con-sensuali e negoziate non sono in grado di garantire le esigenze sistemiche delle città senza un forte ri-equilibrio in favore del governo pubblico, cui vanno riportati il controllo della espansione periurbana, il blocco del consumo di suolo agricolo, il compatta-mento degli spazi anche con il riuso degli edifici e delle aree dismesse e le misure in genere rivolte alla sostenibilità ambientale degli interventi.

Occorre prendere atto che la pianificazione urbanistica generale (il PRGC) si dimostra ormai pra-ticamente impraticabile – e comunque inefficace – nelle grandi città, mentre può essere praticata con successo nelle città piccole e medie, dove la cittadi-nanza esercita un effettivo controllo delle decisioni. Ciò significa prevedere la formazione di unità, a di-mensione contenuta di popolazione e territorio, ov-vero ‘municipalità’ a cui affidare il potere di produr-re e adottare il piano urbanistico generale. Infatti un esercizio assimilabile alla democrazia deliberativa si può svolgere solo in una comunità di dimensioni tali da permettere che la popolazione possa essere ade-guatamente coinvolta nella discussione dei temi po-litici del piano e nel controllo delle decisioni assunte.

Passando ad esaminare e principali dinamiche territoriali che incidono sulla vita e il modo di essere della città, la prima è quella dei flussi, e cioè di quanto è riferibile ad autostrade, servizi pubblici, alta veloci-tà, telecomunicazioni, reti di energia. Considerando anzitutto il rapporto tra pianificazione dello spazio e dei trasporti, è noto il legame tra le forme spaziali d’uso del suolo e il traffico e sembrerebbe natura-le far procedere in modo cooperativo le decisioni di controllo dello spazio e di sviluppo della mobilità in-dividuale e collettiva.

Nella realtà questa collaborazione non è facile, pianificazione dello spazio e pianificazione dei tra-sporti rispondono a culture e logiche diverse, han-no processi decisionali diversi e orizzonti temporali spesso non coincidenti.

Pensare di far agire congiuntamente le due forme di pianificazione è dunque illusorio, ma sareb-be possibile e auspicabile prevedere delle occasioni obbligatorie di confronto esplicito e di dialogo usan-do i rispettivi strumenti di pianificazione; ad esempio, istituendo delle forme reciproche di vincolo.

Di conseguenza, il governo delle città inteso come governo di flussi comporta la relazione con i gestori pubblici e privati che vi operano, vale a dire non solo con i vari governi pubblici ma anche con i “governi privati” che proprio nel settore dei servizi pubblici, sono oggi concentrati. Nel definire i compiti delle istituzioni della città e del governo loro riserva-to è dunque necessario precisare, e probabilmente articolare, le reciproche modalità di relazione. Anche per questa ragione occorrerebbero investimenti sem-pre più cognitivi per la riqualificazione urbana, per la creazione di smart cities con trasporto collettivo in-telligente e multimodale, efficienza e risparmio ener-getico in tutte le forme, accelerazione sulla raccolta differenziata secondo standard comunitari. In questo senso nuove forme di collaborazione tra università e città potrebbero svilupparsi per i progetti urbani, per le basi cognitive delle scelte e per la democrazia lo-cale.

Tutto ciò presuppone una visione unitaria delle nuove opportunità offerte dalla città digitale. La sua programmazione ci permette ora di compiere il sal-to in capacità produttive e in benessere, che fu fatto quando vennero introdotte massicciamente le tec-nologie e le grandi infrastrutture materiali (trasporti, attrezzature viarie, acqua, fogne, elettricità, telefonia, illuminazione pubblica eccetera). È noto che la Pub-blica Amministrazione rappresenta una piattaforma privilegiata per questo tipo di innovazioni, nella tran-sizione da eGovernment a eGovernance. Ma la ecit-tà dilaga ormai nelle organizzazioni produttive, nella diffusione di simboli e pratiche culturali, nell’insegna-mento e negli stili di vita e di ideazione individuale e collettiva, nella visualità del decor urbano. Il go-verno di questi processi in una visione unitaria è ciò che permette la transizione verso una piena società della conoscenza. Questo significa innovazione, non solo tecnica, ma anche e soprattutto organizzativa e istituzionale, Occorre mettere in cantiere una gran-de Cyberinfrastruttura, cioè una infrastruttura per la società della conoscenza che non si limiti alle fibre ottiche o agli Hot Spots del WIFi, ma che colleghi le necessarie infrastrutture materiali con l’accesso alle informazioni, con le strutture di formazione, le proce-dure di interscambio e i servizi che le tecnologie per la informazione e la comunicazione mettono già oggi a disposizione di tutti. Essi vanno ripensati e ripro-gettati per accrescere le capacità individuali e collet-tive e per ridurre le disuguaglianze.

5. Sociale. Premesso che occorrerebbero poli-tiche nazionali per sperimentare forme nuove di so-stegno alle famiglie e agli individui soggetti a povertà in termini reddito e di welfare materiale, va notato

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che sono già possibili azioni a livello regionale e lo-cale. Esse riguardano interventi di rigenerazione del-le periferie e trattamento sistematico del problema dell’abitazione per i giovani, gli studenti, gli immigra-ti, per i marginali del mercato del lavoro. Sono inoltre possibili politiche dell’housing sociale condotte assu-mendo in modo radicale i nuovi bisogni e le nuove forme dell’abitare e sperimentando meccanismi inno-vativi di cooperazione tra pubblico e privato sociale. In particolare: sostegno e allargamento dell’affitto per specifiche tipologie di utenza (stranieri, anziani soli, studenti etc..), anche attraverso il ricorso a mec-canismi finanziari innovativi come il microcredito e la costituzione di specifici soggetti consortili.

A questo proposito si deve riconoscere innan-zitutto che la supplenza svolta finora dalle famiglie si avvicina la suo termine, sia per stress eccessivo di queste risorse materiali e morali, sia per ragioni de-mografiche. Inoltre il benessere del sistema urbano, e l’impiego di tutte le sue potenzialità umane, nella società della conoscenza e della competizione glo-bale diventa la variabile strategica. Per queste ragioni – proprio per l’esaurirsi del precedente modello – oc-corre ridefinire il welfare per il prossimo futuro. La ricerca e progettazione più avanzata7 propongono l’idea di un extended welfare: una nozione sia descrit-tiva che normativa di stati di benessere, che includo-no il grado di autorealizzazione dei soggetti e quindi il loro potenziale di capacitazione, come membri della società nei loro diversi ruoli. Non può essere che così in una società in cui conoscenza, saperi tecnici, skills specialistici e flusso di informazioni diventano fattori produttivi diretti. Ed essi nascono, evolvono e si con-sumano negli spazi urbani e in stretta connessione con questi. Diventa perciò dirimente che il governo dei sistemi urbani, nella produzione del welfare locale (ma con impatti di sistema) si orienti sempre più all’i-dea di incentivazione e sostegno delle capacità. Solo l’incontro tra politiche attive di nuova generazione e l’attivismo dei soggetti urbani potrà far recuperare i ritardi accumulati, correggere le distorsioni derivanti da un lungo abbandono, e alla fine riportarci in Euro-pa anche sotto questo profilo.

Gli obbiettivi di recupero della coesione e della convivenza sociale, oltre a rappresentare il filo conduttore delle politiche fin qui indicate , richie-dono una pluralità di interventi tra i quali hanno un peso determinante, quelli dedicati agli spazi sociali e all’immigrazione. Per quanto una parte crescente della socialità pratichi le reti virtuali della comuni-cazione e dello scambio, resta infatti determinante, per bilanciare l’isolamento nel privato dei singoli, il contatto e lo scambio assicurati dall’incontro diret-to e dunque dalla praticabilità degli spazi collettivi e pubblici. Si tratta dei luoghi più esposti al diverso, e non di rado conflittuale, uso delle innumerevoli “po-polazioni” della città e delle relative tensioni: giovani vs anziani, studenti vs lavoratori, residenti vs ester-ni, per non parlare degli immigrati la cui dimensione praticabile per la socialità è costituita spesso dal solo spazio pubblico.

La cura di questi spazi e di tutti i servizi come

scuole, attività culturali e luoghi di culto che assicura-no, talvolta anche solo di fatto (v. biblioteche, presidi sanitari), opportunità di incontro e coesione sociale rappresenta un impegno strategico nel governo del-le città. Anche perché non si tratta solo di problemi da risolvere o difficoltà da contenere ma anche, e in misura rilevante, di energie potenziali e capacità di-sponibili che il governo dei

sistemi urbani deve imparare a suscitare.Due importanti implicazioni vanno tenute pre-

senti: anzitutto il c.d. degrado e più in generale le difficoltà incontrate dalle città su questo fronte sono riferibili più all’intreccio di queste problematiche, e dunque al mancato corretto inquadramento della questione e alla conseguente omissione del coordi-namento delle diverse politiche di settore, che non alla carenza, peraltro reale,di risorse per i servizi alla persona, l’arredo urbano, la manutenzione e la vigi-lanza.

Inoltre c’è la necessità di ridefinire un qua-dro certo di competenze e di risorse in materia di immigrazione, tale da riconoscere alle città compiti chiari non solo in relazione all’emergenza ma anche sul tema di più lungo respiro dell’integrazione degli immigrati dei loro figli. Su questo secondo punto va ricordato che negli ultimi anni le città hanno perso gran parte della centralità che avevano acquisito nei decenni precedenti sul tema dell’integrazione. Alle città sono assegnati essenzialmente compiti di ge-stione delle emergenze, e alle componenti più fragili della popolazione immigrata (minori non accompa-gnati, donne vittime di tratta, rifugiati e richiedenti asilo) e in tema di sicurezza.

La diminuzione delle risorse dei comuni rende arduo persino lo svolgimento di tali compiti. Pertanto l’urgente avvio nelle città di un welfare locale, costi-tuito in buona parte dal capitale sociale (volontariato e non profit), opportunamente valorizzato dai go-verni cittadini, dovrà contare sulle risorseregolative e sulla disponibilità degli strumenti finanziari di cui si è detto in precedenza.

Porre al centro la città dei cittadini, significa anche rafforzare le forme di ascolto diretto dei sog-getti individuali e collettivi che vivono e lavorano nel-le città come occasione di quell’empowerment socia-le che costituisce la prima e più immediata possibilità di una partecipazione effettiva al pubblico attraverso il privato, e che contribuisce a formare un tessuto so-ciale più coeso e un maggiore senso di comunità.

b) Veste istituzionale adeguata6. Principi. Le politiche innovative appena

elencate non sono praticabili senza il corrispondente ripensamento della veste istituzionale e del regime giuridico delle città in chiave di adeguatezza e diffe-renziazione, a cominciare dai principi.

Il punto di ricaduta di quanto fin qui osservato, e cioè la profonda diversità dei contesti locali e in particolare il diverso grado di autogoverno possibile delle città (specie, ma non solo, nel Mezzogiorno) in ragione delle condizioni in cui queste operano, sug-geriscono di valutare caso per caso non solo quale

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tipo di autonomia riconoscere alle città in termini di contenuti, ma se e quando avviare tali processi di au-togoverno spinto e quando invece mantenere il siste-ma in atto, con l’aggiunta di un forte (e in alcuni casi determinante) sostegno dello Stato, delle sue agen-zie e della sua amministrazione periferica.

Considerando come si è detto che la situazio-ne attuale è retta, al di là delle enunciazioni di prin-cipio, da criteri di forte centralizzazione, l’autonomia non può che rappresentare il punto di arrivo più che quello di partenza. Dunque non (solo) un diritto o un a priori ma uno spazio di libertà che va riconosciuto a chi è in grado di esercitarlo in concreto. Nei confronti di chi non può o non vuole farlo, per il tempo neces-sario a superare queste

condizioni, va immaginato un regime differen-ziato e dunque il mantenimento dell’attuale regime con l’innesto di un forte impegno anche dello Stato.

È proprio per queste ragioni che lo “statuto” delle città, inteso in senso ampio come insieme di veste istituzionale, funzioni e risorse non solo deve essere inevitabilmente differenziato e confezionato di volta in volta ma va generato da un procedimen-to che muove dal basso. Da un sistema cittadino che con la capacità di indicare i macro-obiettivi persegui-ti, il modo per farlo e le risorse necessarie, mostra in concreto la fondatezza delle proprie pretese di auto-nomia e l’effettiva capacità di esercitarla, mettendo contemporaneamente sul tavolo le risorse che a que-sti fini il sistema locale, per parte propria, è in grado di mobilitare.

Non è difficile misurare la profonda differenza che intercorre tra il significato della sequenza appena illustrata e la procedura dettata dall’art. 23 della Leg-ge 42/2009, preoccupata soprattutto del rapporto tra gli attoriesistenti (comuni limitrofi, provincia, re-gione) e il nuovo soggetto nascente (città metropo-litana).

7. Statuto città: funzioni e risorse. L’esito della proposta avanzata dalle città sarà la messa a punto, da parte del Governo e del Parlamento, di un vero e proprio pacchetto di misure correlate alle condi-zioni specifiche dell’area considerata e al progetto formulato in sede locale, in modo da attrezzare ade-guatamente il governo cittadino e da dotarlo degli strumenti necessari per la realizzazione delle proprie politiche. Vi rientrano ad esempio, all’interno di un quadro di principi generali destinato a valere per tut-ti, margini di integrazione delle forme di rappresen-tanza per le diverse “popolazioni” dell’area cittadina e spazi significativi di autonomia nella definizione della forma di governo metropolitano e della orga-nizzazione amministrativa, sia diretta che tramite agenzie. E ancora occorrerà studiare modalità atte ad assicurare adeguate forme di partecipazione e rap-presentanza dei sistemi cittadini alle sedi decisionali, nazionali e sovranazionali, le cui funzioni incidano in modo rilevante sulle città.

Inoltre, la città deve essere messa in grado di stabilire forme esplicite ed efficaci di coordinamento sia con i piani di settore delle agenzie nazionali ope-

ranti nelle reti (autostrade, ferrovie, servizi pubblici, alta velocità, telecomunicazioni, reti di energia) sia con i gestori dei servizi pubblici locali, specie nella forma di società (quotate o meno) a partecipazio-ne pubblica. Relazioni, specie queste ultime, che per essere soddisfacenti richiedono in ogni caso il supe-ramento dei più vistosi ostacoli oggi presenti, quali il sovraccarico sull’ente locale di funzioni (proprietà, regolazione, rappresentanza degli utenti, azionista) tra loro sempre diverse e spesso in forte contrad-dizione, la sostanziale irrilevanza del frammentato azionariato pubblico rispetto al management, la fre-quente banalizzazione del peso delle città maggiori rispetto alle esigenze di garanzia dell’esteso, anche se quantitativamente ridotto, azionariato dei comuni limitrofi.

In merito alle funzioni, si rinvia a quanto osser-vato ai nn. 3-5 aggiungendo che va annoverato tra le risorse anche il riconoscimento di quote di auto-nomia da indirizzare a specifiche misure di semplifi-cazione dei procedimenti amministrativi (ivi compre-so lo sportello unico) e di normative contabili tali da consentire, anche nella prospettiva della attrazione di investimenti, un più corretto e riconoscibile rapporto tra pubbliche amministrazioni e imprese.

8. Politiche e sedi centrali dedicate. La pro-spettiva che si è delineata non sarebbe concepibile, e meno ancora praticabile, senza il corrispondente sforzo di adeguare il “centro” alle delicate funzioni che è chiamato a svolgere. Cominciando a provve-dere alla definizione del quadro normativo di riferi-mento nelle materie più sensibili. Ad esempio: l’attesa riforma del codice civile in materia di fondazioni, as-sociazioni e comitati, (essenziale nei rapporti tra città e soggetti sociali; l’adozione di misure di salvaguar-dia, come l’imposizione di limiti al consumo di suolo destinati a valere sull’intero

territorio nazionale; norme e incentivi rivolti ai riuso degli spazi e degli edifici dismessi.

Un ruolo del centro sarebbe particolarmente evidente nella fase di avvio del governo delle città, perché legato alla valutazione della proposta inizia-le che segna l’avvio dal basso della procedura e alla successiva definizione in via legislativa e amministra-tiva del “pacchetto” di funzioni e risorse che Gover-no e Parlamento sono chiamati ad adottare. Ma non meno delicate sono le fasi successive e soprattutto il tempo ordinario del funzionamento a regime: primo, perché è essenziale evitare che le misure specifiche elaborate caso per caso siano progressivamente ero-se e infine cancellate a beneficio della (ri)espansione del regime comune; poi, perché è altrettanto impor-tante che le città entrino come ingrediente necessa-rio nella formulazione delle politiche di settore e nel funzionamento quotidiano degli apparati centrali e delle agenzie nazionali.

È difficile che compiti del genere, data la tra-sversalità del profilo e la pluralità dei soggetti centrali e locali in gioco, possano essere svolti con successo senza un forte aggancio alla Presidenza del Consi-glio. Si tratta semmai di valutare quanto può esse-

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re affidato al sistema, certamente da rivedere, delle conferenze permanenti ove per l’appunto si registra l’eclissi della Stato-Città e quanto invece vada affida-to, per il coordinamento funzionale dei lavori in sede legislativa o governativa, ad apposite previsioni dei regolamenti parlamentari, o ancora alla figura, an-ch’essa rivista rispetto alle esperienze

precedenti, di un Ministro (senza portafoglio) delle città in grado di garantire il rispetto della “va-riabile città” anche in seno al Consiglio dei Ministri. È comunque essenziale – specie se persiste l’attuale livellamento delle grandi città nelle sedi associative dei comuni – la necessità di una loro sede di rappre-sentanza e di consultazione presso le istituzioni cen-trali.

Strumenti. Nessuna delle proposte qui esposte confligge con disposizioni costituzionali o principi dell’ordinamento. Al contrario per la maggior parte o sono già previste da disposizioni vigenti – come le condizioni differenziate di autonomia, la sussidiarietà e la disponibilità di risorse proprie (artt. 116.3, 118 e 119 Cost.) – o sono realizzabili in via legislativa ordi-naria. Il che non toglie che alcune di queste, specie per quanto riguarda il regime della rendita immobi-liare o la riforma delle disposizioni del titolo secondo libro primo del codice civile, siano di particolare ed evidente delicatezza. Un discreto numero, infine, non richiede neppure modifiche di questa natura, trattan-dosi di misure amministrative riguardanti l’azione e l’organizzazione degli apparati centrali e periferici dello stato o di atti di indirizzo rivolti alle agenzie na-zionali operanti nelle grandi reti dei servizi pubblici.

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G

La questione demografica

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HI dati dell’immigrazioneDa COMUNI-ITALIA.IT

Cittadini Stranieri in Liguria

Anno Residenti Residenti % Stranieri Minorenni Famiglie Famiglie Nati in Italia %

Stranieri Totale con almeno con capofamiglia Maschi

uno straniero straniero

2005 74.416 1.610.134 4,6% 14.738 47,6%2006 80.735 1.607.878 5,0% 16.772 9.230 47,4%2007 90.881 1.609.822 5,6% 18.946 48.740 39.700 10.605 47,1%2008 104.701 1.615.064 6,5% 21.861 55.740 45.841 12.138 47,1%2009 114.347 1.615.986 7,1% 24.042 59.705 49.142 13.844 47,1%2010 125.320 1.616.788 7,8% 46,8%

Tra gli stranieri maggiormente presenti in Liguria ci sono: ecuadoregni, albanesi, romeni, marocchini, peruviani, ucraini, cinesi, dominicani, tunisini, francesi, tedeschi, polacchi, turchi, senegalesi, bengalesi, moldavi, cingalesi, egiziani, indiani, russi

Stranieri per Provincia: Genova, Imperia, La Spezia, Savona

Residenti Stranieri per Nazionalità (2010)

Pos Nazione Residenti %Maschi Var. Anno Prec.

1 Ecuador 22.038 41,3% 7,7%2 Albania 20.919 55,2% 7,1%3 Romania 15.037 43,1% 13,9%4 Marocco 12.851 61,2% 7,8%5 Perù 4.682 38,6% 16,4%6 Ucraina 3.887 15,7% 23,1%7 Repubblica Popolare Cinese (Cina) 3.332 51,0% 13,6%8 Repubblica Dominicana 3.234 40,1% 8,2%9 Tunisia 2.467 63,4% 7,7%10 Francia 2.110 42,1% 1,8%11 Germania 2.033 39,5% 1,8%12 Polonia 1.868 26,2% 4,1%13 Turchia 1.832 62,0% 7,2%14 Senegal 1.809 79,9% 13,5%15 Bangladesh 1.790 75,0% 18,2%16 Moldova 1.759 29,8% 37,1%17 Sri Lanka (ex Ceylon) 1.683 54,7% 4,9%18 Egitto 1.671 68,6% 6,0%19 India 1.300 47,7% 17,3%20 Federazione Russa (Russia) 1.185 17,0% 22,4%21 Filippine 1.134 39,1% 13,4%22 Regno Unito 1.131 42,6% 4,5%23 Brasile 1.037 27,0% 11,4%24 Colombia 982 36,0% 11,1%25 Nigeria 943 30,4% 11,6%26 Bulgaria 703 28,2% 17,2%27 Spagna 628 26,8% 4,5%28 Cile 584 48,6% 4,8%29 Algeria 546 63,0% 6,0%30 Paesi Bassi (Olanda) 545 44,0% -3,0%31 Cuba 538 21,0% 10,7%32 Svizzera 495 43,0% 0,2%33 Stati Uniti d’America 442 37,1% 0,0%34 Serbia 384 48,4% -5,7%

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35 Pakistan 361 78,1% 18,0%36 Bolivia 333 31,5% 51,4%37 Macedonia 306 55,6% 1,7%38 Bosnia-Erzegovina 270 56,7% 0,0%39 Iran 260 50,0% 3,6%40 Argentina 248 45,2% -1,6%41 Portogallo 228 50,4% 5,1%42 Belgio 212 36,8% 7,6%43 San Marino 208 54,3% -2,3%44 Ungheria 207 28,0% 7,3%45 Croazia 204 48,0% 3,0%46 Svezia 203 38,9% -1,9%47 Capo Verde 192 32,8% 2,7%48 Paraguay 177 27,1% 52,6%49 Repubblica Ceca 169 18,9% 3,0%50 Bielorussia 167 14,4% 47,8%51 Lituania 166 19,9% 14,5%52 Venezuela 166 28,3% 9,2%53 Eritrea 165 53,9% -7,8%54 Grecia 158 63,9% -0,6%55 Slovacchia 157 22,3% 4,7%56 Austria 154 31,8% 2,0%57 Thailandia 148 10,1% 8,8%58 Danimarca 145 42,1% -8,8%59 Somalia 132 65,9% 20,0%60 Kosovo 129 60,5% 59,3%61 Camerun 107 50,5% 9,2%62 Giappone 107 21,5% 9,2%63 Etiopia 96 39,6% 2,1%64 El Salvador 93 35,5% 43,1%65 Norvegia 89 43,8% 7,2%66 Finlandia 82 29,3% 9,3%67 Uruguay 71 52,1% -9,0%68 Lettonia 71 18,3% 12,7%69 Iraq 66 66,7% -2,9%70 Messico 63 27,0% 12,5%71 Irlanda 63 41,3% 3,3%72 Mauritius 53 39,6% 3,9%73 Costa d’Avorio 53 66,0% 15,2%74 Giordania 51 64,7% 0,0%75 Ghana 51 51,0% 13,3%76 Libano 51 70,6% 8,5%77 Australia 50 42,0% 11,1%78 Indonesia 50 42,0% 8,7%79 Canada 49 34,7% -3,9%80 Siria 47 59,6% -7,8%81 Corea del Sud (Repubblica Corea) 42 40,5% 5,0%82 Estonia 41 17,1% 0,0%83 Israele 39 64,1% -20,4%84 Repubblica democratica del Congo (ex Zaire) 38 44,7% 18,8%85 apolide 37 67,6% -7,5%86 Sud Africa 35 37,1% -2,8%87 Benin (ex Dahomey) 33 60,6% 13,8%88 Dominica 33 39,4% -41,1%89 Kazakhstan 31 19,4% 0,0%90 Kenya 31 35,5% 3,3%91 Congo 30 53,3% 11,1%92 Guinea 30 73,3% 57,9%93 Kirghizistan 29 44,8% 7,4%94 Burundi 29 27,6% -3,3%95 Uzbekistan 28 25,0% 7,7%96 Afghanistan 28 89,3% 3,7%

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97 Costa Rica 27 33,3% 28,6%98 Madagascar 26 19,2% 13,0%99 Sudan 23 100,0% -8,0%100 Libia 22 59,1% 4,8%101 Burkina Faso (ex Alto Volta) 21 66,7% 5,0%102 Tanzania 21 42,9% 5,0%103 Slovenia 21 57,1% -32,3%104 Liberia 21 61,9% 5,0%105 Niger 20 25,0% -23,1%106 Angola 20 50,0% -4,8%107 Montenegro 20 55,0% 185,7%108 Malta 19 36,8% 26,7%109 Vietnam 18 50,0% -5,3%110 Haiti 18 55,6% -5,3%111 Guinea Equatoriale 17 23,5% 21,4%112 Seychelles 17 17,6% 0,0%113 Nicaragua 15 26,7% 0,0%114 Gambia 13 69,2% -7,1%115 Guatemala 13 53,8% 0,0%116 Georgia 13 30,8% 62,5%117 Nuova Zelanda 12 33,3% -7,7%118 Zambia 12 41,7% 20,0%119 Honduras 11 27,3% -31,3%120 Malaysia 11 0,0% 0,0%121 Armenia 10 40,0% 66,7%122 Taiwan (ex Formosa) 10 50,0% 11,1%123 Panama 9 22,2% -10,0%124 Togo 8 50,0% 14,3%125 Monaco 7 57,1% 0,0%126 Sierra Leone 7 85,7% 16,7%127 Ruanda 7 71,4% 16,7%128 Mali 5 40,0% 25,0%129 Arabia Saudita 5 40,0% -16,7%130 Uganda 5 60,0% 25,0%131 Cipro 5 80,0% -16,7%132 Azerbaigian 5 60,0% 0,0%133 Cambogia 5 20,0%  134 Lussemburgo 5 60,0% 0,0%135 Mozambico 4 25,0% -20,0%136 Turkmenistan 4 0,0% 100,0%137 Nepal 4 0,0% 33,3%138 Gabon 3 33,3% 0,0%139 Repubblica Centrafricana 3 100,0% 0,0%140 Tagikistan 3 0,0% 50,0%141 Singapore 3 33,3% -25,0%142 Samoa 3 100,0% 50,0%143 Myanmar (ex Birmania) 3 33,3% -40,0%144 Territori dell’Autonomia Palestinese 3 66,7% 50,0%145 Laos 2 50,0% 0,0%146 Andorra 2 50,0% 0,0%147 Bhutan 2 50,0% 0,0%148 Guyana 2 0,0% 0,0%149 Mauritania 2 50,0% -75,0%150 Zimbabwe (ex Rhodesia) 2 50,0% 0,0%151 Guinea Bissau 2 100,0% 0,0%152 Islanda 2 0,0% 100,0%153 Namibia 2 0,0% 0,0%154 Giamaica 1 0,0%  155 Corea del Nord (Repubblica Popolare Democratica Corea) 1 100,0% -93,8%156 Liechtenstein 1 100,0% 0,0%157 Mongolia 1 0,0% -50,0%

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I

Rapporto Istat 2013: povertà in Liguria

Il protrarsi e l’acuirsi della crisi economica pro-duce i suoi effetti sulla vita quotidiana dei cittadini della Liguria, che pur bene avevano reagito nella pri-ma fase della recessione, quella del 2008-2009.

Nel 2012 diminuisce il reddito disponibile del-le famiglie, calano i consumi nonostante le famiglie intacchino i propri risparmi; aumenta il numero di fa-miglie in condizione di deprivazione e di povertà; si riduce la soddisfazione degli individui per la propria situazione economica e per la vita nel complesso.

Sono questi i principali risultati che emergono dall’analisi di alcune misure oggettive e soggettive delle condizioni economiche e sociali delle famiglie che vivono in Liguria e che nei paragrafi che seguono vengono argomentati.

4.1 La riduzione del reddito disponibileL’attuale fase recessiva, iniziata nella seconda

metà del 2011, ha fra le sue determinanti la caduta del reddito disponibile, che in Italia nel periodo 2007-2012 ha subito una riduzione percentuale in termini reali di circa il 10%. Quasi la metà di questa flessione è avvenuta fra il 2011 e il 2012 (- 4,8%). Gli effetti si sono immediatamente ripercossi sui consumi, che hanno subito una profonda contrazione soprattutto nell’ul-timo anno, solo in parte attenuata dalla contempora-nea riduzione della propensione al risparmio.

In termini correnti, tra il 2011 e il 2012 il reddito disponibile delle famiglie italiane è sceso

dell’1,9% e la spesa per consumi finali ha subito una flessione dell’1,6%. Il reddito disponibile è dimi-nuito in tutte le regioni, più al Nord-ovest e al Centro (-2%), che al Nord-est (-1,8%) e al Mezzogiorno (-1,6%).

La Liguria è la regione che ha subito la riduzio-ne più marcata (-2,8%).

Nel 2012 il reddito disponibile aggregato del-le famiglie liguri è pari a circa 30,5 miliardi di euro in termini nominali; in termini pro-capite ciò equivale ad un reddito disponibile di 19.632 euro a prezzi correnti, inferiore di 786 euro a quello del Nord-ovest, ma più elevato di quello nazionale di quasi 2.000 euro.

Per stabilire quali voci economiche hanno con-tribuito più significativamente alla riduzione del reddi-to disponibile registrata in Liguria fra il 2011 e il 2012 è necessario valutare le intensità delle variazioni, tenen-do conto dell’incidenza di ogni voce alla formazione del reddito.

Il reddito da lavoro dipendente, che è la voce che contribuisce in maniera più rilevante alla

formazione del reddito disponibile, è rimasto invariato fra il 2011 e il 2012 a livello nazionale e so-stanzialmente stabile in Liguria come nel Nord-ovest, dove le variazioni percentuali sono state pari a +0,2%. I trasferimenti per le prestazioni sociali, pensioni e al-tre indennità assistenziali che anche hanno un peso importante soprattutto in Liguria, sono aumentate del 2,1%.

Pertanto il calo del reddito disponibile in Li-guria può essere attribuito alla marcata riduzione (-9,8%) del reddito misto, che rappresenta il risultato dell’attività imprenditoriale svolta dalle famiglie nella loro veste di produttori, alla diminuzione dei redditi da capitale netti (-2,7%) e all’inasprimento del prelie-vo fiscale (+5,5%).

4.2 L’aumento delle famiglie in condizione di deprivazione materiale

Il protrarsi della crisi economica e la conse-guente diminuzione del reddito disponibile delle fa-miglie si riflette sull’andamento recente degli indica-tori di deprivazione materiale e di disagio economico, che nel 2012 registrano un ulteriore peggioramento, dopo quello già osservato nel 2011, in discontinuità rispetto agli anni precedenti.

L’indicatore sintetico di deprivazione misu-ra il disagio economico generato dall’esclusione dal godimento di un bene o dalla soddisfazione di un bisogno. Esso rappresenta la quota di famiglie che dichiarano di aver sofferto di almeno tre delle nove seguenti deprivazioni: 1) non riuscire a sostenere spe-se impreviste; 2) avere arretrati nei pagamenti (mu-tuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); 3) non potersi permettere una settimana di ferie in un anno lontano da casa, 4) un pasto adeguato (proteico) al-meno ogni due giorni, 5) il riscaldamento adeguato dell’abitazione, 6) l’acquisto di una lavatrice, 7) o di una televisione a colori, 8) o di un telefono, 9) o di un’automobile.

Nel 2012 in Liguria le famiglie deprivate, cioè le famiglie che presentano almeno tre delle difficoltà considerate, sono il 17,1% delle famiglie residenti. Tale percentuale risulta la più alta fra le regioni del Nord Ovest (Lombardia, Valle d’Aosta e Piemonte si atte-stano rispettivamente sul 10,2%, 11,9% e 16,3%) ed è superiore alla media delle regioni del Nord (15,7%).

Anche questo indice conferma il divario terri-toriale fra il Mezzogiorno e resto d’Italia: infatti nelle regioni del meridione 4 famiglie su dieci (il 41,0%) ri-sultano deprivate, al Centro la percentuale di famiglie in condizione di disagio si abbassa al 21,6% e al Nord al 15,7%.

Il 2011 rappresenta un anno significativo nella serie storica di questo indice a livello regionale, ri-partizionale e nazionale: infatti se nel periodo 2004-2010 le variazioni registrate erano assai contenute e potevano dipendere dall’errore campionario, nel 2011 si registra un aumento significativo ad ogni livello ter-ritoriale. In Liguria la percentuale di famiglie depri-vate sul totale delle famiglie residenti passa dal 7,3% del 2010 al 17,1% del 2012 con un aumento di quasi 10 punti percentuali. L’aumento risulta maggiore di quello registrato nello stesso periodo a livellonazio-nale (+9,2 punti percentuali).

4.3 La povertà relativa, assoluta ed estremaNei Paesi economicamente più sviluppati, la

povertà è misurata con indicatori di natura relativa, che individuano i poveri in coloro che hanno un teno-re di vita che si allontana dal tenore di vita medio del-la comunità a cui appartengono. Queste misure sot-

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tendono che il tenore di vita medio sia soddisfacente e rilevano lo svantaggio di alcuni soggetti rispetto a tutti gli altri, in un’ottica di giustizia distributiva. Sono in genere calcolati a partire dalle distribuzioni dei redditi o dei consumi.

In Italia le misure di povertà relativa prodot-te dall’Istat si basano sulla distribuzione dei consumi delle famiglie: una famiglia è definita povera in termi-ni relativi se la sua spesa per consumi è inferiore ad una certa soglia (International Standard of Poverty Line). La soglia convenzionale di povertà relativa per una famiglia di due componenti è rappresentata dalla spesa media mensile procapite, che in Italia nel 2012 è stata di 990,88 euro. Pertanto le famiglie di due persone che nel 2012 hanno avuto una spesa men-sile pari o inferiore a tale valore vengono classificate come povere.

Per le famiglie di diversa ampiezza il valore della linea di povertà si ottiene applicando un’oppor-tuna scala di equivalenza, che tiene conto delle eco-nomie di scala realizzabili all’aumentare del numero di componenti.

Nel 2012 in Italia le famiglie in condizione di povertà relativa sono 3 milioni 232 mila pari al 12,7 delle famiglie residenti. Il dato italiano è il risultato di una sintesi territoriale che presenta molte differenze (Fig.4): infatti nel Nord la percentuale di famiglie po-vere sul totale delle famiglie residenti è pari al 6,2%, nel Centro al 7,1% e nel Mezzogiorno tale percentuale sale al 26,2%. Nel Mezzogiorno, la povertà oltre ad essere più diffusa, è anche più grave, infatti la spesa media equivalente delle famiglie del Mezzogiorno è pari 779 euro, mentre quella delle famiglie del Nord edel Centro è di 825 e 810 euro rispettivamente. Par-ticolarmente grave risulta la condizione delle famiglie residenti in Sicilia, Puglia, Calabria e Campania dove, nel 2012, l’incidenza della povertà relativa raggiunge i livelli più alti e dove il fenomeno riguarda più di una famiglia su quattro (29,6%, 28,2%, 27,4% e 25,8% ri-spettivamente); la provincia di Trento (4,4%), l’Emilia Romagna (5,1%) e il Veneto (5,8%) presentano invece i valori più bassi.

Le famiglie relativamente povere in Liguria sono 64 mila 143, pari all’8,1% delle famiglie residen-ti,valore superiore alla media del Nord e del Centro. L’incidenza della povertà relativa delle famiglie, rima-sta sostanzialmente stabile fra il 2005 e il 2011, au-menta sensibilmente nell’ultimo anno in tutte le ripar-tizioni geografiche: rispetto al 2011 l’incidenza della povertà relativa sale di 1,3 punti percentuali al Nord, 0,7 al Centro e 3,3 al Sud; in Liguria l’aumento è di 1,9 punti percentuali. Il dato è ancora più significativo se si considera che nello stesso periodo si è registrata una contrazione dei consumi, che ha abbassato la so-glia di povertà. Infatti la soglia di povertà del 2011 ri-valutata al 2012 è pari a 1.041,36 euro, di circa 50 euro superiore alla soglia 2012. Ciò significa che fra il 2011 e il 2012 la percentuale di famiglie in condizioni di povertà è aumentata, pur abbassandosi lo standard di vita medio delle famiglie che vivono in Italia.

Se si sposta l’analisi sugli individui in condizio-ne di povertà relativa, si osserva un’incidenza pari a

15,8% in Italia e a 10,3% in Liguria. Entrambi i valori sono superiori a quelli osservati per le famiglie, a si-gnificare che la famiglia rappresenta ancora un am-mortizzatore economico e sociale importante. Infatti la famiglia può attutire gli effetti negativi di eventi avversi che colpiscono un suo membro con le ener-gie e le attività degli altri membri, riuscendo spesso a ritornare nelle condizioni di partenza.

La percentuale di individui in condizione di po-vertà relativa rimane alta, anzi in Liguria cresce, an-che se si considera la sola popolazione in età lavora-tiva (18-64 anni): infatti gli individui poveri in questa classe di età sono il 15,5% in Italia e l’11,4% in Liguria. È questa una delle conseguenze sociali più tangibili e preoccupanti della crisi economica.

L’Istat calcola annualmente, oltre alle misure di povertà relativa basate sulla distribuzione della spesa per consumi, misure di povertà assoluta, basate sulla valutazione monetaria di un paniere di beni e servizi considerati essenziali e senza i quali si cadrebbe in uno stato di privazione. Purtroppo i dati sulla povertà assoluta possono essere diffusi solo a livello di ripar-tizione territoriale, non consentendo approfondimen-ti a livello regionale. Entrando nel dettaglio, la stima dell’incidenza della povertà assoluta è calcolata sul-la base di una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un pa-niere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali a conseguire uno standard di vita minimamente ac-cettabile4. Il paniere è composto da tre aree di con-sumo: alimentare, relativa all’abitazione e residuale, che rappresenta l’insieme delle altre necessità fami-liari e individuali (vestiti, mobilità, svago). Le famiglie con una spesa media mensile pari o inferiore al va-lore della soglia (che si differenzia per dimensione e composizione per età della famiglia e per ripartizione geografica e ampiezza demografica del comune di residenza) vengono classificate come

assolutamente povere. Nel 2012, in Italia, 1 mi-lione e 725 mila famiglie (il 6,8% della famiglie re-sidenti) risultano in condizioni di povertà assoluta per un totale di 4 milioni e 814 mila individui (l’8,0% dell’intera popolazione). Il 39,2% di queste famiglie risiede al Nord, il 14,8% al Centro e il 45,9% nel Mez-zogiorno. Nella ripartizione territoriale di cui fa parte la Liguria, il Nord, le famiglie assolutamente povere sono 677 mila, pari al 5,5% delle famiglie residenti. Dal 2005 al 2012 il numero di famiglie assolutamen-te povere è più che raddoppiato al Nord e al Centro (+124,2% e +111,6% rispettivamente) mentre l’aumen-to è stato più contenuto, sebbene considerevole, al Sud (+55,3%). In particolare tra il 2011 e il 2012, in tut-te le ripartizioni si è registrato un brusco aumento delle famiglie assolutamente povere (+49,1% al Nord, +26,1% al Centro e +23,4% al Sud).

Il quadro degli indicatori di povertà presenti nel nostro Paese, è stato di recente ampliato con le mi-sure di povertà estrema, basate sulla rilevazione delle persone senza dimora, cioè delle persone che versa-no in uno stato di povertà materiale e immateriale,

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connotato dal forte disagio abitativo, cioè dall’impos-sibilità e/o incapacità di provvedere autonomamente al reperimento e al mantenimento di un’abitazione in senso proprio.

La prima rilevazione sui senza dimora è stata condotta dall’Istat5 nei mesi di novembre dicembre 2011 su un campione di 158 Comuni Italiani6 selezio-nati in ragione della loro ampiezza demografica e ha portato a stimare 47.648 persone senza dimora che hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o ac-coglienza notturna. Più della metà di queste persone (58,5%) vive al Nord (il 38,8% nel Nord-ovest), poco più di un quinto (il 22,8%) nel Centro e solo il 18,8% nel Mezzogiorno. Le persone senza dimora stimate dalla rilevazione corrispondono a circa lo 0,2% del-la popolazione regolarmente iscritta presso i comuni considerati dall’indagine. L’incidenza sul totale dei residenti è più elevata nel Nord-ovest, dove le per-sone senza dimora corrispondono a circa lo 0,35% della popolazione residente, seguono il Nord-est con lo 0,27%, il Centro con lo 0,20%, le Isole (0,21%) e il Sud (0,10%).

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