Silenzio e solitudine

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Edoardo Giusti - Gilda Di Nardo

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La sapienza feconda del tacere clinico come sospensione momentanea dell’interazione verbale per riflettere su di sé accresce, nella voce del silenzio, la presenza consapevole. Per aiutare “l’anima” a raccogliersi bisogna abitare la libertà della solitudine. interiore: solo questa consente un sollecito ritiro e un dolce ritorno.

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Edoardo Giusti - Gilda Di Nardo

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La sapienza feconda del tacere clinicocome sospensione momentanea

dell’interazione verbale per rifletteresu di sé accresce, nella voce del silenzio,

la presenza consapevole.Per aiutare “l’anima” a raccogliersi

bisogna abitare la libertà della solitudine interiore: solo questa consente un sollecito

ritiro e un dolce ritorno.

Euro 22,00

Edoardo Giusti,Presidente dell’ASPIC e direttore della Scuola di specializzazione in PsicoterapiaIntegrata autorizzata con DecretoMinisteriale. È professore a contratto presso la Scuola di specializzazione inPsicologia Clinica dell’Università degli Studi di Padova. Svolge attività di ricerca clinica e di supervisione didattica per psicoterapeuti.

Gilda Di Nardo,Psicologa specializzanda in psicoterapia presso l’Aspic di Roma. Nata a Taranto, vive a Roma dove lavora in una struttura di accoglienza per pazienti psichiatrici ex senza fissa dimora. È tra isoci fondatori dell’Associazione di promozione sociale ‘Come un albero’ ONLUS, che opera in ambito della disabilità.

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collana Psicoterapia & Counselingdiretta da Edoardo Giusti

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Centro Europeo di Ricercheper lo Studio delle Psicoterapie

Integrate e Comparate

PSICOTERAPIA�

COUNSELING�

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Edoardo Giusti - Gilda Di Nardo

SILENZIO ESOLITUDINE

L’integrazione della quietenel trattamento terapeutico

OVERA EDITORE

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Sommario

PARTE PRIMA: QUANDO SORGE IL SILENZIO

Capitolo I: L’espressione del silenzio1.1 Silenzio e comunicazione1.2 Dall’origine della vita all’origine del linguaggio1.3 Breve intermezzo: un silenzio amorevole1.4 Silenzio e comunicazione: come, quando e perchéRicapitolando

Capitolo II: Silenzio e attaccamento2.1 Silenzio e attaccamento2.2 Silenzio, attaccamento in età adulta e AAIRicapitolando

Capitolo III: A spasso tra silenzi esemplificati3.1 Parole sul silenzio3.2 Immagini e colori del silenzio: alcune interviste3.3 Silenzio senza parole3.4 Silenzio e voceRicapitolando

Capitolo IV: Percorsi terapeutici del silenzio4.1 Silenzio e psicoanalisi 4.2 Silenzi del paziente e silenzi dell’analista 4.3 Colloquio clinico, silenzio ed empatia 4.4 Silenzio insano4.5 Silenzio e terapia: la storia del paziente4.6 Silenzio: percorsi possibiliRicapitolando

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PARTE SECONDA: IL VISSUTO DELLA SOLITUDINE

Capitolo V: Quale solitudine?5.1 Solitudine, silenzio e corpo5.2 Il carattere della solitudine5.3 Breve intermezzo: frammenti di una storia tra solitudine,

silenzio e parole5.4 Solitudine controcorrente5.5 Solitudine guerra e pace Ricapitolando

Capitolo VI: Solitudine che cresce6.1 Solitudine e regolazione delle emozioni: origini della vita e

albori della relazione, tra bisogno d’attaccamento e bisognodi solitudine

6.2 Il bambino, il comportamento solitario e la capacità d’esseresolo

6.3 L’età della solitudine6.4 Educazione al silenzio ed alla solitudineRicapitolando

Capitolo VII: Solitudine in presenza dell’altro7.1 L’incontro della solitudine7.2 Solitudine e psicoanalisi7.3 La solitudine della fine e la fine della solitudineRicapitolando

Capitolo VIII: Solitudine e professione8.1 Una solitudine sconosciuta8.2 La solitudine nelle relazioni d’aiuto8.3 Silenzio, solitudine e fattori curativi in psicoterapiaRicapitolando

Capitolo IX: Silenzio e Solitudine: prigione e libertà9.1 Silenzio: tra resistenza e possibilità di cambiamento9.2 I disturbi del silenzio e della solitudine9.3 Colloquio clinico, silenzio, solitudine e tempoRicapitolando

Bibliografia

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PRIMA PARTE

QUANDO SORGE IL SILENZIO

“Vada a cercare uno specchio qualsiasi, se lo ponga di fron-te e assuma una posizione comoda. Respiri profondo. Chiudagli occhi e ripeta tre volte:

Sono ciò che sono;un poco ciò che posso essere.Lo specchio mostra ciò che sono,il cristallo ciò che posso essere.

[…] Tagliato dal lato inverso, uno specchio cessa di esserespecchio e diventa cristallo. E gli specchi sono per vedere daquesto lato, i cristalli sono per vedere che cosa c’è dall’altro la-to. Gli specchi esistono per essere tagliati. I cristalli esistonoper essere rotti… e passare al di là…”

(da Don Durito della Lacandona,Subcomandante Marcos, 1998)

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Capitolo I

L’espressione del silenzio

1.1 Silenzio e comunicazione

Proviamo a pensare a ciò che facciamo spesso quando abbiamo bi-sogno di scrivere o di concentrarci: cerchiamo il silenzio. Prima cer-chiamo, solitamente, il silenzio della nostra stanza, poi il nostro: ci ri-tiriamo, insomma, tra le nostre idee; ciò è proprio quello che abbiamofatto noi per iniziare a scrivere le pagine di questo libro.

Ci chiediamo: nel fare questo, abbiamo interrotto il nostro scambiorelazionale e di comunicazione con il mondo esterno? Se guardiamo asilenzio e parola come stati di alternanza della relazione interpersona-le e della comunicazione, la risposta è no.

Mentre scriviamo, ci viene in mente l’immagine di un interruttoredotato di due posizioni, on/off (parola/silenzio), ed anche una doman-da: in posizione off l’energia per cui “l’impianto umano” è predispo-sto, s’incanala ugualmente in un flusso di comunicazione?

Poiché “una situazione tecnica semplice, consente di vedere una si-tuazione nel suo complesso” (Semi A.A., 1989) “riavvolgiamo il na-stro” e rivediamo le azioni che abbiamo compiuto: abbiamo spento laradio, abbassato la suoneria del telefono, spento il telefonino, chiuso laporta della stanza, abbiamo insomma cercato l’isolamento nel silenzio;tutto ciò conduce comunque ad un gesto di comunicazione con chi leg-ge, la porta chiusa della nostra stanza ha comunicato alle persone, fuo-ri da quella porta, che siamo in “posizione off ”, quindi ci chiediamonuovamente: il flusso di comunicazione c’è?

Se per comunicazione s’intende un processo finalizzato alla messain comune, tra due o più interlocutori, di esperienze, informazioni,pensieri, emozioni, cosa ha a che fare il nostro isolato silenzio con lacomunicazione? E, a questo punto compaiono, sotto i nostri occhi, leparole di Watzlawick:

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“Non esiste un qualcosa che non sia un comportamento o, per dirla piùsemplicemente, non è possibile non avere un comportamento […] Co-munque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, leparole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio […]” (Watzlawick P.,Beavin J.H., Jakson D.D., 1971).

Ripartiamo allora dall’assunto che è impossibile non comunicare,continuiamo a raccogliere le idee e a stare nel silenzio; inizia a farsistrada in noi l’idea che silenzio e comunicazione, apparentementeestranei, si conoscano in realtà da molto, molto tempo.

Spostandoci da un piano sistemico-relazionale ad uno intrapsichicoricordiamo le parole di Freud sul fenomeno dell’induzione e della tra-smissione del pensiero: i processi psichici in una persona (rappresen-tazioni, stati d’eccitamento, impulsi di volontà), possono

“trasmettersi attraverso il libero spazio a un’altra persona, senza valer-si delle vie conosciute di comunicazione fondate su parole e segni. […].Nulla vieta di supporre che questo [trasmissione psichica diretta] sia ilmezzo originario, arcaico, di comunicazione tra gli individui, e che nelcorso dell’evoluzione filogenetica esso sia stato sopraffatto dal metodomigliore di comunicare che si avvale di quei segni che gli organi di sensosono in grado di captare […]” (Freud S., 1989).

Freud, quindi, definisce la parola ed il linguaggio come “metodomigliore” di comunicazione ed ipotizza al contempo che il pensiero(un canale non verbale) fosse il mezzo di comunicazione arcaico. Nelnostro processo evolutivo la comunicazione, originariamente imme-diata, sarebbe in seguito diventata mediata (dalla parole) e pertanto,oseremmo dire, quasi dimidiata. Spieghiamo meglio: da una comuni-cazione di cui si potevano valere più istanze psicobiologiche, si è pas-sati ad una, la parola (almeno a darle maggior rilievo), di cui si può va-lere solo l’udito.

Restiamo ancora un po’ con Freud e guardiamo meglio la tracciaevolutiva cui egli è risalito: la sopraffazione del capo dell’orda, il gran-de silenzio e poi l’esplosione orgiastica di gioia (nasce la musica), ac-compagnata dal divoramento del padre. Nel passaggio dall’Es all’Io, lacreatura umana ha introdotto la parola, si è accostata al linguaggio al-lontanandosi un po’ dall’inconscio (il silenzio, lo strumento di comu-nicazione arcaico era stato il veicolo dell’Es e aveva permesso con lasua efficienza l’uccisione del padre; sotto il peso del senso di colpa è

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stato rimosso, si è gradualmente atrofizzato e infine è stato sostituitodalla parola).

Riflettendo sull’origine del linguaggio, Freud esamina alcuni branidi un saggio (del filologo Abel) che lo conducono a soffermarsi sul si-gnificato antitetico delle parole primitive. Molte lingue primitive, adesempio l’antico egizio, erano dotate di parole che avevano due signi-ficati opposti; l’uomo non poteva acquisire i suoi concetti più antichi epiù semplici se non come contrari dei loro contrari e ha appreso soloper gradi a separare le due parti di un’antitesi e a pensare ad una sen-za fare un paragone conscio con l’altra (Freud S., 1992). Ecco perciòche una parola che originariamente aveva due significati si sarebbe di-visa nella lingua successiva in due parole con significati singoli, in unprocesso per cui ciascuno dei due significati opposti succede ad unaparticolare ‘riduzione’(modificazione) della radice originale (Freud S.,1992).

Questo, in qualche modo potrebbe essere avvenuto anche al nostromodo di comunicare, ha prevalso la parola, certo il metodo migliore,ma ci siamo allontanati dalla radice originaria, che affondava le sue di-ramazioni anche nel terreno del silenzio.

Torniamo a ripetere, la parola è il “metodo migliore”; essa fa parteparte della nostra evoluzione e, pertanto, ha svolto la sua funzioneadattiva, ma se è in qualche modo una modificazione della radice ori-ginaria, allora dobbiamo guardare al silenzio e alla parola come facen-ti parte, entrambi, del processo di comunicazione; il nostro “impiantoè predisposto per due posizioni: on-off ”.

A questo punto, ‘facendo visita’ a concetti di matrice più propria-mente junghiana, ci viene da riflettere su silenzio, comunicazione esimbolo: il simbolo, nell’antica Grecia, era un oggetto che si spezzavain due e denotava un legame tra i contraenti. Ci viene da chiederci: per-ché, allora, non guardare al silenzio come ad un simbolo della comu-nicazione e, pertanto, considerare silenzio e parola come due parti diun oggetto spezzato, la comunicazione stessa?

Secondo Jung (1980) la coscienza ‘avanzata’, col suo prevalere sul-l’inconscio, avrebbe reso l’uomo incapace, a volte, di integrare i pro-pri istinti all’interno di una coerente struttura psichica; la scissione tracoscienza ed inconscio avrebbe cioè portato l’uomo a perdere la suaidentità inconscia emotiva con i fenomeni naturali e a sentirsi pertantoisolato nel cosmo. A proposito di silenzio, parola, simbolo e comuni-cazione, ci viene allora da considerare che affidandoci (come spessoaccade ed è accaduto) ad una logica disgiuntiva, che ci faccia ignorare

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l’esistenza dell’antico ed originario legame tra silenzio e parola e ri-muovendo così una parte del simbolo si rischia, anche in questo caso,di attuare una scissione che, come tutte le scissioni, ha il suo prezzo dapagare.

Perciò: vogliamo renderci schiavi di una scissione oppure, in unavisione più ampia, come pazienti, come studiosi, come terapeuti, vo-gliamo invece considerare il processo della comunicazione nella suatotalità, senza affidare alcuna verità solo al silenzio o solo alla parola,ma ad un tutto più grande? Possiamo, allora, nell’accostarci al proces-so di comunicazione, tener presente l’oggetto nella sua interezza, purdiscernendone le parti, e tenere a mente che l’ambivalenza del simbo-lo, il suo essere richiamo di una presenza e al contempo di un’assenza,rimanda ad una comunicazione che sta nel linguaggio e altrove rispet-to allo stesso, discorso intelligibile ma intraducibile che riporta sulle“tracce del corpo e degli affetti nella mente”(Gaita D., 1992).

Riassumendo: possiamo considerare silenzio e parola come stati dialternanza della comunicazione, una parte rinvia a qualcosa di non no-to, l’altra è portatrice di un messaggio parziale.

Ed allora: silenzio/parola, attività/inattività, on/off, flusso di ener-gia, tutto ciò è nella comunicazione, quel processo per cui ‘l’impiantoumano’ è naturalmente predisposto; il silenzio ci appartiene tantoquanto la parola, rappresenta ‘l’altro lato’ della parola, ‘l’altro lato’della comunicazione:

“la relatività essenziale della conoscenza, del pensiero, o della co-scienza non può mostrarsi nel linguaggio. Se ogni cosa che possiamo co-noscere è vista come una transizione da qualcos’altro, ogni esperienza de-ve avere due lati” (Freud S., 1992).

Ogni esperienza deve avere due lati, crediamo sia utile tenerlo pre-sente.

1.2 Dall’origine della vita all’origine del linguaggio

L’inizio della vita, è qui che ora vogliamo recarci per metterci sulletracce di silenzio e comunicazione.

Moltissimi studi hanno dimostrato che il feto percepisce suoni co-stanti, come il battito cardiaco della madre, ed altri irregolari ed episo-dici e vive così un’esperienza sonoro-ritmica-motoria che funge da:

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– precognizione di quella post-natale;– attivatrice di una competenza riconoscitrice;– modulatrice tra pre e post-natale;– facilitatrice dell’adattamento all’ambiente esterno (attraverso

una funzione anticipatrice);– organizzazione di modalità (e livelli) comportamentali interatti-

vo-relazionali.In una condizione di sospensione, il feto sperimenta, quindi, una

forma di vita animata da suoni, ritmi, movimenti, inizia a danzare la vi-ta e tale danza diviene preparatoria per una successiva (post-natale)danza relazionale e comunicazionale.

Ogni aspetto dell’esperienza pre-natale ha due lati, ad esempio: si-lenzio/suoni, movimento/staticità. Ancora immerso nel biologico, il fe-to si prepara al suo passaggio al bio-psichico in un continuo scambiotra interno ed esterno in cui le interazioni sensoriali-emozionali e la re-lazione innescata attraverso il motorio-ritmico-sonoro (pensiamo an-che e solo come lo scalciare del feto spesso induca la madre a parlar-gli), fungono da stimolatori che attivano processi maturativi e la stes-sa competenza a nascere, a vivere, ad adattarsi, a comunicare, attraver-so l’incontro integrante/integratore dell’altro da sé.

Possiamo dire che esiste una prima forma di dialogo di cui siamocapaci alla nascita che è fondamentalmente un dialogo motorio; se-condo Milani Comparetti (1982) l’essere che si muove in utero sembraavere rappresentazioni del mondo esterno, organizzate dal feed-backesterocettivo e propriocettivo.

L’osservazione della motricità spontanea ha portato i frutti più si-gnificativi per l’interpretazione neurologica dei dati, nel senso di con-figurarla come una struttura interattiva con competenze organizzativeintra ed intersistemiche ed ha permesso di annullare l’immagine ridut-tiva del SNC come struttura solo reattiva; grazie alle prove che ci por-ta la neurofisiologia sulla competenza propositiva del SNC, ci sembraallora possibile guardare al fisiologico silenzio del feto come ad unostato di recettività e propositività che forma, prepara e, al contempo,avvia la sua capacità di comunicare. Silenzio, quindi, come ascolto re-cettivo, propositivo e preparatorio all’acquisizione di nuove competen-ze comunicazionali.

Ma cosa avviene alla nascita? Secondo Stern (1979), le prime in-fluenze dell’ambiente umano a cui il bambino è sottoposto sono costi-tuite soprattutto da ciò che la figura materna compie col suo viso, lasua voce, le sue mani, il suo corpo. La madre pertanto attraverso i suoi

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comportamenti offre al bambino la possibilità di nuove esperienze contutto ciò che ha a che fare con la comunicazione umana.

Per un lungo periodo la comunicazione del bambino passa attraver-so canali non verbali quali espressioni facciali, movimenti della testa,sorriso, sguardo e vocalizzazioni (solo un primo accenno di linguag-gio). Nella danza relazionale col suo bambino, la madre solitamentemostra espressioni facciali marcate nella loro entità sia temporale chespaziale e sono tutte volte ad iniziare, mantenere e modulare, conclu-dere ed evitare un’interazione sociale. Si pensi alla finta sorpresa periniziare, al sorriso per modulare, ad allontanare la testa e deviare losguardo per concludere, al volto inespressivo e allo sguardo ostile perevitare; tutte le espressioni emozionali sono costituite da costellazioniderivanti da diverse combinazioni di separati movimenti di ciascunadelle parti facciali (occhi, bocca, sopracciglia e così via).

Per ciò che concerne lo sguardo, il reciproco fissarsi madre-bambi-no può durare anche più di trenta secondi, e in generale, nell’intera-zione, la madre fissa il bambino nel momento stesso in cui gli parla eimpiega più del 70% del tempo a guardarlo: molto di più di quanto av-viene tra adulti.

Di solito in una conversazione chi ascolta guarda in faccia il par-lante per la maggior parte del tempo; chi parla, a sua volta, guarda ge-neralmente chi ascolta per alcuni istanti quando incomincia a parlare,poi distoglie lo sguardo per posarlo di nuovo sull’ascoltatore con spo-radiche occhiate come per averne delle informazioni di ritorno (feed-back); verso la fine del discorso guarda ancora una volta chi lo ascol-ta come per avvertirlo che sta per concludere e per cedergli il posto.Tramadre e bambino ci sono tempi e modi diversi; a differenza che traadulti, la madre fissa infatti il bambino come se si trovasse nella situa-zione di chi ascolta, mentre di fatto è l’unica a parlare, nell’allatta-mento invece fissa lo sguardo come se parlasse, anche se non lo fa.Uno sguardo che parla nutrendo, quindi.

Anche le presentazioni del volto da parte della madre al bambinodifferiscono dalle interazioni adulto-adulto: hanno infatti demarcazio-ni più discontinue, sospensioni o silenzi comportamentali più marcatie vengono eseguiti lentamente e in maniera alterata, cosicché ogni sin-gola presentazione viene ad acquistare per il bambino un maggior ri-lievo.

Per ciò che riguarda la prossemica, nell’interazione madre-bambi-no sono poco rispettate le convenzioni esistenti tra adulti. Se infatti traadulti è condivisa una distanza interpersonale non inferiore ai sessanta

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centimetri (oltre la quale si entra in uno spazio di intimità), nei con-fronti del bambino questo spazio interpersonale viene invaso con mol-ta frequenza dalla madre. Questa forma di comunicazione che passaper il corpo ha un’importanza fondamentale per preparare il bambinoa tollerare l’intrusione e ancor più a dare valore sociale alla formazio-ne del suo spazio privato.

Un altro aspetto affascinante della comunicazione madre-bambinoè certamente il dialogo dei primi mesi di vita:

“un fatto esclusivo, originale, ed è essenzialmente un monologo dellamadre sotto forma di dialogo immaginario, per la semplice ragione che,nonostante la rarità delle vocalizzazioni di risposta del bambino, la madresi comporta come se invece ne ricevesse sempre” (Stern D., 1979).

Anche in questo caso esistono alcune differenze rispetto al dialogoadulto; quando la madre si rivolge al bambino, abbrevia l’articolazio-ne vocale e prolunga le pause: attraverso le osservazioni si è visto che,mediamente, la madre fa una pausa corrispondente al tempo medio deldialogo fra adulti (0,60 sec.); rimane in silenzio per il tempo di un’im-maginaria risposta del bambino (0,43 sec.) e ripete di nuovo la pausatipica del dialogo tra adulti (0,60 sec.); sommando le tre pause si ha ladurata (1,63 sec.) delle pause prolungate che la madre inserisce nel suodialogo in risposta alle vocalizzazioni del bambino. Il bambino è co-munque esposto ad un modello temporale di pause vocali quando lamadre esprime più brevi raggruppamenti vocali da elaborare, quandoquesta consente un più lungo periodo di elaborazione di questi stessiraggruppamenti e quando espone in definitiva il bambino a quel piùmaturo schema temporale al quale dovranno attenersi le sue future abi-lità dialogiche. Il bambino, attraverso tali ‘giochi vocali’ apprende co-me controllare i suoi interventi vocali e poi verbali in vista di quelleche saranno, più tardi, le regole di una normale conversazione.

Ma la comunicazione, anche nei primi mesi di vita, non procedesolo da madre a bambino ma anche dal bambino alla madre e, anchein questo caso, lo sguardo è uno dei vettori fondamentali. Intorno al-la sedicesima settimana di vita, l’apparato visivo-motorio del bambi-no raggiunge un obiettivo evolutivo che spinge l’interazione socialecon la madre verso un nuovo livello. Alla fine del terzo mese, l’appa-rato visivo-motorio del bambino si presenta ormai maturo, la distanzafocale è la stessa di cui dispone l’adulto, così da poter osservare lamadre quando si avvicina, si allontana o si muove intorno; la rete co-

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municativa, in questo periodo, viene così ad essere molto estesa. L’in-terazione diadica dello sguardo bambino-madre implica una relazionetra due individui umani che fanno uso delle stesse modalità e dellostesso controllo (visivo), nonostante uno dei due abbia solo tre o quat-tro mesi.

Il controllo motorio della testa matura di pari passo con la precocematurazione dell’apparato visivo-motorio; i movimenti della testa e glispostamenti dello sguardo sono solitamente coordinati, ma gli uni e glialtri apportano un diverso e distinto impatto comunicativo alle con-giunte manifestazioni comportamentali.

“Cominciando dal bambino, vi sono almeno tre principali posizio-ni della testa e direzioni dello sguardo rivolte al volto materno” (Bee-be B. & Stern D., 1977): una posizione centrale (faccia a faccia), unaperiferica (il bambino non guarda direttamente la madre ma può ve-derla con gli “angoli” degli occhi) ed una in cui viene del tutto a man-care il contatto visivo. È interessante osservare come a seconda delmomento, la madre interpreti questi movimenti come fuga, evitamen-to, ricerca, ecc…

Un altro segnale comunicativo del bambino è sicuramente il sorri-so; tra le sei settimane ed i tre mesi, il sorriso diviene esogeno. Dal ter-zo mese diventa un comportamento strumentale e intorno al quartomese viene espresso in maniera coordinata ed articolata. Le espressio-ni facciali seguono un percorso evolutivo simile al sorriso: sono pre-senti alla nascita come attività riflesse, divengono poi esogene e sti-molate da eventi esterni e – secondo alcuni – il loro uso strumentale èpresente già dal primo mese. Entro il terzo mese, comunque, l’interagamma delle espressioni facciali è pronta per essere usata dal bambi-no come comportamento strumentale e sociale che lo aiuta a condurree regolare la sua interazione con la madre.

Attraverso lo sguardo, i movimenti della testa, le espressioni fac-ciali si avviano anche i momenti ludici tra bambino e madre che, fis-sandosi reciprocamente, si segnalano l’un l’altro la disponibilità perl’avvio di un’interazione; se lo sguardo viene distolto, il momento lu-dico ha esito negativo.

In Stern, troviamo la seguente distinzione tra fase attiva e fase pas-siva dei momenti ludici:

– fase attiva: è una sequenza di comportamenti sociali di varia du-rata, intercalati da pause; prende avvio da un comportamento disaluto della madre (solitamente). Questa esprime una serie di

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comportamenti, verbali e non, con cadenze regolari, cosicchéogni fase attiva viene ad avere un proprio ritmo;

– fase passiva: è caratterizzata dal silenzio e dall’interruzione diqualsiasi movimento; le pause sono più lunghe che nella fase at-tiva e c’è anche un’interruzione dell’attenzione visiva.

Si può guardare alla fase attiva e conseguente fase passiva comeunità alternative nella regolazione dell’interazione; secondo Stern(1979) nel corso di ogni fase attiva sia la madre che il bambino cerca-no di mantenersi entro margini ottimali di eccitamento e di responsi-vità affettiva, e le fasi attive tendono ad esaurirsi quando tali marginivengono oltrepassati per eccesso o per difetto. Spesso, è il bambinostesso che segnala alla madre il verificarsi di una tale circostanza. Ognifase attiva permette di riadattare l’interazione al diverso andamento delrapporto.

Le pause delle fasi passive sono quindi momenti alternativi o ria-dattativi particolarmente importanti (si pensi a come le madri ricorra-no a queste momentanee interruzioni dell’interazione per riportare apiù adeguati livelli l’intensità dell’interazione stessa).

Riassumendo, durante il primo anno di vita si verifica tra madre ebambino un’ampia gamma di sequenze interazionali (chi fa una ri-chiesta e chi la soddisfa, chi cerca e chi trova, chi indica e chi recepi-sce, chi inizia un compito e chi lo termina, e così via) attraverso le qua-li il bambino sperimenta una serie di relazioni che intercorrono traemittente e ricevente ed una notevole intercambiabilità di ruolo. Gra-zie a ciò, quando sarà in grado di utilizzare il linguaggio verbale, ilbambino possiederà una certa competenza circa la natura dei contestie delle convenzioni che ne governano l’uso.

Lo sviluppo della comunicazione verbale, che inizia nel secondoanno di vita, è perciò strettamente dipendente dalla capacità del bam-bino di partecipare a sequenze di comportamento ben sviluppate nelcorso del primo anno; indubbiamente madre e bambino arrivano a con-dividere un codice di condotta ben prima di un codice linguistico.

Molte ricerche permettono di constatare che nel passaggio dalla co-municazione prelinguistica al linguaggio esistono sia elementi di con-tinuità che di discontinuità. Come troviamo in Attili G. e Ricci BittiP.E. (1984), le intenzioni comunicative espresse – ad esempio, la ri-chiesta di un oggetto – possono essere le medesime nei due casi (con-tinuità), ma gli strumenti utilizzati – gesto e parola – sono diversi e nonnecessariamente dipendenti l’uno dall’altro. In altre parole, se comu-

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nicazione preverbale e linguaggio assolvono a funzioni in parte simili,non è del tutto dimostrato che le competenze grammaticali abbianoorigine dalle prestazioni della fase prelinguistica.

Bisogna considerare che la competenza comunicativa, essendo si-tuata nell’interfaccia di sviluppo linguistico, cognitivo e sociale, è de-terminata da una molteplicità di fattori; pertanto non tutte le capacità dicomprensione necessarie per una comunicazione efficace e reciproca,sono pienamente sviluppate nel periodo in cui compare il linguaggioverbale e la padronanza del linguaggio di per sé non spiega i progressinella capacità comunicativa, successivi all’uso delle prime parole.

Per Piaget, il linguaggio ha origine dallo sviluppo cognitivo del pe-riodo senso-motorio; i primi schemi verbali sono degli schemi senso-rio-motori in via di concettualizzazione che conservano l’essenzialedello schema sensorio-motorio puro, ma presentano anche uno statodel concetto; inoltre del concetto essi preannunciano l’elemento carat-teristico della comunicazione poiché sono designati da fonemi verbaliche li mettono in relazione con l’azione di un altro soggetto. A poco apoco, la parola comincia allora a funzionare come segno, vale a direnon solo come parte dell’atto, ma come evocazione di questo. Neltempo, lo schema verbale giunge a staccarsi dallo schema sensorio-motorio per acquistare la funzione di rappresentazione, vale a dire diripresentazione.

Se l’imitazione non può che riprodurre l’atto tale e quale (miman-dolo esteriormente col gesto o interiormente con l’immagine), il rac-conto aggiunge a ciò una specie particolare di oggettivazione che gli èpropria e che è legata alla comunicazione, o socializzazione del pen-siero stesso (Piaget J., 1972).

Non solo gli studi di Piaget, ma la maggior parte delle ricerchesembrano comunque dimostrare che le abilità linguistiche continuanoa svilupparsi anche dopo i cinque anni, fino all’adolescenza; per ilbambino, infatti, non si tratta solo di raggiungere una competenza les-sicale e sintattica, ma anche di capire e produrre discorsi coerenti, trar-re inferenze, produrre un linguaggio adatto ad un ascoltatore specificoe ad una situazione particolare, ecc…

Per concludere, riassumendo, un lungo periodo di silenzio, che noncorrisponde ad assenza di comunicazione, è necessario al bambino perarrivare ad acquisire anche competenze linguistiche; in questo lungoperiodo il bambino sperimenta e specializza tutto il suo patrimonio nonverbale, che non scompare al comparire della parola, ma quest’ultima,il “metodo migliore”, prevale.

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Entrambi i linguaggi, verbale e non verbale, possono avviare unprocesso di comunicazione con l’altro; il terreno della comunicazione,allora, è il terreno di incontro con l’altro, e silenzio e parola interven-gono entrambi nel regolare e stabilizzare la relazione.

Non riteniamo opportuno, in questa sede, approfondire tematicheche richiederebbero una trattazione ben più estesa; desideriamo peròaffidarvi una riflessione che è sorta spontanea dall’osservare in chemodo abbiamo deciso di strutturare i paragrafi di questo capitolo: bi-sogna partire dalle origini, dal bambino; e in fin dei conti, non è pro-prio questo che avviene in terapia? La relazione terapeutica prevede unincontro con l’altro, un entrare in sintonia attraverso vari canali, essa èun accostarsi al bambino (ferito, maltrattato, denutrito o viziato), unnutrirlo e farlo crescere, ‘tenendo d’occhio’ anche il ‘genitore e l’adul-to’, come ci insegna l’analisi transazionale.

Al di là dell’approccio, comunque, la relazione terapeutica è unprocesso di crescita ed una regolazione della relazione stessa. Secondonoi, è comunque utile tener presente il ‘bambino’ e considerare che unperiodo di silenzio è per questi fisiologico; a volte, infatti, il bambino“mette il muso”, non vuol parlare; altre volte parla molto ma senza sen-so (un senso adulto almeno). Bisogna tenerlo per mano, allora, edascoltarlo; in un modo o nell’altro sta comunicando, si tratta solo di fa-cilitarlo nel processo di crescita.

1.3 Breve intermezzo: un silenzio amorevole

Ora, vogliamo raccontarvi della vecchia Anna.C’erano una volta una serie di studi (iniziati intorno al 1915) sul cli-

ma emotivo dei brefotrofi e sull’alto tasso di mortalità dei bambini isti-tuzionalizzati; in quegli stessi anni il dottor Chapin introdusse il siste-ma di affidare i bambini a famiglie private, ma scusate, questa è un’al-tra storia, o quasi.

Il nostro personaggio è infatti il dottor Fritz Talbot di Boston, cheun giorno iniziò a parlare di una “cura amorosa” di cui, egli diceva,aveva tanto sentito parlare in Germania. Durante il suo viaggio in Ger-mania,

“il dottor Talbot aveva visitato la clinica pediatrica di Düsseldorf, doveil direttore, dottor Arthur Schlossman, lo aveva accompagnato nelle cor-sie. Queste erano molto pulite e ordinate, ma ciò che più stimolò la curio-

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sità del dottor Talbot fu la vista di una donna vecchia e grassa che tenevain braccio un bambino. ‘Chi è quella’ – chiese il dottor Talbot – Oh quel-la – rispose Schlossman – è la vecchia Anna. Quando per un bambino si èfatto tutto il possibile da un punto di vista medico, ed egli ancora non siriprende, allora ricorriamo alla vecchia Anna, e lei ce la fa sempre” (Mon-tagu A., Matson F., 1981).

Tenere in braccio un bambino e coccolarlo, aiuta il bambino a cre-scere; straordinario, pensò Fritz Talbot. Da quel giorno, il dottor Talbotiniziò a sostenere l’importanza di una tenera e amorosa cura, in moltiospedali pediatrici si inserì un regime regolare di assistenza maternanei reparti; il dottor J. Brenneman stabilì nel suo ospedale che ognibambino doveva essere preso in braccio, portato in giro e “assistito ma-ternamente” più volte al giorno. Certo non vissero tutti felici e conten-ti; sicuramente, però, molti progressi sono stati fatti e si è ben com-presa l’importanza di un nutrimento (fatto anche di contatto) anche esoprattutto emotivo. Conoscete anche la storia di Bowlby, Spitz, Har-low, vero? Ma no, non si tratta solo di anatroccoli, bambini e scim-miette! Non abbiamo tempo qui per raccontarvi meglio, ma essi hannoscritto tanto, ed è appassionante leggere i loro “racconti”. Pensando aquesti magnifici personaggi, vogliamo solo dirvi che il contatto e l’a-more rappresentano una delle più alte forme di comunicazione umana(e non solo per i neonati).

Vi sono ormai prove inconfutabili che tutti gli animali, esseri uma-ni inclusi, deprivati emotivamente, sono meno resistenti agli effetti del-lo stress e alla malattia degli animali emotivamente soddisfatti; inoltre,gli individui deprivati soffrono tipicamente di un’incapacità di comu-nicare con gli altri a tutti i livelli: sociale, sessuale e non-verbale.

Per crescere, svilupparsi e sviluppare adeguate capacità comunica-tive, non basta il semplice soddisfacimento di bisogni fisiologici; è ne-cessaria la stimolazione dell’affetto attraverso i sensi perché il cervel-lo trasmetta alla ghiandola pituitaria i segnali che consentono un ade-guato processo di crescita. Un percorso, questo, fisiologico, ma nonsolo: è molto di più!

Ora riuscite a pensare ad una parola d’amore? Ad un gesto d’amo-re?Ad un silenzio per amore? E riuscite a capire quanto ognuna di que-ste esperienze possa essere fondamentale nella vita di ognuno?

Parola, gesto, silenzio: questi tre vocaboli richiamano alla nostramente vari modelli terapeutici (psicoanalisi, cognitivismo, gestalt, te-rapia centrata sulla persona, ecc…), e questo ci porta a considerare che

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i modelli terapeutici optano per tecniche d’intervento che privilegianonella relazione ora la parola, ora il silenzio, ora l’azione; tentano cioèdi avvalersi, a seconda dei casi, di una parte del processo di comuni-cazione che sicuramente può avviare un processo di crescita, comuni-cazione e regolazione della relazione. Tuttavia, poiché consideriamo lacomunicazione un processo molto più complesso delle sue singole par-ti, ci sentiamo più vicini ad un modello di terapia integrato.

Ci fermiamo qui, per ora.

1.4 Silenzio e comunicazione: come, quando e perché

Come si manifesta la comunicazione che potremmo chiamare “si-lenziosa”?

Uno sguardo, un movimento, l’orientamento del nostro corpo nellospazio: tutto ciò è comunicazione. La comunicazione umana è infattiun insieme complesso di simboli e segni. Essa è composta da molto dipiù che mezzi e messaggi, informazione e persuasione, perché va in-contro a un bisogno molto più profondo e serve ad uno scopo ben piùalto; infatti la comunicazione, chiara o confusa, rumorosa o silenziosa,deliberatamente o fatalmente disattenta, è in breve ‘la modalità essen-ziale di collegamento tra gli uomini’.

Le ricerche sulla comunicazione hanno aperto nuovi orizzonti e siè ormai divenuti consapevoli che:

“il campo verbale è solo la punta dell’iceberg dell’esperienza comuni-cazionale, e che nel dialogo umano c’è di più, molto di più, di quanto per-cepisce il nostro orecchio.Il discorso e il linguaggio non sono certo dimi-nuiti di importanza, ma sono stati inseriti in un contesto più ampio” (Mon-tagu A., Matson F., 1981).

Per passare velocemente in rassegna gli elementi costitutivi del lin-guaggio silenzioso, e senza dimenticare ciò che sosteneva Freud (neabbiamo parlato nel primo paragrafo), ci piace qui riportare la classi-ficazione di Jurgen Ruesch e Wendell Kees, nel libro Non-verbal Co-munication: Notes on the Visual Perception of Human Relations:

– linguaggio dei segni: parole, numeri e punteggiatura vengonosostituiti da gesti (ad esempio il gesto monosillabico di un auto-stoppista o il linguaggio dei sordomuti);

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– linguaggio dell’azione: atti come camminare, bere, da una parteservono a bisogni personali, dall’altra costituiscono “frasi” perchi li percepisce;

– linguaggio degli oggetti: consiste nell’esibizione, intenzionale omeno, di oggetti materiali, è un linguaggio oggettuale rappre-sentato dal corpo umano e tutto ciò che lo veste o lo copre.

Solo per fare alcuni esempi: l’atto del camminare non è spesso in-vestito di una ricchezza e complessità simbolica? E stare in piedi ecamminare non significa non essere fermi, riuscire a procedere? Ed an-cora, quando guardiamo qualcuno camminare non associamo il suomodo di farlo a rigidità o ad altre caratteristiche di personalità e attri-buiamo magari anche ostentazione o inibizione di sessualità? E nonabbiamo mai temuto che un nostro abito possa risultare inadeguato perqualcuno, che gli invii un messaggio sbagliato?

Tutto ciò che noi agiamo, anche nell’immobilità e nel silenzio, co-munica.

Nessuna posizione, espressione o movimento o atto ha un signifi-cato di per sé, ma comunica qualcosa di chi lo esegue, nel momento incui lo esegue: comunica qualcosa della sua cultura, della sua natura,della sua storia.

Immaginiamo una situazione semplicissima: incontriamo una per-sona che conosciamo, accenniamo un movimento col capo, la guardia-mo negli occhi, le sorridiamo e solleviamo la mano all’altezza del bu-sto. Abbiamo attuato una serie di comportamenti che non hanno un si-gnificato di per sé, ma in quel contesto sostituiscono una comunica-zione verbale. Questa situazione potrebbe avere vari significati: abbia-mo avuto un incidente, portiamo un collare ortopedico ed un busto checi impediscono movimenti ampi (oggetti che ricoprono il corpo e co-municano la nostra situazione), riusciamo a malapena a parlare e co-munichiamo col nostro sorriso e con lo sguardo la nostra disponibilitàverso l’altro, accennando col capo e la mano al saluto. Oppure, piùsemplicemente, abbiamo solo scelto di attuare tali comportamenti alposto di una parola: ciao.

Vi rimandiamo agli studi di Harris, Ekman, Argyle e a quelli del“padre” della prossemica Hall e del “padre” della cinesica Birdwhi-stell, per approfondire gli elementi costituitivi della comunicazione si-lenziosa. Questi studi, oltre a consentire un approfondimento, sottoli-neano come il non verbale che gestiamo con competenza (ma non sem-pre con consapevolezza) da adulti sia la “specializzazione” di quello

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stesso non verbale che sperimentiamo nei primi mesi di vita; gli studisi rivolgono infatti allo sguardo, al volto, al corpo nell’espressione del-le emozioni e nell’interazione con l’altro proprio come quelli dell’in-fant research.

E in qualche modo, anche qui, ci sembra di tornare al bambino percapirne di più!

Dopo aver trattato brevemente il come della comunicazione silen-ziosa, vediamo il quando e perché, partendo da alcune domande.

Esistono dei canali sensoriali e dei comportamenti attraverso i qua-li passa la comunicazione silenziosa, ma quando e perché l’attiviamo ?

Nell’esempio precedente, l’incontro con un conoscente, cosa ciporta ad attuare dei comportamenti e non a pronunciare il ciao?

Ed in una situazione diversa con un arco temporale più ampio, omagari in terapia, cosa ci porta a praticare il silenzio per comunicare?

Possiamo avanzare delle ipotesi; quello che sentiamo di poter dire èche il silenzio ci appartiene, fa parte, come si è visto, della regolazio-ne della relazione ed entra in gioco in questo ruolo nel processo di co-municazione.

La scelta, il bisogno, il vincolo, ecc. stanno nella pratica del silen-zio tanto quanto in quella della parola. Bisogna allora entrare nella re-lazione per osservare il quando e cercare nella propria storia per capi-re il perché.

Ed in terapia si fa proprio questo, si entra nella relazione e si cercanella propria storia.

Proponendoci di affrontare la questione silenzio/attaccamento/co-municazione in un altro capitolo, ora, per dare l’unica risposta che sen-tiamo di poter dare sul quando ed il perché del silenzio, citiamo le pa-role di Papousek e collaboratori (1986) su comunicazione e attacca-mento: comunicare è sia una motivazione che una capacità funzionaledi grande forza nella formazione dell’attaccamento nel periodo pre-verbale dell’infanzia, e anche successivamente.

Parafrasando possiamo allora dire: silenzio e parola, nella comuni-cazione, sono sia una motivazione che una capacità funzionale di gran-de forza nella formazione e nel mantenimento della relazione; per ri-spondere ad un quando o ad un perché del silenzio nella relazione bi-sogna guardare a questi due aspetti.

Proprio pensando a tali aspetti del silenzio, la motivazione e la ca-pacità funzionale, ne riportiamo qui di seguito solo alcuni esempi.

Silenzio come:

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• scelta• vincolo fisiologico/disturbo relazionale-comunicazionale• atto d’amore• trauma• spazio di riflessione• spazio d’ascolto• regressione • linguaggio del bambino• vincolo psicologico (non so parlare, non voglio, non posso)• cultura mafiosa dell’omertà• cultura della meditazione• assenza • presenza• bisogno• possibilità

Potremmo continuare, ma preferiamo che il nostro silenzio lascispazio alla vostra immaginazione, alle vostre parole o al vostro silen-zio.

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Ricapitolando:

• abbiamo rintracciato le ‘origini’ del silenzio e mostrato in che mo-do nasciamo predisposti alla comunicazione, verbale e non, silen-ziosa e non. La comunicazione rappresenta un processo continuoche, sin dalla nascita, fa uso di tutte le modalità sensoriali: non so-lo il canale audio-acustico, ma anche un canale cinesico-visivo, ol-fattivo e tattile;

• solo e semplicemente per scelta, abbiamo evitato di sottolinearel’influenza che la cultura ha sul processo di comunicazione, purnella consapevolezza dell’importanza di questo fattore;

• abbiamo cercato di mostrare l’importanza del fatto che ogni co-municazione passi attraverso un contatto ed un gesto d’amore, inun continuo scambio con l’altro; abbiamo visto come tutto ciò pos-sa avvenire sia attraverso il silenzio che attraverso la parola.

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SCHEDA 1

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Domande e considerazioni possibili:

• Sto considerando il silenzio del cliente come una forma di comu-nicazione?

• Che senso ha per il cliente il silenzio? Come è abituato ad usarlonel contesto da cui proviene?

• Sto ascoltando ciò che il mio cliente dice e sto osservando cosa fa,senza focalizzarmi solo su ciò che egli non dice?

• Sto incontrando il paziente nel suo personale silenzio? • Mi sto interrogando sul modo in cui io stesso sto usando il silen-

zio nei riguardi del paziente? A volte è necessario chiedersi se sista utilizzando il silenzio come strumento tecnico e forma di co-municazione, o se ci si sta barricando dietro di esso per evitare dicomunicare al paziente sentimenti che mettono in difficoltà (amo-re, odio, noia, ecc.).

Page 28: Silenzio e solitudine

NELLA STESSA COLLANA

Benson J., Gruppi. Organizzazione e conduzione per lo sviluppo personale e la psi-coterapia, 20001, pp. 272

Beutler L.E. - Harwood T.M., Psicoterapia prescrittiva elettiva. La scelta del trat-tamento sistematico fondata sull’evidenza, 2002, pp. 224

Bozarth J.D., La terapia centrata sulla persona. Un paradigma rivoluzionario, 2001,pp. 240

Campanella V. - Fiori M. - Santoriello D., Disturbi mentali gravi. Modellid’intervento pluralistico integrato dall’autismo alle psicosi, 2003, pp. 272

Chambon O. - Marie-Cardine M., Le basi della psicoterapia eclettica e integrata,2002, pp. 288

Clarkson P., Gestalt - Counseling, 1999 II ediz., pp. 192Clarkson P., La Relazione Psicoterapeutica integrata, 1996, pp. 392Delisle G., I disturbi della personalità, 20001, pp. 224Feltham C. - DrydenW. (a cura di E. Giusti),Dizionario di counseling, 1995, pp.320

Fontana D., Stress Counseling. Come gestire gli stati personali di tensione, 1996,pp. 160

Frisch M.B., Psicoterapia integrata della qualità della vita, 2001, pp. 352Giannella E., Palumbo M., Vigliar G., Mediazione familiare e affido condiviso.Come separarsi insieme, 2007, pp. 240

Giusti E. - Calzone T., Promozione e visibilità clinica. Motivare i pazienti ai trat-tamenti psicologici, 2006, pp. 288

Giusti E. - Carolei F., Terapie transpersonali. L’integrazione della spiritualità e dellameditazione nei trattamenti pluralistici, 2005, pp. 336

Giusti E. - Chiacchio A., Ossessioni e compulsioni. Valutazione e trattamento dellaPsicoterapia Pluralistica Integrata, 2002, pp. 176

Giusti E. - Ciotta A.,Metafore nella relazione d’aiuto e nei settori formativi, 2005,pp. 256

Giusti E. - Corte B., La terapia del per-dono, 2008, pp. 304Giusti E. - Di Fazio T., Psicoterapia integrata dello stress. Il burn-out professiona-le, 2005, pp. 256

Giusti E. - Di Francesco G., L’autoerotismo. L’alba del piacere sessuale: dall’iden-tità verso la relazione, 2006, pp. 208

Giusti E. - Di Nardo G., Silenzio e solitudine. L’integrazione della quiete nel trat-tamento terapeutico, 2006, pp. 240

Giusti E. - Frandina M., Terapia della gelosia e dell’invidia. Trattamenti psicologi-ci integrati, 2007, pp. 224

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NELLA STESSA COLLANA

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Beutler L.E. - Harwood T.M., Psicoterapia prescrittiva elettiva. La scelta del trat-tamento sistematico fondata sull’evidenza, 2002, pp. 224

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Chambon O. - Marie-Cardine M., Le basi della psicoterapia eclettica e integrata,2002, pp. 288

Clarkson P., Gestalt - Counseling, 1999 II ediz., pp. 192Clarkson P., La Relazione Psicoterapeutica integrata, 1996, pp. 392Delisle G., I disturbi della personalità, 20001, pp. 224Feltham C. - DrydenW. (a cura di E. Giusti),Dizionario di counseling, 1995, pp.320

Fontana D., Stress Counseling. Come gestire gli stati personali di tensione, 1996,pp. 160

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Giusti E. - Minonne G., Ricerca scientifica e tesi di specializzazione in psicoterapia,2005, pp. 368

Giusti E. - Montanari C., Trattamenti psicologici in emergenza con EMDR per pro-fughi, rifugiati e vittime di traumi, 2000, pp. 192

Giusti E. - Montanari C., La CoPsicoterapia. Due è meglio e più di uno in efficaciaed efficienza, 2005, pp. 320

Giusti E. - Nardini M.C., Gruppi pluralistici. Guida transteorica alle terapie col-lettive integrate, 2004, pp. 304

Giusti E. - Ornelli C., Role play. Teoria e pratica nella Clinica e nella Formazione,1999, pp. 144

Giusti E. - Palomba M., L’attività psicoterapeutica. Etica ed estetica promozionaledel libero professionista, 1993, pp. 128

Giusti E. - Perfetti E., Ricerche sulla felicità. Come accrescere il benEssere psicolo-gico per una vita più soddisfacente, 2004, pp. 192

Giusti E. - Pitrone A., Essere insieme. Terapia integrata della coppia amorosa, 2004,pp. 240

Giusti E. - Pizzo M., La selezione professionale. Intervista e valutazione dellerisorse umane con il modello pluralistico integrato, 2003, pp. 208

Giusti E. - Proietti M.C., La delega direzionale, 1996, pp. 112Giusti E. - Proietti M.C., Qualità e formazione. Manuale per operatori sanitari epsicosociali, 1999, pp. 184

Giusti E. - Rapanà L., Narcisismo. Valutazione pluralistica e trattamento clinicointegrato del Disturbo Narcisistico di Personalità, 2002, pp. 176

Giusti E. - Romero R., L’accoglienza. I primi momenti di una relazione psicotera-peutica, 2005, pp. 176

Giusti E. - Sica A., L’epilogo della cura terapeutica. I colloqui conclusivi dei tratta-menti psicologici, 2005, pp. 160

Giusti E. - Surdo V., Affezione da Alzheimer. Il trattamento psicologico comple-mentare per le demenze, 2004, pp. 144

Giusti E. - Taranto R., Super Coaching tra Counseling e Mentoring, 2004, pp. 352

Nella stessa collana

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Page 31: Silenzio e solitudine

Giusti E. - Testi A., L’Autostima. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 224Giusti E. - Testi A., L’Assertività. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 224Giusti E. - Testi A., L’Autoefficacia. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 96Giusti E., Essere in divenendo. Integrazione pluralistica dell’identità del Sé, 2001,pp. 144

Giusti E., Autostima, psicologia della sicurezza in Sé, 20055, pp. 200Giusti E., Videoterapia. Un ausilio al Counseling e alle Arti-Terapie, 1999, pp. 176Giusti E., Tecniche immaginative. Il teatro interiore nelle relazioni d’aiuto, 2007,pp. 272

Gold J.R., Concetti chiave in psicoterapia integrata, 2000, pp. 268Goldfried M.R.,Dalla terapia cognitivo-comportamentale all’integrazione delle psi-coterapie, 2000, pp. 288

Greenberg L.S. (et al.), Manuale di psicoterapia esperienziale integrata, 2000, pp.576

Greenberg L.S. - Paivio S.C., Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata,2000, pp. 368

Manucci C. - Di Matteo L., Come gestire un caso clinico, 2004Murgatroyd S., Il Counseling nella relazione d’aiuto, 20001, pp. 192Perls F., Qui & ora. Psicoterapia autobiografica, 1991, pp. 256Persons J.B. - Davidson J. - Tompkins M.A., Depressione. Terapia cognitivo-com-portamentale. Componenti essenziali, 2002, pp. 288

Preston J., Psicoterapia breve integrata, 2001, pp. 256Reddy M., Il Counseling aziendale. Il Manager come Counselor, 1994, pp. 176Santostefano S., Psicoterapia integrata. Per bambini e adolescenti. Vol. I:“Metateoria pluralistica”, 2002, pp. 400

Santostefano S., Psicoterapia integrata. Per bambini e adolescenti. Vol. II:“Tecnologia applicativa”, 2003, pp. 384

Spalletta E. - Quaranta C., Counseling scolastico integrato, 2002, pp. 352

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Nella stessa collana

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EDIZIONE SOVERA STRUMENTI

Elliott R. - Watson J.C. - Goldman R.N. - Greenberg L.S., Apprendere la terapiafocalizzata sulle emozioni. L’approccio esperienziale orientato al processo per ilcambiamento, in corso di stampa, pp. 368

Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., Psicodiagnosi integrata. Valutazione tran-sitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia plura-listica fondata sull’evidenza obiettiva, 2006, pp. 580

Giusti E., Bonessi A., Garda V., Salute e malattia psicosomatica. Significato, dia-gnosi e cura, 2006, pp. 240

Giusti E., Germano F.., Psicoterapeuti generalisti. Competenze essenziali di base:dall’adeguatezza verso l’eccellenza, 2006, pp. 256

Giusti E., Pacifico M., Staffa T., L’intelligenza multidimensionale per le psicotera-pie innovative, 2007, pp. 400

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