Roma Tre News 2/2009

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Occidente in crisi

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SommarioEditoriale 3

Primo piano

Anatomia del crack 4Spunti dal dibattito sulle origini dell’attuale crisi dei mercatifinanziari di Carlo Domenico Mottura

Crisi e finanza pubblica 7Nuovi criteri economici e diversità degli assetti istituzionalidi Antonio Di Majo

Il cammino di Kyoto 9Consumi energetici e ambiente nell’attuale congiuntura economicadi Valeria Termini

Declino e ascesa 12La Fiat e l’industria italiana oggidi Anna Giunta

Il non profit delle banche 14Recenti esperienze di finanza etica in Europa e in Italia di Francesca Lulli

Storie di successo 17Il microcredito come strumento di finanza etica anticrisidi Simona Retacchi e Diana Tiburzi

Noi e gli stranieri 19Una storia di multiculturalismo quotidiano di Chiara Giaccardi

Il caso Marocco 22I diritti delle donne tra le due sponde del Mediterraneodi Barbara Felcini

Libero mercato o libero uomo? 23La necessità in tempi di crisi di far ripartire le nuove strategieimprenditoriali dall’uomo e dal suo benesseredi Indra Galbo

Generazione precaria 24La flessibilità come norma, l’impiego a tempo indeterminatocome eccezionedi Giacomo Caracciolo

Focus HIV: a venticinque anni dalla scoperta del virusHiv: verso un vaccino terapeutico? 25di Michela MonferriniConoscere e prevenire: non solo AIDS 26di Giorgio Venturini Campagna di prevenzione AIDS: per una sessualitàconsapevole e serena 27di Mauro Benvenuti e Rosella Di Bacco

Incontri

Francesca Brezzi. Quando il futurismo è donna 28a cura di Maria Vittoria Marraffa

Giacomo Marramao. I diritti umani nel secolo sino-americano 31di Michela Monferrini

Reportage

Latifondisti in sciopero 35A otto anni dalla crisi in Argentina sono ricomparsi i piqueteros,ma questa volta a protestare sono i proprietari terrieridi Fulvia Vitale

“Aperto per fallimento” 38Fabbriche e imprese recuperate dai lavoratori in Argentinadi Leticia Marrone

Orientamento

Reti per l’orientamento 41Alla ricerca di nuove sinergie fra scuola, università e lavorodi Massimo Margottini

Il seme della ripresa 42Dai dati del rapporto AlmaLaurea emerge la necessità di investirein formazione, ricerca e sviluppo e nelle risorse umane dei giovanilaureatidi Andrea Cammelli

Crescita personale e utilità sociale 44Il diritto allo studio tutelato dalla nostra Costituzionedi Gianpiero Gamaleri

La nuova residenza e la rete dei laureati 45Due iniziative di collaborazione fra l’Ateneo e l’Adisudi David Meghnagi

Procedure telematiche 47I successi dell’informatizzazione in Ateneodi Roberto Maragliano e Alessandro Masci

Oltre la laurea 48FIxO: formazione e innovazione per l’occupazionedi Francesca Rosi

Rubriche

Ultim’ora da Laziodisu 50Non tutti sanno che ... 50

Recensioni

Tra parole e cinema 51Incontro con Niccolò Ammaniti di Mariangela Carroccia

Quale cultura nell’Italia in crisi? 52Baricco propone finanziamenti pubblici solo a scuola e televisioneElogi… e critiche di Rosa Coscia

Corti d’autore contro la crisi 54Ritroviamo fiducia con Olmi, Salvatores e Sorrentino di Rosa Coscia

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XI, numero 2/2009

Direttore responsabileAnna Lisa TotaDocente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi

Coordinamento di redazioneAlessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento)Federica Martellini (Ufficio orientamento)Divisione politiche per gli [email protected]

RedazioneUgo Attisani (Ufficio Job Placement), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Ges-sica Cuscunà (Ufficio orientamento), Tommaso D’Errico (studente del C.d.L. in Com-petenze linguistiche e testuali per l’editoria e il giornalismo), Indra Galbo (studente delC.d.L. in Scienze politiche), Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche pergli studenti), Michela Monferrini (studentessa del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe(Resp.Ufficio stampa), Camilla Spinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nellasocietà della globalizzazione), Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza)

Hanno collaborato a questo numeroMauro Benvenuti (ASL RM C), Salvatore Buccola (Direttore amministrativo Adisu Ro-ma Tre), Andrea Cammelli (presidente AlmaLaurea), Giacomo Caracciolo (neolaurea-to del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubblicista), Mariangela Carroccia (Uffi-cio stampa), Rosa Coscia (studentessa del C.d.L. in Informazione, editoria e giornali-smo), Rosella Di Bacco (ASL RM C), Antonio Di Majo (docente di Scienza delle fi-nanze), Barbara Felcini (Master I Diritti delle donne tra le due sponde del Mediterra-neo), Gianpiero Gamaleri (Commissario straordinario Adisu Roma Tre), Chiara Giac-cardi (docente di Sociologia dei processi culturali, Università Cattolica di Milano),Anna Giunta (docente di Economia applicata), Francesca Lulli (Master Human Deve-lopment and food security), Roberto Maragliano (docente di tecnologie dell’istruzio-ne e dell’apprendimento e responsabile scientifico della Piazza telematica), MassimoMargottini (delegato del Rettore per le Politiche di orientamento), Maria Vittoria Mar-raffa (studentessa del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio artistico), Leti-cia Marrone (A.S.A.L. - Associazione studi America Latina), Alessandro Masci (re-sponsabile Area sistemi informativi di Ateneo), David Meghnagi (delegato del Rettoreper il Diritto allo studio), Carlo Domenico Mottura (docente di Matematica finanziariae di Modelli di risk management), Simona Retacchi, Francesca Rosi (Ufficio Job Pla-cement), Valeria Termini (direttore della Scuola superiore di Pubblica Amministrazio-ne), Diana Tiburzi, Giorgio Venturini (docente di Citologia e istologia)

Immagini e fotoPasquale De Muro, Indra Galbo, Simone Mieli, Paola Padula ©, Valeria Perna,Massimiliano Pinna ©, Fulvia VitaleSi ringrazia inoltre Emanuele Panzera per la gentile concessione delle immaginidelle opere di Barbara

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Via Ippolito Nievo, 62 - Romawww.conmedia.it

Impaginazione e stampaTipografia Stilgrafica s.r.l.Via Ignazio Pettinengo 31/33 - 00159 Roma

CopertinaL’elaborazione grafica della copertina è di Tommaso D’Errico

Finito di stampare luglio 2009

Registrazione Tribunale di Roma n.51/98 del 17/02/1998

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Consumo, dunque sono: così si intitola l’ultimo libro di Bau-mann (2008), in cui l’autore criticamente analizza la relazio-ne tra identità e consumi, così come si è delineata nel mondocapitalistico occidentale. La società dell’informazione è an-che la società dei consumi, nella quale i media e, in particola-re, la pubblicità hanno veicolato una concezione delle identi-tà, in cui le dimensioni dell’avere e del consumare sono prio-ritarie. Tuttavia, al di là dell’utilità intrinseca di una tale rap-presentazione delle soggettività, che succede quando con suc-cesso si è imposto lo slogan «consumo, dunque sono» e le ri-sorse economiche per consumare improvvisamente comin-ciano a scarseggiare? Quanto più le nostre identità sono anco-rate alle dimensioni dell’avere e del consumare, tanto piùl’impossibilità di avere e consumare i beni desiderati assume-rà le sembianze e i contorni di una profonda crisi esistenziale.La crisi economica è un tema di cui si occupano a vario ti-tolo e con toni diversi politici, giornalisti, economisti, socio-logi, imprenditori, ma anche padri di famiglia, studenti, ca-salinghe, pensionati e disoccupati. È il leitmotiv che sembraricorrere nelle vite di tutti noi, rendendoci tutti più simili epiù vulnerabili. La crisi economica, crescente e dilaganteanche in quella fetta del mondo abituata a pensarsi comeagiata e benestante, diviene paradigma cognitivo per ripen-sare non solo all’assetto dell’intero sistema mondo (per usa-re la celebre nozione di Wallerstein) e dei delicati equilibrinazionali, ma anche per ridefinirci come attori individualinelle politiche del quotidiano. Come dire che la crisi econo-mica non solo è un problema di politica nazionale e globale,ma è anche qualcosa che incide profondamente sulla nostraweltanschauung del quotidiano, sulle nostre opportunità divita. È qualcosa che ci mina dentro, mutando le nostreaspettative sul futuro. Gli economisti lo affermano da sem-pre: vi sono dimensioni psicologiche profonde che operanoa livello collettivo e che strutturano le dinamiche di merca-to. John Elster, fra i molti altri che si potrebbero citare, hadato contributi imprescindibili su questo intreccio. Da so-ciologa non posso non notare che c’è una dimensione socia-le molto forte nelle economie di mercato, che anche i mer-cati fluttuano e sono costruiti sulla base delle aspettative so-ciali degli attori economici stessi. In questo numero affron-tiamo il tema della crisi economica da vari punti di vista: ilcrack finanziario, il ruolo delle multinazionali, il rapportotra finanza pubblica e istituzioni, l’impatto dei consumienergetici sulla crisi economica, e poi ancora le economieemergenti in Oriente e la questione dei diritti umani, le fab-briche recuperate in Argentina e molti altri temi. Se guardiamo alle questioni poste dalla crisi economica sulpiano globale, quello che più colpisce è che l’ottimismo e lafiducia nel progresso continuo devono cedere il passo a for-me molto ridimensionate di rappresentazione del futuro, do-

ve le dimensioni che prevalgono sono legate all’incertezza,alla percezione del rischio (per riprendere Beck) e, forse, an-che al declino. Il modo di produzione capitalistico che, dopola caduta del muro di Berlino e la ridefinizione complessivadell’assetto geopolitico dei paesi dell’ex Unione Sovietica,sembrava poter assurgere a modello, unico e incontrastato, disviluppo almeno per tutta l’area occidentale, mostra i suoi li-miti: oltre a non funzionare per almeno una parte della popo-lazione mondiale che vive sotto la soglia di povertà, non pa-re più funzionare adeguatamente nemmeno per i paesi tradi-zionalmente più ricchi. Il modello del consumo crescente co-me volano e incentivo di economie con alti tassi di svilupposembra all’improvviso inadeguato non solo per le innumere-voli ragioni addotte dagli ecologisti sulla sua sostenibilità in-trinseca (utilizziamo più risorse di quelle che il pianeta è ingrado di rinnovare, distruggiamo attraverso l’inquinamentole condizioni di abitabilità del pianeta per numerose specievegetali, animali e anche per la specie umana), ma anchesemplicemente perché non produce più ciò che promette: be-nessere per molti, se non per tutti. Non è vero che più consu-miamo più diventiamo ricchi, ma è piuttosto vero il contra-rio: più abbiamo bisogno di consumare, più diventiamo tuttisempre più poveri. Forse in definitiva la crisi economica ciinduce a riscoprire il buon senso e alla logica ferrea del con-sumo ci induce a sostituire il «non spreco, dunque sono»(ma una volta non era «penso, dunque sono»?...). La crisi economica globale ci obbliga a ripensare i fonda-menti stessi delle nostre identità, a slegare le dimensionidell’essere e dell’esistere dall’esperienza del consumare edell’avere, esperienza che peraltro non è di per sé tipica delmodo di produzione capitalistico che, almeno alle sue origi-ni, come giustamente fece notare Max Weber, era ricondu-cibile all’accumulazione senza consumo, all’etica calvinisti-ca e all’ascesi mondana che la caratterizzava. Le strategie divita del futuro sembrano passare attraverso lo sviluppo dellecoscienze critiche di cittadini ben informati (come direbbeAlfred Schutz) e moralmente avvertiti che, più che consu-mare, sappiano come risparmiare. Il modello di produzionecapitalistico sembra dover tornare alla sua matrice origina-ria: le strategie di vita devono essere ridefinite a partire danuovi valori, come la riduzione degli sprechi, il risparmio,la sostenibilità dei consumi, la felicità delle piccole cose…quelle immateriali, che non costano nulla, ma che possonougualmente diventare centrali risorse di senso. C’è un pic-colo stato nel mondo, il Bhutan, il cui sovrano ha deciso diintrodurre accanto al prodotto interno lordo (il PIL) un altroindicatore economico e sociale: il FIL, cioè la felicità inter-na lorda. Come a dire che il benessere di un paese e di unpopolo si misura sulla felicità degli individui e non soltantosul loro reddito. Che sia questa la strada del futuro?

«Consumo, dunque sono»: crisieconomica e crisi identitariadi Anna Lisa Tota

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Il mese di ottobre del2008 è stato il peggior pe-riodo nella storia delle piùimportanti borse valori delmondo, perché si è verifi-cato il più pesante crollodei prezzi che sia mai av-venuto nella storia deimercati. Tentiamo di capi-re, fin dove possibile, cosaè successo.Il mercato finanziario è il“luogo” dove è possibilecomprare o vendere con-tratti finanziari, ovvero

contratti che prevedono scambi di importi monetari esigi-bili a date diverse. Esistono tanti tipi di mercati (regola-mentati, over-the-counter, fisici, telematici, …) ed esisto-no tante tipologie di contratti finanziari. Ad esempio, chistipula un contratto di mutuo a tasso fisso, a fronte del-l’importo ricevuto alla data di stipula – il suo “prezzo” ini-ziale – si impegna a pagare nel futuro un insieme di im-porti monetari noti a diverse scadenze. I contratti finanziari sono contratti “rischiosi” perché almomento della stipula non è noto con certezza il flusso fu-turo degli importi che sarà effettivamente generato dalcontratto. Ad esempio, nel caso del mutuo, non è certo cheil debitore sia in grado nel futuro di adempiere a tutti gliimpegni inizialmente assunti; di conseguenza, la decisionedi concedere il mutuo richiede da parte del mutuante lamisurazione e l’assunzione di un rischio.

Ciò vale in generale. Ogni decisione finanziaria, essendoin condizioni di incertezza, dovrà basarsi sul cosiddettoparadigma “rischio-rendimento”: all’aumentare del rischioaumenta il rendimento “atteso” richiesto per investire o, inaltri termini, diminuisce il prezzo che si è disposti a paga-re per investire. Il ruolo del mercato finanziario, da questopunto di vista, è cruciale: data l’informazione disponibile,il mercato “produce” prezzi, che dipendono dalle opinionisul futuro (quanto ci si aspetta di ricevere?) e dal rischiodel contratto oggetto di scambio (e con che rischio?). A partire dal 2000 molte banche americane hanno conces-so una grande quantità di mutui, tra cui molti cosiddetti

subprime, ovvero prestiti che la banca decide di concederea soggetti con un reddito basso e/o instabile (il caso estre-mo è il cosiddetto mutuo NINJA: No Income, No Job orAsset). Si tratta di un’operazione molto rischiosa per labanca, essendo molto probabile fin dall’inizio che il mu-tuatario non sia in grado di rimborsare il suo debito. È na-turale, dunque, chiedersi: perché le banche americane han-no concesso così tanti mutui subprime essendo nota findall’inizio la bassa probabilità di rimborso da parte deimutuatari? Le spiegazioni sono molteplici, ma tre possonoessere considerate le principali.1) L’andamento del mercato immobiliare americano a par-tire dall’anno 2000 fino alla metà del 2006: il prezzo degliimmobili continuava a crescere (è quella che poi è statachiamata “bolla immobiliare”) e la banca non si preoccu-pava del fatto che il mutuatario subprime potesse non rim-borsare il prestito avendo la casa a garanzia del mutuoconcesso, che si aspettava di poter rivendere a un prezzomaggiore dell’ammontare del prestito concesso. 2) Il livello dei tassi di interesse sul mercato americano,che dal 2001 al 2004 erano molto bassi: se i tassi di inte-resse sono bassi il denaro “costa meno” e le persone sonoincentivate a indebitarsi (anche) per comprare immobili; equesti acquisti determinano ulteriore crescita del prezzodelle case, alimentando la bolla immobiliare.

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4 Anatomia del crackSpunti dal dibattito sulle origini dell’attuale crisi dei mercati finanziari

di Carlo Domenico Mottura

“A partire dal 2000 molte bancheamericane hanno concesso una grande

quantità di mutui, tra cui molticosiddetti subprime, ovvero prestiti chela banca decide di concedere a soggetti

con un reddito basso e/o instabile”

Carlo Domenico Mottura

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3) Le operazioni di cartolarizzazione, ovvero quelle opera-zioni con le quali le banche hanno venduto i mutui subpri-me al mercato finanziario nella forma di obbligazioni, ilcui rischio era certificato da società internazionali specia-lizzate (agenzie di rating); in altri termini, con questo tipodi operazione, il rischio subprime era trasferito al mercatofinanziario e “polverizzato” via obbligazioni che venivanosottoscritte da investitori istituzionali (risk transfer). Il contesto economico comincia a cambiare a partire dal2004, con l’inizio della crescita dei tassi di interesse ameri-cani che continuerà fino al 2006; aumentando il costo deimutui, diventa più difficile erogarli e, nel frattempo, comin-ciano ad aumentare le insolvenze su quelli già erogati. An-che la crescita dei prezzi degli immobili si ferma nel 2006 edal 2007 inizia la discesa; e dall’estate 2007 cominciano a ri-dursi i prezzi delle obbligazioni collegate ai mutui subprime.

Un esempio (dall’Herald Tribune del 27 novembre 2008)può aiutare a sintetizzare quanto è successo: in California,un coltivatore di fragole di origine messicana con un red-dito annuo di 14.000 dollari ottiene originariamente unmutuo di 720.000 dollari per acquistare una casa; succes-sivamente, non essendo più in grado di pagare le rate delmutuo, la banca escute la garanzia sulla casa che però vale500.000 dollari, meno del valore del mutuo, e il prezzodelle obbligazioni collegate al mutuo si riduce.

In questa situazione cominciano a generarsi forti perdite, ef-fettive e potenziali, nei bilanci degli investitori istituzionalidi tutto il mondo e delle stesse banche che avevano acqui-stato le obbligazioni collegate ai mutui subprime (nasce, perquesti tipi di investimento, la denominazione “titoli tossi-ci”), innescando una crisi di fiducia nel sistema finanziariointernazionale. Ogni banca si interroga sulla quantità di tito-li tossici acquistati, sulle perdite sostenute, sulle perdite po-tenziali e sostenibili; e le banche, non fidandosi più l’unadell’altra, smettono di prestarsi denaro a vicenda, trasfor-mando la crisi di fiducia in crisi di liquidità. Si vendono i ti-toli e gli investimenti liquidabili, si interrompe l’erogazionedi credito a imprese e famiglie e si innesca così un processoa catena di generazione di perdite che si traduce nel crollodei prezzi di borsa: è l’inizio della crisi del sistema finanzia-rio internazionale. Le conseguenze sono molto significative:banche acquistano altre banche (JPMorgan acquista BearStearns, Bank of America acquista Merrill Lynch…), com-pagnie di assicurazioni sono messe in amministrazione con-trollata dello Stato (AIG, Fannie&Freddie…), banche e isti-tuzioni falliscono (Lehman Brothers…).

Per rendere sostenibile questa situazione (rischio di falli-mento delle principali banche mondiali, potenziale bloccodei mercati finanziari…), che avrebbe potuto produrre lafine del sistema finanziario internazionale nonché effettidevastanti sull’economia mondiale, sono intervenute lebanche centrali e i governi dei diversi paesi. I primi inter-venti sono stati delle banche centrali, finalizzati a fronteg-giare la crisi di liquidità, soprattutto con una riduzione deitassi d’interesse per facilitare l’accesso al credito. L’inter-vento dei governi si è invece concentrato soprattutto nel-l’evitare che la crisi di liquidità portasse al fallimento del-le banche: si è trattato di un intervento senza precedenti 5

“I contratti finanziari sono contratti“rischiosi” perché al momento

della stipula non è noto con certezzail flusso futuro degli importi che sarà

generato dal contratto”

“Il contesto economico comincia acambiare nel 2004, con l’inizio della

crescita dei tassi di interesse americaniche continuerà fino al 2006.

Aumentando il costo dei mutui, diventapiù difficile erogarli e, nel frattempo,cominciano a aumentare le insolvenze

su quelli già erogati”

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sia in termini di ammontare dirisorse stanziate sia per l’esigen-za di coordinamento tra i gover-ni del mondo richiesta dalla di-mensione globale della crisi. Leprincipali azioni attuate dai go-verni, in particolare, hanno ri-guardato la concessione di ga-ranzie sui prestiti interbancariconcessi tra banche e di garan-zie sui depositi dei cittadini (perevitare il rischio di “corsa allosportello” come successo, adesempio, nella primavera 2008per la banca inglese NorthernRock), oltre che misure volte aricapitalizzare le banche. Incambio, i governi hanno chiestoalle banche di limitare i bonus aimanager, di entrare negli organidi amministrazione, di utilizzareil denaro concesso per erogare prestiti alle imprese e allefamiglie, al fine di limitare gli effetti della crisi di liquiditàsull’economia reale.Il dibattito sulle cause della crisi è tutt’ora in corso. Alcuni si interrogano, ad esempio, sulla natura della crisi(finanziaria o reale) sostenendo che fin dall’inizio si siatrattato di crisi reale, quindi di una crisi “di vecchio tipo”

benché amplificata dai mercati finanziari, perché alla suaorigine non ci sono i bassi tassi di interesse ma le disconti-nuità create nell’economia reale dagli aumenti del prezzodel greggio e delle materie prime, che hanno determinatouna forte volatilità nei profitti delle imprese. Dall’altra, sembra si sia comunque formato un senso co-mune sulle possibili cause della crisi, sintetizzabile nelcontenuto delle domande oggetto dell’attuale dibattito: si ètrattato di un banale errore di valutazione da parte di ope-ratori incapaci di stimare correttamente i rischi? È stato ilmodello originate to distribuite adottato dalle banche, chesepara l’erogazione del prestito dalla detenzione del relati-vo rischio, a determinare problemi di azzardo morale?Quali sono state le responsabilità e quali effetti ha prodot-to il conflitto di interesse delle agenzie di rating? Che ruo-lo hanno avuto le regole di remunerazione dei manager?Quanto hanno influito gli effetti pro-ciclici determinatidalla nuova regolamentazione bancaria (Basilea 2) e dallenuove regole contabili (IAS-IFRS)?Ma è possibile che tutto il mondo finanziario abbia sba-gliato a fare il “prezzo del rischio”? È possibile che lebanche commerciali, nel prendere le loro decisioni sulprezzo dei prestiti da erogare alle famiglie, abbiano adot-tato atteggiamenti irrazionali e autolesionistici e abbianosbagliato sistematicamente a fare il prezzo dei prestiti con-

cessi sia che questi fossero car-tolarizzati sia che non lo fosse-ro? E che le banche d’affari licomprassero, sotto la forma diobbligazioni, a un prezzo sba-gliato? Da una testimonianza diAlan Greenspan dell’ottobre2008 sulle cause della crisi deimercati finanziari si legge: «Ne-gli ultimi decenni si è formatoun vasto sistema di gestione delrischio e dei prezzi unendo lemigliori intuizioni di matematicied esperti finanziari sostenutedalla migliore tecnologia infor-matica. (…) Un Premio Nobel èstato assegnato per la scopertadel modello di pricing, che haindotto gran parte dello sviluppodei mercati dei derivati. Questoparadigma di gestione del ri-

schio ha retto per decenni. (…) L’intero edificio intellet-tuale è crollato nell’estate dello scorso anno perché i datiinseriti nel modello di gestione del rischio coprivano sologli ultimi vent’anni, un periodo di euforia». Ma se il ri-schio riguarda il futuro e, dunque, non può che essere mi-surato e gestito sulla base di un modello, in che senso èpossibile ritenerlo responsabile? In altri termini, è possibi-le che il mondo si sia fatto trovare impreparato a gestire lasfida culturale posta dalla gestione del rischio che avevadeciso di assumersi? In effetti, c’è ancora molto da capire.Come sostiene Tommaso Padoa Schioppa in un recentissi-mo libro, quella che stiamo vivendo «è la crisi della nostracapacità di guardare le cose sui tempi lunghi»; non è unacrisi «di regole e, se è una crisi di etica, non lo è nel sensospicciolo che ci sono stati alcuni malfattori e alcuni imbro-glioni di cui adesso leggiamo sui giornali. Casomai direidi etica in un senso più profondo, cioè nel senso della re-sponsabilità per i tempi lunghi, per le generazioni future,per la conservazione di risorse scarse, per l’equilibrio trapaesi ricchi e paesi poveri, di governo della globalizzazio-ne. Tutto questo non toglie poi che la crisi sia di natura fi-nanziaria». Ritengo che mai nessuna crisi come quella che

stiamo vivendo abbia sollecitato a riflettere su quanto lostudio sia l’unico investimento in grado di garantire un fu-turo migliore per tutti; auguriamoci, tutti, di saper sempreben valutare il valore di questo investimento.

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“È possibile che tutto il mondofinanziario abbia sbagliato a fare

il prezzo del rischio? ”

“Ogni banca si interroga sulla quantitàdi titoli tossici acquistati, sulle perdite

sostenute, sulle perdite potenziali esostenibili; e le banche, non fidandosi

più l’una dell’altra, smettono diprestarsi denaro a vicenda,

trasformando la crisi di fiduciain crisi di liquidità”

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Le Finanze pubbliche ditutti i paesi sono state inve-stite dalla crisi economicaglobale, che, anzitutto, nerimette in discussione ilruolo nella politica ma-croeconomica, specialmen-te, ma non solo, nei paesipiù sviluppati. Il primo im-patto della recessione eco-nomica si è manifestatonella crescita spontanea deidisavanzi, attraverso l’ope-rare di quei meccanismi,considerati “virtuosi” dagli

economisti e dai politici fino a circa tre decenni orsono, de-finiti “stabilizzatori automatici”. Si tratta, ad esempio, dellacaduta del gettito delle imposte commisurate al valore dellevendite (come l’imposta sul valore aggiunto) o ai profittidelle imprese o, anche, ai redditi degli individui, ovvero, dallato della spesa pubblica, la Cassa integrazione guadagni e,nei paesi in cui vi sono disposizioni istituzionali che ne pre-vedono un utilizzo più ampio del nostro, il sostegno del red-dito dei disoccupati. L’effetto benefico di questi meccani-smi consiste nel limitare la caduta della domanda comples-siva nei mercati, con la parallela conseguenza, però, di unpeggioramento dei saldi dei conti pubblici. I paesi sviluppa-ti dell’Europa concluderanno il 2009 con disavanzi pubbliciin prevalenza tra il 4 e il 5 % del prodotto interno lordo, conle eccezioni rilevanti di Spagna (quasi il 10) e Gran Breta-gna (il 14). Per i pochi paesi, come il nostro, che non hannodovuto accollare alle finanze pubbliche il salvataggio diparti rilevanti del sistema bancario e finanziario, il passag-gio da saldi pubblici tendenti al pareggio a disavanzi del-l’entità ricordata è prevalentemente dovuto all’operare deiricordati “stabilizzatori automatici”. Per il resto, ricorrendoanche in questo caso al linguaggio della macroeconomia, sitratta degli “stabilizzatori discrezionali”, ossia degli effettidi modifiche di entrate e spese pubbliche esplicitamente de-stinate a contrastare il ciclo. Anche negli Usa il deficit è“esploso”: quest’anno si prevede che supererà il 13% delprodotto complessivo. Queste circostanze hanno, tra l’altro, messo in discussioneil realismo delle teorie macroeconomiche dominanti nei re-centi decenni che attribuivano alla non appropriata condot-ta delle finanze pubbliche (dovuta anche alle loro dimen-sioni, considerate “esagerate”) una pesante responsabilitànell’instabilità degli andamenti macroeconomici; inevitabi-li i continui suggerimenti di forte ridimensionamento del“peso” delle spese pubbliche, per ottenere maggiori tassi dicrescita dell’economia, connessi con la presunta maggioreefficienza dell’utilizzo “privato” delle risorse.

Nel corso del XX secolo, il rapporto tra il valore della spe-sa pubblica e il prodotto complessivo è passato, in tutti ipaesi sviluppati, da meno del 10 a valori tra il 40 e il 50%del P.I.L. (con qualche eccezione dovuta a particolari si-tuazioni istituzionali, come negli Stati Uniti, dove la cre-scita si è fermata, almeno fino ad ora, a poco più del35%), trend solo leggermente intaccato dalle privatizza-zioni degli ultimi due decenni. Varie sono le spiegazioni diquesta evoluzione di lungo periodo della distribuzione del-le risorse allocate, tra criteri di decisione economica pub-blica e meccanismi di mercato. Non si possono qui appro-fondire tali spiegazioni, ma si può ricordare che il podero-so sviluppo delle economie di mercato si è accompagnatoalla creazione e al rafforzamento di istituzioni pubbliche,dotate di potere coattivo, capaci di svolgere attività indi-spensabili alla stessa crescita dei mercati, consistenti sianella fornitura dei cosiddetti beni pubblici (giustizia, dife-sa, ordine pubblico, istruzione, tutela dei mercati, tuteladell’ambiente, presenza internazionale del Paese etc.), siain opportune redistribuzioni dei redditi (per pensioni, assi-stenza ai disabili, ai senza lavoro etc.). Con in più i compi-ti macroeconomici che si aggiunsero, esplicitamente, solodopo la “grande crisi” del 1929.

Se circa la metà delle risorse prodotte ogni anno vengonoallocate con criteri non riconducibili alla mano invisibileoperante nei mercati, i meccanismi di decisione collettiva,che si concretizzano attraverso l’operare delle istituzionipubbliche, assumono un’importanza fondamentale, e mag-giore che nel passato, per il buon funzionamento comples-sivo del sistema economico. Come in altri campi, le opi-nioni degli economisti del settore pubblico non sono con-cordanti nell’individuazione dei criteri più efficienti. Inol-tre, le decisioni economiche collettive soggiacciono inqualche modo, in democrazia, alla regola della maggioran-za dei consensi e si concretizzano nelle entrate (principal-mente quelle coattive: le imposte e le tasse) e nelle spesedelle finanze pubbliche. In molti casi anche nei disavanziche, se persistenti nel tempo, originano crescenti stock di 7

Crisi e finanza pubblicaNuovi criteri economici e diversità degli assetti istituzionali

di Antonio Di Majo

Antonio Di Majo

“Se circa la metà delle risorse prodotteogni anno vengono allocate con criterinon riconducibili alla mano invisibileoperante nei mercati, i meccanismi didecisione collettiva e l’operare delle

istituzioni pubbliche assumonoun’importanza fondamentale per il

buon funzionamento del sistemaeconomico”

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debito pubblico, che pos-sono avere conseguenzemolto rilevanti, di cuinon ci si può occupare inqueste poche righe.L’“inefficienza” degli as-setti allocativi pubblicipuò comportare un ec-cesso di spesa e prelievorispetto a quanto richie-sto strettamente dall’ef-fettivo svolgimento dicompiti utili al sistemaeconomico (e sociale piùin generale). Il buon fun-zionamento delle istitu-zioni dovrebbe evitare ta-li situazioni. La diversità degli assetti istituzionali puòquindi spiegare come a stesse dimensioni delle finanzepubbliche possano corrispondere risultati sostanziali diffe-renti, con casi di spreco di risorse e loro maldistribuzioni,dovute, ad esempio, ad evasioni tributarie, a non corretteattribuzioni di benefici pubblici etc.

La distribuzione territoriale dei compiti pubblici e, quindi,delle finanze pubbliche secondo diversi livelli di governo,rappresenta uno degli aspetti emblematici della ricerca diassetti più “graditi” e più “efficienti” nella ripartizione deipoteri e nell’attività finanziaria pubblica. In varia misura ein tutti i periodi, la distribuzione delle finanze pubblicheper livello di governo è soggetta a tensioni emutamenti, che nel nostro paese si sono ac-centuati negli ultimi due decenni, con l’esitodi un’importante modifica costituzionale e ilcorollario finanziario del cosiddetto “federa-lismo fiscale”, che implica lo spostamentodell’utilizzo delle risorse pubbliche verso li-velli inferiori di governo (regioni, province,comuni). Le ragioni economiche dovrebberoessere una migliore “efficienza allocativa” esimultaneamente un più corretto adempi-mento dei compiti redistributivi della finan-za pubblica. Quest’ultima è stata caratteriz-zata negli ultimi quarant’anni (dopo l’istitu-zione delle regioni) da un rilevante decentra-mento della spese e un forte accentramentodelle entrate (specialmente fino all’introdu-zione di due importanti tributi locali comel’ICI, prelevata dai comuni e l’IRAP, dalleregioni). Ridefiniti i compiti dei vari livellidi governo con un maggiore decentramentodelle spese e una maggiore presenza locale

nel prelievo tributario, siprevede una maggiore“efficienza allocativa”dovuta alla “vicinanza”dei contribuenti (locali)alle decisioni di spesa de-centrata. Inoltre, dovreb-be essere ridimensionatoil ruolo dello Stato (ora“quasi federale”) nellaredistribuzione delle ri-sorse, con il prelievo ridi-stribuito tra i vari enti de-centrati. Il finanziamentodelle spese graverà di piùsui contribuenti locali e

quindi più in linea con le loro preferenze. L’approvazionedella legge delega sul «federalismo fiscale» ha realizzato,in verità, un compromesso tra l’esigenza di trattenere le ri-sorse nel luogo di produzione (e utilizzarle nel finanzia-mento della spesa locale) e quella di consentire anche allearee più povere di offrire servizi pubblici ritenuti indispen-sabili (sulla base di costi standard, di difficile definizioneconcreta e sconosciuti, nei modi per ora ipotizzati, ai siste-mi di finanziamento di altri paesi) finanziandole con redi-stribuzioni dalle aree più ricche. La realizzazione di que-sto “compromesso” istituzionale è affidata al concreto fun-

zionamento del “federalismo” (regolato, indettaglio, da decreti delegati di futura ema-nazione), mentre la maggiore efficienza del-l’offerta dei beni pubblici è di dubbia realiz-zazione e solo la realtà potrà fornire una ri-sposta. Dal punto di vista del “controllo”macroeconomico è da verificare la possibili-tà di una supposta minore propensione allacrescita della spesa alla creazione di dis-avanzi complessivi e di accumulo del debitopubblico. Le ricerche economiche, sulla ba-se di dati quantitativi di molti paesi, nonhanno trovato alcuna relazione tra la crescitadella spesa pubblica e del debito pubblico eil grado di decentramento delle finanze pub-bliche. Si spera che questo riferimento a una recen-te modifica di assetti istituzionali delle fi-nanze pubbliche possa dare un’idea delledifficoltà di ottenere risultati soddisfacentiattraverso regole economico-istituzionalinon soggette agli automatismi del mercato.

8

“Nel corso del XX secolo, il rapporto trail valore della spesa pubblica e il

prodotto complessivo è passato, in tutti ipaesi sviluppati, da meno del 10 a valori

tra il 40 e il 50% del P.I.L.”

John Maynard Keynes, consideratoil padre della moderna macroecono-mia, in contrasto con la teoria eco-nomica neoclassica, sostenne la ne-cessità dell'intervento pubblico nel-l'economia con misure di politica fi-scale e monetaria. Le sue teorie fu-runo alla base della politica econo-mica del New Deal, varata da Roo-svelt negli anni Trenta per risolleva-re il Paese dalla grande depressioneche aveva travolto gli Stati Uniti apartire dalla crisi del 1929

La sede del Ministero dell'economia e delle finanze

“L’inefficienza degli assetti allocativipubblici può comportare un eccesso di

spesa e prelievo rispetto a quantorichiesto strettamente dall’effettivo

svolgimento di compiti utili al sistemaeconomico (e sociale più in generale)”

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C’è consenso sulla necessità diinvertire il trend di crescita delleemissioni di gas inquinanti nel-l’atmosfera. 192 paesi hannoaderito alla road map definita aBali nel dicembre 2008 per af-frontare il problema della soste-nibilità ambientale con interven-ti volti a prevenire, mitigare erafforzare l’adattamento ai cam-

biamenti climatici provocati dall’emissione di gas a effettoserra nell’atmosfera. Il piano coinvolge tutte le regioni delpianeta, anche le più povere e potenzialmente più colpitedagli effetti ambientali, secondo il principio delle respon-sabilità condivise ma differenziate che fu concordato nellaConvenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenticlimatici (UNFCC, United Nations Framework Conven-tion on Climate Change, 1994). La prossima scadenza sa-rà a Copenhagen (nel dicembre 2009), dove saranno nego-ziate le misure della seconda fase del Protocollo di Kyoto,a partire cioè dal 2012, che si auspica porti a risultati mi-gliori di quelli ottenuti fino ad oggi.Nelle emissioni di biossido di carbonio il settore energeti-co ha un ruolo preminente. E mostra un andamento in for-te crescita dalla fine del secolo scorso, per una pluralità dicause difficili da aggredire, tra le quali spiccano la rapidacrescita dei paesi asiatici emergenti, in particolare Cina eIndia che hanno un’alta intensità di emissioni sul reddito el’uso intensivo di combustibili fossili nella maggioranzadei paesi industrializzati. Di conseguenza, le politiche vol-te a stabilizzare la concentrazione di biossido di carbonionell’atmosfera a valori compatibili con il riscaldamentodel pianeta a 2° celsius secondo le indicazioni degli scien-ziati dell’International Panel on Climate Change delleNazioni Unite (IPCC 2007), si concentrano su un uso piùrazionale dei consumi di energia, sulla produzione di ener-gia da fonti alternative rispetto ai combustibili fossili esulla ricerca e la sperimentazione per il sequestro del bios-sido di carbonio derivante dall’uso del carbone (carboncapture and sequestration,CCS). Tra i combustibili fossili,infatti, il carbone ha contribuito con una crescita delleemissioni superiore al 70% tra il 1990 e il 2006. La tecnologia dovrà ancora una volta consentire disconti-nuità nello sviluppo; ma, l’obiettivo di modificare il pesorelativo delle fonti primarie a favore di quelle meno inqui-nanti è un compito difficilissimo per i governi nazionali, inun contesto globale fortemente competitivo. Si intrecciacon la traiettoria di sviluppo industriale dei paesi emergen-ti, con le difese economiche dei paesi industrializzati mi-nacciati dalla competizione delle nuove economie; dipendedalle decisioni di investimento di lunghissimo periodo nel-la filiera di produzione di energia, che sono a loro volta in-

fluenzate da movimenti speculativi incontrollati dei prezzidel petrolio, dalla distribuzione geografica delle riserve, dalcosto marginale della ricerca e dell’estrazione nei nuovibacini e infine dall’uso politico dell’offerta di combustibilifossili che si è consolidato nei decenni trascorsi. Anche per questo motivo gli organismi internazionali con-cordano nell’attribuire alla razionalizzazione dei consumidi energia la quota più rilevante dei risultati potenziali dicontenimento delle emissioni di biossido di carbonio nel-l’atmosfera, valutandola intorno al 60% dei risultati attesidalle politiche di intervento al 2030 (IEA 2009), con parti-colare attenzione ai consumi finali di energia per i traspor-ti, per il riscaldamento, per l’elettricità.

Il contenimento delle emissioni è naturalmente un obiettivoglobale. Si tratta di una esternalità negativa che gli econo-misti hanno affrontato, dai tempi di Pigou, con strumenti diprezzo (un prezzo del CO2 è necessario per internalizzareil costo sociale delle emissioni inquinanti, da determinaresia sviluppando il mercato dei certificati di emissione ne-goziabili, sia introducendo un’imposta sul biossido di car-bonio) oppure ricorrendo a misure quantitative, come l’im-posizione di standard o di tetti alle emissioni concesse. Maproprio la natura globale dell’esternalità negativa e la estre-ma differenziazione delle condizioni economiche e socialidelle regioni coinvolte rendono assai complesso l’accordosugli interventi e molto forte la tentazione al free riding peri singoli stati. La condivisione richiede flessibilità degli in-terventi, ma anche un forte coordinamento per il rispettodegli obiettivi stabiliti. E, prima ancora, richiede che sianoidentificati gli obiettivi intermedi, secondo una spartizionedegli oneri accettata e sostenibile. Ognuno di questi passaggi è estremamente complesso, apartire dalla definizione degli obiettivi intermedi e dellemisure da attivare per razionalizzare i consumi di energia.Obiettivi e interventi non sono indipendenti, ad esempio,dagli indicatori di inquinamento. I dati sulle emissioni,seppure ancora carenti, sono da alcuni anni raccolti e sele-zionati in modo omogeneo e rigoroso da diverse fonti uffi-ciali internazionali, tra le quali l’AIE, sulle cui statistichesi basano le analisi elaborate dal Center for EnvironmentalLaw & Policy dell’Università di Yale, in collaborazionecon l’ISPRA in Italia, il Center for International EarthScience Information Network della Columbia University eil World Economic Forum di Ginevra. 9

Valeria Termini

Il cammino di KyotoConsumi energetici e ambiente nell’attuale congiuntura economica

di Valeria Termini

“192 paesi hanno aderito alla roadmap definita a Bali nel dicembre 2008

per affrontare il problema dellasostenibilità ambientale”

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Una difficoltà nel rag-giungere accordi condi-visi sta proprio nel fattoche, a seconda degli in-dicatori di inquinamentoscelti, si determina l’at-tribuzione delle respon-sabilità tra paesi, la defi-nizione degli interventi edi conseguenza la ripar-tizione tra paesi dei costidi aggiustamento. Adesempio, se si scegliecome indicatore l’inten-sità di emissioni di CO2nella produzione del set-tore industriale, i paesiasiatici mostrano certamente valori di inquinamento piùalti dei paesi industrializzati: l’intensità industriale diemissioni in Cina è di 4.4 metric tonnes (mt) per 1000 $di produzione industriale ($ PPP 2005), a fronte di 2.6mt dell’India, di 2.1 mt dell’Italia, 2.6 mt degli Stati Uni-ti e 1.4 mt della Gran Bretagna (Yale 2009). Ciò si spiega

poiché i paesi emergenti, oltre ad avere una crescita ele-vata nei consumi di energia connessa al rapido sviluppo,utilizzano tecnologie più inquinanti e fanno un uso piùintenso di combustibili fossili e di carbone, di cui adesempio la Cina possiede ampie riserve. Da quest’analisirisulta così l’urgenza di attivare politiche impegnative evincolanti nei paesi asiatici; ma risulta anche l’esigenzache siano rafforzate le politiche volte a favorire il trasfe-rimento tecnologico. Ad esempio intensificando l’uso di

Clean Development Me-chanisms (CDM), i mec-canismi flessibili previ-sti dal Protocollo diKyoto e assistiti dalleistituzioni internazionaliper favorire gli investi-menti nei paesi meno in-dustrializzati, in con-traddizione con i vincoliimposti dall’UE al rico-noscimento dei crediti diemissione così perseguitidai paesi membri. Se invece si sceglie comeindicatore il valore delleemissioni pro capite, il

rapporto delle responsabilità si inverte. Si evidenzia il bas-so consumo di energia pro capite dei paesi emergenti ri-spetto ad altri paesi più ricchi e sviluppati come gli StatiUniti o l’Australia: nel 2008, ogni cittadino americano haemesso infatti, in media, 24,9 mt CO2 equivalenti; ogni cit-tadino dell’UE 10,7; mentre ogni cinese ha emesso solo 5,5mt CO2 equivalente e ogni indiano 2.2. Hanno buon gioco,da questa base, le posizioni dei paesi emergenti per i qualil’assunzione di un impegno quantificato e vincolante daparte degli Stati Uniti a ridurre le emissioni al proprio in-terno è comunque propedeutico a qualsiasi impegno richie-sto ai paesi in via di sviluppo.Infine, se si assume come indicatore il volume di emis-sioni prodotte nella generazione di energia elettrica, chepure ha un peso di rilievo sul totale dei gas inquinantiemessi nell’atmosfera, si modifica ulteriormente lo sce-nario degli interventi necessari e l’attribuzione delle re-sponsabilità, che risulta meno correlato alla ricchezza de-gli stati. Dalla Cina, che emette 788 gCO2 per kwh dienergia elettrica prodotta, si passa agli USA che emetto-no 573 gCO2 per kwh, all’Italia 405, alla Francia 91, allaNorvegia 60. D’altra parte, altri paesi meno sviluppati, che hanno con-sumi di energia limitati e uno sviluppo economico assai

più contenuto, comel’Indonesia, contribui-scono alla crescitadelle emissioni globa-li con la deforestazio-ne (per questo l’Indo-nesia figura al terzoposto tra i grandiemettitori del piane-ta). È anche interes-sante notare che le va-riabili economichenon sono esaustivenella spiegazione del-l’efficacia delle politi-che attivate a livellonazionale. Nella gra-duatoria dell’Environ-mental Performance

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“La prossima scadenza sarà aCopenhagen nel dicembre 2009, dove

saranno negoziate le misure dellaseconda fase del Protocollo di Kyoto, a

partire cioè dal 2012”

Componenti a favore dell’energia pulita nei pacchetti di stimolo dei Governi,per tipologia e per regione. Fonte: IEA 2009 Background paper fot theG8Energy Ministers

Un’immagine della United Nation climate change conference di Bali

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Index 2008 i primi cinque posti tra i paesi virtuosi sonooccupati da Svizzera, Svezia, Finlandia, Norvegia e CostaRica, paesi che oltre ad aver attivato politiche pro attiveper il contenimento delle emissioni, hanno in comunemeccanismi di participatory governance che contribuisco-no a spiegare la maggiore efficacia degli interventi gover-nativi con l’adesione di cittadini e imprese alle politiche dirazionalizzazione dei consumi energetici.Il Protocollo di Kyoto ha tenuto conto delle responsabilitàpregresse dei paesi industrializzati, consentendo ai paesiemergenti di non assumere impegni vincolanti e quantifi-cati di riduzione delle emissioni nel primo periodo di at-tuazione del Protocollo. Guardando al futuro, tuttavia, èevidente che l’impegno unilaterale dei paesi industrializ-zati non basta e un impegno diretto dei paesi di recente in-dustrializzazione è indispensabile. L’apporto al trend diemissioni di biossido di carbonio previsto da parte deipaesi emergenti come Cina o India è elevatissimo: ha su-perato quello pur elevato degli Stati Uniti. A Copenhagenci si può aspettare un accordo più significativo? Da un latola svolta di Obama peserà positivamente, dall’altro la crisiin atto ha già fatto registrare le prime difficoltà nel G20 diaprile, a Londra. Come era da aspettarsi, i consumi energetici hanno forte-mente risentito della crisi. Per il 2009 l’IEA ha stimatouna riduzione nella domanda mondiale di energia elettricadel 3,5%, registrando per la prima volta dalla secondaguerra mondiale una contrazione netta.I consumi di energia, e dunque delle emissioni, si sono ri-dotti; ma questo non significa affatto che si determini unmiglioramento strutturale della questione ambientale. Ladifficoltà di ottenere credito e la riduzione del prezzo deicombustibili fossili connessa al calo della domanda nonpossono che favorire l’uso di queste fonti più inquinanti ri-spetto ad altre più costose, come le rinnovabili, o a più altaintensità di capitale, come il nucleare. Inoltre, la straordi-naria contrazione degli investimenti in impianti di produ-zione di energia rinnovabile (diminuiti del 42% global-mente nel 2009, dopo la crescita che si era registrata nel2007-2008) non potrà che avere effetti duraturi: è ancheprevedibile che si protragga nel tempo. Per il medio periodo, molto dipenderà dalle politiche deigoverni, che potranno decidere di fare del cambiamentoclimatico un’opportunità per uscire dalla crisi o, al contra-rio, relegare la questione ambientale a un obiettivo secon-dario tra le priorità da affrontare, ad esempio rispetto al-l’impegno dei governi a sostegno del settore finanziario.Come esempio della prima opzione spicca la visione pro-posta da Obama; esempio della seconda sono invece i ri-sultati del vertice del G20 di Londra, che sembra avercompiuto un passo indietro in materia di sostegno alle po-litiche attive di contrasto al cambiamento climatico rispet-to al vertice del G8 di Hokkaido del luglio 2008. In quellasede infatti i partecipanti si erano impegnati a ridurre leemissioni del 50% entro il 2050 (a fronte di una crescitache è prevista del 45% al 2030, in assenza di interventispecifici). Ad oggi, nell’impegno dei governi a sostegno dell’eco-nomia, un nucleo di interventi pari a circa il 5% su untotale di 2,6 trilioni di dollari, è stato destinato al soste-

gno dell’efficienza energetica e della produzione dienergie pulite. È difficile immaginare nell’immediato in-vestimenti consistenti per la produzione di energia puli-ta, che richiedono capitali di lunghissimo periodo e di-pendono per lo più dalle scelte di imprenditori resi an-cor più avversi al rischio dalla crisi economica, a frontedi prezzi decrescenti dei combustibili fossili. In questasituazione di crisi sembrano di poco aiuto anche stru-menti come il mercato dei certificati negoziabili diemissione di CO2, il cui prezzo risente della scarsa do-manda di energia.

La visione tuttavia deve essere rivolta al futuro: è opportu-no che i governi si impegnino ad ampliare l’architettura diquesti mercati per dare un prezzo unico al biossido di car-bonio e avere mercati liquidi quando la ripresa si ripercuo-terà con pari rapidità sulla domanda di energia. Nel frat-tempo, è auspicabile che gli stanziamenti per questo setto-re rafforzino i meccanismi flessibili previsti dagli accordidi Kyoto, stimolando il trasferimento tecnologico verso ipaesi asiatici. Questa politica presenterebbe un triplo van-taggio: quello di contribuire alla crescita della domandainterna dei paesi asiatici che hanno visto le loro esporta-zioni drasticamente ridotte dalla crisi, di offrire un merca-to per beni intermedi e tecnologia ai paesi sviluppati, dopoche si è inceppato il motore della domanda di consumi de-gli Stati Uniti, e infine di porre le basi per consentire aipaesi emergenti, con l’aiuto delle tecnologie meno inqui-nanti sperimentate dai paesi più ricchi, di saltare la fase diindustrializzazione ad altissima densità di carbone e conte-nere le emissioni legate alla crescita industriale senza im-porre freni allo sviluppo. Quando i finanziamenti sono limitati il loro uso deve ne-cessariamente concentrarsi sui progetti che promettono unmaggior rendimento sociale nel lungo periodo. 11

“Le politiche volte a stabilizzare laconcentrazione di biossido di carbonio

nell’atmosfera a valori compatibili con ilriscaldamento del pianeta a 2° celsius siconcentrano su un uso più razionale deiconsumi di energia, sulla produzione dienergia da fonti alternative rispetto ai

combustibili fossili”

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La firma dell’accordo traChrysler e Fiat è la notiziaa cui la stampa dà mag-giore risalto in un difficileprimo maggio italiano del2009. Questi i termini:l’accordo prevede la ces-sione da parte di Chryslerdi tutti gli assets ad unanuova Chrysler in cui ilTesoro americano control-lerà l’8%; il 2% sarà nellemani del governo canade-

se; il 55% farà capo al fondo fiduciario Veba, nato dall’ac-cordo con il sindacato Uaw (http://www.uaw.org/). Si trat-ta di uno dei sindacati con maggiore rappresentatività epotere negoziale negli Stati Uniti, che potrà scegliere unconsigliere indipendente ma senza diritti di governance.Una novità assoluta negli assetti del capitalismo nordame-ricano: il sindacato ha dunque la maggioranza assoluta delcapitale azionario (ma non del consiglio di amministrazio-ne), conseguita con forti sacrifici in termini di congela-mento salariale per quattro anni e rinuncia al rimborso de-gli accantonamenti sanitari.L’impresa italiana Fiat entra nella nuova compagnia con un20% iniziale, potrà salire al 35% e, in seguito, ottenere unaquota di maggioranza, a patto che vengano completamenterestituiti gli aiuti pubblici erogati. In cambio del 20% dellanuova società, Fiat fornirà tecnologie e progetti ma non ri-sorse finanziarie. Le tecnolo-gie in questione riguardano losviluppo di nuovi motori,messi a punto dalla Fiat neglianni passati e prima degli altriconcorrenti europei, studiatiper diminuire il consumo dicarburante e ridurre le emis-sioni inquinanti. Con la parte-cipazione azionaria, Fiat potràprogettare e produrre diretta-mente negli stabilimenti USAi modelli da destinare al mer-cato americano; la casa auto-mobilistica italiana guadagnainoltre uno sbocco sul merca-to americano, grazie alle retidi vendita Chrysler; allarga ipropri volumi produttivi a cir-ca 4 milioni di autovetture,come si può vedere dalla figu-ra a fianco.Il livello di 4 milioni di auto-

vetture all’anno, conseguito con l’accordo Fiat-Chrysler,sarà ancora al di sotto di quello necessario (6 milioni diauto prodotte all’anno) per rimanere nella cerchia ristrettadei pochi grandi (stimati a sei) che riusciranno, nei prossi-mi anni, a operare profittevolmente sul mercato mondiale.La corrente caduta della domanda di autovetture richiede,infatti, un ridimensionamento dei volumi e, di conseguen-za, un processo di fusione tra le maggiori imprese oggiesistenti perché possano, unendosi, sfruttare le economiedi scala tipiche del processo produttivo e della rete distri-butiva dell’industria automobilistica.

Sul versante italiano, la rilevanza dell’accordo è immensa,di portata storica, anche perché avviene nel pieno di unacrisi finanziaria che presenta connotati assolutamente di-versi rispetto a quanto aveva fronteggiato finora l’industriaautomobilistica. Non si tratta, infatti, di uno shock esoge-no come, per esempio, l’aumento dei prezzi delle materieprime della seconda metà degli anni Settanta che portò, in-sieme ad altri fattori, i grandi gruppi ad esternalizzare la

propria produzione ad altreimprese presenti sul territorionazionale, il cosiddetto de-centramento produttivo. Enon è neanche uno shock en-dogeno, determinato dalla in-tegrazione dei mercati e,quindi, dalla aumentata pres-sione concorrenziale che haindotto, sul finire degli anniOttanta, i produttori di autoad “allungare” la catena dellafornitura ben oltre i confininazionali alla ricerca di mer-cati remunerativi e fornitori abasso costo. La crisi finanziaria di oggi haconnotati tutti diversi: è piut-tosto di carattere sistemico,ad elevata tossicità, più per-vasiva, più dannosa, più dura-tura nel tempo e con elevateripercussioni sull’economia

12 Declino e ascesaLa Fiat e l’industria italiana oggi

di Anna Giunta

“L’impresa italiana Fiat entra nellanuova compagnia con un 20% iniziale,

potrà salire al 35% e, in seguito, ottenereuna quota di maggioranza, a patto chevengano completamente restituiti gli

aiuti pubblici erogati”

Anna Giunta

Fonte: La Stampa, 1° maggio 2009

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reale, in particolare sulla ca-duta dei consumi e degli in-vestimenti, entrambi mag-giormente avvertiti propriodall’industria dell’auto (“l’in-dustria delle industrie”) e ciòspiega l’interesse e il soccor-so, in scala diversa, dei go-verni europei e americani.Per comprendere appieno laportata reale dell’accordo, bi-sogna guardare a due livelli:l’impresa e l’industria mani-fatturiera italiana. È un nessoindistricabile sin dal 1899,anno in cui fu fondata a Tori-no la Fabbrica Italiana Auto-mobili Torino, la Fiat.Cominciamo dall’impresaFiat. Qui alcune date assu-mono un forte valore simbo-lico. La viva voce del presi-dente Barack Obama il 30aprile 2009 annuncia: «il ma-nagement di Fiat ha fatto unbuon lavoro». Il management in questione è personificatoda Sergio Marchionne, il buon lavoro a cui si fa riferi-mento coincide con la missione impossibile, affidatagli il1° giugno del 2004, quando diventa amministratore dele-gato di una Fiat che sta vivendo, indubitabilmente, gli an-ni peggiori di crisi, mai visti dalla data di fondazione. Al-cuni segni della criticità: vanno declinando con sistemati-cità le dimensioni in termini di volumi di auto prodotte edi quote di mercato sia in Italia che in Europa: nella clas-sifica del 1989 delle imprese più grandi del mondo, Fiatfigura al decimo posto, mentre nel 2003 è scomparsa discena ed è l’unica impresa automobilistica a registrare,nel 2004, un margine operativo negativo. Inoltre nel 2002Fiat stipula con le banche il cosiddetto “prestito conver-tendo”, pari a 3 miliardi di euro che, data la voragine del-la crisi aziendale, prefigura una sorta di consegna dell’a-zienda ai suoi creditori. Su questo plumbeo scenario in-combe l’opzione “put” dell’accordo con la General Mo-tors, vale a dire la possibilità di cedere Fiat Auto alla Ge-neral Motors. Si perderebbe così un caposaldo dell’indu-stria manifatturiera italiana che, negli stessi anni, sembraavviata su una parabola discendente fatta di produttivitàstagnante e perdita di quote di mercato estere. La crisidella più rappresentativa impresa italiana non appare altroche la manifestazione più vivida e impressionante del de-clino economico che colpisce il paese nella sua interezza(dal 2001 al 2005 il Prodotto interno lordo “cresce” inmedia dello 0,7% all’anno).Il risanamento dell’impresa è fulmineo, passa per il divorzioda General Motors che si consuma il 14 febbraio 2005 (pro-prio a san Valentino!), dove, la casa americana, pur di nonesercitare l’opzione “put”, versa ben due miliardi di dollarinelle casse della Fiat. Il successo insperato si accompagnaad una profonda ristrutturazione che tocca la filosofia azien-dale, i nuovi prodotti, il presidio dei mercati esteri, i rappor-

ti con le banche, le relazionicon la rete dei fornitori. I ri-sultati positivi arrivano a stret-to giro: «il management diFiat ha fatto un buon lavoro»,sentenzia Barack Obama ed èil capovolgimento della storia,la Fiat (ricordate? L’acronimoFiat era tradotto come Fix ItAgain, Tony!) in soccorso diuna delle “Big Three” ameri-cane. Ciò che va bene per la Fiat vabene per il Paese? Era unvecchio modo di dire perspiegare la centralità di ruolodella Fiat nello sviluppo eco-nomico dell’Italia. Ha ancorauna sua potenza esplicativa,se solo si pensa al contributodella Fiat alla crescita del va-lore aggiunto italiano (stima-to nell’ordine del 20% dellacrescita totale del valore ag-giunto italiano nel 2006). E

qui veniamo all’industria manifatturiera italiana, la cuisofferenza si è acuita con la crisi finanziaria del 2008. Co-me è noto, l’anomalo modello di specializzazione italianoè da lungo tempo incentrato sulle produzioni del cosiddet-to “made in Italy”: attività tessili, abbigliamento, calzatu-re, mobilio, tutte industrie caratterizzate dalla frammenta-zione produttiva e, mediamente, da un basso livello di ri-cerca e sviluppo. A partire dalla seconda metà degli anniSettanta l’Italia ha fortemente ridimensionato la sua pre-

senza nei settori ad alta tecnologia e ad elevata economiadi scala, con il risultato che l’industria meccanico-automo-bilistica è rimasta tra le poche a presidiare il campo in ter-mini di ricerca e sviluppo, adozione delle nuove tecnolo-gie dell’informazione e della comunicazione, formazionedel capitale umano, proiezione internazionale evoluta (gliinvestimenti diretti all’estero), trasmissione di sapere tec-nologico e capacità manageriale alla rete dei fornitori.Nella perdurante fase di stagnazione della produttività e diconseguente diminuzione del Prodotto interno lordo, sonole partite simili a quelle condotte da Marchionne che an-drebbero giocate, per creare imprese capaci di competereglobalmente su mercati a forte dinamica e risollevare lesorti dell’industria italiana. 13

“Sul versante italiano, la rilevanzadell’accordo è immensa anche perché

avviene nel pieno di una crisi finanziariache presenta connotati assolutamente

diversi rispetto a quanto avevafronteggiato finora l’industria

automobilistica”

Fonte: La Repubblica, 8 maggio 2009

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Dalla fine degli anni Settanta cominciano timidamente adiffondersi nel mondo una serie di esperimenti di finanzasolidale. L’attenzione ai diritti umani e all’ambiente, su-scitata dai movimenti pacifisti ed ecologisti nei paesi an-glosassoni, manifestata soprattutto dallo sviluppo deifondi etici, trova espressione in Europa nella nascita diistituzioni finanziarie eticamente orientate. Pensiamo allaGemeinschaftsbank tedesca nata nel 1974 per finanziareprogetti d’interesse sociale e ambientale esclusi dal fi-nanziamento classico, alla Triodos Bank, nata in Olandanel 1980 per sostenere imprese votate alla produzioneeco-compatibile, alla ricerca di fonti energetiche rinno-vabili e alla tutela ambientale o alla BAS (Banca alterna-tiva svizzera) in Svizzera. Negli stessi anni prende l’av-vio in Bangladesh la Grameen bank, il cui mandato ri-spondeva e risponde alla realizzazione dell’accesso alcredito per i più poveri, esclusi dal circuito bancario tra-dizionale. Comunque, la tendenza a includere la finanzain una visione del mondo etica e pratica appartiene difatto a moltissime esperienze; la stessa finanza popolarein Africa, ma anche in altri paesi del Sud del mondo, te-stimonia di una tale tensione. Se esiste una propensionedelle collettività tradizionali a organizzare l’ambito fi-nanziario integrandolo ai bisogni della comunità e ai va-lori da essa espressi, è pur vero che nel tempo tale pro-pensione alla solidarietà negli istituti di intermediazionefinanziaria classica si è andata perdendo nel tempo. Leesperienze delle banche di credito cooperativo o dellecasse di risparmio sviluppatesi a partire dalla fine del1800 testimoniano, anche in Italia, di categorie di banche

che dalle loro origini hanno perseguito fini sociali. Lamaggior parte di queste esperienze ha perso, però, l’ini-ziale vocazione solidale, nonché la piccola dimensione ela natura locale: infatti, il sistema bancario risulta oggidominato da pochi gruppi per i quali la cultura della soli-darietà e l’etica non sono valori portanti. Ciononostante, negli anni Ottanta in tutta Europa si assistead una crescita dell’attenzione del mondo economico e fi-nanziario verso l’etica e la responsabilità sociale nell’usodel credito. In quegli anni vi è un forte sviluppo di banchealternative caratterizzate da un orientamento dei loro fi-nanziamenti verso progetti attenti alle problematiche so-

ciali e ambientali e verso la ricerca di proposte di servizifinanziari per gli esclusi dai circuiti classici. Il filone del-l’ecologia connota maggiormente le attività delle bancheetiche del nord Europa, mentre quelle del sud sono piùorientate da una sensibilità verso temi sociali quali lo svi-luppo sociale delle comunità emarginate, la lotta all’esclu-sione sociale e alla disoccupazione.Anche in Italia, vi sono esperienze che testimoniano inquegli anni di questa nuova sensibilità e alcune banche tra-dizionali cominciano ad offrire prodotti di tipo etico, co-me, fra altri, il Conto Progresso offerto dalla Banca Popo-lare di Bergamo negli anni Ottanta. La finanza etica basa il suo operato sulla centralità dellapersona e non del capitale, dell’idea e non del patrimonio,della giusta remunerazione dell’investimento piuttosto chedella speculazione. Viene perseguito il doppio obiettivo diorientare i finanziamenti solo verso quelle imprese che ri-

14 Il non profit delle bancheRecenti esperienze di finanza etica in Europa e in Italia

di Francesca Lulli

Donne che hanno usufruito del microcredito. Songea, Tanzania (2005)

“L’attenzione ai diritti umani eall’ambiente, manifestata soprattutto

dallo sviluppo dei fondi etici, trovaespressione in Europa nella nascita di

istituzioni finanziarie eticamenteorientate”

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spettino l’ambiente e i diritti dell’uomo e di garantire l’ac-cesso al credito a quei soggetti considerati dagli istituti fi-nanziari tradizionali non degni di fiducia perché impossi-bilitati ad offrire garanzie patrimoniali. In Italia lo sviluppo della finanza etica e di istituzioni fi-nanziarie aventi per oggetto privilegiato il finanziamentodi realtà non profit ha visto la sua realizzazione a partiredagli anni Settanta, attraverso l’esperienza delle Mag, Mu-tue per l’autogestione del risparmio, la cui esperienza è al-la base della stessa nascita della banca etica.La prima Mag, Mutua per l’autogestione, nasce a Veronanel 1978, come Società di mutuo soccorso, in base ad unalegge del 1886, che coordinava le prime cooperative di la-voro nate da esperienze di occupazione e lavoro di terreabbandonate e da iniziative operaie di lavoratori di fabbri-che in crisi. La Mag si prefiggeva di assicurare ai soci sus-sidi e previdenze nei casi di disoccupazione, di malattia, diinabilità al lavoro e di vecchiaia; di cooperare all’educa-zione, alla cultura e alla formazione professionale dei socie delle comunità locali; di realizzare fra soci forme di mu-tuo soccorso e di auto-aiuto negli ambiti dell’economiasociale e del terzo settore. Dunque le Mutue autogestite te-stimoniano di un rapporto forte con il territorio e i suoi bi-sogni e un coinvolgimento significativo dei soci in tutti gliaspetti decisionali relativi all’uso dei propri risparmi e del-le attività della mutua. Infatti, le Mag sono cooperative incui il denaro raccolto fra i soci viene prestato a chi di loro

è in difficoltà o propone progetti che abbiano un impattosociale e ambientale benefico. Nel 1982 accanto alla Mag, società di mutuo soccorso diVerona, nasce Mag Servizi, una cooperativa che sostienela nascita e lo sviluppo di imprese associative attraversoconsulenze tecniche. In seguito, durante gli anni Ottanta,nasceranno altre Mag e ad oggi ve ne sono sei: Milano,Padova, Torino, Reggio Emilia, Roma e Venezia. Le Magsono caratterizzate dalla partecipazione diretta dei soci(autogestione) e dalla garanzia sugli impieghi del denaro ebasate sulla conoscenza delle persone e sull’orientamentodei finanziamenti verso i progetti collettivi di cooperativeo associazioni.

I settori di intervento comprendono: i progetti di solidarie-tà sociale, fra cui quelli d’inserimento nel mondo del lavo-ro di soggetti svantaggiati e di ricerca di alloggi per i me-no abbienti e i progetti sensibili all’ambiente e all’ecolo-gia e fra questi quelli legati al riciclaggio dei rifiuti o alladiffusione di prodotti e conoscenze sui prodotti biologici enaturali. Vengono finanziate anche attività di promozioneculturale e legate al commercio equo e solidale. Lo sviluppo delle Mag viene rallentato durante gli anniNovanta dalle conseguenze di alcuni interventi legislativiin materia finanziaria che impongono anche a queste isti-tuzioni di intermediazione finanziaria di riorganizzarsi:la legge antiriciclaggio nel 1991 e poi l’introduzione deltesto unico in materia bancaria e creditizia. Quest’ultimoprovvedimento impone una restrizione dell’ambito deisoggetti abilitati a svolgere l’attività d’intermediazionecreditizia, riservando solo agli istituti bancari la raccoltadel risparmio tra il pubblico e l’erogazione del credito.Questo provvedimento costringe le Mag a ripensare leproprie funzioni e sollecita la messa in pratica di un’ideache già da tempo era stata considerata: dare vita alla pri-ma Banca etica italiana, attraverso il coinvolgimento an-che di altre fra le realtà più significative dell’associazio-nismo e del volontariato. Così alcune Mag, insieme adaltri soggetti della società civile, quali fra gli altri PaxChristi, Acli, Arci, Agesci, Fiba, Cisl, Gruppo Abele,WWF, nel 1994 danno luogo all’associazione Verso laBanca Etica che nel 1995 si costituisce in cooperativa.Questa cooperativa arriva a comprendere 22 soci e ha co-me finalità quella di promuovere la Banca etica anche at-traverso la raccolta di capitale sociale. Infatti in questoprocesso gli attori coinvolti hanno deciso per un supera-mento della sola competenza territoriale locale e per unaraggiungibilità nazionale della banca, che verrà permessadalla formula popolare. Il modello banca popolare richie-de però la formazione di un capitale sociale minimo mol-to più elevato (12,5 miliardi di lire) rispetto a quello ri- 15

“La finanza etica basa il suo operatosulla centralità della persona e non delcapitale, dell’idea e non del patrimonio,

della giusta remunerazionedell’investimento piuttosto che della

speculazione”

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chiesto per la costituzione di una banca di credito coope-rativo. Per raggiungere questa cifra viene realizzata unacampagna informativa che vede impegnati i soci più co-involti nei propri territori di residenza. Nasce, così, la re-te dei Gruppi di iniziativa territoriale, i GIT, compostidai membri locali dei movimenti associativi che avevanoaderito al progetto Banca etica. I GIT continuano a rap-presentare il legame della Banca etica con i territori loca-li. Infatti con la costituzione della Banca questi gruppisono stati trasformati in coordinamenti locali, che conti-nuano a diffondere i principi e i valori della finanza eticae gestiscono la relazione con la base, avendo dei legamiconcreti sul territorio e godendo di un rapporto forte difiducia con esso. Nel maggio 1998 la cooperativa Verso la Banca Etica sitrasforma in Banca popolare etica e viene nominato il pri-mo Consiglio di amministrazione. Dopo pochi mesi, nel1999, la Banca etica diventa una realtà e comincia la suaoperatività.Vi è nella finanza etica una tensione alla costruzione diuna realtà locale più giusta, attraverso strategie di accessoal credito per i componenti della comunità in stato di bi-sogno e attraverso un orientamento responsabile e consa-pevole, da parte dei soci, del proprio risparmio a favore diquelle iniziative (sociali, economiche e culturali) che con-tribuiscono a rafforzare la comunità di appartenenza. Altempo stesso l’attenzione all’ambiente, i cui problemi so-no mondialmente condivisi, così come ai diritti e ai pro-

getti dei più vulnerabili in aree del mondo geografica-mente lontane, permette di realizzare dei progetti e dipromuovere una coscienza che valicano i confini di unasingola località. In Banca etica i settori d’intervento finanziario includono:la cooperazione sociale, la cooperazione internazionale,l’ambiente e la promozione della cultura e della società ci-vile. La Banca etica continua lo spirito di aiuto reciproco epartecipazione locale delle Mag, e l’elemento territorialemantiene un ruolo importante attraverso la conoscenza re-

ciproca e diretta degli ambiti che il proprio denaro contri-buisce a sostenere. Al tempo stesso, l’utilizzo responsabiledel proprio risparmio permette la possibilità di un allarga-mento del proprio territorio di appartenenza e una parteci-pazione oltre i confini geografici fisici a tutte quelle espe-rienze di imprenditoria e solidarietà che vanno verso unacomune idea di mondo equo e giusto.

16

Donne che hanno usufruito del microcredito. Gwembe, Zambia (2008)

“I settori di intervento comprendono: iprogetti di solidarietà sociale, di ricercadi alloggi per i meno abbienti e i progettisensibili all’ambiente e all’ecologia e fra

questi quelli legati al riciclaggio deirifiuti o alla diffusione di prodotti

biologici”

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L’accesso al credito, da sempre ritenuto motore e volanodell’economia, è oggi un fenomeno in fermento, sottopo-sto dagli addetti ai lavori ad un ampio processo di revisio-ne, sia in termini di adattabilità alle molteplici forme di ri-chieste di finanziamento, sia in termini di sostenibilità di“lunga percorrenza”. Si valutano nella fattispecie i criteridi accesso ai finanziamenti, dalla fattibilità delle attivitàall’affidabilità del richiedente, per citare i due estremi del-l’istruttoria che precede l’erogazione del prestito, con lafinalità di evidenziarne i parossismi che spesso sono statila causa dell’esplosione di un sistema, quello bancario efinanziario, che oggi purtroppo ha pienamente mostrato isuoi limiti.Se si vuole recuperare il “buono” di un sistema tanto falli-mentare e avviarlo verso un rinnovato rapporto di fiduciacon i cittadini/clienti, bisogna tener conto dei virtuosismiche sono emersi, seppure in anni di folle corsa al profittosistematico che non ha guardato in faccia nessuno, rispar-miatori, imprese e stato, infischiandosene delle regole, ri-

maste lettera muta, grazie a controllori “incontrollati” epromotori rapaci.Il buono esiste. Esiste un modo di “fare finanza” alla por-tata dei bisogni e delle necessità di chi il sistema paese lomanda realmente avanti. Migliaia di piccole imprese, fa-

miglie, persone che alimentano il circolo economico attra-verso il consumo, ma anche attraverso la fruizione dellacultura, l’accesso all’istruzione dei propri figli, l’investi-mento in ricerca e innovazione, la dedizione alla qualità,l’attenzione ai temi etici. Questa fetta di popolazione è og-

gi più che mai in difficoltà. Lacrisi economico finanziaria e ilconseguente irrigidimento delleprocedure di accesso ai capitali,alle fonti di finanziamento, han-no aumentato a dismisura la per-centuale degli esclusi dal siste-ma creditizio tradizionale, pove-ri, precari, disoccupati, immigra-ti, donne, già in passato margi-nalizzati. La crisi cioè alimentala discriminazione, l’esclusionefinanziaria e quindi sociale e al-lontana le buone idee dal proces-so produttivo, relegandole, anco-ra una volta, a sogni irrealizzabi-li.Le donne sono spesso il primobersaglio del circuito che sichiude, il primo target da esclu-dere. Eppure la storia recente ciha mostrato quanto l’economiafemminile sia forte, strutturata,al passo con i tempi e spesso ol-tre. In Italia la micro imprendito-ria femminile si è sviluppata,seppur tra mille difficoltà, in ma-niera esponenziale, anche in set-tori, come quello edile, di appan-naggio prettamente maschile. Inregioni come il Lazio e la Lom-bardia la percentuale di impresegestite da donne si avvicina al 17

“La crisi ha fatto aumentare lapercentuale degli esclusi dal sistema

creditizio tradizionale, poveri, precari,disoccupati, immigrati, donne, già in

passato marginalizzati”

Storie di successoIl microcredito come strumento di finanza etica anticrisi

di Simona Retacchi e Diana Tiburzi

I volti del microcredito in Italia: Cristina, dalla Romania, ha aperto un negozio dove vende pizzi emerletti recuperati e suoi lavori artigianali; Monica, dall’Ecuador, ha aperto un’attività di cateringdi cibi sudamericani; Elvia, dall’Ecuador, gestisce un phone center; Cristiana è italiana e ha apertouna sartoria; Daniela e Petronela vengono dalla Romania e hanno aperto una tintoria; Mayra,ecuadoreña, ha un alimentari multietnico

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50% del totale, con tassi di crescita in forte ascesa, da die-ci anni a questa parte. Questo tessuto produttivo ha biso-gno di essere sostenuto, incentivato e soprattutto finanzia-to. Del resto il professor Muhammad Yunus, economista epremio Nobel per la pace nel 2006, già trent’anni fa ci hainsegnato a credere nelle capacità imprenditoriali e finan-ziarie delle donne, attraverso l’utilizzo di un potente stru-mento di lotta alla povertà e di inclusione finanziaria: ilmicrocredito, prestiti di piccola entità per la creazione dimicro attività, destinato a tutti i soggetti non bancabili, achi non possiede garanzie, a chi è discriminato dalle ban-che, ma vuole realizzarsi, crede nel proprio progetto e nel-le proprie idee.Si tratta come detto di un prestito vero e proprio, senzasconti, senza fondi perduti o tassi agevolati, ma con tassidi interesse calibrati sui bisogni individuali e con periodidi restituzione personalizzati, che il beneficiario si impe-gna a restituire, solitamente, in piccole rate mensili.Yunus per primo si rese conto che chi non ha nulla da per-dere rappresenta forse il miglior cliente di una banca, ilpiù solvibile, e su questo semplice assioma ha costruitonegli anni un vero e proprio sistema di riforme sociali, apartire dal basso, finanziando i più poveri tra i poveri, tan-to da realizzare una banca oggi ramificata in tutto il mon-do e i cui soci sono costituiti dagli stessi beneficiari che nealimentano il capitale sociale.Chi sono i principali clienti di quella che ormai è nota co-me la Banca dei poveri? Le donne. Ma vediamo perché. Lebeneficiarie donne sono la quasi totalità perché sono piùaffidabili. Le donne investono il capitale ricevuto in presti-to in attività che si rivelano in grado di sostentare tutta lafamiglia e a cui si dedicano pienamente. Le donne richie-dono un secondo finanziamento per allargare l’attività e perpagare l’istruzione dei figli. Le donne restituiscono, con gliinteressi, il prestito ricevuto. Le donne acquisiscono unruolo di guida nella comunità locale di riferimento. Il microcredito ha mostrato tutta la sua forza inclusiva, lacapacità concreta di corroborare il circuito economico at-traverso la fiducia nelle capacità umane prima ed impren-ditoriali poi, di tutti coloro che l’economia aveva erronea-mente dimenticato.

Nei paesi in via di sviluppo, dove è nato, così come neipaesi occidentali, il microcredito è stato applicato in for-me e modi diversi, ma sempre con la stessa finalità, crea-re sviluppo, e con lo stesso target di utenti, gli esclusi.Nella gran parte dei paesi ad economia moderna, qualiche siano i destinatari, il microcredito viene utilizzatoprevalentemente come strumento di lotta alla disoccupa-zione per favorire l’auto-impiego e il lavoro indipenden-te, finanziando nella fattispecie un buon progetto di autoimprenditorialità, considerando il “mettersi in proprio”come un valore aggiunto, foriero di sviluppo e di benes-sere. Nel tempo è stato efficacemente utilizzato anche

con obiettivi diversi: come strumento anti-usura, capacedi restituire dignità e fiducia a persone a rischio sociale,come strumento di sostegno all’economia locale attraver-so la costituzione di distretti di solidarietà mutualistica,come strumento di finanziamento per imprese o organiz-zazioni del terzo settore o come strumento di sostegnoalle politiche per la famiglia. I destinatari sono in generecostituiti dalle categorie deboli, svantaggiate, consideratead elevata criticità sociale, come immigrati, disoccupati,ex detenuti, ma si tende anche a garantire credito a per-sone che solo temporaneamente si trovano in difficoltà,come i fuoriusciti dal mercato del lavoro, i giovani pre-cari, le donne ultraquarantenni, solo per citare alcuniesempi di un vasto bacino di utenza, che sempre più pre-me con un pesante quanto giustificato carico di bisogni erichieste da soddisfare. Nell’insieme, il quadro delineatodall’utilizzo del microcredito, da parte prima di enti edorganismi intermedi, poi da parte delle banche, delineaquella che viene chiamata l’offerta della finanza etica omicrofinanza, in cui oltre al microcredito vengono offertiservizi ad esso correlati quali gestione del risparmio, cre-

dito assicurativo, investimenti etici. Ad operare nel setto-re sono le istituzioni di microfinanza, organizzazioni spe-cializzate nel reperire fondi e nel seguire i richiedenti nelprocesso istruttorio e nella fase di accompagnamento chesegue all’erogazione del prestito, che generalmente è ga-rantito da un istituto bancario.In Italia è emersa con successo l’esperienza di Banca eticae delle MAG, Mutue auto gestite, che hanno fatto dell’eti-ca, della sostenibilità e della solidarietà i criteri di selezio-ne per finanziare progetti, imprese e cooperative scelte da-gli stessi soci, concretamente coinvolti nel perseguimentodella mission e delle finalità degli istituti.Ma gli esempi di riuscita della microfinanza sono molte-plici, sia a livello regionale che locale.A Roma per esempio, citiamo l’iniziativa di Fondazionerisorsa donna, che da anni sostiene la microimprenditoria-lità e la formazione femminile attraverso il microcredito. Iprestiti, fino a 35.000 euro, sono concessi alle donne, ita-liane e straniere, che intendono avviare o ampliare unapiccola attività o che necessitano del capitale per aggior-nare il proprio livello di istruzione e formazione. Lo speci-fico target dei destinatari è stato scelto sulla base di studiche hanno evidenziato una forte domanda di sostegno eco-nomico da parte delle donne imprenditrici o aspiranti tali,che nella Regione Lazio sono tante e molto discriminatedalle banche.Citiamo infine l’esperienza della Caritas, che attraversol’operato delle diocesi sparse su tutto il territorio italiano,ha creato una rete di sostegno e di solidarietà verso le fa-

18

“Chi non ha nulla da perdererappresenta forse il miglior cliente

di una banca”

“Le donne investono il capitale inattività in grado di sostentare tutta la

famiglia, richiedono un secondofinanziamento per pagare l’istruzione

dei figli e acquisiscono un ruolo di guidanella comunità locale”

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sce più svantaggiate della popolazione utilizzando e rein-ventando il microcredito.In tutte queste iniziative il microcredito ha funzionato. Idestinatari hanno per lo più restituito il prestito e gli inte-ressi maturati, mostrando tassi di restituzione altissimi,impensabili e irraggiungibili per le banche tradizionali.Quello che però va sottolineato è l’impatto sociale che ilmicrocredito ha generato. Il dibattito attorno alle misura-zioni degli effetti del microcredito sulla vita di chi ne be-neficia è soltanto agli inizi e non sono ancora stati creatidei veri e propri indicatori condivisi. Ma per quella che èl’esperienza sul campo si può affermare che esiste certa-mente una forma di rafforzamento del ruolo che ogni de-stinatario di microcredito raggiunge nella comunità, nellafamiglia, nella cerchia delle conoscenze e che si aggiungeal miglioramento, misurabile e quindi assodato, dello stiledi vita, grazie ad un aumento del reddito e delle condizionieconomiche in genere.

La percorribilità del microcredito, sotto forma di sosteni-bilità delle istituzioni di microfinanza, è stata provata daanni di esperienze di successo che si sono raggiunte anchegrazie al particolare target cui questo strumento è destina-to. Credere nelle potenzialità degli esseri umani, dare fidu-cia e sostegno alle idee, favorire la realizzazione di proget-ti, sono le azioni che chi opera nella microfinanza deve te-nere come punto di riferimento nel lavoro quotidiano. Esono parametri da considerare come possibile via d’uscitadalla crisi economica e sociale che ha pervaso in modo ra-dicale il sistema finanziario e bancario. Una politica che vuole anche solo provare a fornire solu-zioni concrete, non può non tener conto dei successi finqui ottenuti, non può dimenticare che i più poveri restitui-scono il debito e alimentano il circuito economico, nonpuò e non deve dimenticare che il sistema tradizionale hafallito, non può e non deve cancellare l’etica di una finan-za alternativa, inclusiva ed equa.

C’è tanta retoricasul tema dello stra-niero. Il fastidio èduplice: da un latotutto il dibattito,non solo quellogiornalistico maspesso - purtroppo- anche quello ac-cademico, è po-larizzato tra duegrandi metanarra-zioni: quella buo-

nista (l’immigrato ha sempre ragione, siamo tutti mi-granti…) e quella criminalizzante (l’immigrato è un pe-ricolo, ci ruba il lavoro, mette a rischio la nostra sicu-rezza, tende a delinquere…). Nessuno di questi due fra-me riveste alcuna utilità per affrontare e possibilmenterisolvere le tante e serie questioni che la varietà cultura-le e la convivenza multietnica comportano: il primo,perché nega il problema (una negazione che è controogni evidenza, e non può che essere ideologica); il se-condo perché è riduttivo e unilaterale, violento e dis-umanizzante.Il secondo fastidio è legato al fatto che, nella maggior par-te dei casi, e come purtroppo sempre più spesso accade, laparola e l’azione (due categorie antropologiche care adHannah Arendt nel loro intreccio) sono tristemente, espesso colpevolmente, indipendenti: si parla di cose che siconoscono per sentito dire, che non toccano la propria vi-ta, o che non si vuole la tocchino.

Risultato: il modo stesso di inquadrare la questione allon-tana la possibilità di una soluzione ragionevole, come di-mostra un semplice dato: le risorse investite nella gestionedella questione della convivenza multietnica sono concen-trate sull’unico tema della sicurezza (come difendersi dal-lo straniero), e pochissimo è investito nell’accompagna-mento alla cittadinanza e all’integrazione, nell’accoglien-za, nel superamento degli ostacoli a una convivenza pacifi-ca. Si tratta di un cammino lungo, faticoso e in molti casifrustrante, ma è l’unico modo serio e responsabile di af-frontare una questione che, certo non solo per colpa deimigranti, può diventare esplosiva.

La questione, già spinosa di per sé, è aggravata dalla crisi.C’è una crisi economica ma prima ancora una crisi cultu-rale, che è la più urgente da cui occorre voler uscire, o le“soluzioni” per il problema economico non faranno cheaggravarla. Una crisi di umanità, la definirei: un individua-lismo autoreferenziale e malato mascherato dall’ideologiadella libertà di scopo. In questa crisi culturale, in cui anche le risorse per affron- 19

“Il dibattito è spesso polarizzato tra duegrandi metanarrazioni: quella buonista(l’immigrato ha sempre ragione, siamotutti migranti) e quella criminalizzante(l’immigrato è un pericolo, ci ruba il

lavoro, mette a rischio la nostrasicurezza…)”

Noi e gli “stranieri”Una storia di multiculturalismo quotidiano

di Chiara Giaccardi

Chiara Giaccardi

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tare la questione del rapporto tra le culture si sono logora-te, e dove la crisi economica toglie ulteriore attenzione einteresse a un ambito già fragile (e, non c’è bisogno didirlo, a una situazione in cui gli stranieri, lavoratori in ne-ro e disposti a tutto, sono i primi a perdere il lavoro, ri-schiando così di scivolare, loro malgrado, in quella perlagiudiziaria che è il “crimine di clandestinità”), forse unastrada per cominciare ad affrontare il duplice problemapuò passare da una solidarietà non pietistica ma convivia-le, che serve a conoscersi un po’ meglio, a imparare cosenuove, ad accettarsi in ciò che ci dà fastidio (e che non èper questo necessariamente sbagliato!), a educarsi a vi-cenda (nel senso, letterale, di decentrarsi, uscire dai pro-pri luoghi comuni).

Nella profonda convinzione che non ci sono alternative alconflitto (anche l’indifferenza, nel lungo periodo, porta lì)se non l’accoglienza, tre anni fa, grazie al generoso inte-ressamento di un amico sacerdote, allora direttore dellaCaritas, e poi alla disponibilità di un ordine religioso di of-frire una struttura ormai inutilizzata per carenza di voca-zioni, mi sono trasferita con la mia famiglia e un’altracoppia di amici in uno stabile adatto al nostro progetto.Caritas e Cariplo hanno finanziato la ristrutturazione e ab-biamo potuto ricavare due appartamenti ampi e un miniappartamento per ospitalità più brevi. Dal 2006 sono pas-sate 6 famiglie di 5 nazionalità, 3 di religione musulmana,3 composte da madri sole con i figli, 20 bambini. Il nostrocompito è insieme molto semplice e molto difficile: lo de-finirei un “vicinato attento”, qualche cosa che per moltotempo, nella nostra cultura italiana, che Cassano giusta-mente definisce “materna”, si è manifestato come una sen-sibilità spontanea e che oggi, nell’era dell’iperindividuali-smo allergico ai legami e ai vincoli, è assolutamente con-trocorrente (nel senso letterale: bisogna fare una fatica tre-menda per evitare di lasciarsi trasportare dalla correntedell’indifferenza auto assolutoria).C’è una frase ricorrente, molto funzionale a una teoria del-lo sgravio, per usare un’espressione di Gehlen: il proble-ma è talmente grosso che ci sovrasta, qualunque azionenon è che una goccia in un oceano. Alla luce dell’espe-rienza, piena di soddisfazioni e frustrazioni, successi e fal-limenti di questi anni mi sento di dire il contrario: nessunadelle azioni intraprese è risultata vana, al di là del succes-so o meno, e per tutte le persone che sono passate di qui,questo ha fatto una differenza enorme nella loro vita, oltreche nella nostra.La nostra idea è molto semplice: parte dalla famiglia,un’entità importante che non per forza deve assumere laforma mononucleare del modello borghese contempora-neo (evidentemente asfittico), ma che si esprime nel modomigliore nel momento in cui si caratterizza come un luogo

di accoglienza e di responsabilità reciproca, nel senso di“prendersi cura di” ed “essere disposti a rispondere a”.L’idea di famiglia allargata e aperta è diversa da quella dicomunità, almeno nel senso in cui la si intende e la si pra-tica oggi. È molto meno normata, molto più lasca, moltopiù aperta alle diverse esigenze che via via si presentano.È un’idea che ha a che fare con l’attenzione, il prendersicura, il pre-occuparsi, l’accettare che a volte il propriotempo, come scrive Lévinas, diventi ostaggio di quello de-gli altri. È, per noi, un modo di affrontare la crisi.

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“C’è una crisi economica ma primaancora una crisi culturale, che è la piùurgente da cui occorre voler uscire, o le

soluzioni per il problema economiconon faranno che aggravarla”

Momenti del laboratorio di cucina e pasticceria

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Disarmati i pregiudizi e imbracciate le migliori intenzionidi dimostrare, prima di tutto a me stessa, che una convi-venza con persone con appartenenze culturali molto diver-se è possibile, mi sono scontrata violentemente con la fati-ca di accettare alcuni aspetti del vivere quotidiano (da chipuò e chi non può venire in piscina a chi deve saltare lascuola per curare un fratellino quando la mamma è stanca,ai bambini lasciati per ore da soli, in questa civiltà così –almeno apparentemente – puerocentrica) che solo in unaconvivenza prolungata possono emergere pienamente.

Da una parte ci sono le aspettative (sbagliate) di chi acco-glie, che si attende di trovare sempre gratitudine e disponi-bilità. Dall’altra quelle (altrettanto sbagliate, purtroppo) dichi arriva, magari dopo un viaggio estenuante, magariscappando da una guerra, magari sperando nella democra-zia e nel benessere e si scontra con il fatto che non solociò non basta ad essere aiutati, ma mette in una condizionedi “indesiderabilità”.Eppure nella convivenza qualche angolo si smussa, qual-che nodo si scioglie, e soprattutto, quasi sempre, si senteche ciò che unisce è più importante di ciò che divide. Unpiccolo aneddoto, uno dei tanti, tanto per capirsi. Una fa-miglia marocchina, papà con lunghi periodi già trascorsiin Italia, moglie di 15 anni più giovane con due bambinipiccoli, più uno in arrivo a breve, senza la minima cono-scenza della lingua italiana. La signora (una ragazza, inrealtà, di 27 anni) arriva da noi il 26 febbraio e il 4 mar-zo partono le doglie. La accompagno in ospedale, assistoal parto su sua richiesta, perché sono la donna menoestranea a disposizione, e traduco in linguaggio non ver-bale le indicazioni che le ostetriche le forniscono in ita-liano. Nasce una bimba bellissima, commozione e un no-do che si allaccia: io divento, mi spiegano, una “secondamamma”, la prima donna che la bimba vede dopo la ma-dre. Torno a casa, e poche ore dopo suona il campanello,

e mi viene recapitata dal neopapà una bimba che eviden-temente necessitava ormai da parecchio di un cambiopannolino, con la preghiera di provvedere a un compito«che la sua religione gli proibiva». Non credo che il Co-rano faccia menzione di patelli, e sono sempre più colpi-ta da come le usanze culturali e la religione si mescolinoe si confondano (ma tanto accade anche da noi) e, soloper compassione della piccola, provvedo. Seguono lun-ghe chiacchierate sulla genitorialità, sul ruolo del padre,sul perché di differenze così rigide tra l’educazione deimaschi, piccoli sultani viziati e guardati con sorridentecompiacenza nell’infrangere le poche regole, e quelladelle bambine, dall’età di 7 anni abituate a fare il pane(unica consolazione: ha imparato anche la mia), le lava-trici, preparare biberon e sgridate con veemenza a ognicedimento. Per farla breve, la signora è di nuovo incinta,la famiglia (dopo un anno e mezzo da noi e un lavoro fi-nalmente trovato) si trasferisce, nasce un bel bambino eche soddisfazione, nell’andare a rendere omaggio al neo-nato, vedere il papà che se lo tiene teneramente in brac-cio e la figlia “grande”, che ormai ha nove anni, giocarein cortile con le amichette. 21

“Tre anni fa Caritas e Cariplo hannofinanziato la ristrutturazione di uno

stabile, da cui si è potuto ricavare dueappartamenti ampi, e un mini

appartamento. Dal 2006 sono passate 6famiglie di 5 nazionalità, 3 di religionemusulmana, 3 composte da madri sole

con i figli, 20 bambini”

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Il Dipartimento di Filosofia di Roma Tre sotto il coordina-mento scientifico di Francesca Brezzi è il capofila di un ri-levante progetto che ha ottenuto il consenso della Comuni-tà europea ed è stato finanziato nell’ambito del programmaTempus per il triennio 2007-2010. Il progetto prevede l’i-stituzione e l’attivazione di un master presso l’Universitàdi Tangeri su I Diritti delle donne tra le due sponde delMediterraneo. Il diritto di famiglia in migrazione.La proposta nasce dalla realtà del Marocco, un paese inte-ressante avviato in un processo di rafforzamento dell’u-guaglianza di genere e della democrazia; in particolare ta-le capacità rinnovatrice è dimostrata dall’entrata in vigorenel 2004, dopo vari anni di riforme, del nuovo diritto difamiglia che ha introdotto notevoli cambiamenti e ha get-tato le basi per il riconoscimento dei diritti delle donne. L’obiettivo specifico è quello di realizzare un master di se-condo livello destinato a formare professionisti nel campodella giustizia sui temi di tale nuovo codice e della sua ap-plicazione, in relazione anche al diritto di famiglia dei/del-le migranti con una specifica ottica di genere. L’approfon-dimento del concetto di genere, infatti, è una dimensionefondamentale del master nella misura in cui contribuirà ariconoscere l’apporto delle donne allo sviluppo della socie-tà. Un’altra caratteristica importante è data dalla scelta diprivilegiare una metodologia pluridisciplinare, che unisceil tema del diritto di famiglia e della sua applicazione, conun’attenzione sia al tema più generale dei diritti umani e dicittadinanza e della loro importanza in un mondo globaliz-zato, sia più in particolare al processo delicato rappresenta-to dal fenomeno delle migrazioni.

In particolare il master si articola in tre semestri tematici(Nuovo codice della famiglia in Marocco e approccio digenere; I diritti delle donne tra l’universale e il particola-re; Applicazione del codice della famiglia marocchino inmigrazione) e in un quarto semestre dedicato a stage diprofessionalizzazione.È importante sottolineare come questo master miri all’allar-gamento della cittadinanza delle donne: l’Unione europeaconsidera, infatti, la promozione delle pari opportunità (inparticolare quella tra donne e uomini) una delle priorità del-la propria politica sin dalla sua creazione, nonché uno deiprincipali obiettivi della Commissione europea stessa; nesegue che il tema relativo all’effettiva parità tra le persone èfondamentale e quindi centrale l’attenzione alle problemati-che – tuttora presenti – delle discriminazioni sociali e poli-tiche. Non solo ma tale master ha interpretato il concetto dipari opportunità anche in un altro senso, focalizzando la si-

tuazione delle donne immigrate; dal momento che il con-cetto di pari opportunità si è arricchito e non si limita piùalle differenze di genere, ma altresì alle differenze di cultu-ra, di etnia, di lingua e di religione, attraverso il master sisvolge una riflessione sul rapporto fra diversità ed egua-glianza nei diversi ambiti sociali e nei contesti organizzativie istituzionali. Se i cambiamenti sociali e culturali di cui lastoria dell’Occidente è stata investita negli ultimi trenta an-ni hanno portato alla costruzione di una società multietnicae a un profondo cambiamento nei ruoli di genere, nell’ela-borazione e nel vissuto di ogni individuo nei confronti dellapropria e altrui differenza, tuttavia numerose sono le cate-gorie di persone escluse dalla rappresentanza politica cosìcome dall’accesso a tutti i posti di potere decisionale. Lo studio della storia del pensiero politico, della filosofiae della giurisprudenza aiutano a ritrovare le radici culturalie teoriche di una tale esclusione di cittadinanza. Il Diparti-mento di Filosofia (forte dell’esperienza del Master inesperti in pari opportunità avviato da lungo tempo nellanostra università) è impegnato in prima linea, ma anche al-tri docenti di Roma Tre stanno partecipando a questa av-ventura (come Roberto Cipriani e Anna Aluffi), perché siritiene che tale master possa rappresentare l’esito di unprocesso culturale in cui le nuove generazioni sono chia-mate ad intervenire in prima persona, per trovare i modi diuna convivenza tra soggetti diversi. Sviluppando competenze teorico-culturali ma anche giuridi-che e politiche sulle problematiche concernenti le differenzedi genere e di culture di provenienza, si offrono riflessionisul rapporto fra eguaglianza e cittadinanza. Il master si pre-senta quindi sia come formazione superiore per la creazionedi una nuova figura professionale (esperto/a di politiche dipari opportunità e di diritto di famiglia), sia come formazio-ne permanente per chi è già inserito in un contesto lavorati-vo, in particolare per i professionisti della giustizia. Ricordando Martha Nussbaum si ricerca – attraverso laprassi femminista della filosofia – un universalismo che ri-spetti le norme multiculturali, contemplanti al proprio inter-no non solo possibilità di scelta, ma anche convinzioni epreferenze, secondo l’affermazione di una donna indiana:«Le donne non vogliono solo una fetta della torta, ma vo-gliono sceglierne il sapore e saperla preparare esse stesse».

22 Il caso MaroccoI diritti delle donne tra le due sponde del Mediterraneo

di Barbara Felcini

I rappresentanti delle Università partner del consorzio che hapromosso il master

“Le donne non vogliono solo una fettadella torta, ma vogliono sceglierne il

sapore e saperla preparare esse stesse”

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In tempi di crisi mondiale, dovuta principalmente alle ormaiconosciute e cicliche conseguenze del sistema liberista, ledifferenze tra occidente e oriente vengono rese evidenti an-che nel modo di affrontare la congiuntura economica nega-tiva. Questo avviene fondamentalmente perché diverse sonostate le ripercussioni che questa ha avuto nelle aree econo-miche del mondo: USA-UE, America Latina, Cindia. Possiamo rilevare varie cause per questa ennesima crisi:finanziarie (finanza creativa, scarsa regolamentazione ban-caria, speculazioni), industriali (assenza di investimenti edi idee, pochi investimenti nei settori ricerca e sviluppo),politico-militari (spese belliche sproporzionate rispetto aquelle per lo stato sociale).

In questa realtà le aree economiche si comportano in mo-do differente perché diverse sono le esigenze di intervento.Stati Uniti ed Europa, che in proporzione stanno soffrendomaggiormente gli effetti della crisi, stanno tentando rea-zioni estreme anche contro gli interessi dei propri cittadi-ni: nazionalizzazione degli istituti di credito, licenziamen-ti, cassa integrazione, nessun tipo di investimento e am-mortizzatori sociali sostanzialmente inadeguati. In SudAmerica, dove in alcuni paesi si sta percorrendo da diversianni un percorso politico di impronta neo socialista (conmolte differenze tra i paesi che hanno scelto questa via) sistanno prendendo decisioni (ad esempio in Venezuela) co-me l’aumento del 30% del salario minimo per tutti al finedi far ripartire i consumi. Cina e India differentemente,stanno subendo la crisi non come una recessione, ma co-me una forte riduzione della crescita che però sta bloccan-

do lo sviluppo degli indotti condizionando cosi il lavoro dimolte fabbriche (in India è stata rinviata di molti mesi l’u-scita sul mercato della Tata Nano) e, dal punto di vista so-ciale, sta lasciando invariata la tragica realtà di milioni dilavoratori già pesantemente sfruttati sia dalle aziende loca-li che dalle multinazionali presenti.Date le diverse conseguenze che la crisi sta avendo nelmondo, si possono prevedere anche diverse strategie im-prenditoriali da adottare: in Asia possiamo pensare al mi-glioramento degli indotti industriali, in Europa allo svilup-po della ricerca e al potenziamento delle partnershipaziendali, o alla maggiore regolamentazione del sistemabancario e finanziario statunitense. Queste però potrebbe-ro rivelarsi soluzioni fittizie in quanto ciò che veramenteproduce crisi a livello globale è la trasformazione del cit-tadino in mero produttore/consumatore di beni e servizi.Ciò non deve essere inteso come una critica nei confrontidel lavoro, ma piuttosto come una critica nei confronti del-l’uso che se ne fa: non più come fine per il benessere so-ciale quanto piuttosto come uno strumento di produzionemateriale, materialistica e consumistica.

I cambi di strategie imprenditoriali dovrebbero quindi ri-partire sulla base di due aspetti: da una parte una rivolu-zione verde (non quella “green revolution” che 70 anni faha ucciso le economie agricole locali) che sia in grado ve-ramente di rinnovare i sistemi produttivi in senso ecologi-sta, e dall’altra il fatto di partire da uno dei principi kantia-ni che hanno fondato la morale illuministica e cioè di rap-portarsi agli uomini sempre come fine e mai come mezzo.

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Libero mercato o libero uomo?La necessità in tempi di crisi di far ripartire le nuove strategie imprenditorialidall’uomo e dal suo benessere

di Indra Galbo

“In Cina la crisi non incide sulla tragicarealtà di milioni di lavoratori già

pesantemente sfruttati sia dalle aziendelocali che dalle multinazionali presenti”

“Ciò che veramente produce crisi a livelloglobale è la trasformazione del cittadinoin mero produttore/consumatore di beni

e servizi”

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Se in Giovani, carini e disoccu-pati (1994) Winona Ryder gira undocumentario sulla vita dei suoiamici poco più che ventenni, im-mortalando ambizioni, prospetti-ve e frustrazioni di un’intera ge-nerazione di statunitensi, in Tuttala vita davanti (2008) Virzì haraccontato, a modo suo, le diffi-coltà e le speranze dei neolaureatiitaliani di oggi. L’inesorabile cro-cevia del call center come primoimpiego e le ambizioni di una tesidi ricerca riposte nel cassetto.Una commedia, per alcuni versibanale, quest’ultima, che peròmostra il mondo del lavoro cosìcom’è oggi per gli under trenta:un lungo iter di formazione quasitotalmente privo di soddisfazionieconomiche. In principio fu il co.co.co (colla-borazione coordinata e continua-tiva), poi con il decreto legislativo 276/2003 (conosciutodai più come legge Biagi) venne introdotto il co.pro.(contratto a progetto), da allora, non senza critiche da par-

te dei giuslavoristi, la flessibilità è divenuta la regola per

ogni primo impiego e non solo. Usciti dall’università, in-somma, le prospettive sono ben diverse da quelle dellepassate generazioni. Innanzitutto il percorso accademiconon si conclude più, salvo rare eccezioni, con la fine delciclo di studi bensì, sempre più spesso, conseguita la lau-rea sono necessari oltre ai vecchi tirocini e pratiche, anchescuole di specializzazioni e master. Sono necessari perchépermettono, alcuni ufficialmente altri ufficiosamente, diaccedere a concorsi e selezioni nel pubblico così come nelprivato. Dopo questo iter postlaurea, tortuoso e nient’affat-to economico, c’è un altro gradino che divide il giovane(laureato e, ormai, specializzato) dall’equilibrio instabiledel precariato: lo stage. Questo periodo può essere più omeno lungo (da 3 a 6 mesi) e può essere prorogato e, per-fino, rinnovato. Se si è fortunati si riesce ad ottenere un

rimborso spese, il minimo neces-sario. Una volta scaduti i terminipattuiti, a meno che lo stage nonsia stato un escamotage per procu-rarsi forza lavoro a basso costo, siviene convocati dall’ufficio delpersonale per ricevere la prima ve-ra offerta di lavoro, ovviamenteflessibile. Il precariato ha molte facce, comeun mostro mitologico con più te-ste e molte bocche. Si può incap-pare, tra gli altri, in un contrattodi apprendistato (professionaliz-zante, per finalità di istruzione eformazione o per l’acquisizione diun diploma) perchè d’imparare,dicono, non si finisce mai. Nel2006 le stime contavano oltre560.000 contratti di questo tipo,oggi, invece, è il contratto a pro-getto a farla da padrone. In so-stanza si tratta di vincolare il rap-

porto di lavoro e l’annessa retribuzione a un obiettivo fi-nale piuttosto che a un monte ore. E così facendo, se daun lato si può apprezzare l’autonomia accordata al lavora-tore, dall’altro l’eventualità di non ricevere un corrispetti-vo, in caso di insuccesso del progetto curato, lascia nonpoche perplessità. Attualmente, in Italia, ci sono oltre1.400.000 lavoratori a progetto, ma ciò che più fa riflette-re è che l’83% di questi dichiara di svolgere le funzioniche competono a un lavoratore subordinato. Questo ri-schia d’avvenire, anche, con il contratto a chiamata (o dilavoro intermittente), il quale dovrebbe far fronte alle esi-genze di impiegare un lavoratore per prestazioni a caratte-re discontinuo (come custodi, giardinieri e portinai), manon sempre ciò avviene. Infatti, per il momento, nullavieta al datore di lavoro di “chiamare” il lavoratore inter-

mittente più giorni della stessa settimana, fino ad assimi-larlo al lavoratore stabile in termini di produttività, maovviamente non sul fronte retributivo e previdenziale. Tutte queste difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro inpianta stabile, aggravate anche dall’attuale crisi economicanon sembrano, però, aver demoralizzato i giovani precari,che hanno creato una nuova categoria: i milleuristi. Giova-ni, freschi, preparati e parsimoniosi.

24 Generazione precariaLa flessibilità come norma, l’impiego a tempo indeterminato come eccezione

di Giacomo Caracciolo

“In principio fu il co.co.co. Da allora,non senza critiche da parte dei

giuslavoristi, la flessibilità è divenuta laregola per ogni primo impiego

e non solo”

“Il precariato ha molte facce, come unmostro mitologico con più teste e molte

bocche”

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Secondo stime recen-ti, nel mondo si regi-strano oltre trentatrémilioni di casi di Aids,tra cui due milioni dibambini e adolescentiche nella stragrandemaggioranza vivononell’Africa sub-saha-riana. Da quando, agliinizi degli anni Ottan-ta, l’infezione (il co-siddetto “virus del se-colo”) ha fatto la suacomparsa (all’epocain particolare negliambienti frequentati da omosessuali e tossicodipenden-ti), le vittime sono state oltre venticinque milioni. Nonostante le stime spaventose, Luc Montagnier, set-tantasette anni, nel 2008 premio Nobel per la medicina(ottenuto assieme a Françoise Barré-Sinoussi, medicoe immunologa parigina, classe 1947) assegnato appun-to per la scoperta del virus dell’immunodeficienzaumana (VIH, LAV in inglese: lymphadenopathy-asso-ciated virus), avvenuta nel 1983, è ottimista sui risulta-ti che si potranno raggiungere in un futuro per lui pros-simo: il medico e biologo francese, proprio nel giornodella consegna del premio Nobel, ha dichiarato che ilvaccino (terapeutico, non ancora preventivo) potrebbeessere pronto «entro quattro anni».

Nel 1967, all’Institut Pasteur, Montagnier iniziò le suericerche nel campo della virologia, diventando cinqueanni dopo Capo dell'Unità oncologica virale dello stes-so istituto, nonché, nel 1974, direttore del Centro na-zionale di ricerca scientifica (CNRS). È però nel 1982 che inizia la vera e propria ricerca sul-l’Aids: il gruppo, formato oltre che da Montagnier eBarré-Sinoussi, da Willy Rozenbaum, Françoise Brun-Vezinet e Jean-Claude Chermann, studia una biopsia ef-fettuata all’Hôpital de la Pitié-Salpétrière sui gangli diun paziente in stato di pre-Aids, mettendo a coltura lecellule del linfonodo e poi osservandole durante le tre

settimane successive.Chermann e Barré-Si-noussi possono alloraindividuare la presen-za di un retrovirus chetuttavia causa mortecellulare e per questomotivo pensano dichiamare in aiuto i ri-cercatori del centro ditrasfusioni sanguigne,per ottenere dai dona-tori globuli bianchi damettere in coltura as-sieme alle prime cel-lule.

Fatto curioso è che oggi la squadra di Luc Montagnier la-vori assieme a quella di Robert Gallo: il medico, che peranni è stato a capo di un gruppo di ricercatori americanipresso l’Istituto nazionale del cancro (NCI), confermò lascoperta del 1983 e, cambiando nome al virus (lo chiamòT-linfotropico umano di tipo III, HTLV-III), tentò di ap-propriarsi della paternità della scoperta, tanto da far na-scere una vera e propria disputa, conclusa soltanto nel1987 attraverso una sorta di trattato di pace firmato addi-rittura dai presidenti Chirac e Reagan, con il quale i duemedici vedevano riconosciuta ad entrambi l’ambita pater-nità. Nel 1986, tuttavia, Montagnier riuscì ad isolare unsecondo ceppo del virus, l’HIV2, maggiormente presentein Africa, e nel 1990 si seppe che il virus su cui aveva la-vorato Gallo proveniva dai laboratori francesi: i due avve-nimenti hanno fatto sì che la paternità sia stata poi defini-tivamente attribuita esclusivamente al medico francese.Nonostante la scoperta del virus sia stata di fondamenta-le importanza per il brevetto di un test per la diagnosi eper la messa a punto di farmaci antivirali – e nonostantel’attuale collaborazione tra i due team più esperti almondo – la strada che porta verso la sconfitta del virus èforse anche più dura di quel che le parole di Luc Monta-gnier fanno pensare: soltanto l’anno scorso, la ricerca hadovuto ammettere l’ultimo fallimento nel tentativo di ar-rivare ad un vaccino preventivo.Secondo Françoise Barré-Sinoussi, che dopo la scoperta èstata impegnata per oltre un decennio sul fronte della ri-cerca del vaccino anti-Hiv ed è inoltre diventata (nel 1998)responsabile del laboratorio dell’Istituto Pasteur, professo-ressa e dirigente di ricerca, prima di prospettare il successosarebbe meglio continuare a studiare «le interazioni tra vi-rus e corpo umano». E, in questa direzione, molto, pur-troppo e come per qualsiasi altro ambito di ricerca, dipen-de dai finanziamenti che la ricerca riuscirà ad ottenere.

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“È fondamentale continuare astudiare le interazioni tra virus e

corpo umano e in questa direzionemolto dipende dai finanziamenti che

la ricerca riuscirà ad ottenere”

Focus HIV: a 25 anni dalla scoperta del VirusHiv: verso il vaccino terapeutico?di Michela Monferrini

Luc Montagnier, Françoise Barré-Sinoussi e Harald zur Hausen alla conferenzastampa in occasione della cerimonia di consegna del premio Nobel per lamedicina, nel dicembre scorso. Zur Hausen è stato insignito del Nobel insiemea Montagnier e Barré-Sinoussi per le sue ricerche sul Papilloma Virus

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Grazie all’entusiasmo e alla dedizione dei colle-ghi della unità operativa AIDS della ASLRMC, al sostegno del Rettore e alla disponibi-lità delle Facoltà e dei docenti è stato possibile,nell’anno accademico in corso, organizzare in-terventi di informazione e di sensibilizzazionesulle problematiche legate all’AIDS per gli stu-denti di quasi tutte le Facoltà. Per una valutazio-ne dell’attività svolta rimando all’articolo deicolleghi Rossella Di Bacco e Mauro Ben-venuti, qui invece voglio proporre alcuneriflessioni su possibili sviluppi dellanostra iniziativa. Se una informazione corretta sulrischio di contagio da HIV esulle modalità di prevenzio-ne deve rappresentare certamente un obiettivo pri-mario per l’educatore e per l’operatore sanitario,non possono essere trascurati i problemi legati ad al-tre malattie sessualmente trasmesse (infezioni batte-riche come la gonorrea o la sifilide, infezioni da mi-coplasmi, da protozoi, da miceti e da virus diversida HIV, come papilloma, herpes, o virus delle epatitiB e C). Le patologie legate a questi agenti infettivirappresentano un problema socio-sanitario preoccu-pante, sia per la loro crescente diffusione, sia per lacomparsa di farmaco-resistenze sia per le gravi con-seguenze che possono provocare, quali sterilità ocancerogenesi. È quindi importante che la nostracampagna educativa si estenda anche a queste pro-blematiche, soprattutto considerando la scarsissimaattenzione che i mezzi di informazione dedicano aquesti argomenti e la quasi completa ignoranza del-l’argomento nella popolazione studentesca che, seda un lato sottovaluta il problema dell’AIDS, dal-l’altro è in pratica ignara dell’esistenza delle altrepatologie. Inoltre è da ricordare che i mezzi di pre-venzione utili per HIV lo sono anche nei confrontidegli altri patogeni sessualmente trasmessi.Un’ulteriore causa di preoccupazione, che deve stimolarela nostra attenzione, è data dalla crescente diffusione tra igiovani dell’abuso di alcool e di droghe. Oltre al gravedanno alla salute direttamente indotto da queste sostanze,si deve infatti ricordare come la perdita di auto-controlloda esse indotto diviene facilmente causa di comporta-menti sessuali a rischio di contagio da HIV e da altri pa-togeni. Non sono rari i casi di pazienti che hanno contrat-to un’infezione da HIV in seguito ad atti sessuali svoltisotto l’effetto dell’alcool e di cui l’interessato non con-serva memoria. Deve essere quindi nostra preoccupazio-ne estendere anche a questi argomenti la attività di infor-mazione e di sensibilizzazione, pur senza nasconderci legravi difficoltà implicite in questi argomenti. I giovani infatti, più vulnerabili rispetto agli effetti fisici epsichici dell’alcool, sono considerati particolarmente a

rischio. Purtroppo i mezzi di informazione e lapubblicità non aiutano la riduzione del consumo dibevande alcoliche, anzi il marketing delle industrieche producono queste bevande considera i giovaniil target d’eccellenza e l’uso di alcolici è visto co-me uno status symbol delle classi socio-economi-che privilegiate.

L’OMS stima che in Europa un quarto dellecause di morte tra i 15 e i 29 anni, è da im-

putarsi direttamente o indirettamente al-l’alcool, che risulta il primo fattore di ri-

schio di invalidità, mortalità prematurae malattia cronica nei giovani. Tra il

40 e il 60% di tutte le morti dovutea ferite intenzionali e accidentali

sono attribuibili al consumo dialcool che costa, nel comples-

so, alla società un importo pari al 2-5% del prodottointerno lordo.Per quanto riguarda il nostro paese, i dati non sonoconfortanti e il fenomeno ha raggiunto proporzioni de-cisamente gravi. Le ricerche effettuate rivelano che il61% dei ragazzi fra i 15 e i 17 anni ammette di lasciar-si sedurre dal richiamo della bottiglia, una percentualeche arriva al 78% se consideriamo i giovani fra i 18 e i24 anni e all'81% nella fascia 25-34 anni. Il giovane comincia a bere, oltre che per imitazione,soprattutto nei momenti di euforia e/o di noia. Questo percorso è ormai noto e sembra essere la co-stante di molte situazioni di abuso, non solo di bevandealcoliche, ma anche di sostanze stupefacenti. In molte occasioni il giovane utilizza sostanze stupefa-centi e/o alcool per essere al centro dell’attenzione nelgruppo dei coetanei, per fare nuove amicizie, per con-quistare l’altro sesso. Una sempre più diffusa insicu-rezza, la noia, l’incapacità di essere originale e simpa-tico conducono il giovane verso l’assunzione di dosisempre più massicce di alcool e droghe. Questi dati devono indurre educatori e operatori sanita-ri a impegnarsi in una campagna che deve mirare a ri-durre le motivazioni psicologiche che spingono i gio-vani verso l’alcool e le altre droghe.

Le maggiori difficoltà che si incontrano nella nostra at-tività di educazione e di prevenzione sono legate alladiffidenza e alla noia: diffidenza del giovane/studenteverso l’adulto/docente con cui difficilmente riesce a in-staurare un rapporto di confidenza e di fiducia, di noiaper sentirsi raccontare «le solite cose che non mi ri-guardano». In questo senso sarebbe di primaria impor-tanza il coinvolgimento nelle campagne educative distudenti adeguatamente formati che potrebbero collabo-rare strettamente con gli operatori sanitari per continua-re e rendere più penetrante e capillare l’informazionefornita negli interventi in aula e nei check point, aiutan-

26Conoscere e prevenire: non solo AIDSdi Giorgio Venturini

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do anche a superare le barriere comunicative. Le orga-nizzazione studentesche e i rappresentati degli studentipotrebbero impegnarsi a fondo in questa direzione.Anche se il contatto diretto rimane a nostro giudizio in-sostituibile, è probabile che il ricorso a strumenti tele-matici possa rappresentare uno strumento importante dipenetrazione. In questo senso sarebbe utile una paginaweb di alta visibilità che presenti in modo semplice ecoinvolgente una informazione essenziale e che possafacilitare il contatto tra studenti e operatori sanitarieventualmente tramite un forum dedicato. Per questo

sarebbe importante la collaborazione di esperti delletecniche di comunicazione per elaborare un progettoidoneo. Anche una linea telefonica che permetta unoscambio di SMS tra studenti e operatori sanitari, even-tualmente con un filtro operato da studenti-collaborato-ri, potrebbe facilitare il superamento di diffidenze e sti-molare i giovani a proporre i loro dubbi e i loro timori. Sono certo che l’impegno dimostrato da Rettore e or-gani accademici continuerà anche per il futuro, per-mettendoci di affrontare questi impegni nel miglioredei modi.

Durante questo anno accade-mico 2008/2009 l’UniversitàRoma Tre e l’Unità operativaAIDS della ASL RM C hannoproseguito l’attività di preven-zione a favore degli studentiuniversitari organizzando nu-merose conferenze in aula per iragazzi dei primi anni di corso,grazie alla disponibilità e col-laborazione delle presidenze diFacoltà e dei singoli docenti.Sono stati inoltre realizzaticheck-point sulla prevenzionepresso le sedi universitarie, dovesono stati distribuiti depliantpreventivi-informativi e un que-stionario di autovalutazione sul-le conoscenze possedute dagli studenti in materia di infe-zione da HIV. I check-point sono stati anche la sede in cuigli studenti hanno potuto incontrare un medico, uno psico-logo e un assistente sociale della ASL, per approfondireconoscenze, chiarire dubbi, ottenere informazioni sullafruibilità del servizio sanitario.Durante queste attività sono emersi preziosi spunti di ri-flessione per gli operatori sanitari e per la struttura uni-versitaria: la reazione degli studenti all’iniziativa è statacaratterizzata da un certo consenso, ma era percepibile,almeno nella fase iniziale, un’atmosfera di “distacco an-noiato” e di disinteresse. In molti casi è stata altrettantopercepibile una reazione di “superstiziosa” incredulità:«ma l’AIDS esiste ancora?», «ma esiste a Roma, nel La-zio?», «a me non capiterà mai». La presenza e collabo-razione dei docenti nel sottolineare l’importanza dell’i-niziativa è stata, in molte situazioni, determinante persuperare il muro della diffidenza e del bisogno di allon-tanamento dal problema. Sentita la comunicazionescientifica in aula e approfonditi i riflessi pratici sullasessualità “normale” infatti si è creato un clima di rico-

noscimento dell’importanzadella campagna di prevenzionee del valore della scelta da par-te dell’università. Altro elemento di riflessione èscaturito dal fatto che sono sta-ti evidenziati comportamentiludici e sessuali correlati all’u-so di alcool e di altre sostanzenon riconosciute culturalmentedagli studenti come sostanzestupefacenti: ovviamente taliinformazioni, rivelate in ma-niera più o meno chiara, susci-tano l’obbligo da parte delleistituzioni sanitaria e universi-taria di aiutare i ragazzi ad ac-quisire consapevolezza circa il

potenziamento dei fattori di rischio cui vanno incontro,ma anche offrire accoglienza e aiuto a quanti ne eviden-ziassero la necessità. In tutte le situazioni, aldilà delle difficoltà iniziali, il rap-porto tra studenti e operatori sanitari si è concluso con unclima di consenso e di fiducia reciproca, basi fondamen-tali per realizzare la prevenzione. Altro elemento di parti-colare utilità si è rivelato il questionario informativo-pre-ventivo corredato da una griglia di autovalutazione: tuttigli studenti che hanno ricevuto questo questionario, unita-mente al depliant sulla prevenzione, sono stati in grado divalutare autonomamente le proprie conoscenze e di rivol-gere agli operatori sanitari presenti le proprie domande diapprofondimento in maniera specifica. Questo questiona-rio, così concepito, ha consentito anche agli studenti, chenon erano nella possibilità di fermarsi a fare domande, dipoter trovare autonomamente dei chiarimenti. Quanto emerso dall’esperienza di quest’anno dovrà ne-cessariamente essere oggetto di riflessione nell’impiegocostante da parte della ASL e dell’università per esserevicine al meglio alle giovani generazioni.

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Campagna di prevenzione AIDS:per una sessualità consapevole e serenadi Mauro Benvenuti e Rosella Di Bacco

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Il suo libro ha come sfondo la corrente artistica del Fu-turismo, sviluppatosi nei primi anni del Novecento.Movimento notoriamente antifemminista, sembra inve-ce aver attratto al suo interno molte artiste donne incerca di una nuova identità, dichiarando guerra ai piùdiffusi stereotipi femminili. Non costituirono mai ungruppo, ma condividevano la lotta in difesa della pro-pria autonomia. Nel libro ne cita alcune: Valentine deSaint Point, Rosa Rosà, Fulvia Giuliani, Enif Robert,Benedetta Cappa (moglie di Marinetti) e ovviamenteBarbara, della quale si parlerà quasi esclusivamentenegli ultimi quattro capitoli. Chi erano queste donne ecome affrontarono le loro battaglie?L’interesse per questo movimento così composito e anchecontroverso nasce proprio dalla sua interna ambivalenza:da un lato il “disprezzo della donna” e altre dichiarazioniantifemministe sostenute nel decimo punto del Manifestofuturista redatto da Marinetti, dall’altro la presenza di tan-te donne, attive ed operanti nel Futurismo, donne che siespressero in diverse forme di arte (pittura, danza, scrittu-ra, saggistica, narrativa etc.) Chi erano queste donne?Donne dotate di un surplus di intraprendenza che scelgonodi partecipare a un movimento così provocatorio, comesottolineano le studiose del Futurismo. L’adesione a talemovimento rappresentò per molte artiste una sfida e un at-to convinto di distruzione e smantellamento; sfida allo spi-rito di abnegazione e sacrificio teorizzato fino adallora per le donne; demolizione di stereotipi femminili, innome di una esaltazione, di una esuberanza, talvolta – di-rei – anche di una allegria, che rendeva compenetranti sfe-ra estetica e vita.

Secondo la studiosa Anna Nozzoli la produzione fem-minile appartiene quasi interamente alla fase del tardoFuturismo, affermazione che non la trova totalmented’accordo. Perchè? Perché anche nel primo Futurismo, cioè intorno agli anni1910-1915, troviamo significative prese di posizione fem-minili, una per tutte Valentine de Saint Point, che scrivenel 1912 il Manifesto della donna futurista e nel 1913 ilManifesto futurista della Lussuria, in cui si ritrovano lecaratteristiche sopra delineate e cioè vistosi atteggiamentieversivi della morale, in nome di un’estetica “rivoluziona-ria”, che metteva in discussione la morale tradizionale e iruoli consolidati. Quindi emerge un primo futurismo “atti-vistico, polemologico e antagonistico”, diretta espressione

di Marinetti, nel quale Valentine de Saint Point definisce ilfemminismo «errore politico... errore cerebrale della don-na» (e penso che in quegli stessi anni del Novecento si an-davano affermando le prime forme di femminismo, inizia-va il lungo cammino emancipazionista delle donne e perl’Italia è significativa la presenza di Anna Maria Mozzoni,Anna Kulilscioff e altre). Ancora nel suo Manifesto Valen-tine de Saint Point oltre a far emergere il disprezzo perl’umanità mediocre, radicalizza la distinzione sesso/senti-mento ed esalta dapprima figure muliebri come le Erinni e

inco

ntri

28 Quando il Futurismo è donnaIntervista a Francesca Brezzi sulla figura della pittrice Barbara,protagonista del suo ultimo libro

a cura di Maria Vittoria Marraffa

“Il primo futurismo è portatore diun’estetica rivoluzionaria, che mette indiscussione la morale tradizionale e i

ruoli consolidati”

Francesca Brezzi è ordinaria di Filosofia morale presso l’Università degli Stu-di Roma Tre.È stata direttore del Dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere dellamedesima Università dal 1998 al 2004. Dal maggio 2000 è delegata del Retto-re per le Pari opportunità - Studi di genere.Ha ideato e dirige dal 2000 la rivista filosofica on line del Dipartimento di fi-losofia: B@bel, voci e percorsi della differenza ([email protected]), cheesce con due numeri all’anno anche come volume e ha vinto nel 2007 il pre-mio filosofia di Siracusa.Tra le sue opere più recenti da ricordare: Antigone e la philia. Le passioni traetica e politica, Milano, Franco Angeli, 2005 (2a ed.); Intoduzione a Ricoeur,Bari, Laterza, 2006; Esuli figlie di Eva: filosofia della differenza e teologia,Verona, Il segno dei Gabrielli editori, 2007; Nelle radici e nelle vette, Milano,Vita e pensiero, 2008; Quando il futurismo è donna. Barbara dei colori, Mila-no, Mimesis, 2009.

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le Amazzoni e poi l’an-drogino. Contro l’istintomaterno, in nome di unanticonvenzionalismo edell’indipendenza dairuoli, nel Manifesto futu-rista della lussuria SaintPoint delinea un «disfre-namento dell’istinto,scialo dell’eros aggressi-vo», invocando una feri-nità maschile, valida perentrambi i sessi, anzi loscopo ultimo è colto pro-prio nella negazione del-la differenza sessuale, inparticolare si rifiuta lafunzione generatrice della femminilità. Tema quest’ultimo che il secondo Futurismo invece lasce-rà cadere in nome di un “Futurismo della specie”, in cui siesalterà il ruolo tradizionale della donna, discettando sulladonna stirpe, donna razza, ribadendo concezioni antropo-logiche positivistiche e, di più, regredendo ad una visionedella femminilità come funzione biologica. In questo am-bito fiorì una ricca produzione, molto spesso maschile, chesi intreccerà poi strettamente con le tesi del fascismo sullamaternità come dovere verso lo Stato, sul mito della ma-dre esemplare etc.Perché tra tutte le futuriste ha scelto di raccontare propriola vita e l’arte di Olga Biglieri Scurto, in arte Barbara?Le scelte di un tema o di un argomento di studio sono spes-so inspiegabili, posso solo dire che mi ha colpito il lungoviaggio della sua esistenza, viaggio che l’ha vista percorre-re tutto il Novecento, iniziando con l’adesione al Futuri-smo passando attraverso il femminismo e approdando infi-ne al movimento pacifista. In particolare poi sono stata in-teressata dalla sua empatica vicinanza con una filosofa,centrale per la riflessione femminista come Luce Irigaray.Sono note le passioni giovanili di Barbara per il volo eper la pittura: «Due glorie da sventolare» diceva. Co-me spiega il legame tra due attività così diverse chehanno influenzato la sua carriera di artista, facendolaentrare di diritto tra le esponenti di spicco del Futuri-smo italiano?Se il binomio pittura-volo fu un binomio centrale per mol-ti futuristi, Barbara vi giunse quasi inconsapevolmente,cioè prima dell’adesione al Futurismo. Dalla sua autobio-grafia sappiamo che iniziò presto «a pasticciare coi colo-ri», ma insieme, di nascosto, si iscrive e frequenta – primae unica donna – una scuola di volo a vela, dimostrando su-bito un carattere avventuroso e anticonformista e conse-guendo il brevetto di pilota appena diciottenne. Le due passioni si intrecciano nella giovane che comincia adipingere proprio le sue sensazioni di volo, un mondoquindi che appariva insolito, dai contrasti cromatici, dalleprospettive distorte, ruotanti, in cui emergono le linee forzadel movimento e della velocità, pittura che era già un “de-formare” e che solo dopo incontrerà il Futurismo. InfattiMarinetti vide per caso la sua prima aeropittura, Vomitodall’aereo (1938), e fu spinto a invitarla alla Biennale di

Venezia dello stesso an-no, dove la pittrice esposeun quadro di notevoli di-mensioni, L’aeroportoabbranca l’aeroplano,firmato: Barbara aviatricefuturista.Barbara è soprattuttouna donna immersa inun mondo nel quale nonsempre è facile vivere. Èmoglie, madre e poi gio-vane vedova, smette didipingere e comincia lacarriera di giornalista«indispensabile per so-stenere il quotidiano».

L’orrore della guerra e la ricerca dell’emancipazione:la vita di Barbara è stata sostanzialmente simile a quel-la di altre sue contemporanee immerse in un’epoca dipassaggio?Ritengo di sì. O meglio questa è stata la mia ipotesi di let-tura, in quanto la giovane ventenne Olga, dopo aver datovita pittorica alle emozioni provate e alle visione delleesperienze del volo, rivelando il suo particolare genere dipittura, si esalta e aderisce con entusiasmo al Futurismo,apprendendo regole, idee, ideologie, ma anche avvertendosubito con fastidio il maschilismo della scuola futurista.La guerra interrompe quel periodo esaltante e Barbara sichiede: «Chi aveva inventato quel caos della guerra? Chicomandava, chi aveva il potere? E come mai i futuristi,con a capo Marinetti, esaltavano quel disastro?»

Ma dopo gli eventi bellici niente è più come prima, il pe-santissimo carico di lutti, distruzioni, dolore e miseria ave-va fatto tabula rasa e segue un periodo di crisi e di cambia-menti, che Barbara avverte in sé e fuori di sé, da cui escetuttavia intraprendendo nuovi itinerari, quali l’adesione almovimento delle donne e il pacifismo.«La guerra aveva distrutto i miei sogni, il mio amore, lamia vita, sì, volevo lottare per la pace!». L’impegno po-litico negli anni Settanta con le donne della sinistra, lapartecipazione al femminismo fino all’adesione al movi-mento pacifista porteranno alla nascita di una delleopere più importanti di Barbara: L’Albero della Pace,esposto a Hiroshima. Un urlo di pace che partiva dalprofondo della sua anima ma che forse il mondo interocondivideva: tra i palmi delle mani che lo compongonotroviamo infatti anche quelli di molti personaggi noti…La realizzazione de L’Albero della Pace è il simbolo deglianni Ottanta e di tale impegno di Barbara: si tratta di un ro- 29

Vomito dall’aereo, 1938

“I contrasti cromatici, le prospettivedistorte e ruotanti, in cui emergono le

linee forza del movimento e dellavelocità: la pittura di Barbara era già

un “deformare” e solo dopo incontreràil Futurismo”

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tolo di carta da temperelungo dieci metri, ricco diimpronte di mani intintenel colore, dalla prima –della pacifista giapponesegiunta in visita in Italia,Machiyo Kurokawa – aipalmi di bambini, di don-ne, di persone note (RitaLevi Montalcini e CamillaRavera, Nilde Jotti e Enri-co Berlinguer e rappresen-tanti di altri partiti) e sco-nosciute, impreziosito datante frasi e firme, contri-buti che ne rappresentanoquasi le fronde, sul tema.Un grande mosaico di mani e parole per la pace. Un lungo edelicato albero con le radici non del tutto interrate. Un alberocome simbolo della vita che cresce nell’armonia dell’uomocon se stesso, con gli altri uomini, con la natura, «ma anchesimbolo di una pace che può crescere proprio grazie a questaarmonia». Una volta completato, nel 1986, quarantunesimoanniversario dello sganciamento delle bombe atomiche,l’Albero è donato da Barbara – durante un suo viaggio coin-volgente e carico di emotività – al Memorial Museum di Hi-roshima. Per esporlo in tutta la sua altezza in Giappone è sta-ta realizzata appositamente una sala con una parete di più di10 metri. Per quest’opera e per tutto il suo impegno creativoche si mette al servizio di una causa grande e giusta fu avan-zata la proposta di una sua candidatura al Nobel per la Pace,da parte di varie istituzioni, tra cui l’Università Roma Tre. Nei primi anni Ottanta comincia un’evoluzione nellapittura di Barbara. In concomitanza con la perdita del-la madre e con l’aspra polemica in atto in Italia sul te-ma dell’aborto, nascono le pitture placentarie: viaggionel segreto della maternità o ricerca del legame mater-no ormai indissolubilmente spezzato?Direi l’uno e l’altro percorso, che le pitture placentarie rive-lano significativamente. Esse esprimono la doppia radice –biologica e storica – della specificità del corpo femminile,non solo, ma manifestano anche come la produzione artisti-ca racchiuda l’immaginario, l’emozionale, il sentire perso-nale intrecciato con la ricerca concettuale, quale nuovo rap-

porto tra soggettività, ideae realtà. «Vedere con lafantasia per trovare il di-vino… Il corpo magicodella donna è indagatonell’interno, nella sua par-te più segreta e preziosa»,queste le parole di Barba-ra che mostrano quantocammino era stato percor-so dalle cupe e fanaticheelaborazioni futuriste sul-la maternità. L’ultimo capitolo del li-bro s’intitola: Unagrande danza noetica traBarbara e Luce, una

danza infinita, è l’effetto dell’incontro tra Barbara e itesti della filosofa Luce Irigaray. Cosa ha determinatola forte sintonia nonché la collaborazione tra le due ar-tiste? Si può parlare di arte che incontra la filosofia,per esempio nell’opera Contact placental avec Luce? Si tratta del nodo che mi ha spinto a studiare e ad appassio-narmi a questa pittrice: il suo inaspettato legame con unagrande filosofa come Irigaray: da un lato la produzione diBarbara, la pittura noetica, dall’altro la riflessione di Iri-gary che irrora dall’interno, stimola la pittura stessa. Inparticolare la sintonia fra le due nasce proprio nella caratte-rizzazione del soggetto femminile come un’identità costi-tuita non solo di logos ma di categorie “originarie”, le pas-sioni quali l’ammirazione, il desiderio, la carezza, che rap-presentano le tappe fondamentali di questo viaggio identi-tario. La pittura delle donne – e il termine noetico la riassu-me con voluta ermeticità – rivela che: «la via della donnaall’espressione creativa, all’arte non è una via tecnica, ra-zionalistica; non nasce da un pensiero astratto e ben orga-nizzato...; la donna ricompone mente e corpo, arte e vita,pensiero e azione; il suo è un procedere per conoscenza in-tuitiva, per noesi appunto», come afferma Barbara stessa,che in un’ultima sua realizzazione – opera interattiva a tec-nica mista, più scultura che pittura, cinque tubi di rodoide...espressione di pittura liquida, avvolgente, capace di intri-ganti trasparenze, attua un gioco simbolico: una grandedanza noetica tra Barbara e Luce, una danza infinita.

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Come spiegare l’adesione di tante donne a una corrente pittorica come il Futurismo, così miso-gino, aggressivo, talvolta volgare nei confronti della femminilità? In questo saggio si vuole de-finire dapprima lo sfondo teorico del Futurismo, cioè l’elaborazione concettuale sul “femmini-le” che si espresse in quegli anni e in quel movimento. Da un lato, l’adesione al Futurismo rap-presentò per molte artiste una sfida e un atto convinto di distruzione e smantellamento di con-solidati stereotipi femminili, dall’altro – questa è l’ipotesi – tali gesti eversivi e antipassatistinon furono elaborati dalle donne, ma ricevuti passivamente, e ciò determinerà le equivocità,spesso le posizioni conciliative ed appiattite all’ideologia maschilista. Nella seconda parte si affronta una figura particolare di donna e di artista, Barbara, nata co-me futurista e poi approdata a esiti molto diversi, come il movimento pacifista e il femmini-smo, in empatica vicinanza con i testi di Luce Irigaray.Prismatica esistenza quella di Barbara, in cui si intrecciano arte e vita. La sua identità di

donna è conquistata solo dopo aver percorso un labirinto, il labirinto di Barbara. (dalla quarta di copertina).

Francesca Brezzi, Quando il futurismo è donna. Barbara dei colori, Milano, Mimesis, 2009.

L’aeroporto abbranca l’aeroplano, 1938

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Esiste il rischio che le potenze occidentali, non potendofare a meno della Cina per superare la crisi economica,“chiudano un occhio” sulla questione dei diritti umani,anche attraverso una minore attenzione da parte deimezzi di informazione?È quanto sta già accadendo. La questione va inserita nelquadro globale dell’economia mondiale, sempre più con-trassegnato dall’egemonia bipolare di Stati Uniti e Cina.Tra i due poli intercorre una relazione ambivalente: dicompetizione e, al tempo stesso, di complicità (come sipuò del resto riscontrare anche in rapporto alle vicendedell’attuale crisi finanziaria). Non tenere conto di questaambivalenza equivale a non comprendere la natura delXXI secolo, che già alcuni definiscono “sino-americano”.Non esiste al mondo alcuna entità geoeconomica e geopo-litica in grado di rappresentare un’alternativa globale almodello americano quanto quella rappresentata dalla Cina.Non certo il mondo arabo-islamico, ad onta dell’apertaostilità che ha manifestato nei confronti dell’Occidente, ein particolare degli Stati Uniti (ma penso che le cose do-vrebbero cambiare con l’avvento di Barack Obama allaCasa Bianca). A questo proposito, sono sempre stato indissenso con la diagnosi-prognosi avanzata da Huntingtonne Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale: perla quale il XXI secolo sarebbe stato contrassegnato dalconfitto aperto tra il mondo occidentale e il mondo islami-co. Il mondo islamico – che, detto per inciso, non è affatto“Oriente” ma al contrario una variante, o se si vuole un’e-resia, dei monoteismi occidentali (con i quali condivide intutto e per tutto la propensione attivistica) – è destinato aun graduale assorbimento nella modernità; proprio perquesto le sue frange ‘fondamentaliste’ sono tanto più mi-nacciose e violente nei confronti dell’Occidente quantopiù incapaci di produrre una vera alternativa globale. LaCina, al confronto, si configura come un’alternativa menoviolenta, meno patentemente conflittuale, ma molto più in-sidiosa: il che si può spiegare soltanto uscendo dall’ondacorta o media, per dar mano a un’analisi di lungo periodo,attrezzata “comparativisticamente”. Il senso nazionale della popolazione cinese è davveropiù forte che in altri paesi o quest’argomento oggi ser-

ve da giustificazione in caso di mancato rispetto dei di-ritti umani?La Cina possiede una serie di codici etici di comportamen-to che la rendono fortemente coesa dal punto di vista cul-turale. I cinesi si sentono appartenenti ad una grande co-munità nazionale che ha attraversato millenni di storia edè quindi molto più antica della civiltà europea: anche dellanostra civiltà italica – della pur antiquissima italorum sa-pientia – e della stessa civiltà greca. Ed è proprio l’identitàprofonda di un Dna culturale dalle origini plurimillenariea far sì che il capitalismo venga declinato nel codice e nellessico culturale cinese.

Mantenendoci in questa prospettiva, dobbiamo tenere contodi cosa rappresentino gli individui nella visione cinese. Essicontano, certo. Ma contano come membri di una comunitàimprontata al modello e ai codici di lealtà di stampo famili-stico. La cosa non dovrebbe sorprendere più di tanto noi ita-liani. Noi conosciamo molto bene l’etica di tipo familisticoche in Oriente, e in particolare in Cina, fa sì che lo stessoStato venga concepito come una famiglia allargata e i capidi stato siano considerati padri, saggi, detentori di un poteredi tipo paternalistico. A livello economico avviene lo stesso:l’impresa è la famiglia allargata, i manager sono i padri e lacompetizione vale da impresa ad impresa, non tra individuiall’interno di uno stesso gruppo. Coloro che risulterannopiù meritevoli avranno maggiori gratificazioni e riconosci-menti, ma pur sempre restando entro gli orizzonti di un’eti-ca del corpo, della comunità, fondamentalmente anti-indivi-dualistica. L’obiettivo che si persegue, il goal, non è quellodel profitto individuale, ma quello dell’utile collettivo, delbeneficio della famiglia allargata: che sia la bottega, l’im-presa, la regione, oppure lo Stato, la Cina in quanto tale. Quando in Cina una famiglia si riunisce, essa è compostada un centinaio, magari duecento persone – cosa, ripeto, 31

“In vari paesi asiatici esiste la tendenza auna reazione polemica a quel che viene

chiamato l’imperialismo dei diritti umani,cioè l’imposizione del criterio occidentale”

Giacomo Marramao è professore ordinario di Filosofia teoretica e di Filosofia po-litica all’Università Roma Tre. È inoltre direttore scientifico della FondazioneBasso, membro del Collège International de Philosophie e professor honoris cau-sa dell’Università di Bucarest. È stato visiting professor in diverse università europee, americane e asiatiche.Tra le sue opere, tradotte in numerose lingue: Potere e secolarizzazione (1983,nuova ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2005); Passaggio a Occidente (2003, nuovaed., Bollati Boringhieri, Torino 2009); La passione del presente (Bollati Borin-ghieri, Torino 2008).

I diritti umani nel secolo sino-americanoIntervista al filosofo Giacomo Marramao

di Michela Monferrini

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tutt’altro che strana per noi italiani: basti ricordare le fami-glie meridionali di qualche decennio fa – ed è l’intera co-munità familiare a decidere, in base alle inclinazioni e aitalenti dei giovani rampolli, a chi tocchi metter su bottegao proseguire l’attività commerciale, chi debba essereiscritto alla Harvard University, chi ha il bernoccolo degliaffari e possa essere mandato in giro per il mondo ad im-piantare nuove imprese. Non è l’individuo a decidere.Questo spirito di corpo serve anche a capire lo straordina-rio impasto che si è venuto a creare tra un’etica anti-indi-vidualistica, comunitaria, collettiva, gerarchica, legata al-l’autorità, e un’estrema produttività dell’economia. È unmix incredibile, miracoloso, che ha smentito tutte le previ-sioni fatte sia dai marxisti, sia dai liberali. Basti pensarealla prognosi del massimo esponente della sociologia delsecolo scorso, Max Weber, con la sua sottovalutazione delpotenziale dinamico dell’economia e della società cinese.Per Weber l’etica confuciana, con la sua propensione adat-tiva e ossequiosa nei confronti dell’autorità, si collocavaagli antipodi del modello etico-religioso propizio alla ge-nesi del capitalismo: il modello individualistico-attivisticodel protestantesimo ascetico. Il tipo ideale dell’imprendi-tore capitalistico coincideva dunque per Weber con la fi-gura di un asceta laico di stampo puritano che, rifuggendoda qualunque tentazione edonistica, fonda la sua attivitàsull’imperativo dell’autodisciplina, del sacrificio, della ri-nuncia al proprio piacere personale, ai fini esclusivi delprofitto e dell’accrescimento dell’impresa. Anche ammes-so e non concesso che fosse vera, la diagnosi weberianadovrebbe oggi fare i conti con una paradossale eterogenesidei fini, che ci fa assistere a una sorta di inversione deiruoli tra Oriente e Occidente: mentre in Occidente l’ascetapuritano sembra aver lasciato il posto all’edonismo piùsfrenato dei cittadini-consumatori (con la conseguenteerosione, segnalata anche da alcuni economisti, delle basimorali e motivazionali che erano alla base della civilisa-tion capitalistica), in Cina questa contraddizione non sus-siste proprio per quel circolo virtuoso tra etica paternalisti-ca e capacità di svilupparsi in base a coefficienti di produt-

tività elevatissimi, per noi impensabili, che sta per trasfor-marla nella prima economia del pianeta. Si tratta allora innanzitutto di capire quale cultura dei di-ritti viga in Cina, tenendo presente che i diritti umani pos-sono avere diverse declinazioni culturali. Secondo i cinesi,l’individuo è tale se posto all’interno di un contesto, diuna cornice comunitaria: i diritti del collettivo vengonoprima di quelli individuali. Questo è il principio di fondodella Dichiarazione di Bangkok, votata non soltanto dallaCina, ma anche da Corea, Singapore, Taiwan, e molti altripaesi del Sud-est asiatico.

Un paio di anni fa è accaduto un episodio esemplare in talsenso, riportato in Italia soltanto dal Corriere della Sera (ariprova dell’iperselettività, o più semplicemente inadegua-tezza, con cui i nostri giornali ci informano sul quadranteinternazionale). È un episodio che non riguarda la Cina,ma il Giappone – il paese più occidentalizzato dell’Asia,definito da molti come l’“estremo Occidente” – dove negliultimi anni si è registrata una riscoperta delle tradizioni. Ildirettore di una scuola ha comminato una severa sanzionea un’insegnante che si era rifiutata di cantare l’inno nazio-nale assieme al coro di studenti e docenti. Per ricorrerecontro il provvedimento, la donna si è rivolta alla CorteSuprema, l’equivalente della Corte Costituzionale, chie-dendo che venissero salvaguardati i suoi diritti. La senten-za ha dato ragione al direttore con il seguente argomento:per motivare il proprio diritto alla disobbedienza, l’inse-gnante si era appellata a criteri culturali occidentali, non

giapponesi. Anche in Giap-pone i diritti patriottici, dellacomunità, vengono prima diquelli individuali e questo èil segnale che in vari paesiasiatici esiste la tendenza auna reazione polemica aquel che viene chiamatol’“imperialismo dei dirittiumani”, cioè l’imposizionedel criterio occidentale. Ioritengo che se vogliamo af-fermare un allargamento delrispetto dei diritti umani inCina, dobbiamo cercare difarlo lievitare dall’interno,non di proporlo come lacampagna dell’Occidentecontro la Cina, perché que-sto scatenerebbe una reazio-ne nazionalista, un compat-

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“Non è l’individuo a decidere. Vigeun’etica del corpo, della comunità, anti-individualistica: l’obiettivo non è quello

dell’utile individuale, ma quello dellafamiglia allargata, che sia la bottega,

l’impresa, la regione, oppure lo Stato, laCina in quanto tale”

Xian, vista dal muro di cinta, foto di Indra Galbo

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tamento, anche ricordando che i cinesi si ritengono la pri-ma nazione del mondo dal punto di vista della civiltà, han-no un enorme superiority complex, oltre che una grandeadattabilità. E il loro modo di adattarsi, per esempio nelladiaspora, somiglia, se guardiamo ad alcuni decenni fa, aquello degli italiani: essi restano all’interno della comunità(a New York esistono, non a caso, Chinatown e LittleItaly). I cinesi mantengono una sorta di sovranità, di auto-referenza, anche quando si trovano in realtà come quellaitaliana. Pensiamo ai cinesi che si sono stabiliti a Prato:hanno un loro quartiere, fanno sparire i morti, non si ri-esce a capire quale sia la loro entità in termini numerici. Però è difficile immaginare che gli italiani possanocreare una Little Italy in Cina, o no?È difficile che ciò avvenga perché i cinesi hanno una pro-pensione assorbente, un enorme potere di seduzione, sonoaccoglienti e conviviali. Io conosco poco la Cina, ho insegnato ad Hong Kong e hofatto un giro nei territori popolari là attorno, però posso di-re che se diverrà sede di grandi investimenti, di crescita direlazioni economiche internazionali, inevitabilmente sicreeranno delle comunità straniere.Durante il mio soggiorno, ho sperimentato la loro volontà diassimilarmi, ma anche un’estrema amabilità e simpatia, unastraordinaria intelligenza e capacità di capire le situazioni,oltre che la straordinaria sensibilità delle donne anche gio-vanissime, al tempo stesso gentili e dotate di forte persona-lità. Grazie a queste attitudini, hanno la possibilità di confi-gurare una globalizzazione alternativa: per le strutture rela-zionali collaudate, laddove il fondamentalismo islamico puòimporre le sue relazioni solo in stato d’eccezione perché inuna situazione di normalità non funzionerebbero. Il tenere insieme produttività e convivialità, fa della Cinaun attrattore notevole.Ritiene attuabile già nella Cina di oggi il “Piano d’azio-ne per i diritti umani” che è stato recentemente varato?A me non piace questa denominazione: “Piano d’azioneper i diritti umani”... Il cittadino cinese non ha i caratteriindividualistici che ha il cittadino americano (che è co-munque diverso da quello europeo: per l’americano, adesempio, il numero delle citazioni è un indicatore di valo-re, mentre noi iniziamo soltanto adesso a entrare nell’otti-ca, peraltro sbagliata, di quel che io chiamo il “reame del-la quantità”) e noi dobbiamo fare in modo che emerga ilprincipio che i diritti fondamentali sono i diritti a tuteladel singolo: una comunità deve rispettare il dissenso inter-no, fondamentale perché in democrazia conta più del con-senso. Ma questa eredità che abbiamo faticosamente rag-giunto, dobbiamo farla germogliare e crescere lungo i bi-nari culturali del paese in questione, altrimenti i cinesi po-trebbero ricordarci i vari Hitler, Mussolini, o il periodo incui, mentre in Europa venivano bruciati gli eretici, in Cinagovernavano imperatori saggi e tolleranti. A questo propo-sito, mi trovo d’accordo con un comparativista delle reli-gioni, Pier Cesare Bori, docente all’Università di Bologna,che ha sottolineato la necessità di tenere conto dei diversipercorsi culturali. Come dice Amleto ad Orazio, vi sonopiù vie alla libertà e alla democrazia di quante la nostrapovera filosofia ci abbia finora dato a intendere. Non c’èun’unica strada.

Durante le riunioni preparatorie della Dichiarazione deidiritti umani del 1948, il delegato cinese obiettò spiegandoil termine ren: ren è diverso da “umano”, significa tantecose, indica le relazioni, il nesso tra individuo e comunità.Il delegato, in altre parole, poneva il problema del radica-mento culturale dell’etica. Ciò non significa che io vogliaabbracciare una posizione relativistica: il relativismo è unostrumento di conoscenza e anche se alcuni filosofi pensa-no di farlo passare come un quadro normativo, da Montai-gne fino all’etnologia del XX secolo, il relativismo è statoun modo per conoscere i diversi contesti di civiltà iuxtapropria principia, secondo i propri principi, entrando den-tro le diverse logiche. Non che questo giustifichi un inter-detto a giudicare: le civiltà si giudicano, e una cultura nonè mai talmente omogenea da non avere linee di conflittoetico al suo interno. Ogni cultura produce tanti valori, percui anche in Cina avremo sostenitori dei diritti dell’indivi-duo, ma dovremo sapere che quei sostenitori intenderannol’individuo in modo diverso da noi europei, dagli america-ni, dagli occidentali. In altre parole, l’universalismo va af-fermato all’interno di una prospettiva di traduzione.

“Umano” è un concetto in progress, in divenire, ma anchecontroverso: terreno di plurimillenarie contese, guerre,confronti teologici, metafisici ed etici – ancor prima chepolitico-ideologici. Per questo nei miei lavori degli ultimianni ho tentato di avviare un programma filosofico e poli-tico-culturale improntato a quello che io chiamo universa-lismo della differenza, in contrapposizione all’universali-smo dell’identità che ha fino ad oggi segnato la vicendadella politica e del diritto occidentale: l’universale nonpuò essere concepito in modo omogeneo, omologante. Lasola universalità è la pluralità delle vie. Un grande pensa-tore religioso come Raimon Panikkar, che intreccia nellasua persona le due culture indiana e occidentale-europea(anzi spagnola o, per essere ancora più precisi, catalana),insegna che la casa dell’universale, la casa dei diritti uma-ni, non è già costruita: non è già edificata da noi occiden-tali, che accogliamo benevolmente dentro la “nostra” casa“gli altri”, assimilandoli alla nostra “superiore” civiltà deldiritto. La casa dell’universale va edificata multi lateral-mente: per la decisiva ragione che le altre culture possie-dono valori non meno universali e nobili dei nostri (peresempio in materia di libertà e dignità della persona, comela cultura indiana e la stessa cultura cinese ci dimostrano). Bisogna, dunque, muoversi nella prospettiva di un univer-salismo della differenza, non dell’identità. Soltanto alloraanche il concetto di diritti umani uscirà dalla sua gabbiaetnocentrica o suprematistica, per essere riformulato te-nendo conto della pluralità delle vie. 33

“I cinesi hanno una propensioneassorbente, un enorme potere di

seduzione, sono accoglienti e conviviali:è per questo modo di fare, per le

strutture relazionali collaudate, chehanno la possibilità di configurare una

globalizzazione alternativa”

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Attraversando in macchina lo sconfinato territorio argenti-no, non è insolito imbattersi in un piquete. È quello che èsuccesso a me, mentre mi inoltravo nelle pampas sudame-ricane per passarvi una settimana. Un piquete è una forma di protesta molto diffusa in Argen-tina: uno sciopero o meglio una manifestazione, diffusa inorigine soprattutto fra i movimenti dei disoccupati o co-munque negli ambienti delle fabbriche, ma divenuta coltempo una modalità di protesta comune. Coloro che viprendono parte (i piqueteros), si appostano presso i luoghidelle istituzioni o bloccano le strade in prossimità di incro-ci nevralgici. Mi sono trovata, per banali circostanze, apartecipare a una di queste proteste. La notte era umida epuzzava di gomma bruciata: infatti per delimitare il luogodel piquete vi erano due cumuli di pneumatici che ardeva-no innalzando fumo. La protesta in questione era di pro-duttori agricoli, era uno di quelli che qualcuno ha chiama-to los piquetes de la abundancia. A rendere particolare laserata tuttavia è stato, alla fine, solamente un asado (la ca-ratteristica brace argentina), perché di camion bloccatineanche l’ombra. Mi spiegano che non tutti i camion van-no fermati, ma solo quelli carichi, diretti ai porti o ai muli-ni, al fine di evitare o ritardare le vendite dei prodotti agri-coli. Il disagio che si vuol creare in questo modo è per

protestare contro quelle misure governative che hannoprovocato un aumento consistente delle tasse sui prodottiagricoli.

Di recente anche un articolista italiano ha etichettato que-sti piquetes come “manifestazioni dei ricchi”. Ma le testi-monianze che raccolgo durante il mio viaggio e che ac-compagneranno tutta la mia permanenza nella terra argen-tina, sembrano smentire questo mito: non sono solo i gran-di proprietari terrieri o i presidenti delle multinazionali adessere colpiti dall’aumento delle tasse nel settore agricolo;al contrario, mi dicono che questo tipo di tassazione si ri-flette soprattutto sul resto della popolazione. L’Argentinainfatti è una nazione agricola, quindi le problematiche ine-renti al “campo” si riverberano su tutto il paese. Quellanotte, mentre intorno ad un fuoco mangiavamo carne e be-vevamo mate (la preparazione del mate è un vero e proprio

repo

rtag

e

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Latifondisti in scioperoA otto anni dalla crisi in Argentina sono ricomparsi i piqueteros e i cacerolazos,ma questa volta a protestare non sono i disoccupati ma i proprietari terrieri

di Fulvia Vitale

Rogo di pneumatici al piquete dei produttori agricoli

“La notte era umida e puzzava digomma bruciata: per delimitare il luogo

del piquete vi erano due cumulidi pneumatici che ardevano

innalzando fumo”

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rito: il cebador lo fa girare fra tutti i presenti ed è moltoforte la sensazione di convivialità che si prova scambian-dosi da bere dalla stessa cannuccia con degli sconosciuti,in un rituale che può durare anche per ore) quella notte,dicevo, bevendo mate e mangiando asado, ho colto l’occa-sione per approfondire la questione. Noto con stupore che qui tutti parlano di economia, tuttichiacchierano, commentano, si confrontano, si inalberanoed esprimono focosamente le proprie opinioni. Non esisteuna terzietà indifferente. Qui, forse in maniera più tangibi-le che altrove, si riesce a toccare con mano come le sceltepolitico-economiche dei governi incidano sui cittadini ecome un differente orientamento economico possa cam-biare la vita a milioni di persone.

L’Argentina è stata protagonista nel 2001 di una crisi eco-nomica devastante che ha anticipato, se così si può dire, lacrisi economica che ora sta vivendo quasi l’intero pianeta.Si sa che la storia banalmente si ripete, che magari si ca-muffa con nuove maschere, ma le dinamiche sono semprele stesse, per questo è importante avere sempre un approc-cio critico alla realtà. Quello che è accaduto in Argentina è stato il risultato dipolitiche economiche e monetarie sbagliate, che vannodall’iperinflazione di Raul Alfonsín, alle privatizzazioniselvagge e le follie finanziarie di Carlos Menem, che conun decennio di parità cambiaria fissa fra peso (la monetanazionale) e dollaro ha condannato il paese all’esplosionedel debito estero, un debito che lo Stato non è più riuscitoa pagare. Quando l’ancoraggio del peso al dollaro venneabbandonato perché divenuto controproducente, la monetaargentina ritornò immediatamente ai suoi valori reali, pro-ducendo un grosso deprezzamento della valuta e, in pochigiorni, si venne a creare un altissimo picco di inflazione.Le conseguenze di questa crisi furono disastrose: vi fu unallarmante crescita della disoccupazione e di nuovi poveri,che si rifletté su un esponenziale aumento di microcrimi-nalità e instabilità sociale. In Italia forse ricordiamo le im-magini che rimbalzarono dai telegiornali: le code aglisportelli delle banche per ritirare i risparmi di una vitaprosciugati dal crollo della moneta; gli assalti ai supermer-cati da parte di intere famiglie; i cacerolazos, le proteste asuon di pentole e coperchi per le strade di Buenos Aires.Allora ci si chiese come potesse essere arrivato a tanto unPaese così ricco di potenziale: l’ex granaio del mondopossiede un’enorme quantità di risorse naturali e agricole,è uno dei maggiori produttori di materie prime quali ilgrano, la soia, la carne e il petrolio e il quinto esportatoredi generi alimentari al mondo e gode di buoni rapporti elegami con il mondo occidentale maggiormente industria-lizzato. Ad essere chiamati in causa furono l’inadeguatezza dellaclasse dirigente a tutti i livelli, la corruzione e l’atteggia-

mento predatorio verso la propria terra e i propri conna-zionali, l’incapacità di gestire al meglio l’invidiabile dota-zione di risorse che possiede, i paradigmi economici e iprocessi democratici.

Durante il mio viaggio ho avuto le conferme di quello chesi sente dire: se è vero che dal 2001 ad oggi c’è stata unaripresa, è altrettanto vero che il malcontento dilagante nelpaese è causato dal fatto che, questa ripresa, è stata infini-tamente inferiore di quella che avrebbe potuto essere se sifosse sfruttato diversamente il potenziale economico del-l’Argentina. Si dice che dopo aver toccato il fondo non cipossa essere niente di peggio: è che gli argentini, dopoaver toccato il fondo, si auguravano un qualcosa di più.Quello che salta agli occhi girando per Buenos Aires e lesconfinate campagne sono le tante contraddizioni evidenti.La capitale è profondamente segnata dal convivere di ric-chezza e povertà estrema. La miseria si impone arrogante,si mostra con dispetto e non si nasconde mai. Baires (cosìè chiamata dai suoi abitanti) accoglie alti e luccicanti grat-tacieli, ma ai loro piedi si insinuano le cosiddette villas ovillas miserias. Le villas sono le bidonvilles argentine, si-milissime alle loro sorelle brasiliane, le favelas, anche se,a differenza di queste ultime, non sono costruite solo conlamiere. I governi nel tempo hanno fornito ai loro abitanticemento e mattoni, ma le villas sono comunque prive dielettricità e acqua corrente; se ne contano a decine in cittàe dintorni, e vanno sempre ingrandendosi: è la povertà cheavanza verso il centro, dove c’è il lavoro e dove c’è il de-naro. Questa povertà è lo specchio di scelte politico-eco-nomiche sbagliate? Non è un paradosso che il quinto

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Una veduta di Buenos Aires: le villas a ridosso della città

“L’olandese insisteva con fervore sulfatto che la crescita di cui i media vannoparlando, è stata in realtà una crescita

apparente”

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esportatore al mondo digeneri alimentari non ri-esca a sfamare la propriapopolazione? Se all’ese-cutivo si fossero susse-guiti governi meno egoi-sti, ora gli argentini sa-rebbero meno divisi e laqualità della vita superio-re?Queste domande affolla-no senza sosta la miamente, la mia curiositàper la situazione di que-sta gente cresce di giornoin giorno, e ritorno con lamemoria alla notte delpiquete, dove ho avutol’occasione di conoscere da molto vicino le idee di unaprecisa categoria di popolazione attualmente a disagio conle scelte dello stato in cui vive.L’olandese (così era chiamato un piquetero anomalo nel-l’aspetto, in quanto biondissimo e con gli occhi chiari, acausa delle sue origini nord europee) insisteva con fervoresul fatto che la crescita di cui i media vanno parlando, èstata in realtà una crescita “apparente”, perché è coincisacon un momento in cui tutti i fattori economici decisiviper l’Argentina toccavano un massimo storico. Il contestointernazionale era così favorevole che una ripresa erascontata, ma non si è sfruttata in modo corretto l’onda po-sitiva. Un’occasione perduta.L’olandese è un proprietario terriero, è un attivista convin-to e sono svariate ormai le notti che non passa a casa sua.

È insieme agli altri, tracui noi, guardati con cu-riosità e allegria, ad unincrocio perfetto, tra duestrade perfettamente drit-te, con una corsia percarreggiata, strade senzalampioni, di cui non si ri-esce nemmeno ad imma-ginare da dove sia partitoe dove finirà l’asfalto,tanto sono lunghe. Le di-stanze in Argentina supe-rano la nostra immagina-zione. Non si può rima-nere che senza parolequando il primo cartellostradale che incontri do-

po ore, segna che la città più vicina è a 700 km.Immersa in questa situazione surreale ascolto l’olandese.Si lamenta (il lamentarsi è una cosa che riesce bene agli ar-gentini, forse per i retaggi storici, per gli abusi di cui sonostati vittime, per le dignità calpestate e per i figli scompar-si), lamenta il fatto che il loro governo sta agendo e hasempre agito per meri interessi elettorali, che non guarda allungo termine. Dal 2001 a oggi i prezzi dei prodotti agrico-li, quelli di cui si occupano i piqueteros, si sono alzati a li-vello internazionale. Questa sarebbe stata un’ottima occa-sione per ampliare le esportazioni. Il governo ha invece al-zato le tasse sui prodotti agricoli, in particolar modo sulgrano, e limitato così le esportazioni, con la ratio di tenerebassi i prezzi interni del pane, prodotto di prima necessità.È stata una scelta populista? Per guadagnare i voti dellaparte povera, che rappresenta una larga fetta dell’elettora-to? E quali sono i risultati? Non ho queste risposte, ma soche l’olandese l’anno dopo queste misure governative hadimezzato la sua produzione di grano e l’anno dopo ancorane ha prodotto sempre meno: dice che non gli conviene: ese per paradosso l’Argentina, anticamente soprannominata“granaio del mondo”, dovesse finire con l’importare granoper soddisfare la propria domanda interna?Vivendo l’Argentina dall’interno, ciò che si percepisce èl’assenza dello Stato, unico garante dei diritti civili deipropri cittadini. In un Paese dove l’orgoglio nazionale èfortissimo e dove la gente crede profondamente nelle pro-prie tradizioni, questa mancanza si avverte ancora di più.Ci sono molte colpe, in troppi hanno pensato di poter gio-care con i conti, con la credibilità e con la fiducia che lagente riponeva nello Stato, per poi andarsene quando lecose si mettevano male. Ma gli argentini sono un popolo caparbio, la storia degliultimi anni non è stata clemente con loro, ma, nonostantequesto, camminando per le vie di Buenos Aires, la vitalitàsi respira ad ogni angolo: dai ballerini di tango che si esi-biscono passionali notte e giorno, agli odori penetranti diempanadas, ai musicisti di strada, ai mercanti d’arte e allagioventù socievole. Le persone che ho conosciuto sono co-scienti e consapevoli, e queste sono per me le basi giusteper cercare di riconquistare il proprio senso dello Stato edi abbattere le troppe disuguaglianze sociali. 37

Ballerini di Tango si esibiscono in strada a Buenos Aires

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Il fenomeno delle “imprese recuperate” è una delle tanteazioni di risposta sociale al più grande default politico-economico della storia argentina nel 2001. Le imprese recuperate non sono altro che fabbriche cheprima della crisi funzionavano secondo un modello di im-presa capitalista tradizionale. Chiuse a causa del fallimen-to o insostenibilità economica, nonché per effetto dell’ab-bandono o “svuotamento” (ovvero la distrazione fraudo-lenta di capitali, beni e risorse dell’impresa) da parte deiproprietari, queste fabbriche sono state rimesse in produ-zione dai lavoratori, ma con uno schema produttivo diffe-rente. Questo modo di produzione alternativo deve convi-vere necessariamente con la logica dell’economia di mer-cato, ma ridefinisce il modo in cui si realizza la produzio-ne con altri valori e altre dialettiche. Gli operai, che primaerano solo mano d’opera sfruttata dalla massimizzazionedel profitto del capitale, diventano oggi attori protagonistidel proprio destino. Non solo continuano a produrre conaltre pratiche di produzione, ma riformulano anche i rap-porti sociali tra lavoratori all’interno della fabbrica e tra la

fabbrica e il mondo esterno. Nasce così un altro tipo di le-game sociale.Secondo i dati del Programa nacional de promoción y asi-stencia al trabajo autogestionado y la microempresa delMinistero del Lavoro e della sicurezza sociale argentino

nel 2008 le imprese recuperate erano 219 e occupavanocirca 10.000 lavoratori. Le fabbriche e imprese recuperate si trovano su tutto il ter-ritorio argentino, nonostante l’85% delle unità produttive

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Il 5 gennaio scorso la proprietaria della storica fabbrica dolciaria bonaeresnse Arrufat, Diana Arrufat, per mancanza di capitale, annuncia lachiusura degli stabilimenti. I 50 operai rimasti decidono di occupare l’impresa e gestirla autonomamente. La situazione non è semplice,mancano i soldi per le materie prime e per pagare l’energia elettrica e il gas. La produzione pasquale viene eseguita interamente senza l’aiutodi macchinari. «Vogliamo al più presto risolvere il problema della luce per poter continuare a lavorare, non riceviamo uno stipendio da diecimesi e ognuno di noi ha una famiglia da mantenere – dice Marta – è dura ma se non ci ostacolano questa fabbrica può resistere e produrre conla qualità di sempre». Le immagini di questo reportage sono state realizzate dal fotografo Massimiliano Pinna ©

“Aperto per fallimento”Fabbriche e imprese recuperate dai lavoratori in Argentina

di Leticia Marrone

“Ma chi sono i lavoratori che rimangononelle fabbriche a resistere contro la

disoccupazione come destinosocialmente già assegnato? I deboli delmercato: quelli che, per motivi d’età, digenere o di qualifica professionale, non

troveranno lavoro altrove”

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si trovi nelle regionitradizionalmente in-dustriali: 109 nellaProvincia di BuenosAires, altre 39 nellaCittà di Buenos Aires,35 a Santa Fé, 13 aCórdoba e le altresparse in tutto il pae-se. Il recupero delle im-prese coinvolge prati-camente tutti i settoriproduttivi. Il fenome-no nasce come pretta-mente industriale,quello industriale ineffetti è uno dei setto-ri più colpiti dalla cri-si del capitale e dimaggior espulsione dimanodopera e anche quello con maggior storia sindacaleed esperienza organizzativa dei lavoratori. Con il tempotuttavia, queste esperienze si espandono a un ampio e va-riegato settore di servizi. Tra le unità produttive distribuiteper settore di attività riscontriamo nell’industria metallur-gica un 22%, nel settore alimentare un 16%, in quello del-la carne un 8%, nel tessile un 6%, nei prodotti edili un 5%e un altro 5% nel settore grafico. Il settore dei servizi èrappresentato dal 19%, che include al suo interno svariatetipologie di attività come quella gastronomica, alberghie-ra, di trasporto, stampa, e persino il servizio sanitario e l’i-struzione. L’eterogeneità è la caratteristica che contraddi-stingue i settori dell’industria e dei servizi e in pratica nonè possibile individuare due imprese uguali tra loro. In ge-nerale quelle “recuperate” sono piccole e medie imprese(il 70% di queste impiega non oltre 50 lavoratori) e ciò fa-cilita il processo di recupero, poiché si tratta di una parteperiferica del capitale.

Ma chi sono i lavoratori che rimangono nelle fabbriche aresistere contro la disoccupazione come destino social-mente già assegnato? I deboli del mercato: quelli che, permotivi d’età, di genere o di qualifica professionale, nontroveranno lavoro altrove e andranno a ingrossare le filadella disoccupazione strutturale, che nel 2002 raggiungevail più alto tasso storico dell’Argentina con il 21,5% dellapopolazione attiva. Su un campione di 3.951 lavoratoridelle imprese recuperate, nel 45% dei casi l’età dei lavora-

tori è compresa tra i26 e i 45 anni, nel44% tra i 46 e i 65anni. C’è solo un 8%di giovani tra 17 e 25anni. A livello giuridico il95% delle imprese ècostituito come co-operativa di lavoro.La Legge fallimentareinfatti abilita il giudi-ce a dare ai lavoratorila possibilità di conti-nuare l’attività a pattodi adottare la figuragiuridica della coope-rativa.Il fenomeno dellefabbriche recuperatedal suo inizio non ha

conosciuto fino ad ora tasso di mortalità, piuttosto si con-tinuano a portare avanti processi di recupero: dal 2000 al2003 sono state create 74 nuove cooperative di lavoro, dal2004 al 2008 altre 75. Questi dati indicano come il feno-meno, nato come risposta alla crisi del capitale, si è tra-sformato in un’alternativa valida di fronte alla minaccia diperdita dei posti di lavoro.

Un momento della decorazione. Quest’anno, non potendoutilizzare i macchinari a causa del taglio della luce, tutte le uovasono state prodotte manualmente

Preparazione dei bocaditos, cioccolatini ripieni con dulce de leche. Le sale adibite aquesto lavoro sono senza luce e gli operai si avvicinano alle grandi finestre dell’atrio

“E dietro i numeri esistono centinaia distorie di gruppi di lavoratori, storie di

luoghi che già non esiterebbero, dipalazzi che sarebbero vuoti, di

magazzini chiusi, in vendita o messiall’asta, posti smantellati, senza

macchinari, senza produzione, senzalavoratori, senza vita”

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Dietro questi numeri esistono centinaia di storie di gruppidi lavoratori che lottano quotidianamente per riprendere lapropria vita in condizioni estremamente difficili, soprattut-to per chi ha lavorato per anni sotto la direzione di un im-prenditore, restando al di fuori di tutto ciò che riguardavagli aspetti di gestione, dei quali hanno dovuto farsi caricoin maniera a volte improvvisa. Storie di luoghi che già nonesiterebbero, di palazzi che sarebbero vuoti, di magazzinichiusi, in vendita o messi all’asta, posti smantellati, senzamacchinari, senza produzione, senza lavoratori, senza vita. Oggi al contrario, di fronte alla chiusura o abbandono del-le imprese, nel momento in cui sono entrati in gioco gli in-teressi dei lavoratori, si è ricorso a una strategia già cono-sciuta per difendere il lavoro, ricalcando la linea seguitada altre unità produttive i lavoratori stessi hanno riattivatole imprese in maniera autogestita. E se la portata del feno-meno in termini quantitativi potrebbe sembrare non moltosignificativa, tuttavia la sua incidenza e le ripercussioni

nonché l’impatto simbolico superano ampliamente la di-mensione relativa e permettono di capire l’importanzaeconomica, sociale e politica di questo movimento. Le im-prese recuperate influiscono in maniera incisiva nell’ambi-

to dei rapporti lavorativi, diventando uno strumento dipressione nei confronti della classe imprenditoriale e nellanegoziazione collettiva. Nei casi in cui i datori di lavorominacciano di chiudere, di licenziare o di ridurre i salari, ilavoratori si appellano alla strategia del “recupero d’im-

presa” seguendo l’esempio delle imprese già recuperate. Le continue crisi del modo di produzione egemonico tro-vano, nella ricerca della sopravvivenza, risposte creativeda parte di quelli che Serge Latouche chiama i «naufraghidello sviluppo». Gli esclusi dell’economia mondiale, chenon sono pochi emarginati bensì centinaia di milioni nelmondo intero. Ma questi “naufraghi” non scompaiono, eper sopravvivere si organizzano secondo un’altra logica.Essi inventano un altro sistema, un’altra vita. Come dicono molti dei lavoratori di queste imprese: «senon ci credete, venite a vedere».

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Il punto vendita si trova al lato della fabbrica. Nonostante abbiano iniziato la stagione con molto ritardo il bilancio finale è stato positivo.Tutte le uova prodotte sono state vendute

“Le continue crisi del modo diproduzione egemonico trovano, nellaricerca della sopravvivenza, rispostecreative da parte di quelli che SergeLatouche chiama i «naufraghi dello

sviluppo». Ma questi «naufraghi» nonscompaiono, e per sopravvivere si

organizzano secondo un’altra logica,inventano un altro sistema, un’altra vita”

“Secondo i dati del Ministero del Lavoroe della sicurezza sociale argentino nel

2008 le imprese recuperate erano 219 eoccupavano circa 10.000 lavoratori”

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Una concezione modernadell’orientamento si fondasulla natura complessadelle azioni formative, ri-volte a soggetti considera-ti attori consapevoli dellescelte da compiere perrealizzare il proprio pro-getto di vita. Una imposta-zione, questa, che si tradu-ce nella produzione di oc-casioni e strumenti di au-to-orientamento per pro-muovere e sostenere unprocesso che impegna il

soggetto al raggiungimento dei propri obiettivi cognitivi eprofessionali, al potenziamento delle capacità personali,ma non trascura le dimensioni emotive, etiche e valoriali.Tuttavia, se per un verso è largamente condivisa la convin-zione che l’orientamento debba essere concepito come unprocesso continuo di natura formativa, dall’altro, nellepratiche che segnano le azioni quotidiane, si deve spessoconstatare la oggettiva difficoltà a tenere le fila delle ini-ziative sotto un disegno progettuale coerente e condiviso.Tanto che l’ultimo rapporto del Censis registra come «ilfervore che in questi anni ha percorso il lato dell’offertanon è stato indirizzato secondo un’ottica di sistema. Loscenario si caratterizza ancora per un insufficiente livellodi formalizzazione normativa; le norme sull’orientamentosono distribuite in testi, disciplinanti ambiti di altra natura.La mancanza di un quadro normativo unitario e semplifi-cato nelle sue articolazioni origina sul fronte operativo,ovvero dell’erogazione dei servizi, frammentazione istitu-zionale, incertezza tecnico-organizzativa e talvolta preca-rietà professionale».In un quadro, quindi, che deve tener conto della moltepli-cità dei soggetti istituzionali interessati e delle inevitabili“intersezioni” che nella pratica progettuale vengono acrearsi, una risposta di integrazione non può che esserecercata in una “logica di rete”, di connessione e collabora-zione tra i vari “nodi” che a titolo diverso sono coinvoltinelle azioni di orientamento.Il nostro Ateneo, da diversi anni ormai, ha reso operativele scelte di un lavoro in rete attraverso il GLOA, Gruppodi lavoro per l’orientamento di Ateneo, costituito da duerappresentanti di ciascuna delle nostre otto Facoltà, dele-gati dai Presidi, dalla Responsabile della Divisione politi-che per gli studenti e dal delegato del Rettore per le politi-che di orientamento che ne coordina i lavori. Accanto al GLOA operano gli Uffici orientamento, Jobplacement e Stage e tirocini che svolgono la funzione di“esecutivo” delle politiche concordate e sviluppate all’in-

terno del GLOA. Si tratta di una complessa opera di me-diazione che deve tener conto delle esigenze specifiche diogni Facoltà e Corso di laurea e allo stesso tempo svilup-pare queste esigenze in azioni coordinate, coerenti con gliindirizzi strategici dell’Ateneo.Di pari importanza e complessità è la rete delle relazioniesterne.Per sua stessa definizione l’orientamento è un processoche si sviluppa in una dimensione longitudinale, diacroni-ca e che non può quindi prescindere dalla storia del sog-getto. In primo luogo storia di una scolarità pregressa, cheimplica, di conseguenza, un rapporto di continuità con lescuole superiori, teso a prevenire e colmare quelle distan-ze che quotidianamente vengono rilevate tra i requisitiposseduti dagli studenti e quelli necessari ad affrontarecon pieno profitto il percorso universitario. E tanto più èstretto e qualificato il rapporto di collaborazione scuola-università tanto più sarà possibile realizzare interventi cheaiutino gli studenti ad avere consapevolezza dei requisitinecessari a compiere con successo il percorso universita-rio, arrivando pronti al momento della scelta.Su questi presupposti si sviluppano le azioni che vedonocoinvolte le scuole superiori: dalle Giornate di vita univer-sitaria che si svolgono in ciascuna delle otto Facoltà, allagiornata di luglio Orientarsi a Roma Tre, agli strumenti diinformazione ed auto-orientamento on line, alla collabora-zione con i docenti delle superiori per un confronto apertosui temi della didattica.Quindi, le scuole superiori costituiscono il principale baci-no di provenienza degli studenti (principale ma non unicovisto il crescente numero di adulti che si avvicina o tornaagli studi universitari) e definiscono, con tutto l’apparatodell’amministrazione scolastica, la principale rete di rela-zioni per l’orientamento in ingresso. Ma la natura proces-suale delle azioni di orientamento si snoda nell’orienta-mento in itinere, con il tutorato, e in quello in uscita, cheriguarda gli studi post lauream e l’inserimento nel mondodel lavoro, e che implicano, a loro volta, ulteriori rapporti:con il Ministero del lavoro, gli enti locali, l’Agenzia per ildiritto alla studio, enti, associazioni e imprese del mondodel lavoro...In questa complessità di reti e relazioni Roma Tre vuoleconservare e conserva la propria forte identità di Ateneo adimensione di studente, coniugando ricerca e impegnonella società civile, e al tempo stesso si apre a nuove iden-tità collettive con progetti che richiedono nuove collabora-zioni, a partire da un lavoro comune con gli altri Atenei.Vi sono territori, quello del lavoro ad esempio, nei quali lasfida non ha confini e unire forze e risorse può essere lasola strada per conseguire risultati. È il caso del progettoSOUL (Sistema Orientamento Università Lavoro) che ve-de Roma Tre impegnata con gli altri Atenei romani (La

Reti per l’orientamento Alla ricerca di nuove sinergie tra scuola, università e mondo del lavoro

di Massimo Margottini

Massimo Margottini

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42 Sapienza, Tor Vergata, Foro Italico, già IUSM, e Accade-mia di Belle Arti) a sviluppare un sistema di placement ca-pace di coniugare servizi agli studenti all’interno di cia-scun Ateneo e al tempo stesso costituire un nodo nella retedegli interventi pubblici per i Servizi per l’impiego, secon-do le logiche di promozione delle politiche attive del lavo-ro. Si tratta di una prospettiva che vede l’università impe-gnata in un nuovo compito (nel quadro normativo della“Legge Biagi”): ossia quello di sostenere e accompagnarei propri laureati nella fase di inserimento nel mondo del

lavoro. Per la realizzazione di questo compito gli Atenei diSOUL possono avvalersi di una avanzata piattaforma in-formatica che favorisce l’incontro tra domanda e offertaattraverso un sofisticato matching tra proposte delle azien-de e curricula dei laureati. Ma una piattaforma informati-ca, per quanto avanzata, non è sufficiente a sostenere iprocessi di orientamento al lavoro ed è quindi integrata dauna serie di servizi agli studenti che si realizzano in attivi-tà di consulenza e accompagnamento per un pieno svilup-po professionale con proposte di stage e tirocini.

Sono i giovani laureati eil loro ingresso nel mer-cato del lavoro la chiaveper interpretare i nuoviorizzonti che domineran-no la scena all’uscita dal-la crisi economica inter-nazionale. Sarebbe infattiun errore imperdonabiledimenticare o evitare diintervenire là dove sta ilseme della ripresa: l’in-vestimento in risorseumane. Qui si fondano lesperanze e il desiderio di

recupero di competitività, di capacità di concorrere adogni livello su scala mondiale. Il prerequisito, per l’Ita-lia in particolare, dunque, è il raggiungimento di unanuova, più elevata e diffusa soglia educazionale. Ma,senza destinarvi le risorse necessarie, è difficile ipotiz-zare un futuro simile. Vi sono dati inconfutabili che se-gnalano lo sforzo insufficiente del Paese in questa dire-zione, misurato dalla spesa pubblica nel campo dell’i-struzione universitaria e della ricerca e sviluppo. Allaprima l’Italia destina solo lo 0,78% del prodotto internolordo contro più del 2% dei paesi scandinavi, l’1,02 delRegno Unito, l’1,16 della Germania,l’1,21 della Francia, l’1,32 degli StatiUniti. Al settore strategico della ricer-ca e sviluppo il nostro Paese, tra risor-se pubbliche (prevalenti) e private, de-stina l’1,10% del PIL, risultando cosìultimo fra tutti i paesi più sviluppati.Il risultato di tutto ciò è che fra gli ita-liani di età compresa fra i 25 e i 34 an-ni i laureati sono 17 su cento, mentrein Germania sono 22, nel Regno Unito37, in Spagna e negli Stati Uniti 39, in

Francia 41, in Giappone 54. D’altronde l’insufficienzadello sforzo compiuto ha radici antiche, testimoniate dalridottissimo numero di laureati nella popolazione di etàpiù avanzata. In Italia, nella classe di età 55-64 anni, so-no presenti solo 9 laureati su cento (in Francia sono 16;in Germania e Regno Unito 23-24, negli Stati Uniti 38). In questo contesto garantire al mondo delle imprese l’ac-cesso al credito è certamente azione urgente, ma insuffi-ciente. Occorre anche favorire l’accesso delle imprese,incluse quelle piccole e medie, alle risorse umane piùgiovani e di qualità formatesi all’università. Con appositeagevolazioni, il Governo potrebbe così cogliere un dupli-ce obiettivo: sostenere l’iniezione di risorse umane di piùelevata qualità nel sistema produttivo e assicurare allepiù giovani generazioni, quelle più capaci e preparate, unfuturo lavorativo incoraggiante nel proprio Paese. Evi-tando, ancora una volta, che un patrimonio di studi e diconoscenze, costato caro al Paese, sia costretto a cercarela propria realizzazione al di là delle Alpi.Il rapporto AlmaLaurea 2009 sulla condizione occupa-zionale ha coinvolto quasi 300 mila laureati di 47 univer-sità italiane, tra cui Roma Tre. In particolare l’indagine,nel complesso, ha riguardato quasi i due terzi dei laureatipost riforma usciti nel 2007 dal sistema universitario ita-liano. Il periodo di osservazione delle indagini AlmaLau-rea, concluse nell’autunno 2008, ha solo sfiorato la crisi

più acuta, ma i suoi segnali sono giàstati intercettati. L’evoluzione dellacondizione occupazionale, analizzatadal 2001 al 2008 sui laureati pre-rifor-ma, gli unici che consentono un’analisidi medio periodo, ci dice che la quotadi laureati occupati si contrae di 6 pun-ti percentuali. La contrazione dellaquota di occupati non si è tradotta, tut-tavia, in un minor numero di neo-dot-tori assorbiti dal mercato del lavoro,dato il forte aumento dei laureati usciti

Andrea Cammelli

Il seme della ripresaDai dati del rapporto AlmaLaurea emerge la necessità di investirein formazione, ricerca e sviluppo e nelle risorse umane dei giovani laureati

di Andrea Cammelli

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in questo periodo dal sistema universi-tario (da circa 55 mila nel 2001 a 74mila nel 2007).A cinque anni dal conseguimento dellalaurea, la stragrande maggioranza deilaureati è inserita nel mercato del lavo-ro: il tasso di occupazione, per i lau-reati del 2003, è pari all’84,6% (ma al-tri 7,4 proseguono gli studi); la stabili-tà del lavoro coinvolge il 70% deglioccupati. Nota dolente è rappresentatadalle retribuzioni che, nell’ultimo qua-driennio, seppure superiori a 1.300 eu-ro, hanno visto il loro valore reale ri-dursi di circa il 6%.Resta confermato che nell’intero arcodella vita lavorativa (25-64 anni), lalaurea risulta comunque premiante:chi è in possesso di un titolo di studiouniversitario presenta un tasso di occupazione di oltre10 punti percentuali maggiore di chi ha conseguito undiploma di scuola secondaria superiore e un reddito piùelevato del 65%.Ma come vengono accolti i nuovi laureati nel mercatodel lavoro? Per rispondere occorre tenere presente la ge-nerale tendenza a proseguire gli studi, soprattutto dopo lalaurea di primo livello (57%), ma anche l’incidenza dichi lavorava alla laurea (il 35% dei laureati di primo e se-condo livello del 2007). In generale l’analisi dell’occu-pabilità dei laureati post-riforma, soprattutto se confron-tati, pur con tutte le cautele del caso, con quelli dei lau-reati pre-riforma degli anni precedenti, mostra segnalipositivi a testimonianza di un mercato del lavoro che,prima della crisi mondiale, sembrava ben accogliere ilaureati figli della riforma senza particolari penalizzazio-ni tra i titoli di primo e secondo livello. Il guadagno adun anno supera complessivamente i 1.100 euro nettimensili (contro i 1.010 euro dei pre-riforma). Si confer-ma invece la consistenza del lavoro precario già segnala-ta anche per i laureati pre-riforma. La stabilità, merce ra-ra a un anno dalla laurea, è più elevata per i laureati di

primo livello rispetto agli specialistici, ma pur semprenon raggiunge il 40%. Nel caso dei laureati specialistici biennali è la prima voltache il rapporto restituisce la documentazione sulla lorocondizione occupazionale a un anno dalla laurea. L’inda-gine mostra chiaramente come si tratti in assoluto dellagenerazione più giovane, migliore, più preparata; ed anchecon un alto tasso di occupazione ad un anno dalla laurea:il 75%, tenendo conto solo di coloro che hanno iniziato alavorare una volta acquisita la laurea di secondo livello edi quanti, anche dopo la laurea specialistica continuano astudiare in formazione retribuita (una quota che riguarda il22% del complesso dei laureati specialistici!). Guardandomeglio è stato messo in luce che il 50% di loro lavora conun lavoro atipico, un altro 22% continua a studiare.Anche i laureati specialistici di Roma Tre che hanno com-piuto il percorso di studi esclusivamente nel nuovo ordi-namento, anche perché sono i primi, presentano perfor-mance particolarmente brillanti negli studi: si laureano a25,9 anni, il 61% di loro in corso, il 21% ha svolto espe-rienze di studio all’estero, il 49% ha svolto stage durantegli studi. E il mercato del lavoro li ha accolti bene. La lo-ro condizione occupazionale è buona già a un anno dallalaurea: lavora il 58%. Il tasso di occupazione nazionale èpiù elevato (62%), ma c’è anche un quinto dei laureatiche continua la formazione (è il 18% a livello nazionale).Chi cerca lavoro è il 22% dei laureati specialistici di Ro-ma Tre, contro il 20% del totale laureati. Nota dolente,anche in questo caso, è la stabilità che coinvolge il 32%dei neolaureati specialistici di Roma Tre. Mentre il gua-dagno è sostanzialmente in linea con la media nazionale:1.130 euro mensili netti contro i 1.154 del complesso. Di fronte a questi risultati, ciò che deve dunque esserescongiurato è che una risorsa preziosa e qualificata, unagenerazione di giovani fra i meglio preparati, e quelleche seguiranno, rischino di essere schiacciati fra un siste-ma produttivo che non assume ed un mondo della ricercaprivo di mezzi. È la vera sfida che ci attende, consapevoliche superare la crisi ed uscirne sarà operazione comples-sa. Ma che sarà realizzabile solo attraverso l’impegnocomune delle forze più vitali del Paese.

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Il miglior sistema formativo,i docenti più preparati, glistudenti più capaci e volonte-rosi: tutto questo fallirebbese non fosse sostenuto dal di-ritto allo studio. Questo han-no capito i nostri padri fon-datori, che nella Costituzioneall’articolo 34 hanno affer-mato il principio «I capaci emeritevoli, anche se privi dimezzi, hanno diritto di rag-giungere i gradi più alti degli

studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto conborse di studio, assegni alle famiglie ed altre provviden-ze, che devono essere attribuite per concorso». Questistessi concetti ha ribadito più volte Barack Obama quan-do ha detto: «Se non avessi potuto studiare malgrado lemie modeste condizioni non sarei mai diventato presi-dente degli Stati Uniti». Il diritto allo studio è anche un poderoso strumento di mo-bilità sociale, consentendo di non soffocare, ma di faremergere le qualità dei soggetti più dotati e quindi più utilialla società. Oltre che essere, naturalmente, un incentivodecisivo alla realizzazione personale degli studenti. È ilgrimaldello che apre la cassaforte che contiene il tesorocostituito dalle capacità intellettuali, professionali ed eti-che di giovani che rimarrebbero tagliati fuori se non gli si

offrisse la possibilità di crescere negli studi, dalla scuoladell’obbligo, alle superiori, all’università fino alle ulteriorispecializzazioni. Questi principi sono chiari nel nostro ordinamento, che af-fianca alle università le regioni per rendere effettivo questofondamentale diritto. In effetti già la legge n. 642 del 1979disponeva il trasferimento delle funzioni, dei beni e delpersonale delle “Opere universitarie” alle regioni, nellaprospettiva di offrire a tutti gli studenti le stesse opportuni-tà, indipendentemente dall’ateneo di appartenenza. Suc-cessivamente veniva emanata la legge quadro n. 390 del1991 che prescriveva alle regioni di adottare proprie nor-mative, sostanzialmente caratterizzate da un’omogeneitàdelle provvidenze, come borse di studio, alloggi per glistudenti, servizi di ristorazione, ecc. Questa è l’impostazione del nostro ordinamento in tema diformazione. Possiamo dircene soddisfatti? In parte sì, inparte no. La strada è giusta, ma le risorse scarseggiano e,come anche nel sistema sanitario nazionale, ci sono ancorasperequazioni tra regione e regione. La stretta collaborazione con i singoli atenei, tra cui ov-viamente c’è Roma Tre, nonché la partecipazione respon-sabile degli studenti è fondamentale. La nuova legge re-gionale del Lazio prevede la loro presenza negli organi di-rettivi di Laziodisu, l’ente regionale per il diritto allo stu-dio e delle Adisu dei singoli atenei. Occorre lavorare insie-me per rendere il diritto allo studio la vera strada per lapiena maturazione degli studenti e la crescita del Paese.

Crescita personale e utilità socialeIl diritto allo studio tutelato dalla nostra Costituzione

di Gianpiero Gamaleri

Gianpiero Gamaleri

Gli uffici dell'Adisu Roma Tre

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Gli studenti di Roma Treavranno presto una casa dellostudente, con 400 posti letto.Decisiva per la sua piena uti-lizzazione sarà la collaborazio-ne tra l’Ateneo e l’Adisu. Laprima parte di questa impor-tante sfida è stata finalmentevinta o quasi. Resta ora la par-te più delicata e complessa chedovrà rendere la futura resi-denza uno spazio vivo in cuisi produca e si fruisca cultura.

Solo se vinciamo questa seconda e più difficile sfida, la casadello studente potrà evitare i rischi del degrado, come è pur-troppo accaduto in molte altre sedi universitarie che di stu-dentesco hanno conservato solo il fatto che molti studentidormono lì. Occorre dunque che sin d’ora gli organi di Ate-neo e gli studenti tutti, perché il problema riguarda tutti glistudenti e non solo quelli che ci andranno a vivere, discuta-no e approfondiscano le forme attraverso cui l’Ateneo ren-derà possibile questo salto di qualità. Un aspetto importante della vita universitaria è la capacitàdi saldare il percorso di formazione e di frequenza univer-sitaria con la fase successiva. La legislazione sul tirocinioda sola non basta a garantire questo delicato passaggio. Per

molti laureati il rischio è di precipitare in una situazione dianomia sociale e culturale. Soprattutto nelle Facoltà umani-stiche molti studenti dopo aver terminato il proprio percor-so formativo, si iscrivono a nuovi corsi proprio per sfuggirea questa loro condizione insopportabile, col risultato peròdi rimandare a tempi indeterminati le scelte più decisive. La casa dello studente potrebbe diventare uno degli spaziper sviluppare una riflessione condivisa su come sviluppa-re al meglio le potenzialità dei nostri studenti durante laloro vita universitaria e nel passaggio alla vita lavorativa.Sarebbe inoltre opportuno promuovere e sostenere iniziati-ve e progetti, come quello dell’Associazione laureati, voltia costituire una rete di coloro che si sono laureati nel no-stro Ateneo perché mettano a disposizione dei nostri stu-denti il proprio sapere e le proprie esperienze nel mondodel lavoro. I processi di identificazione sviluppati dagli stu-denti nel proprio percorso di studi a Roma Tre ne potrebbe-ro uscire rafforzati, trovando un canale di mediazione, epotrebbero divenire una risorsa per il nostro Ateneo e pergli studenti alle prese con le sfide del mondo del lavoro. Da Roma Tre sono usciti molti studenti brillanti che hannofatto carriera. Non si vede perché il loro rapporto con ilnostro Ateneo debba interrompersi ora che non ne fannopiù parte.L’Ateneo in collaborazione con l’Adisu potrebbe farsicarico di individuare le forme organizzative e culturali

che possano renderepossibile la continui-tà di questo legame.In molti paesi esterie in alcuni atenei ita-liani di prestigio si fagià. Non si vede per-ché non debba esserefatto qui da noi. Ilprogetto può essereportato a termine seè largamente condi-viso dagli studenti.Sono loro a doversentire che i presup-posti e la reciprocitàdi questa iniziativahanno come scopoqualcosa che li oltre-passa e che apparter-rà agli studenti che liseguiranno. Le ini-ziative che in tal sen-so sono fallite, difet-tavano di questo in-grediente.

La nuova residenza e la rete dei laureatiDue iniziative di collaborazione tra l’Ateneo e l’Adisu

di David Meghnagi

David Meghnagi

La mensa dell'Adisu di Via della Vasca Navale

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Procedure telematicheI successi dell’informatizzazione in Ateneo

di Roberto Maragliano e Alessandro Masci

Il modulo ISEEU è l’autodichia-razione richiesta allo studenteuniversitario che, all’atto dell’i-scrizione, dà conto della situa-zione patrimoniale del nucleo fa-miliare di appartenenza. Fino al-l’anno accademico 2008/2009Roma Tre si limitava a comuni-care l’elenco dei centri di assi-stenza fiscale (C.A.F.) conven-zionati con l’università, ai qualigli interessati erano invitati a ri-volgersi per la compilazione; idati relativi venivano successiva-mente inseriti nel data base del-l’università, tramite la trasmis-sione dei dati da parte dei centrio direttamente dagli studenti. Dal 2008/2009 è stato istituito,sperimentalmente, un servizio di assistenza autonomo, ge-stito dall’università stessa, per la compilazione del docu-mento. Il servizio fa capo alla Piazza telematica, dove, inorari stabiliti e pubblicizzati via web, gli studenti interes-sati possono predisporre la compilazione delle dichiara-zioni, fruendo dell’assistenza di borsisti preparati ad hoc esveltendo così, attraverso l’eliminazione di un passaggio,il processo di caricamento dei dati. Alla chiusura del pe-riodo ufficiale delle immatricolazioni (22 settembre/5 no-vembre 2008) quasi un quinto delle dichiarazioni (precisa-mente il 18%) risultavano pervenute dalla Piazza telemati-ca. Non solo: per molti l’approccio con i borsisti, studenti

senior, si è rivelata un’occasio-ne importante per familiarizzarecon alcuni meccanismi implicitialla comunicazione in ambitouniversitario e ricavarne indica-zioni utili per il proprio futuropercorso universitario.Successivamente, e fino al 2aprile 2009, i termini per la pre-sentazione dei moduli sono statiriaperti, per accogliere gli stu-denti immatricolati alla laureamagistrale dopo il 5 novembre eper recuperare dati non trasmes-si dai centri di assistenza fisca-le. In questa occasione, avendoavuto il servizio offerto dallaPiazza telematica un battesimopositivo, è stato possibile comu-

nicarne più capillarmente e sistematicamente l’esistenza.A conclusione di questa seconda fase il 60% dei documen-ti è risultato pervenire dalla Piazza telematica. Nel suo complesso, l’operazione ha portato significativivantaggi: dalla riduzione delle file e degli intasamentiagli sportelli della segreteria studenti alla semplificazio-ne dei processi di incameramento e controllo dai dati daparte degli uffici. Non ultimo il fatto che il primo impat-to degli iscritti con l’Ateneo Roma Tre (l’unico, fin qui,ad aver istituito un tale servizio) è stato segnato dal rap-porto con una tecnologia avanzata e con un adeguato so-stegno umano.

La Piazza telematica di Ateneo 47

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L’Università degli Studi Roma Tre guarda ormai da anni,con attenzione e sensibilità, al tema del rapporto fra Univer-sità e mondo del lavoro. Il nuovo scenario normativo, espli-citato prima dalla Legge 196/97 e dal relativo regolamentodi attuazione introdotto dal D.M. 142/98 con il quale le uni-versità sono identificate quali soggetti che possono promuo-vere le attività di tirocinio e, successivamente, dalla Legge30 (Legge Biagi), assegna alle Università il compito di soste-nere i propri laureati nella fase di inserimento nel mercatodel lavoro. Alla luce di ciò le Università sono chiamate a svi-luppare competenze in materia di intermediazione al lavoro,con l’obiettivo di offrire risposte adeguate di fronte alle mu-tate esigenze di un mercato caratterizzato sempre più da di-namicità e flessibilità. Questo nuovo scenario legislativo,economico e sociale ha spinto l’Università Roma Tre a co-gliere l’opportunità offerta dalla Direzione generale per lepolitiche per l’orientamento e la formazione del Ministerodel Lavoro e della previdenza sociale, aderendo al Program-ma nazionale FIxO - Formazione & Innovazione per l’Occu-pazione. FIxO ha coinvolto 61 università italiane in un’azio-ne di sistema tesa a incrementare l’occupazione e l’occupa-bilità dei giovani laureati attraverso lo sviluppo dei serviziuniversitari di placement, l’integrazione tra ricerca scientifi-ca e il trasferimento di innovazione tecnologica al sistemadelle imprese. Il 9 ottobre 2007 Roma Tre ha firmato un pro-tocollo di intesa con il Ministero del Lavoro, della salute edelle politiche sociali nel quale sono stati definiti gli impegnireciproci per la più efficace realizzazione delle azioni delProgramma FIxO; il 18 marzo 2008 Roma Tre ha sottoscrit-to un protocollo operativo con l’agenzia tecnica del Ministe-ro del Lavoro, Italia Lavoro S.p.a., nel quale sono state indi-viduate nel dettaglio le attività da realizzare. La Divisionepolitiche per gli studenti, e in particolare gli Uffici Stage e ti-rocini e Job placement, sono stati impegnati, sotto il coordi-namento della prof. Maria Rosaria Stabili, Prorettore con de-lega alle Politiche per gli studenti dal 2004 al 2008, nellarealizzazione del programma e si sono avvalsi dell’assisten-za tecnica di Italia Lavoro. In particolare nell’ambito dell’a-zione 1 del programma (promozione e sviluppo dei servizidi placement universitario finalizzati all’incremento dell’oc-cupabilità e dell’occupazione) è stata effettuata l’analisi del-la struttura organizzativa e proposta, nella progettazione didettaglio, una riorganizzazione del servizio di placement diAteneo con l’inserimento di figure professionali da dedicareai servizi alle persone e alle imprese, all’implementazione diun sistema di monitoraggio dei servizi erogati e alla realizza-zione di attività di benchmarking. In questa ottica sono statiattivati due nuovi servizi di placement:Servizio alle persone- potenziamento dei servizi di accoglienza e informazionerivolti ai laureati;- offerta di un servizio di orientamento individuale.

Servizi alle imprese- creazione di un percorso di accounting, mappatura e seg-mentazione del sistema locale delle imprese, rilevazionedei fabbisogni professionali delle aziende presenti sul ter-ritorio;- potenziamento dei servizi di incrocio domanda e offertadi lavoro, attraverso preselezioni ad hoc.Nell’ambito della linea 2 del programma (sperimentazionedi percorsi assistiti di accompagnamento al lavoro di gio-vani in uscita dall’università attraverso la promozione e ilsostegno di tirocini formativi finalizzati all’incrementodell’occupabilità e dell’occupazione) è stato fissato unobiettivo di 300 tirocini di inserimento lavorativo (TIL)che è stato ampiamente raggiunto. I TIL hanno coinvolto119 aziende private e 28 enti pubblici, coprendo diversearee geografiche, di studio e settori aziendali.Attualmente è in corso il monitoraggio che determineràl’indice di placement delle azioni realizzate.

48 Oltre la laureaFIxO: formazione e innovazione per l’occupazione

di Francesca Rosi

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Mille e una vela per l’UniversitàIn merito all’articolo pubblicato sul precedente numero diRoma Tre News, Mille e una vela per l'Università. Gliatenei si sfidano per mare nella regata annuale promossada Roma Tre, si precisa che il progetto barca a vela nascenel 2005 a Roma da una proposta dei professori MassimoPaperini, Paolo Procesi e Maurizio Ranzi e che le immagi-ni pubblicate sul n. 1/2009 fanno parte di un servizio foto-grafico realizzato dagli studenti di architettura SimoneMieli e Valeria Perna.

Orientarsi a Roma Tre 2009Il 23 luglio prossimo si svolgerà, presso la sede del Retto-rato, si svolgerà la IX edizione della manifestazioneOrientarsi a Roma Tre, un appuntamento dedicato aglistudenti degli ultimi anni delle scuole secondarie superioridurante il quale verrà presenta l’offerta didattica del pros-simo anno accademico.L’iniziativa si inserisce nel quadro degli interventi che Ro-ma Tre, anche grazie alla collaborazione delle Scuole, starealizzando sui temi dell’orientamento, con l’obiettivo difavorire una scelta consapevole da parte degli studenti peril loro inserimento nella vita universitaria.La giornata Orientarsi a Roma Tre prevede, a partire dalleore 9.30 e per tutto l’arco della mattinata, l’illustrazione del-le Facoltà e dei Corsi di Laurea da parte dei rispettivi presidie docenti. Si prevedono inoltre una serie di punti informativiai quali gli studenti potranno rivolgersi per avere chiarimen-to sull’organizzazione didattica, i servizi, le modalità di ac-cesso ai corsi di studio. Presso gli stessi punti potranno esse-re ritirate guide e materiale illustrativo delle varie Facoltà.

È trascorso circa un anno dal mio insediamento a DirettoreAmministrativo dell’Adisu Roma Tre, avvenuto proprio inconcomitanza del varo della nuova legge regionale di ri-forma del diritto agli studi universitari nel Lazio.Sin dai primi momenti di lavoro mi sono reso conto cheogni azione doveva essere orientata a realizzare quellacentralità dello studente indicata dall’intera normativa.Giorno dopo giorno, pur tra non poche difficoltà e con l’im-pegno di tutto il personale amministrativo, ci siamo attivatiper una più efficiente organizzazione dei nostri uffici che, ol-

tre al dato materiale della ricerca del miglioramento dellaqualità dei servizi erogati, riuscisse a perseguire l’ambiziosotraguardo di costituire un legame di fiducia tra noi e i “nostri”studenti, di essere davvero una struttura di servizio, consape-voli dell’importanza sostanziale che riveste la stagione del-l’apprendimento universitario nella vita di ogni persona.Qui di seguito ho fornito una schematica indicazione deiservizi che l’Adisu Roma Tre offre.Vi aspettiamo, dunque, per farci conoscere meglio e peraccogliere i vostri preziosi suggerimenti.

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50 Ultim’ora da Laziodisudi Salvatore Buccola

Non tutti sanno che…

L’Adisu Roma Tre è una delle cinque strutture – cinquequante sono le università pubbliche del Lazio – che fan-no parte dell’ente regionale per il diritto allo studio, La-ziodisu. Ha sede in via della Vasca Navale 79, tel.06.5534071 ed eroga i seguenti servizi:

Servizi a concorso. Si tratta di servizi, la cui fruizioneè subordinata al possesso di specifici requisiti di redditoe merito. I bandi di concorso definiscono criteri e mo-dalità e vengono pubblicati annualmente sul portaledell’ente all’indirizzo: www.laziodisu.it. - Borse di studio- Servizi abitativi- Contributi monetari alloggio- Contributi mobilità internazionale U.E.- Premi di laurea

Servizi rivolti alla generalità degli studenti. Si trattadi servizi rivolti agli studenti iscritti presso le universitàe le altre istituzioni che hanno sede legale nella RegioneLazio e rilasciano titoli di studio aventi valore legale.- Ristorazione- Orientamento formativo - Supporto alle attività culturali e sportive - Attività a tempo parziale- Agevolazioni finalizzate all’attuazione di programmiuniversitari per la mobilità degli studenti- Sussidi straordinari per studenti in condizioni di so-pravvenuto disagio economico- Fornitura di ausili e supporti specialistici per studentidisabili- Contributi iniziative culturaliAgenzia degli affitti

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Abbiamo incontrato Niccolò Amma-niti a Taranto, in occasione del primoappuntamento della rassegna lettera-ria Penne a sonagli, promossa dal-l’Associazione Punto A Capo. Lo scrittore romano, classe 1966, si èraccontato nella veste di scrittore pre-stato al cinema. Due dei suoi romanzidi maggior successo Io non ho paura(Einaudi, 2001) vincitore del PremioViareggio e Come Dio comanda(Mondadori, 2006) vincitore del Pre-mio Strega, grazie alla collaborazionecon il regista Gabriele Salvatores, so-no divenuti anche film apprezzati dalpubblico e dalla critica. La trasposizione cinematograficadi Io non ho paura ha vinto tre Nastri d’argento e un Da-vid di Donatello, è stata candidata all’Oscar ed è stata ri-conosciuta di interesse culturale nazionale dalla Direzionegenerale per il cinema del Ministero per i Beni e le attivitàculturali. Dal suo racconto lungo L’ultimo Capodanno del-l’umanità è nato L’ultimo Capodanno del regista MarcoRisi (1998).È un fiume in piena Niccolò Ammaniti quando parla delsuo lavoro di scrittore e sceneggiatore: «La differenza so-stanziale – dice – è che quello dello scrittore è un lavoromolto solitario, anche il rapporto con il tuo editor è relati-vo». Spiega che «per un editore oggi fare un libro costatalmente poco che molti si buttano, lo pubblicano, vedonocosa succede sul mercato e solo a quel punto decidono dispingerlo, investendo in pubblicità. Con il cinema è tuttomolto diverso – continua – girano più soldi, le cose si fan-no e pensano in modo più concreto. Non hai la stessa li-bertà che hai nella stesura di un libro. E poi non sei solo.Lavori sempre a contatto con gli altri, ogni singola perso-na collabora con le sue specializzazioni alla realizzazionedi una storia che prima non c’era». Difficile non pensare che per uno scrittore tutta questagente che ruota attorno alla trasposizione cinematograficadella sua “creatura” possa rappresentare un’invasione dicampo, ma è lo stesso Ammaniti a fugare ogni dubbio:«quando finisco un libro sento di averlo consumato, diaver già scritto tutto ciò che avrei voluto dire per cui, nel

momento in cui mi viene chiesto discriverne la sceneggiatura, faccio unlavoro di adattamento. Solo due volteho scritto sceneggiature ex novo, aprescindere dai miei libri. In realtàogni volta penso sarà l’ultimo sogget-to che scrivo, così quando mi chiama-no un regista o un produttore dico ame stesso “anche no” …poi – ride –mi dicono che mi pagano e allorapenso “si può fare” – e ride ancora».Una volta finito il libro, allora, sonotutti lì ad aspettare che tu scriva il co-pione per farne un film? «In realtà ac-cade una cosa tremenda: mentre scri-

vi la sceneggiatura sei il re indiscusso, poi quando conse-gni il “bambino” automaticamente smetti di esistere e semi presento sul set avverto un certo fastidio attorno a me.Molti pensano io abbia addirittura collaborato alla sceltadei protagonisti dei film». «Molto dipende dai registi – spiega – in Marco Risi hotrovato una persona desiderosa di insegnare il cinema. Co-sì l’ho affiancato in tutte le fasi della realizzazione delfilm, dal girato al montaggio. Salvatores è diverso, piùorientato a una netta distinzione dei ruoli. Io a scrivere lamia sceneggiatura e lui poi a fare il suo film». Tutti e tre i film realizzati dai suoi libri gli hanno dato sod-disfazione. Non cita mai l’adattamento di Branchie, il suoprimo libro, un flop al botteghino. In generale a propositodelle trasposizioni cinematografiche di romanzi dice «esi-stono due diverse possibilità, vai al cinema dopo aver lettoun libro ed è come se stessi assistendo alla rappresentazionefigurata di ciò che un lettore X ha immaginato di quel libro.La sensazione è sgradevole, perché tu il tuo film te lo sei giàcreato in mente quando leggevi il libro. L’altra eventualità,drammatica, è che tu veda un film e poi decida di leggere illibro. A quel punto sei fregato, perché per quanto possasforzarti di dar sfogo alla tua immaginazione nel dare unvolto ai personaggi, ecco che prepotentemente ti appaionocol viso dell’attore che li ha interpretati al cinema». E poi conclude «ogni libro appartiene all’autore per il 50% eper l’altra metà è di ciascuno dei suoi lettori. Questa è la for-za della letteratura, ciò che la rende superiore al cinema».

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Tra parole e cinemaIncontro con Niccolò Ammaniti

di Mariangela Carroccia

Niccolò Ammaniti

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In tempi di crisi eco-nomica, in Italia si ètornati a parlare di fi-nanziamenti alla cul-tura. A riaccendere il di-battito è stato Ales-sandro Baricco, colsuo intervento su Re-pubblica del 24 feb-braio scorso. Nel suoarticolo, l’autore tori-nese scriveva che, conla recessione in corso,non è più possibile fi-nanziare massiccia-mente coi soldi pub-blici teatri stabili, fe-stival musicali e fon-dazioni a scopo cultu-rale, giacché si regi-strano troppi sprechi. Queste realtà dovrebbero rivolgersiad imprenditori privati, da incentivare, magari, ad occu-parsi di cultura con opportune agevolazioni fiscali. Il de-naro dello Stato, invece, dovrebbe concentrarsi su scuola etelevisione, perché attraverso questi due canali oggi si for-mano maggiormente i giovani e la cultura media italiana. Le reazioni alle sortite dello scrittore non si sono fatte at-tendere. Per replicare si sono scomodati i grossi nomi del-la musica, del teatro e del cinema più impegnato, ma an-che politici e rappresentati del mondo accademico. Tuttisembrano concordi almeno su due punti. In primis, in nes-sun paese al mondo teatro e musica riescono a sopravvive-re senza sovvenzioni statali. In secondo luogo, occorre chele regole di sovven-zionamento sianocambiate e riformate.Per il resto, le opinio-ni sono differenti.Già il giorno succes-sivo, sulla stessa te-stata, Anna Benedetti-ni raccoglieva pareriillustri come quello diRiccardo Muti, chericonosceva nella ri-flessione di Bariccomolti punti che eglistesso sostiene datempo. In particolare,dichiarava: «la cen-tralità della scuola findalla tenera età, il po-tenziamento di pro-

grammi formativi,che attraverso la tele-visione sono in gradodi raggiungere anchele persone più lontanee isolate, e la forma-zione dei giovani mu-sicisti, sono tutti am-biti dove è necessarioil sostegno delle isti-tuzioni pubbliche…».Della stessa opinioneanche Salvatore Ac-cardo, violinista e al-trettanto importantedirettore d’orchestra.Ci sono, poi, le criti-che. Sergio Escobar,direttore del PiccoloTeatro, primo teatropubblico finanziato

dallo Stato, non riuscendo a reprimere il suo dissenso, de-finiva le tesi di Baricco «sconclusionate». Anche LucaBarbareschi attaccava: «Ma proprio Baricco che ha fattoteatro a botte di sovvenzioni?». Lella Costa faceva notareche «fare uno spettacolo non è come fare un libro». I costi di stampa e distribuzione di un libro e quelli di unospettacolo o di un film sono, infatti, alquanto differenti. Lodiceva pure Paolo Sorrentino, regista, che senza finanzia-menti statali non sarebbe mai riuscito a girare Il Divo. Madevono cambiare anche le regole del sostegno, che vannoliberate dalla politica. D’accordo su questo Dario Fo. Ag-giungeva però: «sul finanziamento non si discute, anzi, inItalia la percentuale del PIL alla cultura è dieci volte infe-

riore alla media euro-pea». Venerdì 27 febbraio,Eugenio Scalfari ri-spondeva a Bariccocon un lungo artico-lo, ancora su Repub-blica . In sostanzaScalfari ammonivache, sebbene la liberainiziativa dei privatinon possa essere ne-gata, lo Stato ha l’ob-bligo di «tutelare ilpatrimonio culturaledella società che loesprime». Il 22 aprile scorso, lanostra Università haospitato un convegno

52 Quale cultura nell’Italia in crisi?Baricco propone finanziamenti pubblici solo a scuola e tv. Elogi… e critiche

di Rosa Coscia

Un’immagine della rappresentazione dell’Aida di Franco Zeffirelli al teatroMassimo di Palermo (30 novembre 2008)

Tra la terra e il cielo di Giorgio Barberio Corsetti, all’Auditorium Parco dellaMusica di Roma (19 novembre 2008)

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dal titolo Una nuova politi-ca culturale dello Stato,organizzato in collabora-zione con la FondazioneRomaeuropa. È stata unaulteriore occasione di ritro-vo e riflessione per gliesponenti del campo dellamusica (Bruno Cagli, pre-sidente Accademia nazio-nale di Santa Cecilia), delcinema (Giuliano Montal-do, regista, sceneggiatore eattore), dell’editoria (Car-mine Donzelli, direttoreeditoriale di Donzelli Edi-tore Srl), dei festival (Fa-brizio Grifasi, direttore ge-nerale e artistico Fondazio-ne Romaeuropa arte e cul-tura), dei musei (Maria Vit-toria Marini Clarelli, diret-tore GNAM), della regia(Daniele Abbado, direttoreartistico del Consorzio ITeatri), delle manifestazio-ni europee (Monique Veau-te, amministratore delegatodi Palazzo Grassi), del pa-trimonio artistico-culturale(Vittorio Emiliani, scrittoree giornalista), dell’innova-zione tecnologica (CarloFornaro, direttore Relazio-ni esterne Telecom Italia).Le istituzioni del settoresono state rappresentate, a livello nazionale, dal Sottose-gretario ai Beni e alle attività culturali Francesco MariaGiro e, a livello locale, dall’assessore alle Politiche cultu-rali e alla comunicazione del Comune di Roma UmbertoCroppi. Hanno avuto voce anche economisti come PaoloLeon, docente di Economia pubblica, e Marco Causi, de-putato e docente di Economia politica, entrambi afferentialla nostra Università.Il Rettore Guido Fabiani ha aperto l’evento esprimendosoddisfazione per la possibilità di parlare dei problemidella cultura proprio nel luogo ad essa per eccellenza de-putato, l’Università.A seguire, il senatore Giovanni Pieraccini, Presidente dellaFondazione Romaeuropa, ha introdotto il tema centraledell’incontro, ovvero la necessità di una riforma dell’inter-vento statale nella cultura, che tutti hanno mostrato di ri-conoscere. Tuttavia, «è evidente che lo Stato deve conser-vare un ruolo importante nella politica culturale».Della stessa opinione è Paolo Leon che, nella sua rela-zione introduttiva, ha giustificato questa convinzione apartire da riflessioni economiche. In primo luogo, hasuggerito di guardare alla attuale crisi economica comeun’opportunità. In tali circostanze, infatti, «un aumentodi spesa pubblica a fini anticiclici è necessario, indipen-dentemente dal livello del deficit o del debito pubblico».E la cultura è uno dei settori più indicati per riceverlo. A

suo favore vanno la quali-tà e il volume di occupa-zione che genera, l’assen-za di concorrenza dall’e-sterno, un moltiplicatoredel PIL relativo alla spesadedicata ad esso con mi-nori leakage di altri. In se-condo luogo, di questitempi, «è illusorio ritenereche vi possa essere un fi-nanziamento privato sosti-tutivo dei tagli operati dalsettore pubblico». Il con-vegno deve essere, allora,«un richiamo alla respon-sabilità di tutti nel mante-nere al più alto livello pos-sibile l’attività più dema-terializzata tra quelle cheformano un’economia».Giro e Croppi hanno la-mentato la mancanza diuna reale e diretta possibi-lità di gestione dei fondirelativi alla cultura e ai be-ni artistici (così importantiin Italia e a Roma, in parti-colare) da parte delle isti-tuzioni di cui sono a capo,non mancando di rivolgerequalche rimprovero a chi,prima di loro, avrebbe con-tribuito al raggiungimentodella triste situazione at-tuale. Di conseguenza, se-

condo Croppi, l’apertura agli interventi dei privati risulte-rebbe, in alcuni casi, l’unica possibilità di rimediare intempi brevi al degrado di alcune aree archeologiche roma-ne, per esempio. Sulla necessità dei finanziamenti anche privati è sembra-to d’accordo Cagli, il quale ha criticato, però, proprio ilricorso ad essi solo come «ancora di salvataggio».«L’incoraggiamento a chi aiuta la cultura non sembra danoi in linea con quello che si fa in tanti altri paesi all’a-vanguardia».Molti i suggerimenti per portare rimedio al disagio che ilmondo della cultura sta vivendo. Come le 10 proposte diMarco Causi. In polemica con Baricco, Causi ha delineatola possibilità di un contributo sulla pubblicità televisiva dadedicare al resto del settore culturale, mentre ha fatto pro-prio il richiamo dello scrittore torinese ad un rinnovamen-to della formazione alle diverse forme della cultura nellascuola. Più in generale, dal convegno è emersa l’esigenzadi progettare una nuova politica culturale, che favorisca lecollaborazioni e i partenariati tra Stato, regioni ed enti lo-cali, soprattutto comuni, in una visione progettuale d’in-tervento pluriennale.C’è da sperare che di tutto questo si continui a discutereancora, perché senza cultura non esiste civiltà. E dialogaresu quale sia il modo migliore per diffonderla e salvaguar-darla è necessario. 53

Alessandro Baricco e Eugenio Scalfari sono stati due dei principaliprotagonisti del dibattito sui finanziamenti pubblici alla cultura

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Per Fiducia. Questo è il nome del progetto cinematografi-co, sostenuto da Intesa Sanpaolo, che ha visto coinvolti tregrandi cineasti: Ermanno Olmi, Gabriele Salvatores e Pao-lo Sorrentino. Entusiasti di collaborare insieme, nei tre ri-spettivi cortometraggi hanno cercato di portare a termine lamissione affidata loro dall’ente sponsorizzatore: rispondereal pessimismo dilagante nel momento di crisi attuale conun’iniezione di fiducia nel pubblico italiano. Ognuno l’hafatto a suo modo, con storie diverse e poetiche differenti. A partire dal 30 marzo e per tre settimane, una ciascuno, ilgrande pubblico ha potuto vedere i risultati ottenuti, sia al ci-nema, nelle versioni integrali della durata di dieci minuti, chein tv, in edizioni da tre minuti o da novanta secondi. Sulla retei cortometraggi sono disponibili su www.perfiducia.com.Con Il premio, Olmi racconta la storia vera di due studen-tesse (che nel film interpretano se stesse) premiate per unabrillante invenzione scientifica. Qui termina la cronaca econtinua la finzione. Sul treno che le riporta a casa, le ra-gazze si imbattono in un personaggio famoso e autorevoleche offre loro un insperato finanziamento per realizzare ilprototipo. Nella realtà, Intesa Sanpaolo si sta interessandoall’invenzione delle protagoniste e potrebbe davvero rea-lizzare il loro sogno! La fiducia che racconta Olmi è, dun-que, quella “nei” e “dei” giovani.Stella, di Salvatores (soggetto di Valter Lupo), è la storiadi una bambina che, dopo aver conosciuto gli stenti peg-giori, ormai trentenne dei giorni nostri, trova il suo riscattoin un inaspettato e prestigioso posto di lavoro. Nel rag-giungimento del successo, la protagonista conoscerà il va-lore della solidarietà con un’altra donna. Ne La partita lenta, Sorrentino ha filmato al rallentatoreuna partita di rugby e i brevi momenti che la precedono,interamente in bianco e nero e senza dialoghi. Le parolerischiavano di farlo “cadere nella retorica”, dice. Il registacerca di raccontare come la fiducia e la voglia di arrivaread un traguardo spesso nascano dalla fatica, dalle difficol-tà, dalla caparbietà e anche dallo spirito di gruppo.Olmi, parlando di sé e dei suoi colleghi, correttamente affer-ma: «siamo tre generazioni distinte, che i nostri corti rispec-chiano». Al periodo che stiamo vivendo hanno approcci dif-

ferenti. Il più anziano, Olmi, sembra anche il più positivo, so-stenendo che la crisi va accettata: «l’importante è ricomincia-re». Salvatores esterna un maggior disagio, ammettendo che«è difficile raccontare il nostro paese, così come lo è ricono-scerlo e riconoscersi». Sorrentino arriva addirittura all’afasia.In ogni caso, il progetto è stato una «occasione per speri-mentare, grazie ad un budget molto buono», ha commen-tato Salvatores. Intesa Sanpaolo ha destinato ad esso unaquota delle risorse stanziate per la comunicazione com-merciale: lo scopo, oltre che pubblicitario, voleva esserequello di far ascoltare la voce delle eccellenze in campoartistico e diffondere insieme a loro incoraggiamento e fi-ducia. A dire di Sorrentino, «il committente ha fatto sì chetutto fosse contrassegnato da una estrema libertà». Ad una iniziativa così non si può che plaudire. Soprattutto sepermette di raggiungere vette d’intensità espressiva come quelladel regista partenopeo. Sulla effettiva possibilità che il pubblicoitaliano si identifichi nei casi narrati dagli autori dei film, rimanequalche dubbio. L’ottimismo, in particolare nei corti di Olmi eSalvatores, ha il sapore di un “partito” preso su richiesta. Tutta-via, anche solo l’esistenza del progetto è significativa: la fiduciasorge già nel momento in cui qualcuno crede che nella culturaval la pena investire, e non solo per il mero guadagno.

Corti d’autore contro la crisiRitroviamo fiducia con Olmi, Salvatores e Sorrentino

di Rosa Coscia

Paolo Sorrentino, Ermanno Olmi e Gabriele Salvatores allapresentazione di PerFiducia

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