Rivista DMA - Testimoni nelle Periferie (Settembre - Ottobre 2011)

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE damihi animas 2011 Anno LVIII Mensile n. 9/10 Settembre/Ottobre Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 2 - DCB Roma TESTIMONI NELLE PERIFERIE

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Rivista delle Figlie di Maria Ausiliatrice

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RIVISTA DE

LLE FIGLIE DI M

ARIA AUS

ILIATRICE

damihianimas2011Anno LVIII Mensile n. 9/10 Settembre/Ottobre

Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 2 - DCB Roma

TESTIMONINELLE

PERIFERIE

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4 EditorialeLa scelta del non-possessodi Giuseppina Teruggi

5DossierTestimoni nelle periferie

13Primopiano14Passo dopo passoGesti di umile amorevolezza

16Radici di futuroEventi da centenario

18Amore e Giustizia“...mi avete accolto”

20Filo di AriannaPazienza e audacia

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

sommario

dmaRivista delle Figlie di Maria Ausiliatrice

Via Ateneo Salesiano 8100139 Roma

tel. 06/87.274.1 • fax 06/87.13.23.06e-mail: [email protected]

Direttrice responsabileMariagrazia Curti

RedazioneGiuseppina TeruggiAnna Rita Cristaino

CollaboratriciTonny Aldana • Julia ArciniegasMara Borsi • Piera Cavaglià

Maria Antonia Chinello • Anna CondòEmilia Di Massimo • Dora Eylenstein

Laura Gaeta • Bruna GrassiniMaria Pia Giudici • Palma LionettiAnna Mariani • Adriana Nepi

Louise Passero • Maria PerentalerLoli Ruiz Perez • Paola PignatelliLucia M. Roces • Maria Rossi

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27In ricerca 28CultureNel mosaico dell’Europa

30 PastoralmenteQuale via per la felicità?

32Donne in contestoDonne sulle strade di oggi

33Nostra TerraAcqua bene comune

sommario

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ANNO LVIII • MENSILE / SETTEMBRE OTTOBRE 2011

35Comunicare36Testimoni digitaliStrade e sentieridel continente digitale

38Da persona a personaAlla ricerca della felicità

40Video Il discorso del re

42ScaffaleRecensioni video e libri

45LibroNel mare ci sono i coccodrilli

46Lettera da un’amicaLa magia delle parole

n.9/10 settembre ottobre 2011Tip. Istituto Salesiano Pio XIVia Umbertide 11,00181 Roma

ASSOCIATAUNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA

Bernadette Sangma• Martha SéïdeTraduttrici

francese • Anne Marie Baud giapponese • ispettoria giapponese

inglese • Louise Passeropolacco • Janina Stankiewicz

portoghese • Maria Aparecida Nunesspagnolo • Amparo Contreras Alvarez

tedesco • ispettorie austriaca e tedescaEDIZIONE EXTRACOMMERCIALE

Istituto Internazionale Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81, 00139 Roma

c.c.p. 47272000Reg. Trib. Di Roma n. 13125 del 16-1-1970Sped. abb. post. art. 2, comma 20/c, legge 662/96 – Filiale di Roma

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accetta di entrare, non in modo rassegna-to, ma consapevole “nel deserto, lì dove nonc’è nessun altro; nella periferia, lì dove nonc’è nessun potere; nella frontiera, lì dove irischi di ogni genere sono maggiori”.

È il tipo di vita religiosa che ancora affasci-na molte, molti giovani. Quelli stanchi dipromesse vuote, di rincorse estenuanti alpiacere e al successo. Una vita che scegliedi esserci: tra la gente, dove urge la neces-sità, dove non arriva la gioia. Pone accantoagli ultimi, fuori dalla popolarità. È una vitafelice che regala profumo e sapore, comeil “pizzico di sale” che dà gusto.

Sentirci interpellate da questa chiamata esi-ge il coraggio di decidersi: Tocca a me! Noncontano gli anni, il livello di cultura, il ruo-lo. Don Bosco e Maria Mazzarello continua-no a contagiarci della loro passione di uncuore di fiamma che spinge verso gli spazidella povertà, dell’abbandono, delle perife-rie, delle frontiere. Oggi, anche verso le fron-tiere del mondo digitale: lì troviamo i gio-vani, abitanti di un nuovo continente, sco-nosciuto e tutto da esplorare. Testimoni nelle frontiere, nelle periferie. Don-ne sempre in viaggio: grandi viaggi, piccoliviaggi, “come quelli che ci portano da perso-na a persona, superando barriere e confini”.

[email protected]

Luoghi di confineGiuseppina Teruggi

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Da giovane studente, mi aveva colpita e af-fascinata l’espressione di una insegnanteche ci ripeteva: “La persona non vive al diqua o al di là del limite. Vive nel limite”. Unaverità densa di significato. Un orienta-mento per uno stile di vita. Per oltrepassa-re il mito del “superuomo”, per essere con-sapevoli della propria creaturalità.Limite. Confine. Periferie… Un reporter-scrit-tore del Novecento, Ryszard Kapucinski, daiconfini della sua Polonia sognava l’oltre. «Unmistero e un silenzio dai quali ero attratto eintrigato, ero sempre tentato di scoprire checosa ci fosse al di là. Mi chiedevo che cosasi provasse nel varcare una frontiera…». Peril grande scrittore polacco, i confini non era-no tanto una geografia, quanto un deside-rio, un istinto, a volte un’azione. Desideriodi varcare il limite, ma anche dimorarvi.

Questo numero della Rivista propone alcu-ne riflessioni sull’essere testimoni nelle pe-riferie. Non solo quelle geografiche: maquelle che esprimono minorità, spazio del-l’essenziale, luogo delle povertà che nessu-no ama raggiungere. Sempre più oggi siamosfidate dalle esigenze di una vita religiosa cheè credibile se esprime radicalità: donnecon la vocazione di uscire dalle sicurezze,dalle scelte di comodo. La profezia del no-stro tempo è uno stile di vita che accoglie e

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Testimoni

nelle periferie

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traprendenza, di sguardi che corrono espaziano oltre le siepi divisorie, i muri se-paratori, i fili spinati, con cui nella città sicircoscrivono proprietà private. Nella pe-riferia si inventa, si cambia, si provano nuo-ve forme di sopravvivenza. Accanto all’o-dio e alla violenza, ci sono fermenti di so-lidarietà e dignità. Di speranza. Scrive Pa-dre Kizito Sesana, comboniano da anni“cittadino” a Riruta, periferia di Nairobi: «Laperiferia, per chi crede e vuole lasciarsi rin-novare, è l’incontro con Dio che non tie-ne niente per sé, che viene dal basso, cheti guarda con gli occhi dei piccoli, ti par-la con la voce delle prostitute, ti benedi-ce con la voce del vecchio che sta per mo-rire. Nelle periferie c’è chi non ha nienteda perdere, e si gioca tutta la vita su un nu-mero solo, puntandoci tutta la perseveran-za e creatività che possiede».

La Buona Notizia ai crocicchi delle vie

«Tu, divino Viandante, esperto delle nostrestrade…». Giovanni Paolo II, nell’anno del-l’Eucarestia ci aveva invitato a pregarecosì, con l’invocazione che i discepoli diEmmaus avevano rivolto allo sconosciutoche si era fatto loro compagno di viaggio.Due pellegrini e un Signore. In cammino.Il nostro Dio non si stanca di percorrerele vie degli uomini. Giovanni nel suo Vangelo annota che i di-scepoli fissano lo sguardo «su Gesù chepassava». Passare. Un verbo che arriva fino

Testimoni nelle periferieGraziella Curti, Maria Antonia Chinello

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Confini. Margini. Frontiere. Periferie.Metafore che dicono mobilità,spostamento, attraversamento.Periferia non come esclusione, ma come dimora, viaggio di umanizzazione ed evangelizzazione. Testimoni nelle e delle periferie.Perché «il Signore sta con i poveri, coi poveri di cuore, con gli umili e soprattutto con chi ama e sa donare».

(Giovanni Battista Montini)

Periferie e periferia

Mai come oggi, a tutte le latitudini, le pe-riferie aggrappate alle città sono semprepiù spesso sinonimo di violenza, rabbia,degrado. Esplodono e implodono, brucia-no e dilagano. Le cronache occupano lepagine dei quotidiani con analisi intrise– nella gran parte dei casi – di catastrofi-smi spiccioli e precipitosi: minaccia islami-ca, morte del multiculturalismo, rivolta re-ligiosa, convivenza impossibile, e tanto al-tro ancora. Immagini stereotipate di mon-di dimenticati, ma vicini, più di quanto sipensi. L’attualità racconta di droga, crimi-nalità, ma anche di resistenza e resilienza. Le periferie, infatti, per chi è capace di ve-dere, sono spazi di futuro, laboratori di in-

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a noi e che dice i luoghi del transitare: ilfiume Giordano, la casa, al di fuori del tem-pio, oltre le mura della città… perché è cosìche Cristo entra in scena in un pomerig-gio assolato. Egli è “Colui che viene”, chepassa per le strade di tutti. Ma c’è ancoraqualcuno che lo indica? Che scruta il suopassaggio? Che semina il sospetto che, an-cora oggi, egli passa nel quotidiano piùquotidiano? «Il Signore passa su tutte lestrade, ecco non disprezziamo le strade.Ma se il nostro è un guardare superficia-le, frettoloso, non ce ne accorgiamo. E nonilludiamoci, questo è un altro possibilefraintendimento, non illudiamoci di avereocchi penetranti con Dio, se non abbiamoocchi penetranti con la vita. Se sei distrat-to con la vita, sei distratto con tutto, anchecon Dio» scrive don Angelo Casati, cheama definirsi “un parroco di città”. Il passare di Gesù apre alla domanda e al-

l’invito: «Chi cercate? Venite e vedrete».Dallo sguardo alla ricerca, dall’indicazio-ne all’ascolto, dalla sequela al restare.Un itinerario per una vita consacrata ma-tura, incarnata e profetica, che vive gomi-to a gomito con le miserie della gente sen-za smettere di stare gomito a gomito conDio. Che sceglie di stare dalla parte dei tan-ti “sud” del mondo: dell’essere donna, del-l’infanzia e dell’anzianità, della povertà,dello spazio e del tempo. Una vita religiosa che, grazie alla radicalitàdella sequela espressa anche nell’eserci-zio dei consigli evangelici, è presente neldeserto, lì dove non c’è nessun altro, nel-la periferia, lì dove non c’è nessun pote-re ma solo impotenza, nella frontiera, lìdove i rischi di ogni genere sono maggio-ri, anche per l’immobilismo nel denuncia-re con energia le strutture di peccato. Pensare a nuove e più incisive modalità di

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della luce nella lotta contro le tenebre, sesi debba passare dal calore delle “serre”al freddo delle intemperie, dalla clausu-ra alle strade, dalla sicurezza del mantel-lo alla leggerezza dei sandali, che raccol-gono la polvere della strada. Sostare al margine, lontani dal centro, abi-tare la periferia: si comprende bene chenon è tanto, o solo, un’opzione geopoli-tica, quanto piuttosto la scelta di unpunto di vista, di una modalità di cono-scenza del mondo, di incremento dell’es-sere. Scrive, a questo proposito, DietrichBonheoffer: «Resta un’esperienza di ec-cezionale valore l’aver imparato infine aguardare i grandi eventi della storia uni-do

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essere tra la gente, nei quartieri, nel mon-do dell’abbandono e nel doloroso orizzon-te del degrado umano e morale, lasciarsi in-terpellare dalle situazioni che siamo chia-mate ad affrontare è scegliere la minoritàcome una modalità di esserci.Alla luce dei grandi cambiamenti, non pos-siamo continuare ad esaurire i nostri sfor-zi, a pensare esclusivamente problematicheinterne ai nostri Istituti: se questi problemidiventano l’unica nostra preoccupazione,diventano anche le nostre sabbie mobili. «L’uomo – scrive Silvano Fausti, biblista escrittore – necessariamente si muove, se noè morto. Il problema è se si muove fuggen-do o vagabondando senza senso o se simuove in una direzione dove desiderarealizzare la propria vita». Se la meta è que-st’ultima, imparerà a prendere il pane espezzarlo, «non un prendere per possede-re e per privare gli altri o per rubare, ma unprendere come dono». Decidersi per la periferia, allora, non è tan-to spostarsi dal centro città alle zone più po-polari: il movimento necessario è passaredal centro del potere ai margini della con-divisione, della comunione.

“Stare” nella minorità evangelica

La scelta della minorità è esperienza pa-squale, esodo vitale, conversione coscien-temente voluta, e non tanto inversione dimarcia subita.In un tempo in cui, come religiose, corria-mo il rischio dello scoraggiamento, perchéi tempi si fanno lunghi, la ricerca e il rodag-gio di nuovi modelli organizzativi e gestio-nali richiede dosi di pazienza e fraternitàa lungo raggio. Ci si interroga se essere mi-stiche o profetiche, se sia il momento diresistere ai tempi difficili oppure di assi-stere, con un po’ di disincanto, alla fatica

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versale dal basso, dalla prospettiva degliesclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degliimpotenti, degli oppressi e dei derisi, inuna parola dei sofferenti».

A noi religiose è richiesto di comprendereil senso di una scelta di minorità e vivere ilvalore della marginalità: «Chi vive un’espe-rienza religiosa dovrebbe aver chiaro ilvalore della marginalità. Stare dove si è, senza ambire a diventare orimanere potenti nel mondo, senza trema-re se si viene spodestati. Essere nel mondo,senza al mondo appartenere. Non è con l’ambizione di un potere che siimpone che si renderà servizio a ciò in cuisi crede. E non è salvando la propria centra-lità che si salverà la propria vita. Occorreperò a questo punto interrogarsi su checosa significhi avere una fede o non aver-la, credere in Dio o credere in altre cose, onon credere in nulla», scrive Gabriella Ca-ramore, una giornalista italiana.Una sequenza dello splendido film diXavier Beauvois, Uomini di Dio (Des hom-mes et de dieux), presentato nel settem-bre dello scorso anno al Festival di Cannes,dove ha ottenuto grossi consensi di criti-ca e di pubblico e dove ha vinto il GranPremio della Giuria e il Premio della Giu-ria Ecumenica, ci viene in aiuto comesintesi efficace di cosa voglia dire, anco-ra oggi, scegliere di essere testimoni nel-le periferie e nella marginalità.Algeria, 1996. Otto monaci trappisti france-si vivono nel monastero di Tibhirine, tra imonti del Maghreb. Circondati dalla popo-lazione musulmana, trascorrono una esi-stenza serena, dividendo la giornata tra lapreghiera, il lavoro nei campi, l’aiuto offer-to nell’ambulatorio con la distribuzione an-che di generi di vestiario ai più bisognosi,che arrivano anche da luoghi lontani. Il cli-

ma politico e sociale all’intorno è teso perl’acuirsi degli scontri tra fazioni di ribelli fon-damentalisti islamici e l’esercito. La tensio-ne e l’incertezza si fanno palpabili quandoarriva la notizia dell’uccisione di un grup-po di operai stranieri. Da quel momento leminacce si fanno veramente serie. L’invitodelle autorità algerine a Padre Christian eai suoi monaci è perentorio: andarsene, la-sciare il paese e tornare in Francia. Più vol-te i monaci si riuniscono per discutere e di-scernere su “cosa fare” e ne parlano anchecon l’imam del villaggio, che li interroga:«Ma perché dovreste andare via? La nostraprotezione siete voi, perché questo villag-gio è cresciuto con il monastero. Siamocome uccelli su un ramo». E una donna in-calza: «Gli uccelli siamo noi, il ramo sietevoi. Se andate via, dove ci poseremo?». Ladecisione finale è quella di rimanere: «Lanostra missione qui è essere fratelli di tut-ti» ricorda Christian. E Padre Christophe, ilpiù giovane della comunità, dopo un soffer-to discernimento, illumina i confratelli sulsenso profondo del loro rimanere, fino almartirio se necessario: «Che Dio apparec-chi qui la sua tavola per tutti. Amici e nemi-ci». Una notte, sconosciuti entrano nelmonastero e prelevano i monaci. Due resta-no. Gli altri sette non torneranno mai più.In un’intervista sulla rivista Testimoni, Pa-dre Pierbattista Pizzaballa, ofm, Custodedi Terrasanta, conferma tale punto di vista:«Qui siamo minoranza da sempre. Il no-stro ruolo dunque non è quello di essereal centro dell’attenzione, ma di dare testi-monianza viva. Custodire il Santo Sepol-cro non è solo sostare sul luogo, pregare,ma anche preservare quella memoria delperdono che è la Croce».Come donne ci mettiamo dalla parte deigiovani, degli ultimi, dei dimenticati, agli in-croci della vita con una mano sul giornale

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no” in cui dividere la sofferenza e moltipli-care le gioie dell’altro, oltre che le proprie.

La profezia nascosta

Molte congregazioni e istituti religiosi,sia maschili che femminili, negli ultimidecenni hanno cercato di essere presen-ti e testimoni nelle periferie della storiae delle città. Tale opzione è stata assun-

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e l’altra sulla Bibbia. Attingiamo dalla pre-ghiera e dalla contemplazione della Paro-la di Dio coraggio e forza, per scegliere re-sponsabilmente la strada a servizio dellavita e di una vita in abbondanza. Per chivuole viverli, i confini non sono linee, maspazi in cui fare esperienza anche deiconfini degli altri. Non “terra di nessuno”né “terra di mezzo”, ma “terra di più d’u-

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Un vagabondodella storia

Ryszard Kapuscinski è ungiornalista di origine po-lacca scomparso nel 2007,che si è guadagnato unposto nella storia del gior-nalismo del Novecentocon il suo lavoro di repor-ter dall’Africa, dall’Ameri-ca, dall’Asia. Il suo è unosguardo profondo sull’es-sere umano. Desideravache i protagonisti dei suoilibri e dei suoi reportagefossero in primo piano,mentre lui si accontentavadi restare sullo sfondocome semplice narratoredi storie viste da vicino.«In realtà niente mi impedi-rebbe di scegliere Ikoji,tranquillo e lussuoso quar-tiere di ricchi nigeriani, eu-ropei e diplomatici. Ma sitratta di un luogo artificiale,troppo esclusivo, chiuso e

protetto. Io voglio abitare inuna città africana, in unastrada africana, in una casaafricana, altrimenti comeposso conoscere questacittà, questo continente?[…] Ma io avevo deciso enon volevo sentir ragioni.Forse anche perché ce l’a-vevo con quelli che appenaarrivati si stabilivano nella“Piccola Europa” o nella“Piccola America”, vale adire gli alberghi di lusso eripartivano vantandosi diessere stati in Africa, dellaquale realtà non avevanovisto un bel nulla».

«Quando ho cominciato aparlare di quei luoghi, dovela maggior parte della gen-te viveva in miseria, mi sonoreso conto di aver trovato iltema al quale volevo dedi-

carmi. Ne parlavo ancheper motivi etici, perché ipoveri, di solito, stanno zit-ti. La miseria non piange,non ha voce. La miseria sof-fre, ma soffre in silenzio. Lamiseria non si ribella. I po-veri insorgono solo quandosperano di poter cambiarequalcosa. Di solito si sba-gliano, ma solo la speranzaè capace di indurre la gen-te ad agire […] Dato chequesta gente non riusciràmai a ribellarsi, ci vuolequalcuno che parli per lei. Èuno degli obblighi moraliche incombono su quanti sioccupano di questo infelicesettore della famiglia uma-na, composta di nostri fra-telli e sorelle. Fratelli e sorel-le che, purtroppo, vivononella miseria. Che non hanno voce».

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ta insieme con le sofferenze e le fatichedi un discernimento riguardo alla plura-lità di orizzonti di vita che si aprivano contali decisioni. Si sono affrontate le inco-gnite di nuove missioni apostoliche; sisono cercate e sperimentate nuove for-me di vita più semplici, inserite in con-testi sociali difficili, di estrema povertàmorale, economica, sociale. Il risultato, anche per il nostro Istituto, è sta-to il moltiplicarsi di piccole comunità, so-prattutto urbane, alla ricerca di forme di vitapiù fedeli al Vangelo e rispondenti ai “se-gni dei tempi” e ai “segni dei luoghi”, ac-compagnato dalla dolorosa presa di co-scienza di essere diventate, come cristiane(e religiose), una “minoranza” all’interno diuna società segnata dall’indifferenza.Oggi, con rammarico, si constata che la vitareligiosa non sempre è colta nella sua es-senza di essere “la vita buona del Vange-

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lo” e la possibilità di una sequela concre-ta per tutta la vita del Signore Gesù. Enzo Bianchi, monaco della Comunità diBose, invita con coraggio a porsi delle sem-plici domande per verificare dove siamoe dove stiamo andando: «In questi decen-ni di rinnovamento, la vita religiosa ha cer-cato di essere ciò che la sua vocazione lechiede, ossia una memoria vivente delVangelo? Ha cercato di essere nella Chie-sa il luogo che indica in modo limpido, perquanto è possibile a noi uomini, la crocee la sua efficacia? Ha saputo custodire quelnucleo irrinunciabile che consiste nella se-quela di Cristo, cercando di vivere comel’uomo Gesù è vissuto? Ha saputo, inquesto clima di dominante secolarizzazio-ne, non secolarizzarsi e tuttavia tentare dientrare comunque in comunicazione conquell’umanità nuova che già appare agliorizzonti della storia?».

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Domande inquietanti e urgenti: la vitareligiosa è esegesi vivente della vita diGesù? Solo se è tale, infatti, sarà ancheprofetica e portatrice di una parola daannunciare in un contesto ecclesiale esociale come quello attuale.

Testimoni viventi di un amore senza limiti

Che cosa comporta, per noi FMA, viverenell’ottica della minorità in una società fe-rita dalle migrazioni e dalla violenza, daun’economia in crisi e un impoverimentodilagante, dalla precarietà e dall’incertez-za per il futuro, soprattutto per i giovani?

Vivere il presenteperché tutte le sfide sononel presente e solo nella fedeltà a questopresente si possono affrontare. Anche nella nostra tradizione c’è que-sto continuo richiamo al quotidiano, cheè pure una forte componente evangeli-ca. Ogni giorno diciamo «Dacci oggi ilpane quotidiano» solo quello del gior-no, in essenzialità.

Pazienza come passione, in alternativa alpossesso. È uno stile di vita veramente di-verso rispetto a quello della società con-temporanea del tutto e subito, di chi nonsa più aspettare, di chi s’impone con ar-roganza e arrivismo, di chi ha mille sicu-rezze. Accettare di non capire immedia-tamente. Puntare sull’esserci, su una pre-senza attenta. Nello stare fiorisce la mas-sima dinamicità. Chi sa fermarsi è capa-ce di riflettere, pazientare, andare alla ra-dice delle cose, non lasciar scivolare viale esperienze dell’esistenza.

Lo stile della semplicità come antidotoall’idolo della facilità, che affascina legiovani generazioni, che deve connota-re tutta la nostra vita: dai progetti per-sonali e comunitari alla preghiera; dal-

l’organizzazione ai rapporti.Passare dalla facilità alla semplicità per af-frontare le asprezze della vita.

La sfida della violenza che ci insidia trasver-salmente. E non soltanto la violenza assur-da della guerra preventiva, ma quella pre-sente nelle biotecnologie, nel lavoro, nel-lo sport, nella fretta, nella velocità del-l’informazione, nell’economia liberista,nella famiglia e nelle religioni.Essere attente, cioè pazienti nel leggere glieventi, diventa un atto che ci trasforma daspettatrici in protagoniste. Se siamo educatrici, siamo chiamate ad unnuovo magistero, a non camminare nellastoria distratte, a interpretare, come Ma-ria, gli eventi, facendoci aiutare anche dailaici, studiando. È tipico di chi è povero chiedere aiuto, pri-ma di tutto a Dio e poi alla comunità. Ogni evento è un’annunciazione e nonpossiamo lasciarlo passare invano nellanostra vita.

Dio si manifesta e ci parla attraverso gli av-venimenti. Gesù è presente in mezzo anoi, nella comunità, nella storia e special-mente nel fratello e nella sorella più ab-bandonati. Lo Spirito abita in noi e ciconduce, dal profondo del nostro cuo-re, attraverso le strade reali e concretedella nostra vita. Questo è il nostromodo di stare al mondo: l’io che incon-tra il tu, e l’io e il tu che si sfregano comelegni e fanno fuoco contro la notte. Perché, come diceva Teilhard de Chardin:«Vuoi trovare Dio nel regno di Dio? Allora legati profondamente alla terra». Come dire, il modo che ci è dato per es-sere fedeli all’eterno è quello di esserefedeli al tempo.

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no il suo cuore materno tutto donato perle sue figlie. Le suore Giuseppina Paccotto,Ottavia Bussolino e Ernesta Farina deside-ravano portare con loro i preziosi consiglie la Madre le accontenta. Queste suore non avevano formazionespecifica se non quella di aver condiviso l’in-tensa esperienza di Mornese e Nizza. La Ma-dre, attraverso un breve e sistematico scrit-to vuole consegnare loro alcune linee es-senziali sulle quali continuare il propriocammino di crescita. Per loro sarà un pro-gramma che accompagnerà tutta la loro vita.

Suor Giuseppina Paccotto appartiene alla“comunità delle origini”. Nella storia dell’I-stituto è esempio di familiarità mornesinail modo con il quale Madre Mazzarello die-de a suor Giuseppina l’obbedienza di diret-trice, durante una ricreazione mentre gio-cavano a nascondino. Nel gennaio del 1881, la Madre, che già nonstava bene in salute, chiama suor Giusep-pina e le propone la partenza per l’Ameri-ca in sostituzione di suor Enrichetta Sorbo-ne. Madre Mazzarello sa che le chiede ungrande sacrificio con questo distacco e perfarle comprendere che la partenza non po-teva essere rinviata, cercò di consolarla di-cendole che se anche fosse rimasta a Mor-nese, il distacco sarebbe inevitabile, perchélei stava per morire. Suor Giuseppina com-prese la fiducia della Madre e rimase in si-lenzio preparandosi per la partenza.

Gesti di umileamorevolezza

Monica Menegusi

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“Vorrei accompagnarvi in America”, è l’e-spressione semplice e sentita di Madre Maz-zarello alle sue figlie che partivano per la ter-za spedizione missionaria. Sono parole cheriflettono una maternità generata dallo Spi-rito, consapevole della sua mediazione di co-munione, desiderosa di confermare i legami,nella certezza di rimanere fondate nella co-mune alleanza con il Dio degli incontri. Nella foto con le missionarie della terza spe-dizione, Madre Mazzarello tiene la mano dicolei che parte come responsabile dellaspedizione. È una mano che non trattienea sé ma dà fiducia, sicurezza, coraggio. Nel“gesto”, si può leggere un’attitudine mater-na di tenerezza e forza, di vicinanza e distac-co, di accoglienza reciproca e di invio,come il voler esprimere materialmente il “tiaccompagnerò sempre” delle sue lettere. Madre Mazzarello non pensando alla suasalute, accompagna le missionarie prima aTorino e dopo a Genova. Lì si imbarca e vacon loro verso Marsiglia per visitare lesuore di Saint Cyr. A chi cerca di dissuader-la dal fare questo viaggio nelle sue pessimecondizioni di salute risponde: “Voi andatein America, perché io non posso accompa-gnarvi durante un tratto del cammino? La-sciatemelo fare, questo mi consola”. La Madre segue una ad una le sorelle, le ri-ceve confidenzialmente e lascia scrittoqualche ricordo speciale a quelle che lochiedono insistentemente prima di partireper le missioni. Le lettere 64, 65, e 66 mostra-

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se come donna dallo sguardo profondo per-ché radicata in Dio, energica e decisa, au-stera con se stessa e dinamica.

Suor Ernesta Farina, fu del primo gruppoche si imbarcò per il Sud America con de-stinazione a La Boca – Buenos Aires. MadreMazzarello, insieme a Madre Emilia Mosca,andò con lro fino alla nave e non le lasciòfino a quando non ebbe visto bene comepartivano e averle raccomandate al co-mandante di bordo. Suor Ernesta, tra le la-crime, fece qualche battuta per sdramma-tizzare il dolore della partenza e ricevetteun regalo: “La madre – dice – si è distacca-ta dal suo orologio per darlo a me”. La vitadi suor Ernesta in seguito sarà attraversatadal dolore. La prova della debolezza fisicala pose alla scuola dell’umiltà della qualeMadre Mazzarello le aveva raccomandato“fattela tua amica”. Abbracciò con serenitàla croce, e sperimentò in prima persona leparole profetiche della Madre: è la mano diDio che lavora in voi. Senza di Lui non siamcapaci che a fare male. (lettera 66,2). Nel cor-so della sua vita salesiana lasciò fare a Diotanto che alla fine della sua vita poteva dire:Ho con me il Signore e mi basta!

Il confronto con le origini e il costatare oggicon realismo la precarietà delle nostre re-lazioni umane, molte volte funzionali eprovvisorie, interpella ognuna di noi.Madre Mazzarello, esperta nell’arte di intes-sere legami, ci incoraggia a tornare all’essen-ziale per imparare a fidarsi e a fare spazioumano all’altro, ad avere tempo e forme di in-contro, di ascolto e di comunicazione vitale,a celebrare il quotidiano per dare qualità allaconvivenza, a generare legami liberi e aper-ti, profondi e stabili, disinteressati e amabilipropri di un cuore di donna, sorella e madre.

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La confidenza assoluta in Gesù e Maria e l’o-perare continuamente alla loro presenza,l’attitudine evangelica dell’umiltà e la vigi-lanza su se stessa e su coloro che le sareb-bero stati affidati, il coltivare la trasparen-za nelle relazioni interpersonali e la chiarez-za nelle motivazioni, sono le raccomanda-zioni che Madre Mazzarello da a suor Giu-seppina Paccotto nella lettera numero 64..

Suor Ottavia Bussolino, era entrata nell’Isti-tuto nel 1879 e aveva percorso rapidamen-te le tappe formative tanto che nel giornodella prima professione fece anche la pro-fessione perpetua. A Torino durante gli stu-di alimentava anche il grande desiderio dipartire per le missioni in America. Da pocoin Argentina e a soli 20 anni le toccherà suc-cedere come Visitatrice a Madre Maddale-na Martini. Suor Ottavia ricevette con for-za e fiducia il peso di questa responsabilità.La Madre le scriveva: Non ti scoraggiare difronte a nessuna avversità; ricevi tutto dal-le mani di Gesù; metti la tua fiducia in Lui...(lettera 65,1). Il suo impulso autenticamen-te missionario la portò ad impegnarsi pernuove fondazioni in altri paesi come Mes-sico, Colombia, Perù e Bolivia, dove si distin-

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Il 23 giugno 1911 nella Diocesi di Acqui sidava inizio al Processo informativo. La cir-colare del 24 giugno 1911 comunicava la no-tizia a tutto l’Istituto. Dal mese di ottobre ini-ziò la pubblicazione periodica di una circo-lare che informava del procedere dellaCausa, dava relazioni di grazie e diffonde-va la conoscenza della Madre (cf CAPETTI G.,Il cammino dell’Istituto III 61-63).

7 settembre 1911

La nostra storia – come quella di ogni Isti-tuto religioso - non è solo caratterizzata dal-l’azione carismatica e organizzativa delFondatore e della Confondatrice, ma ancheda tappe canoniche e istituzionali che se-guirono il processo di fondazione. La storia dell’approvazione dell’Istituto – cheha il suo culmine con l’approvazione pon-tificia del 7 settembre 1911 – comprende unarco di tempo di circa 35 anni: dal 23 gennaio1876, data dell’approvazione diocesana del-le Costituzioni dell’Istituto FMA da parte delVescovo di Acqui, mons. Giuseppe MariaSciandra, al 7 settembre 1911, data della de-finitiva approvazione pontificia.Nel 1876 l’approvazione diocesana delle Co-stituzioni era per don Bosco e per l’Istitu-to delle FMA una garanzia di fecondità apo-stolica e di una più vasta diffusione geogra-fica del carisma. Al momento dell’approva-zione, le FMA erano 40, le Novizie 43 e lecase erano due.Don Bosco considerava l’Istituto parte in-

Eventi da centenarioPiera Cavaglià

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23 giugno 1911

In questa data iniziava nella Diocesi di Ac-qui il processo di beatificazione di MariaDomenica Mazzarello. Erano passatitrent’anni dalla morte e l’affetto per lei eravivo. Soprattutto il ricordo delle sue virtùstraordinarie non si affievoliva con il tem-po, anzi… Si ricorreva a lei con fiducia esi sperimentava l’efficacia della sua prote-zione. Fortemente convinti della sua san-tità erano soprattutto mons. GiovanniCagliero e don Giacomo Costamagna.Anche fuori dell’Istituto la figura di madreMazzarello era amata e ammirata.

Nella circolare del 15 novembre 1909 madreCaterina Daghero comunicava che “perautorevole consiglio” si sarebbe iniziata pre-sto la causa e inviava un apposito Moduloper la raccolta delle informazioni.Nel 1910 giungeva a Nizza, come cappella-no delle educande e delle oratoriane, donFerdinando Maccono che aveva già avutol’incarico da don Rua di scrivere una docu-mentata biografia di Maria D. Mazzarello invista della causa. La biografia uscì nel 1913.Madre Daghero il 15 maggio 1911 annuncia-va nella sua circolare che si sarebbe inizia-ta in quell’anno la causa, nel trentesimo del-la morte di madre Mazzarello. Nella circolare del 17 maggio 1912 si an-nunciava che presto si sarebbe inviata intutte le comunità la prima immagine uffi-ciale della Madre.

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tegrante della Congregazione salesiana,le FMA sorelle e figlie di una grande fami-glia, unite a lui e ai Salesiani dallo stesso im-pegno per l’educazione della gioventù. Dunque le FMA erano fino al 1911 unaCongregazione di diritto diocesano, ma ag-gregate ad una di diritto pontificio. Dopo leNorme del 1901 si distinse nettamente l’ap-provazione pontificia da quella diocesana.

L’approvazione pontificia dell’Istituto

Suor Giselda Capetti, nel volume citato, alcapitolo sull’approvazione pontificia, scri-ve: «Un fatto così importante giunse sipuò dire quasi di sorpresa» (p. 65). Non si era presentata alcuna richiesta allaS. Sede, ma si attendeva il documento. Il De-creto porta la data del 7 settembre 1911.Don Paolo Albera lo comunicò a madre Da-ghero con la lettera del 1° gennaio 1912 (CfAGFMA 412.2/111).

Rev.ma Madre Generale, La prima lettera che scri-vo nel 1912 è destinata a darle una notizia mol-to consolante. Qui unito troverà il decreto di ap-provazione definitiva della Congregazione delleFiglie di Maria Ausiliatrice. Fin dalla prima voltache mi caddero nelle mani le Costituzioni del-la sua Congregazione, mi fece pena il non tro-varvi una parola di approvazione. Perciò miparve opportuno chiedere a Roma un documen-to che stampato in capo al libro delle Costituzio-ni possa assicurare tutti, ma specialmente i Ve-scovi, che il loro Istituto è pienamente in rego-la. Questo documento ho il piacere d’inviarleoggi stesso. Faccia il Signore che le buone Figliedi Maria Ausiliatrice conservando intero lo spi-rito del Fondatore si mostrino sempre più me-ritevoli della fiducia che hanno posto in esse ilVicario di Gesù Cristo e i Cardinali che compon-gono la S. Congregazione dei Religiosi.Ora […] non c’è più altro a fare che seguire quelcammino che la Chiesa ha tracciato. […]Mi raccomando intanto alle ferventi sue orazio-ni e mi professo con tutto rispettoAff.mo in Gesù e Maria Sac. P. Albera

Nel testo del Decreto si legge: «L’Istitu-to delle FMA fu approvato dall’Apostoli-ca Sede non altrimenti che se fosse de-corato del decreto di lode (Decretum lau-dis) e degli altri consueti decreti che se-condo la prassi della S. Congregazionesoglionsi conferire…» (Decretum N.5139/10 - 8 settembre 1911).

Sia la santità di Maria Domenica che l’ap-provazione pontificia dell’Istituto sono pernoi eventi di grazia che proiettano l’Istitu-to sui vasti orizzonti ecclesiali. La santità del-la prima FMA non è solo un dono per noi,ma è patrimonio e ricchezza della Chiesa.Così l’approvazione pontificia contribuiscea rafforzare nelle educatrici salesiane la con-sapevolezza di realizzare nel tempo e nel-lo spazio la missione di Cristo che si pro-lunga nel suo Corpo mistico per la salvez-za del mondo, in particolare dei giovani.Dovunque siamo “presenza di Chiesa”,segno vivo di comunione, spazio della fe-condità dello Spirito oggi.

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Parlano i fatti

Secondo il programma di sviluppo dell’ONU,la mobilità umana è vista come la capacitàdelle persone di scegliere il posto dove essivogliono risiedere. Tale capacità rappre-senta una dimensione della libertà umana.Questa tesi si conferma quando si conside-rano alcune autorevoli recenti stime, secon-do cui, circa 700 milioni di persone nelmondo desiderano migrare dal loro Paesed’origine (Gallup 2010). Il fenomeno migra-torio è stato da sempre una dinamica chemuove uomini e donne verso la realizzazio-ne di sé, verso il compimento del proprio de-stino. Le esperienze che seguono sono unpiccolo esempio di un elenco innumerevo-le di storie che illustrano bene questa realtà.

Sapevo che avrei passato al massimo unasettimana al centro di Lampedusa (Italia), in-vece sto qui da tre mesi, racconta Mustafà,35 anni, tunisino, carpentiere e idraulico. Ho venduto casa e beni mobili per racimo-lare i 2.500 euro per il viaggio e affidato mo-glie e due figli ad un cognato, per il sognodi trovare un lavoro in Italia. Ho perso tutto e rischiato la vita per venirequi. L’idea di dover tornare è catastrofica.(cf http://www.storiemigranti.org/)

Qui a Comalapa (Mexico) non c’é più lavoro,i prezzi del caffè e del mais stanno scenden-do ed il governo non fa altro che promette-re, non sviluppa l’industria e non si accorge

«…mi avete accolto»Martha Séïde

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La mobilità umana è un fenomeno che ap-partiene alla natura della persona e conno-ta da millenni la storia dell’umanità. Tale fe-nomeno, volontario o forzato, è talmentevasto e drammatico ai giorni nostri, da es-sere ormai una sfida, un “segno dei tempi”che non cessa di interpellarci. Secondo Gianni Nobili, missionario combo-niano, i flussi migratori sono oggi un feno-meno strutturale, che coinvolge sia i Paesidel Nord del Mondo, sia quelli del Sud; lepersone si spostano sia all’esterno sia all’in-terno dei continenti e degli Stati. Le cause della migrazione sono variega-te: povertà economica, fuga dalla guer-ra, dall’ingiustizia, dalle calamità natura-li, dalla persecuzione etnica, religiosa epolitica, desiderio di migliorare le pro-prie condizioni di vita, studio, lavoro, sa-lute, affari, turismo, ecc. Da un lato la migrazione genera apprensio-ne e reazioni di difesa da parte di paesi chesi vedono “assaliti” da forze incontrollabi-li. Dall’altro, la gente sta scoprendo che l’in-contro tra popoli e culture diverse può di-ventare un fatto positivo per tutti. La Chiesa ha sempre contemplato nei mi-granti l’immagine di Cristo, che disse:“Ero straniero e mi avete accolto”(Mt25,35). Per questo, interpellata da questasituazione, continua ad invitare i cri-stiani a riservare un’accoglienza che siaespressione dell’amore verso Gesù Cri-sto stesso (Erga migrantes 12).

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che da qui partono ogni mese 2.400 personeverso gli Stati Uniti, non si accorge che dipen-diamo economicamente dai soldi che ci in-viano da là”. Così Joaquín López López, mes-sicano, che ha più volte tentato di attraversa-re la frontiera (cf Comitato Chiapas).

Mi chiamo Cheikh Ndiaye Touré, sono sene-galese, mercante ambulante. Avevamo intra-preso questo viaggio a bordo di una pirogaverso Las Canarias (Spagna) con il solo obiet-tivo di trovare un lavoro là che migliorasse lenostre condizioni di vita. Ho pagato 20.000 da-lasis (740 euro) per fare la traversata. Dopo cin-que giorni sul mare, siamo stati colti da unvento molto violento che ha reso il nostrocammino impossibile. Impauriti, abbiamocostretto il conducente della piroga ad inver-tire la rotta. Il nostro sogno si è volatilizzato.Ma, se l’occasione si presenta, ritenterò l’av-ventura. Ce ne sono altri, più fortunati di noi,che attualmente sono in Spagna. Perché nonio? (cf Association France Presse).

Alle sorgenti dell’amore

La realtà delle migrazioni che ha segna-to profondamente la storia di Israele e leprime comunità cristiane, trova luce inGesù Cristo. Anche Lui ha sperimentatola precarietà di una condizione di vita, chenon fa affidamento sulle sicurezze diuna patria; egli nasce e muore comeuno straniero. Per Lui, il prossimo è ognipersona in necessità. Gli orientamenti pastorali per le migrazio-ni nella Chiesa universale e locale, invita-no i cristiani a vivere l’accoglienza e l’ospi-talità verso tutti in modo particolare ver-so lo straniero, come risulta dagli scrittievangelici: «Siate premurosi nell’ospitalità»(Rm 12,13); «Praticate l’ospitalità gli uni ver-so gli altri» (1 Pt 4,9); «Non dimenticate l’o-spitalità; alcuni, praticandola, hanno accol-to degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

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Il migrante è assetato di “gesti” che lo fac-ciano sentire accolto, riconosciuto e valo-rizzato come persona. In risposta a tale ane-lito, le persone consacrate sono invitate adeducare anzitutto i cristiani all’accoglienza,alla solidarietà e all’apertura verso gli stra-nieri, affinché le migrazioni diventino unarealtà sempre più “significativa” per laChiesa, e i fedeli possano scoprire i semidel Verbo insiti nelle diverse culture e re-ligioni (cf Erga migrantes 96).

Perché l’incontro di popoli diversi non siaun’occasione di tensioni e di conflitti, maconduca ad una convivenza armoniosa, so-lidale e umanamente più ricca, è necessariauna conversione della mente e del cuore.

Cosa implica questo processo di conversione

a livello personale, comunitario e apostolico?

Se nella vita di ogni giorno sapremo acco-gliere l’altro come un dono, le migrazionisaranno anche l’occasione provvidenzialeper contribuire a costruire una società piùgiusta, una comunità educante più acco-gliente e più evangelica. Come si vivono l’accoglienza e la relaziona-lità nella nostra comunità educante?

Il fenomeno migratorio implica la neces-sità di un impegno più incisivo per rea-lizzare sistemi educativi e pastorali, in vi-sta di una formazione alla “mondialità”,all’interculturalità.Quali sono le esperienze di educazione in-terculturale presenti nella nostra comunitàeducante? Identificare alcune prospettiveper crescere in questo aspetto.

Tocca a me… tocca a noi …

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per renderle stili di vita. Se ci si crede.La nostra società propone modelli di vitafrenetici: in genere, la gente non sa atten-dere, vuole tutto ‘in tempo reale’, inveiscese è in fila e l’altro non si sbriga, si lamen-ta di ‘non avere tempo’. Riflettere e soprat-tutto darsi uno stile di pazienza può sem-brare una stravaganza fuori dalla storia, ti-pica di chi non ha molto da fare. Eppure unoscrittore celebre, Honoré de Balzac, inuno dei tre racconti delle Illusioni perdu-te (1837-43) afferma: «La pazienza è ciò chenell’uomo più somiglia al procedimentoche la natura usa nelle sue creazioni». Peruna gestazione la madre attende novemesi. Per scrivere un capolavoro ci voglio-no anni. Per costruire una cattedrale sononecessari decenni. Per plasmare una per-sonalità riuscita ci vuole un’intera esisten-za. Il saggio conosce i ritmi e i tempi del-la vita, e questo genera serenità e fiducia.

Le radici dell’audacia

Enzo Bianchi definisce la pazienza «atten-zione al tempo dell’altro, nella piena co-scienza che il tempo lo si vive al plurale, congli altri, facendone un evento di relazione,di incontro, di amore. Per questo forse oggi,nell’epoca stregata dal fascino del ‘temposenza vincoli’ può apparire così fuori luo-go, e al tempo stesso così urgente e neces-sario, il discorso sulla pazienza». Siamo convinte che essere pazienti non si-gnifica essere deboli, ma avere scoperto una

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«Bisogna avere il coraggio e la pazienza diricominciare sempre di nuovo», ha dettoai giornalisti Benedetto XVI durante il voloaereo verso Cipro nel 2010. Che ci sia una connessione tra pazienza, co-raggio, audacia, lo dice l’esperienza più diquanto lo possano le parole. A dimostrarlo sono le testimonianze ditante donne e uomini di tutte le età, di ognitempo. Sono essi a indicarcene i percorsi.

Il mio nome è pazienza

«C’è chi dice che in paradiso Dio chiami cia-scuno col nome di una virtù», scriveva la poe-tessa francese Marie Noël (1883-1967) nel suoDiario segreto. «Non potrà chiamarmi Spe-ranza: non ho atteso nessuna gioia sulla ter-ra né in cielo. Né Fede: non sono stata cer-ta. Né Carità: ho amato Dio e il prossimo conparsimonia. Né Generosità: ho contato, pe-sato, misurato tutto. Né Zelo: non ho cerca-to di conquistare. Né Povertà: mi compiac-cio del mio benessere. Né Umiltà: mi com-piaccio dei miei pensieri. Né Sincerità: nonsono vera. Né Scienza: non ho memoria. NéPietà: non ho ardore. Il nome sarà quello del-l’asino: Dio mi chiamerà Pazienza». Oggi la pazienza, ma anche la saggezza, lacostanza, non vanno di moda. In realtà,sono caratteristiche di persone grandi eumili, di quelle che lasciano una traccia nel-la storia. Sono doti per niente ‘popolari’, nonappartengono a tutti. Ciascuno però è ingrado di formarsi, di proporsi dei cammini

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nuova forza interiore. Ci vuole coraggio eforza per sapersi porre in un atteggiamen-to di calma e serenità di fronte alle situazio-ni più disparate, soprattutto di fronte a im-previsti e contrattempi. Oppure quando vi-viamo la frustrazione di vedere svaniti deisogni a lungo accarezzati, o quando temia-mo di non poter assolvere adeguatamenteun compito a cui teniamo.Audacia e coraggio fanno sì che la personanon si sbigottisca di fronte ai pericoli, af-fronti con serenità i rischi, non si abbatta perdolori fisici o morali e, più in generale, sap-pia guardare a viso aperto il pericolo, l’in-certezza, anche l’intimidazione. L’audaciaè coraggio e prontezza ad affrontare impre-visti o insuccessi in modo consapevole. La vita quotidiana è intessuta di semplicirealtà, di una sequenza di eventi che spes-so mettono alla prova la nostra resistenza.L’attitudine a pazientare permette di farfronte in modo lucido e determinato alle si-tuazioni che richiedono decisione. E c’è bi-sogno di pazienza e audacia, oggi soprattut-to, per confrontare la fede con la ragionee saper rispondere a chi chiede le ragionidel nostro credere. Spesso si ritiene che la pazienza sia una virtùpassiva che si concretizza nella disponibilitàad aspettare. In effetti, è capacità di saper ge-stire con ‘stile’ molte situazioni diverse,senza perdere la calma, è coraggio di guar-darsi con ironia, di non pretendere troppoda se stessi e riuscire a mandare avanti conserenità molte attività. Nella società caoti-ca in cui viviamo la pazienza è un valore piùche mai positivo. È segno di coraggio.

Un comune spazio per intendersi

È interessante mettersi in ascolto di quantole grandi religioni considerano in ordine allacomplementarietà tra pazienza e audacia.

Questo può costituire una base di comuni-cazione interreligiosa, oggi essenziale.«C’è un disegno di Dio, cui ciascuno appar-tiene», afferma Gabriele Mandel, musulma-no e ricercatore islamista. «Nel Corano cisono 99 nomi di Dio. L’ultimo nome di Dioè il Paziente. L’imperativo ‘Sii paziente’ è co-stante nell’Islam. Ma è indubbio che la pa-zienza è una delle qualità essenziali dell’es-sere umano. Il Corano dice spesso: il verofedele non è colui che prega volto a orien-te, volto a occidente, è colui che si compor-ta bene, che rispetta i propri impegni, chenon lede gli altri, che è paziente. Per que-sto la pazienza è la chiave della serenità». Forza, resistenza, non accettazione del-l’ingiustizia, ubbidienza è la pazienza nel-l’accezione ebraica secondo il rabbinocapo Laras, che sostiene: «Parlando di pa-zienza viene in mente una figura biblicamolto nota: Giobbe. Il concetto di pazien-za non è necessariamente legato ad accet-tare passivamente e con rassegnazione leavversità, anzi, qualche volta, di fronte aqualcosa d’ingiusto, ci si può e ci si deveribellare. Giobbe è un uomo di fede, mala sua è una fede non silente, una fede chereagisce, che addirittura contende conDio e che poi, proprio perché è stata pas-sata al vaglio della ragione, sbocca in unafede ancora maggiore». «Domani sarà migliore di oggi»: è la pazien-za ebraica secondo Riccardo Calimani, scrit-tore ebreo. E probabilmente questa, per gliebrei, è anche una logica che orienta la vita. L’imperturbabilità, l’autocontrollo, la nonviolenza sono invece le caratteristiche del-la pazienza nell’induismo, mentre la bene-volenza, la compassione, la sopportazionesono prevalenti nel buddismo. «Qualsiasiazione positiva – afferma un celebre testodel buddhismo – può essere distrutta da unsolo momento d’ira». Tra le tante sentenze

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dere occasioni di scelta che si possonopresentare durante il percorso.Non angosciarsi nello scegliere. Ciò vale soprattutto quando ci capita di es-sere in lotta per far coincidere alla megliotanti impegni quotidiani. Imparando a farconvivere situazioni disparate e a darepriorità alle cose essenziali si impara sicu-ramente a essere più serene. Non presumere di cambiare le persone. Sperare che gli altri cambino è un atteggia-mento di pazienza passiva e negativa chespesso ci abita. È saggio, invece, accettareil fatto che l’altro non diventerà mai comelo vorremmo.Riscoprire i lati inediti di sé. L’impaziente è spesso una persona dotata,che sa ottenere ciò che vuole. Se però fal-lisce è destinato alla frustrazione e all’insuc-cesso cronico: vede il fallimento come unasconfitta per tutta la vita. Pazienza è la ca-pacità di darsi una seconda possibilità, risco-prendo capacità e talenti nascosti.Vivere il momento presente. Saper assumere come determinante nellapropria esistenza il tempo dell’altro, dellepersone che ci sono affidate. Per noi, soprattutto dei giovani.Affidarsi con piena fiducia a Dio.Non siamo esecutori di ordini, ma scoprito-ri di strade che portano a libertà, che porta-no a comunione, che ci conducono gli universo gli altri e, insieme, verso Dio. Come diceErmes Ronchi, studioso dell’ordine dei Ser-vi di Maria, «Dio ti affida a te stesso e alla tualibertà, e ti sostiene con i suoi doni perché tusappia discernere le strade da percorrere, ediventa per te bruciore del cuore perché na-sca la passione necessaria a smuovere i pas-si della fatica, i sudori del pellegrinaggio».

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del pensiero orientale, questa sottolinea unmodo di essere comune nella nostra cultu-ra. L’ira costituisce, infatti, una delle radicidell’infelicità, della sofferenza, della di-scordia, della violenza. L’antidoto contro l’ira è la pazienza, che nonpresuppone passività ma, all’opposto, sal-dezza e risolutezza di carattere.Per il cristiano, la pazienza è legata alla fede:è perseveranza, fede che dura nel tempo earte di accogliere e vivere le situazioni di in-compiutezza. Innestata nella fede in Gesù,la pazienza diventa ‘forza nei confronti dise stessi” (Tommaso d’Aquino), capacità dinon lasciarsi abbattere dalle difficoltà, di ‘ri-manere’ nel tempo, di sostenere gli altri ela loro storia. Pazienza, perseveranza, auda-cia sono strettamente collegate.

Tradurre nell’oggi una virtù antica

Sono in molti a ritenere che la pazienzanon è una virtù passiva, ma un’attitudinesaggia e costruttiva che accompagna i pas-si di chi desidera affrontare la complessitàdella vita. Senza andare incontro a conti-nue frustrazioni.Ci sono degli indicatori per “essere perso-ne moderne e pazienti oggi”, in linea conla riflessione di molti studiosi di psicologia.Ne enumero alcuni:Evitare sforzi inutili. Se la strada che si vuole percorrere è impra-ticabile, è inutile intestardirsi: ci si sentireb-be solo frustrati. Meglio fermarsi, riflette-re e attendere che arrivi l’occasione giusta. Grinta e coraggio vanno bene, ma nonquando l’obiettivo è irraggiungibile.Non fissarsi su un unico obiettivo. Avere una meta nella vita è indispensabi-le. Tra la partenza e l’arrivo c’è peròmolta strada da percorrere e se si guar-da solo allo scopo finale si rischia di per-

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LA VOSTRA PRESENZARINNOVA LA CHIESA,

LA RINGIOVANISCE E LE DONA

NUOVO SLANCIO. BENEDETTO XVI

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ma RADICATI E FONDATI

IN CRISTO, SALDI NELLA FEDE

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ma “RADICATO” EVOCA L’ALBERO

E LE RADICI CHE LO ALIMENTANO; “FONDATO” SI RIFERISCE

ALLA COSTRUZIONE DI UNA CASA; “SALDO” RIMANDA

ALLA CRESCITA DELLA FORZA FISICA O MORALE...

BENEDETTO XVI

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Nel mosaico dell’EuropaMara Borsi

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Intervista a Sr. Marisa Fasano (Italia),Ispettoria piemontese, Sr. Anna Gretkierewicz (Polonia) e Sr. Horomsime Khachatrian(Armenia della Georgia), Visitatoria Europa Est.

Qual è stata l’esperienza pastoralepiù significativa per te?

Sr. Marisa Per diversi anni ho lavorato con giovani dai14-15 anni ai 20 e oltre, che frequentavano,i corsi nel Centro di Formazione Professiona-le dove io ero prima formatrice e poi respon-sabile. Ho incontrato tante ragazze e ragaz-zi che avevano chiari obiettivi da raggiunge-re, desiderosi di scoprire il futuro, per esse-re costruttori e costruttrici di una società mi-gliore per tutti. Ho anche incontrato ragaz-ze e ragazzi che facevano “più fatica”, ai qua-li la vita aveva riservato tanti disagi, che spes-so arrivavano lì dopo insuccessi, sotto il pesodi problemi più grandi di loro, con poca fi-ducia in sé stessi e nella vita, disorientati econfusi, ma con tante capacità, risorse, sogni,il più delle volte, nascosti a loro stessi. Conquesti giovani abbiamo cercato di fare uncammino di crescita, oltre che raggiungeredelle competenze professionali. Dico “abbia-mo” perché ho sempre condiviso questa mis-sione con un gruppo significativo di forma-tori e formatrici che ogni giorno scommet-teva su questi giovani e dava il meglio di sé

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per “inventare” le modalità più adatte per rag-giungere tutti e ciascuno nel punto in cui sitrovavano. Al di là di tante parole, abbiamoconstatato quanto sia incisivo per questi gio-vani, il linguaggio dei fatti: “esserci”, stare conloro, nei momenti informali e in quelli impe-gnativi, al di là di orari o tempi organizzati;accorgersi di ognuno di loro, nel loro esse-re “unico e irrepetibile”; credere che ciascu-no di loro ha in sé grandi possibilità da sco-prire e valorizzare.

Sr. AnnaL’esperienza più forte per me è stata a Mo-sca (Russia). Quando sono arrivata comemissionaria, l’unica Chiesa cattolica, cheil governo doveva restituire, era ancora unedificio con diversi piani e uffici. La S.Messa si celebrava fuori, sui gradini del-l’edificio. Sono stata testimone ocularedella lotta realizzata dai cattolici per ria-vere l’intero edificio dal governo. Quan-do il sogno si è realizzato, per me è sta-to commovente vedere la gente con le la-crime agli occhi venire per dare aiuto perrimettere a nuovo l’edificio. Oggi quellaChiesa è la Cattedrale di Mosca, rinnova-ta, ben curata. Gli anni vissuti a Mosca mihanno dato tanta forza e sicurezza.

Sr. HoromsimeI pochi anni di professione e la mia espe-rienza limitata non mi permettono di diremolto, ma sono entusiasta della missionesalesiana.

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Quali sfide, bisogni, aspettative ti sei trovata ad affrontare nella missione tra i giovani?

Sr. MarisaLa sfida di tutti i giorni, un appello costan-te per noi educatori e formatori, è far levasul punto accessibile al bene di ognuno, va-lorizzare il positivo che sanno esprimere,aiutarli a costruire qualcosa di significativoper il loro futuro con l’impegno quotidia-no, far toccare con mano che sono un va-lore. La complessità è stata una costante: l’e-terogeneità delle persone e delle problema-tiche, la relazione e la collaborazione conla famiglia di riferimento non facile da co-struire, oppure assente, la carenza di risor-se per far fronte in modo appropriato alleproblematiche di ciascuno. In questi ultimi anni i nostri gruppi sono di-ventati interculturali e interreligiosi: l’esigen-za quindi di saper conciliare l’accoglienzae il rispetto della diversità. L’attenzione alsingolo: saper stimolare i più bravi e soste-nere i più deboli, perché entrambi si accor-gano degli altri per aiutarsi. La mancanza di tempo: nelle tante coseda fare, ci siamo spesso misurati con il ri-schio di trascurare i giovani a noi affida-ti, di non riuscire a dar loro ciò di cui ave-vano bisogno e ciò che si aspettavano danoi. L’aspettativa più o meno esplicita inogni giovane che ho incontrato: potersiinserire positivamente nella società edessere pienamente felice, grazie allascoperta del senso della propria vita e diChi può dare un senso pieno.

Sr. AnnaHo lavorato in Russia e in Georgia. In que-sti paesi ho visto che i giovani vogliono es-sere liberi, vivere con dignità, avere un la-voro adeguatamente retribuito, non esse-re sfruttati, discriminati per la nazionalità o

religione. Vere sfide per la missione sonola paura del futuro, la mancanza di senso,l’emigrazione, molti giovani vogliono par-tire per avere migliori opportunità di vita.

Sr. HoromsimeLa prima sfida con cui ci si confronta è orien-tare la ricerca di libertà e di realizzazione del-le aspettative giovanili. Indispensabile neiPaesi dell’ex Unione Sovietica contrastare lacorruzione, la povertà, la paralisi di moltiprogetti educativi, la burocrazia.

Quali segni di speranza intravedi nella realtà giovanile del tuo contesto?

Sr. MarisaÈ proprio vero che in ogni giovane, c’è unpunto accessibile al bene, anche nelle ge-nerazioni del terzo millennio!

Sr. AnnaMi dà speranza il fatto che nonostante le dif-ficoltà ci sono giovani che vogliono cono-scere di più Gesù. Chiedono di fare diver-si incontri formativi: catechesi, preghiera,scuola animatori. Alcuni quando hanno un po’ di tempo libe-ro, vengono a casa nostra, per stare con noi,perché dicono che da noi si sentono benee sono contenti.

Sr. HoromsimeIl fatto che molti giovani che conosco ap-prezzano il valore di adulti capaci di edu-carli mi riempie di fiducia. Questo è una chanse perché ci sia un verocambiamento. Molti giovani emigrano per cercare una vitamigliore, ma c’è anche chi ritorna, perchévuole condividere con i suoi compaesani laricchezza che ha appreso da altri.

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La via per la felicità

Educare, per Don Bosco, è una “vera espe-rienza spirituale”; si esprime in un amoregratuito che attinge alla carità di Dio, che èmite, paziente, misericordioso, arrendevo-le, fiducioso, che previene ogni creatura conla sua Provvidenza, l’accompagna con la suapresenza e la salva donando la vita. La ricer-ca del bene dei giovani è il desiderio cheguida e accompagna don Bosco, lo solleci-ta a porsi interrogativi, a ricercare la volontàdi Dio, lo spinge a fare sua la sete di animedi Gesù “Da mihi animas cetera tolle”. Don Bosco, e ogni educatore ed educatri-ce salesiana, ha occhi per vedere dove si tro-va il giovane, sapienza per leggere i suoi bi-sogni, cuore per scorgere in ciascuno ungerme di bene e pazienza per risvegliare inognuno quell’anelito di felicità, che si ap-paga solo nella scoperta di senso della pro-

Quale via per la felicità?Anna Mariani

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Miei carissimi figliuoli... vicino o lontano iopenso sempre a voi. Uno solo è il mio de-siderio, quello di vedervi felici nel tempo enell’eternità

La felicità dei giovani, questo il desiderio ela passione più grande di Don Bosco. Una felicità non frutto di miraggi o folgora-zioni, che non si compra, ricercata nelprofondo di sé, accolta come spinta ad “es-sere di più”, conquistata giorno dopo gior-no con pazienza e costanza; ha il sapore deldono e dell’impegno, della gradualità e del-lo stupore, della gratitudine. Non c’è felicità senza capacità di ricono-scere, di ringraziare. Una felicità non con-sumata nell’attimo, nel tutto e subito, in unpresente che diviene presto passato equindi “inesistente”, ma in un “presentesempre presente”, nell’oggi di Dio, che èinsieme “nel tempo e nell’eternità”.

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pria vita, nell’incontro con un amico che ticomprende, ti accoglie nella verità e nellaprofondità dell’essere. Il suo nome è Gesù, il suo Volto è quello delRisorto, il suo cuore è quello del Buon Pa-store che conosce per nome, ama, accom-pagna e fascia le ferite della giovane e odier-na umanità, luogo in cui ascoltare la setedell’infinito e il senso della grandezza del-l’uomo, ma anche la sede in cui si ci si scon-tra con limiti imprevisti e imprevedibili.

Nel 1855 Don Bosco conduce a passeggioi ragazzi della Generala, il carcere minori-le di allora. Una giornata fra i campi e i bo-schi. I ragazzi, rinunciando alla facile occa-sione di darsi alla fuga, a sera tornano tut-ti in cella. Il ministro Rattazzi riceve a col-loquio Don Bosco e gli chiede come fa adavere tanto ascendente sui ragazzi. Lui risponde: «La forza che noi abbiamo èuna forza morale. A differenza dello Stato,il quale non sa che comandare e punire, noiparliamo principalmente al cuore della gio-ventù. E la nostra parola è la parola di Dio».Essenziale, dunque, nel sistema educati-vo di Don Bosco è la religione che si col-lega con la ragione e l’amorevolezza, unareligione in cui si trovano le ragioni, il si-gnificato della vita, dell’educazione, di tut-te le piccole e grandi cose che si fannogiorno per giorno. Dovrà essere ragionevole non ritualistica,semplice, essenziale, allegra, rispettosa delvissuto e dei linguaggi dei giovani, deve in-trodurre il ragazzo a intercettare il misteroche avvolge la sua vita, quella degli altri,quella del mondo che lo circonda. Si rias-sume in due espressioni: amore di Dio eamore del prossimo. Si esprime con una liturgia sobria, dinami-ca che coinvolge la mente e il cuore e rag-

giunge tutta la persona, si prolunga nellavita vissuta come dono e servizio.

Domenico Savio l’ha capito molto bene: Noiqui facciamo consistere la santità nellostare molto allegri. Don Bosco augura ai gio-vani Siate felici, di quella felicità che com-prende anche le sofferenze: un pezzo di pa-radiso aggiusta tutto.

L’annuncio di Gesù cuore dell’educazione di Don Bosco

Chiara è l’intuizione di Don Bosco: l’an-nuncio del Vangelo è il gesto di amore piùgratuito. Volere bene ad una persona è vo-lere il suo bene, è permettergli di scopri-re che la profonda attesa di speranza e disenso che percorre la sua esistenza ha bi-sogno di trovare risposte. In mezzo allamolteplicità dei discorsi, Don Bosco por-ta ai ragazzi la parola di Dio in un dialogoreciproco che contagia e conquista. Un contagio di fede. Come una candela viene accesa accostan-dola a un’altra candela già accesa, così ilragazzo accende la sua fede alla fede deisuoi educatori ed educatrici. La scelta privilegiata dei giovani ci fa risco-prire l’urgenza di parlare di Gesù. Gesù éun amico importante e sentiamo la gioiadi regalare a tutti la stessa amicizia. Parlia-mo di Gesù e vorremmo che ogni giova-ne lo potesse incontrare nel cuore dellapropria esistenza. È stato scritto: Don Bosco è l’unione conDio, vive la quotidianità come se vedes-se l’invisibile.Davvero portare il giovane all’incontro conGesù è il cuore dell’educazione salesiana,è regalargli ragioni di speranza nel presen-te e possibilità di guardare con fiducia ilfuturo della propria esistenza.

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to il coraggio di lasciare il marito violento,si è trovata sola in una situazione deprimen-te. Per lei la fotografia diventa una fonte disostegno. Dice: «Ho scattato un migliaio difoto, nel giro di tre mesi. La macchina foto-grafica per me era diventata la mia voce ele fotografie le mie parole». In accordo conquanto dice Rubeena, anche Nilofer Shaikhafferma che per lei l’arte della fotografia «èlo spazio dove può essere se stessa». Le fotografie sono finestre aperte sullaloro vita. Le immagini proiettano storiemai narrate della loro esistenza. «Nessuno/aci chiede come appare la vita dietro ilburkha. Questa, perciò, è un’opportunitàinteressante per presentare alla gente ilmondo attraverso i nostri occhi» diceShaikh. L’arte di fotografare «mi dà fiducianel prendere decisioni per me stessa» ag-giunge Rubeena con un sorriso.

Da vedove a piccole impresarie

Si tratta di un gruppo di auto-aiuto promos-so da una ONG diocesana chiamata Bakdilnella località di Tura nello stato di Meghalayaal nord est dell’India. Sono undici donne dicui otto vedove.Il dolore comune, per la mor-te dei loro mariti, diventa una trama dove siintrecciano i frammenti della loro vita, dan-do nuovi colori, rinnovate energie e signifi-cati per continuare a lottare per loro stessee per i loro figli. Si incontrano periodicamen-te per programmare alcune attività insieme,che vanno dalla vendita del vestiario al pol-

Donne sulle strade di oggiPaola Pignatelli - Bernadette Sangma

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Orme di donne sulle strade di oggi

Vorremmo chiedere alle lettrici e ai lettoridi riservarsi un tempo di risposta alla do-manda, prima di procedere alla lettura:percorrendo le strade di oggi con passi didonne, quali orme vediamo...? Confrontarci con le cronache di tutti i gior-ni non vi pare che prevalga una tendenzaad accentuare lo sguardo sulle situazioniche presentano le donne, le ragazze e lebambine come vittime...? Questa perònon è tutta la realtá! Scendiamo dunque,sulle strade del quotidiano, dove si giocal’esistenza di tante donne e ragazze, perascoltare le storie di vita, che emergonoanche dalle macerie umane.

Fotografie per la scoperta di sè

È l’iniziativa di un’organizzazione di nomeAawaz-e-Niswaan, con sede nel sud dellacittà di Mumbai. L’attività è rivolta a sedicidonne musulmane, donne che, in prece-denza, non sapevano nemmeno tenere lamacchina fotografica in mano, ma che l’en-tusiasmo dell’impresa ha trasformato in ap-prendiste veloci e dotate. Parlando della qualità delle loro foto, il loroinsegnante Sudhakar Olwe dice che ognifotografia non ha bisogno di nessun ritoc-co sia per la forma sia per i colori. Più im-pressionante ancora sono le celebrazionigioiose della scoperta di sé. Una tra le se-dici è Rubeena, quando finalmente ha avu-

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lame, alla produzione di piatti e di bicchie-ri e altro, seguendo la domanda del merca-to locale. In tre anni, il gruppo è risucito a ri-sparmiare una somma di 44.000 rupie (circa1000 $) oltre al guadagno mensile di 1445 ru-pie (circa 33 $) senza contare il guadagno deisingoli membri portato avanti grazie al cre-dito che si prestano a ruota tra di loro.

Una “Fata Turchina” alle carceri

La fata è una donna di nome Monica Cristi-na Gallo, una donna di Santo Stefano Bel-bo, paesino sperduto nel nord Italia. Ilsuo progetto si situa nel carcere “Le Vallet-te” di Torino. Punta sulle recluse e al recu-pero della femminilità per far emergere laloro capacità nascosta di fare e creare. Inventa “Arte Seduta”: un progetto nato dal-l’esigenza di salvaguardare e valorizzare unaparte di arredo che giaceva nel vecchio Car-cere “Le Nuove” di Torino, destinato al ma-cero: le sedie cinematografiche…Ogni detenuta ha avuto a disposizioneuna fila composta da quattro sedie e, attra-verso un processo creativo di decoupage orivestimento alternativo, ha sperimentato lapropria tecnica al fine di realizzare unqualcosa che rispondesse ai desideri arti-stici personali. Una sorta di arte terapia, ef-ficace nella riabilitazione psichica e fisicadi queste donne, che hanno saputo tra-sformare oggetti merce di mercato, in ope-re d’arte personali. Donne che, da prota-goniste, hanno affrontato un processo dicambiamento, anche simbolico: una ri-co-struzione, non solo di vecchie sedie ab-bandonate, ma soprattutto di se stesse!Così vecchie sedie sono rinate come veree proprie opere d’arte e design, finite inesposizione nei luoghi prestigiosi come ilTeatro Regio, il Museo di Antichità, Palaz-zo Madama e il Circolo dei Lettori!

Le donne creano!

Le storie raccolte sono solo frammenti di ungrande universo creativo, fatto di donne.Gocce di un oceano che mostrano la ric-chezza di intuizioni e l’insondabile capacitàdelle donne nel trovare risposte adeguateai problemi reali della loro vita, della vitadelle loro famiglie e delle comunità. Storiecosì abbondano dappertutto!A livello di idee, di concetti, di strategie,emerge l’originalità del pensiero femmini-le capace di evidenziare aspetti mai consi-derati, di generare novità. Da educatrici e come comunità educanti,andiamo alla scoperta della genealogia ditante donne che hanno arricchito l’umanitàcon il loro “genio femminile”, per dirla conGiovanni Paolo II. Lo sguardo sulla loro vita e il loro esempiopossono costituire una preziosa risorsa dacui trarre ispirazione per promuovere in noiFMA, nelle ragazze e nelle giovani donneun’ identità femminile libera e creativa (cfPF, 22) capace di dare ali per volare verso levette dell’umanizzazione piena, per l’uomoe per la donna. Cogliamo la sfida? O nasce proprio da noidonne, quel sottile senso di inadeguatez-za, di malata umiltà o iper riservatezza, checi fa vittime ancor prima di aver mosso il pri-mo passo, pronunciata la prima parola,azzardato il primo gesto? Non si tratta dipromuovere battaglie per difendere le“pari opportunità”, le opportunità possonoanche rimanere “dispari” e diverse nelmondo della differenza e della pluralità,l’importante è crescere nella consapevolez-za che “opportunità” è termine femminilee che, realmente, l’essere donna è tale!

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Unite di New York ha preso una deci-sione storica, approvando una risolu-zione che riconosce l’accesso all’acquapotabile e ai servizi igienico sanitari trai «diritti umani fondamentali». Le multinazionali sanno bene che il sur-riscaldamento del pianeta porterà alloscioglimento di nevai e ghiacciai, perciòbuona parte delle fonti d’acqua finiran-no per saltare. È per questo che stannocercando di mettere le mani su quantapiù acqua è possibile. Padre Alex Zanotelli, missionario combo-niano, che si batte da sempre per i dirit-ti, soprattutto delle popolazioni del Suddel Mondo, interpellato sulla questionedella privatizzazione delle fonti idriche edel loro utilizzo, dice: «Vittime della pri-vatizzazione dell’acqua sono le classi de-boli del Sud del Mondo, soprattutto i po-veri. Se oggi abbiamo decine di milioni dimorti per fame, domani potremmo aver-ne centinaia di milioni per sete. Diventaun problema etico-morale e anche dispiritualità. Sant’Agostino diceva che laprima Bibbia che Dio ci ha dato è il Crea-to. Occorre restituire alla terra e all’acquala sacralità di un tempo. Per questo diven-ta fondamentale la presenza delle religio-ni. La nostra è una missione globale».

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Acqua bene comuneAnna Rita Cristaino

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«L’acqua, per la sua stessa natura, non puòessere trattata come una mera merce trale altre e il suo uso deve essere raziona-le e solidale» (Compendio della DottrinaSociale della Chiesa n. 485).L’acqua è una risorsa indispensabilealla vita eppure rischia di diventare unbene sempre più raro e da pagare a caroprezzo. Già è stata ribattezzata oro blue petrolio del XXI secolo, rischia di fini-re protagonista di un business che por-terebbe benefici di natura finanziariaquasi esclusivamente a multinazionali,società e speculatori. Nel mondo c’è una vera e propria corsaall’acqua. Nonostante la superficie terre-stre sia coperta per il 71% di acqua, si trat-ta al 97,5% di acqua salata. L’acqua dolce è contenuta per il 68,9% inghiacciai e nevi perenni, per il 29,9%, nelsottosuolo e solo lo 0,3% è localizzata infiumi e laghi, quindi potenzialmente di-sponibile. In pratica è soltanto lo 0,008% dell’acquatotale del pianeta quantitativo decisa-mente irrisorio e distribuito in modoineguale sulla superficie terrestre. Sempre più scarsa e sempre più prezio-sa, l’acqua è destinata a diventare fon-te di futuri conflitti nel mondo. Il 28 lu-glio 2010 l’assemblea delle Nazioni

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Nomadi dei tempi e degli spazi

Per i giovani abitanti del mondo digitale nonesiste separazione tra i due mondi: il realee il virtuale, ma sarebbe più preciso parla-re di “dentro” e “fuori” la Rete, di “online”e “offline” della connessione. Le giovani generazioni si muovono in ununico ambiente di cui i media sono partecostitutiva e integrata. Compito nostro,quindi, è capire “come” essi si muovonoin questo ambiente, come di fatto metta-no in atto forme di “adattamento creativo”in funzione dei propri bisogni, ma anchequali sono i limiti e le ambivalenze. Secondo Chiara Giaccardi – docente di so-ciologia della comunicazione di massa e cu-

Strade e sentieri del continente digitaleLucy M. Roces

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Chi ha guidato su strade sconosciute, se-guendo le indicazioni del GPS, sa quanto siafrustrante, e a volte anche sconcertante, tro-varsi davanti una strada chiusa. Non c’è altro modo di cavarsela, se nonfacendo inversione, mentre la vocinadel navigatore satellitare grida allarmata:«Ricalcolo del percorso!»

Così ci si potrebbe sentire sui sentieriignoti, e spesso inquietanti, del continen-te digitale, un continente peraltro in con-tinuo movimento. Per ben attraversarequesto terreno, bisognerebbe capire qua-li indicazioni operative derivano e interpel-lano la comunità ecclesiale. La “giovinez-za” relativa della Rete non permette di ave-re delle teorie o delle pratiche assodate,ma si tratta di acquisire un atteggiamentodi ricerca e di sperimentazione costante.Questa “duttilità” permette di ri-aggiu-stare continuamente non tanto l’annuncio,quanto le modalità e le strategie.

Le generazioni di adolescenti e di giovania cui siamo inviate “abitano” naturalmentequesto nuovo continente. Benedetto XVI loha compreso, quando afferma che i giova-ni si trovano «in sintonia con questi nuovimezzi di comunicazione» e che a loro «spet-ta in particolare il compito della evangeliz-zazione di questo continente digitale». Nonsolo. Come adulte, ci troviamo davanti agrandi opportunità di evangelizzazione ededucazione del “continente” più salesiano.

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Nativi digitali, cultura digitale per tutti: haancora senso parlare di alleanza educa-tiva per il web? Oggi più che mai. Unadelle sfide maggiori, specialmente per chinon è «nativo digitale», è di non vederenella Rete una realtà parallela, ma unospazio antropologico interconnesso in ra-dice con gli altri della nostra vita. La Retetende a diventare invisibile: per essereconnessi basta avere uno smartphone intasca. La Rete è un ambiente di conoscen-za e di relazione chiamato a integrarsisempre meglio e virtuosamente all’inter-no della nostra esistenza quotidiana. Lasfida non è quella di usare bene la Retema di vivere bene al tempo della Rete. (cfAntonio Spadaro, SJ)

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ratrice per l’Ufficio Nazionale delle Comu-nicazioni sociali della Conferenza Episco-pale Italiana, di due ricerche Relazioni co-municative e affettive dei giovani nelloscenario digitale e Identità digitali: la costru-zione del sé e delle relazioni tra online e of-fline – esiste una «netta continuità tra di-mensione offline e online della relazione:non si costruiscono mondi paralleli, inrapporto problematico tra loro (surrogato,sostituzione), ma esiste un unico spazio rea-le di esperienza, diversamente articolato, eunificato dalle pratiche e dalle relazioni». Emerge «una individualità relazionale»dove l’individuo «non è assolutizzato, né as-sorbito nel gruppo, ma costituisce relazio-nalmente la propria identità, attraversouna gestione misurata delle proprie tracceidentitarie, nella relazione con gli altri».L’ambiente tecnologico non determina imodi delle relazioni, piuttosto, è la relazio-ne che dà forma all’ambiente, unificando spa-zi diversi in un unico mondo relazionale.

Un nuovo modo di “abitare la città”

Se dalla Rete ci giungono “buone notizie”,possiamo chiederci quali sono, nel nuovocontesto sempre in divenire, le condizioni

per un nuovo umanesimo, per azioni, rela-zioni e pratiche che siano capaci di accre-scere la nostra umanità, che promuovano lapersona nella sua integrità, che lascinoaperto quello spazio della trascendenza sen-za il quale l’umanesimo diventa disumano.

Superare la dicotomia che interpreta laRete come individuale/collettivo, pubblico/privato, particolare/universale. Invece checontrapporle, si può far leva su una disposi-zione relazionale dei giovani stessi che co-struiscono un ambiente tessuto da narrazio-ni che dicono “ci sono, sono qui, voi dove sie-te?”. «Né individuo né tribù, quindi, ma cer-chi che si intersecano, gradazioni di prossi-mità in un ambiente strutturalmente relazio-nale, dove essere significa essere-con».

Per non essere totalmente risucchiatidalla logica dei dispositivi, è importanteavere “un punto di riferimento esternoal web che consenta l’apertura di uno spa-zio di libertà perché la Rete non diventiuna tana, ma la via preferenziale per vi-vere l’alterità. Quella alterità che sola,come scrive Lévinas, inaugura la possibi-lità di prossimità e di fratellanza.

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senza pretese di ruoli da protagonisti. Allora si leggono sui volti delle persone cheriempiono le banchine o le sale di aspetto,tutta la gamma di emozioni che ognuno haa propria disposizione. Noia, speranza, ansia,gioia, sollievo, apatia, rammarico, amore,affetto, amicizia, rabbia, rassegnazione ecc.Quell’incrocio di vite può essere casuale.Ma a volte, sembra proprio che qualcunosia arrivato lì solo per incontrarci. Alloraparole, sguardi, scontri, diventano dialo-go, opportunità di conoscenza, e soprat-tutto di condivisione. La metafora del viaggio è sempre molto af-fascinante. Soprattutto quando si è giova-ni, ci si immagina liberi di muoversi da unposto all’altro per esplorare luoghi scono-sciuti, culture altre, persone che possonoarricchirci con le loro vite. Si lascia un luo-go dove si crede di comprendere tutto,dove tutti ci conoscono, dove poco è lascia-to allo stupore. Si cerca un luogo dove in-vece si può ricominciare. Si azzera tutto. Siaspetta che il nuovo arrivi. Ogni esperienza di viaggio, è come un ta-tuaggio nella nostra vita. Ci regala qualco-sa. Anche i piccoli viaggi intrapresi per ne-cessità. Anche quelli di chi ogni giorno sisposta per lavoro. Sempre nuovi e semprediversi. In ogni viaggio, si può incrociare, inun punto perfetto e definito, la vita di un al-tro. Ogni viaggio mi parla di un’ora che èunica e non passerà una seconda volta.Anche la Bibbia è ricca di storie di viaggi. Eso-

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Viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà...

(Guido Piovene)

È interessante passare qualche ora nelle sta-zioni ferroviarie, o negli aeroporti. Ore diattesa, che sembrano vuote. In cui si vive untempo sospeso tra un già – ciò che sto la-sciando, anche se per poco – e un non an-cora, la mia destinazione.Tutto ciò che c’è in mezzo sono chilome-tri di strade, ponti, monti, colline, nuvole.Allora aspettiamo il nostro treno, o il nostroaereo, che in quel momento sono il mez-zo di comunicazione più importante pernoi, capace di mettere in connessione duepezzi di terra, due pezzi del nostro mondo,due pezzi della nostra vita. Ci sono anchealtri mezzi di trasporto: navi, macchine, bi-ciclette, moto… ma non prevedono l’atte-sa nelle stazioni e negli aeroporti. Questi sono luoghi che non appartengo-no a nessuno, né a chi parte, né a chi ar-riva. Luoghi dove a volte si consumanodrammi ma anche commedie. Incontri difelicità, e condivisioni di dolori. Pezzi divita che si incrociano, incontri aspettati,addii non programmati. Stare da soli in attesa di partire, magariquando il treno o l’aereo portano un note-vole ritardo, è un’occasione per osservare,per entrare, senza essere visti, nelle vite de-gli altri, ma solo come spettatori innocui,

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di interiori ed esteriori di chi decide di lascia-re il sicuro per l’incerto. Cammini di chi saguardare al futuro, come alla prossima metada raggiungere, non impadronendosi diquelle già acquisite. Di chi vive libero.Se si guarda alla vita di tutti i giorni, ci si ac-corge dei tanti piccoli viaggi da intraprende-re, anche solo quelli da persona a persona.Paolo lo sa. Ogni giorno, per molte volte algiorno, intraprende la strada che lo portaad incontrare chi in stazione ha deciso di ri-manerci a vivere. Di chi non ha niente da la-sciare, ma neanche niente a cui arrivare.Paolo incrocia vite. Molte di queste perso-ne smarrendo il senso di appartenenza adun luogo, hanno smarrito anche il senso diloro stessi. Loro non partono più e non ar-rivano più. Hanno deciso di rimanere inmezzo al guado. Per loro i treni sono solocompagnia, lamiere che si spostano a rit-mi precisi. La persone che si affrettano asalirci sopra, o a scenderne, sono soloestranei per i quali loro sono invisibili. Pao-lo no, lui non è estraneo. Lui è una perso-na che ogni giorno intraprende viaggi di

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amicizia, attraversa i sentieri che portanodall’invisibile, o dal… “meglio non vede-re”, a… “ti conosco”. Paolo conosce per nome quasi tutti. Gior-gio ex avvocato, ha fallito un investimentoche lo ha riempito di debiti e la moglie loha lasciato. Maria, non ricorda più il giornoin cui ha iniziato a fermarsi alla stazione. For-se era lì per partire, ma ha avuto paura, edè rimasta ferma. Poi ci sono Giacomo, Raf-faella, Marco, Mario. C’è chi si organizza pertrovare qualcosa e sopravvivere, c’è chi cer-ca di dimenticare il mondo e se stesso nel-l’alcool o nella droga. Ciò che si legge inmodo chiaro sui loro volti è la solitudine. Lasi legge nel loro sguardo e la si vede in ognipiega del loro volto.Paolo, e con lui gli altri volontari delle tan-te associazioni cattoliche e non, che siprendono a cuore la sorte di ognuno diloro, ogni giorno intraprende il viaggioper entrare in quei solchi di sofferenza eisolamento, e ogni giorno il dialogo è lostesso: “Anche oggi sei qui?”… “Anche oggi io sono qui”.

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Indagine affascinantesul potere

Tom Hooper, 38 anni, registainglese ma di madre australia-na, ha realizzato questo “filmvisivamente magnifico e no-bile” con l’aiuto di grandi at-tori, ma soprattutto con lasplendida sceneggiatura scrit-ta da David Seidler che ora ha73 anni. Diventato balbuzien-te da piccolo durante la guer-ra, era stato incoraggiato daisuoi genitori ad ascoltare i di-scorsi del re trasmessi allaradio perché gli fossero d’e-sempio e di stimolo a vince-re lui stesso questo handicap.Dopo lunghe ricerche, negli

ultimi anni 90 è riuscito a rin-tracciare/consultare i diari diLogue - il mitico logopedistadel Re – e aveva chiesto allaRegina Madre il permesso difare un film su quella storiastraordinaria. «Per favore, non finché sonoin vita, per me sarebbe trop-po penoso» risponde la Regi-na, e Seidler da fedele monar-chico ne rispetta la volontà,finchè nel 2002 si spegne e dàinizio al suo lavoro.Il discorso del Re è un filmstorico, molto emozionale,di grande eleganza visiva, maè soprattutto un’affascinanteriflessione sullo strumentodella voce e sul potere dellaparola. Il popolo ha bisognodi credere, di affidarsi ad una

guida, dice Bertie al logope-dista. Non conta che questafiducia si fondi sulla realtà,conta che il popolo ci creda.Ecco perché il Re – ed ogni‘Capo’ – più che a quel chedice, deve fare attenzione adirlo bene. Il racconto si svi-luppa infatti tra la rappresen-tazione dei due discorsi piùimportanti di Bertie. Il primo,posto all’inizio del film è unvero disastro: raccoglie pietàe delusione tra sudditi e no-bili, perché non riesce a pro-nunciarlo. Il secondo invece,con l’annuncio al popolo del-la guerra contro la Germania,appartiene alla sequenza fina-le che culmina in un crescen-do così coinvolgente da strap-pare l’applauso. Nella stessa

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

Tom Hooper IL DISCORSO DEL RE Gran Bretagna 2011

Le ragioni del successo di questo film sonomolte, trattandosi di un’opera di rara bellez-za e sentimento. La critica le individua in modoconcorde e ricorrente, evidenziando preva-lentemente tre rilievi: passa con maestria daldramma alla commedia senza mai dimentica-re che sta riportando fatti reali; è un film sto-rico senza le pesantezze retoriche e manie-ristiche dei kolossal di genere; risulta una per-la di leggerezza e umanità capace di coinvol-gere lo spettatore fino all’applauso. La vicen-da, come insegna la storia, riporta in Inghil-terra negli anni Trenta del secolo scorso e ri-guarda il Principe Alberto – Bertie, come lochiamano affettuosamente in famiglia – secon-

dogenito di reGiorgio V, affetto eafflitto fin dall’in-fanzia da una gra-ve forma di balbu-zie. Destinato a di-

ventare Re Giorgio VI dopo le dimissioni delfratello, è terrorizzato soprattutto dalla neces-sità di dover esercitare il potere attraverso pa-rola. L’ansia lo paralizza davanti ai microfo-ni dell’ultima conquista tecnologica: la Radio,già insostituibile “sovrana”. Costretto suo malgrado dall’urgenza del bi-sogno, dovrà ricorrere ad un eccentrico logo-pedista australiano, Lionel Logue. Ricostruzione d’epoca esemplare, caratteri ecomportamenti adeguati alla situazione, Il di-scorso del re conquista come opera intelligen-te e toccante.

a cura di Mariolina Perentaler

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ottica, il senso del film vienerimarcato anche in una scenain cui la famiglia reale sta ve-dendo un cinegiornale chetrasmette Hadolf Hitler men-tre arringa la folla, natural-mente in tedesco. «Ma checosa dice il Führer con tuttaquella foga», chiede a ReGiorgio la piccola Elizabethtredicenne (oggi regnante).«Non capisco cosa dice – ri-sponde il padre – ma lo dicebene». Il film di Tom Hopper

e di David Saidler comun-que, non è solo la storia otti-mamente scritta e recitata diun uomo costretto a vincerela propria inadeguatezza co-municativa. E neppure è solola storia che viene colta auto-maticamente nella narrazionepiù immediata della sua ami-cizia non convenzionale conLegue, il logopedista che riu-scirà ad aiutarlo. Ce n’è un’al-tra più velata che corre paral-lela e afferma: se è vero che il

potere del politico si reggesul controllo sociale della pa-rola e della messa in scena, èaltrettanto vero che chi sene serve lo deve fare nel ri-spetto dei sentimenti umanipiù veri: l’amore coniugale,l’amore per i figli, l’amoreper la propria gente, a cui(come a Longue) ci si deve av-vicinare con umiltà e fiducia,anche se non ha titoli nobilia-ri o altolocati. Un bel film, tut-to da godere e valorizzare.

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ANNO LVIII • MENSILE / SETTEMBRE OTTOBRE 2011

L’idea del film“Una nazione che ritrova la voce”: il secondo-genito di Re Giorgio V vorrebbe soltantochiudersi nel silenzio, far dimenticare al mon-do che anche lui ha una voce.

Disgraziatamente, però, arriva un momentoin cui della sua voce c’è bisogno. Un bisogno disperato, visto che il suo volu-bile fratello dichiara pubblicamente la deci-sione di rinuncia e di incapacità ad occupar-si degli affari della nazione. E così, il re dalla voce balbuziente-intermit-tente, dovrà “chiedere aiuto”. Chiederlo (ed accoglierlo) da uno qualsiasidei suoi sudditi, perché con i suoi trattamen-ti lo aiuti a sviluppare quella che, alla vigiliadella Seconda Guerra Mondiale, si rivela la“vera capacità”, la più importante per il rap-presentante della corona: saper unire i suoisudditi con la forza persuasiva della voce-pa-rola. “Il microfono della radio è come la spa-da di Excalibur, lo scettro e la corona” – sin-tetizza efficacemente la Rivista del Cinema-tografo – “perché il potere si esercita, si espri-me, si rafforza attraverso la comunicazionediretta e a distanza”.

Il sogno del film:La capacità di impiegare la radio – come cia-scuno degli strumenti mediatici – per la veritàed il bene, svelando la realtà umana, concre-ta e contingente del potere di ogni “Re”.

La radio costringe Carlo VI a rivelarsi per quel-lo che è, e ne trasforma profondamente la fun-zione. In questo senso rappresenta e pro-muove una rivoluzione etica coraggiosa e pro-vocatoria, sia nell’immagine sia nel ruolo del-la famiglia Regnante: “Passa da una misticaespressione di un potere metatemporale, a sim-bolo concreto dell’unità nazionale, con il do-vere storico di rappresentare un punto di rife-rimento per la compattezza della nazione”. Il film interessa quindi anche come indaginepsicologica su questo “slittamento di senso nel-l’idea di sovranità” e la rappresentazione del-le sue ricadute nella vita concreta di Bertie, il“neo-monarca”. Hooper è attratto “dagli interstizi tra la sferapubblica e le tagliole della sfera privata”, pre-cisa la critica, e arricchisce il fascino di una re-gia magistrale con emozioni/riflessioni che nefanno una lezione di cinema umano toccante.

PER FAR PENSARE

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le emarginazione dai luoghi pubblici, infine l’estro-missione dagli uffici statali: le famiglie ebree, tracui quella di Schmuel Weismann, insegnante, disua moglie Surah e dei loro tre bambini, provanoad adattarsi alle dure limitazioni che il governo haimposto loro. Ma nessuno è realmente prepara-to a ciò che sta per accadere: insieme agli occu-panti tedeschi, il governo di Pétain pianifica e met-te in atto una massiccia opera di deportazione.Nella notte tra il 15 e il 16 luglio, 13.000 ebrei pa-rigini vengono prelevati dalle loro case e rinchiu-si nel Velodrome d’Hiv, dove vengono ammassa-ti in condizioni igieniche e sanitarie precarie. Maè una destinazione provvisoria, che vedrà le fami-glie condotte prima nel campo di concentra-mento francese di Drancy, nella periferia della ca-pitale, e infine ad Auschwitz, da cui la maggior par-te di loro non farà mai ritorno.L’opera riveste un alto valore pedagogico, anchese come in altre occasioni, l’argomento resta ol-tremodo difficile da affrontare tra impossibilerealismo e commozione incombente. Ma biso-gna provarci.

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Rose BoschVento di primavera (La rafle)Francia/Germania/Ungheria 2011

«Ci sono molti film francesi sul nazismo e la de-portazione degli ebrei – esordisce la regista inconferenza stampa – ma nessuno sul collabora-zionismo e sulla retata del Velodromo d’Hiver. E’un avvenimento di cui si parla pochissimo, se pen-siamo che per 14.000 ebrei deportati da Parigi e untotale di 75.000 morti nei campi, nei libri di storiasi spendono poco più di tre righe. (...) Solo ora sicomincia a studiare ed elaborare il collaborazio-nismo». Vento di primavera si colloca quindi nel-l’intento/volontà della costruzione del ricordo, ilpiù consapevole e collettivo possibile. Opera vi-brante, coinvolgente, anche se a tratti emotiva-mente difficile da sostenere. Parigi, 1942. La Francia è occupata dai nazisti, e ilregime collaborazionista di Vichy ha avviato unapolitica di dura persecuzione degli ebrei. Primal’obbligo di portare la stella gialla, poi la gradua-

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

anche i nomi degli altri componenti del branco.Tutto il resto del film racconta il suo lento e toc-cante percorso di ‘redenzione’ che attraversa l’e-sperienza sofferta del carcere a Nisida dove vie-ne recluso, per scontare due anni di condanna.In montaggio parallelo si sviluppa anche quello vis-suto da Irene, nella sua traversata di dolore e sen-si di colpa, dentro “un corpo diverso da accetta-re” che la allontana da tutti: famiglia, amici, fidan-zato. L’avvicina invece misteriosamente a Ciro. L’amore buio (titolo bellissimo) è un altro sugge-stivo, poetico e doloroso ritratto di due adolescen-ti, separati e distanti per estrazione sociale e abi-tudini, «irrimediabilmente attratti come solo gli op-posti sanno essere, finendo per non incontrarsimai» - scrive la critica. Sono capaci di raggiungersi solo con uno sguar-do dai cancelli del carcere alle strade di San Fran-cisco, dove Irene si è trasferita. L’opera va vista, va-lorizzata e proposta, soprattutto in ambito educa-tivo, per dibattiti con adulti e giovani.

Antonio CapuanoL’amore buio Italia 2010

L’ autore Antonio Capuano è abile cineasta napo-letano che da più di vent’anni narra la vita della suacittà natale e, in particolar modo, quella degli ado-lescenti di periferia che vivono in condizioni di de-grado e prevaricazione. La vicenda si apre su im-magini confuse e sfuocate riprese dai telefoninidi quattro ragazzi in fuga sui loro motorini. Stan-no rientrando dopo una domenica da sballo vis-suta al mare e, avvistando una coppietta che siscambia effusioni in auto, si appostano. C’è Irene, una loro coetanea della Napoli bene.Quando la ragazza chiude la portiera intervengo-no, scatenando un approccio-aggressione che fi-nisce in violenza e stupro collettivo. L’indomaniuno di loro (Ciro - 16 anni) si costituisce facendo

a cura di Mariolina Perentaler

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Carlo Lorenzini LE AVVENTURE DI PINOCCHIO

Risulta che molti dei nostri giovani non han-no letto il famoso libro del Collodi (pseu-donimo dello scrittore Carlo Lorenzini). Èun libro che ormai interessa gli adulti (esi-ste su di esso una ricca letteratura interpre-tativa) piuttosto che i bambini, i quali pre-feriscono i cartoni animati. Come mai, an-zitutto, una storia nata dalla prosaica neces-sità di pagare i debiti è diventata quasi percaso un capolavoro? Una storia dall’epilo-go scopertamente moralistico (chi non hatrovato un po’ deludente il ragazzino per-bene che si pavoneggia davanti al poveroburattino accasciato su una seggiola?) ep-pure immune dall’uggia dei libri educativid’una volta. Il racconto scorre qui con la na-turalezza delle cose viste in sogno: ungrillo parlante e i carabinieri che t’inseguo-no, ragazzi svogliati trasformati in ciuchini,la fata dai capelli turchini con una lumacacome portinaia. Una storia dove la logicapuò essere tranquillamente sacrificata alleesigenze dei piccoli lettori. Furono infatti leloro proteste, quando il burattino finì mor-to per impiccagione, che obbligarono l’au-tore a risuscitarlo in una puntata successi-va del Giornalino. Dove, quando si svolgeil racconto? Manca un’ambientazione sto-rica, proprio come avviene nelle favole. Ep-pure i personaggi sono “veri” e incarnano,in bene e in male, sentimenti e passioni uni-versali: l’amore paterno, che trasforma il biz-zoso Geppetto in un babbo affettuoso e pa-ziente non appena ha dato vita al suo bu-rattino, la generosità volubile e incostantedei ragazzi; la forza di suggestione delmale, la cattiveria squallida e astuta dei mal-vagi. Insomma, un libro che vale ancora lapena di leggere o… rileggere.

P. Mastrocola TOGLIAMO IL DISTURBO Saggio sulla libertà di non studiare Ed. Guanda 2011

Si ritrova, in questo saggio dal tono simpa-ticamente provocatorio, lo stesso brio, lastessa felice immediatezza che caratteriz-za le opere narrative dell’autrice. Il librosi articola in tre parti: la prima descrive lascuola così com’è oggi, a cominciare dalfatto che si organizzano corsi d’ortografiaper gli studenti universitari; la seconda ri-percorre l’ultimo mezzo secolo per inter-rogarsi sul “come è andata?”, come cioè sia-mo potuti arrivare a questo punto; la ter-za affronta il “che fare?”. Ed ecco, dichia-ra l’autrice, la “mia modesta proposta”, mol-to personale e controcorrente. Si comin-ci a sgombrare il terreno da tre equivoci,tre macigni, li chiama. Primo: una cosa èl’obbligo scolastico, altra il liceo dell’obbli-go. Troppi “liceali forzati” frequentanooggi la scuola. Secondo macigno: il diffu-so pregiudizio che il lavoro manuale siameno onorevole dell’aver conseguito unalaurea, e che i mestieri siano meno “nobi-li “ delle professioni. Terzo macigno: la scar-sa attenzione ai pochi che amano studia-re, i quali hanno pure diritto a uno studionon piattamente omologato. Dunque, unritorno a una scuola classista e discrimina-toria? No, ma una scuola che non sia solofunzionale all’utile: il lavoro, la posizionesociale, il guadagno; sia un luogo dove cia-scuno possa diventare ciò che è, sia vera-mente libero di scegliere, da dove possauscire un operaio o un artigiano che, rin-casando soddisfatto dopo un lavoro beneseguito, sia anche in grado di godersi unasinfonia di Mozart … Una tale scuola, è evi-dente, potrebbe uscire solo da una societàrisanata. Ma sognarla è il primo passo peravviarsi a cambiarla!

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ANNO LVIII • MENSILE / SETTEMBRE OTTOBRE 2011

a cura di Adriana Nepi

LIBRI / NOVITÀ

LIBRI / I CLASSICI

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vorando. Regole che un bambino di diecianni promette di mantenere e che, nono-stante le terribili difficoltà che dovrà supe-rare, Enaiatollah osserverà sempre.Ci sono dei ricordi terribili nella mente di quelragazzino frutto della violenza che lo ha cir-condato nel suo Paese e che ha potuto vede-re con i suoi occhi, così come quando ha vi-sto uccidere dai talebani il suo maestro col-pevole solo di non aver voluto chiudere lascuola. Ma in lui non c’è scoramento quan-to desiderio di farcela, di iniziare una nuovavita, facendo i lavori più umili e faticosi, sem-pre con il sorriso sulle labbra e riconoscen-za per coloro che gli davano un giaciglio o unpo’ di cibo. Iniziano per lui anche dei rappor-ti d’amicizia con altri bambini hazara anche

Nel mare ci sono i coccodrilliA cura della redazione

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«Il fatto, ecco, il fatto è che non me l’aspet-tavo che lei andasse via davvero».Inizia così il libro di Fabio Geda che rac-conta la storia vera di Enaiatollah Akbari,ragazzo afgano che all’età di circa diecianni viene abbandonato dalla madre. Unabbandono che è un atto d’amore, il gestodi una madre che consapevole del desti-no del figlio in patria, tenta di offrirgli unavia di fuga e una speranza.La colpa di Enaiatollah è quella di essere natonel posto sbagliato nel momento sbaglia-to. Il suo Paese è l’Afghanistan, lui è un ha-zara, l’etnia odiata dai talebanima anche daipasthun. E quando i pashtun reclamanoEnaiatollah e suo fratello per farli lavorarecome schiavi, come risarcimento per la mer-ce persa dal padre, derubato e ucciso du-rante il lavoro, la madre cerca di nasconder-li come può. Ma un giorno Enaiatollah ètroppo grande per trovare riparo nellabuca scavata dietro casa e sua madre capi-sce che non c’è più tempo, che deve darea questo figlio una speranza di vita, anchese lontana da lei e dal suo Paese.Inizia così una terribile odissea per quelbambino che si ritrova solo senza denaro esenza neppure la minima idea di che cosapoter fare, se non la voglia disperata di vive-re e di mantenere fede ai tre insegnamentiche la madre, prima di tornare in Afghani-stan dagli altri figli, gli aveva dato come re-gola di vita: non fare mai uso di droghe, nonusare armi per colpire un altro essere uma-no, non rubare ma guadagnati da vivere la-

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

Durante un’intervista per la pres

enta-

zione del libro, un giornalista ch

iede

a Enaiatollah Akbari : “Cosa ti man

ca di

più, della tua infanzia? Cosa vorres

ti tro-

vare anche qui?”.

Lui risponde: « Forse la semplicità,

e l’a-

micizia nel modo in cui la intendia

mo

noi, perché anche qui faccio ami

cizia

con i miei connazionali, ma dura

nte il

mio viaggio l’amico ti faceva anch

e da

fratello, da padre, anche da mad

re. Si

prendeva cura di te, quanto più p

ossi-

bile. La stessa cosa facevamo noi, c

i da-

vamo una mano. Siccome era

vamo

soli, ciascuno si prendeva cura d

ell’al-

tro».

Page 45: Rivista DMA - Testimoni nelle Periferie (Settembre - Ottobre 2011)

loro soli, anche loro costretti a vivere lavoran-do. Alla ricerca di una situazione migliore ec-colo andarsene dal Pakistan e raggiungere inmodo rocambolesco l’Iran dove aveva senti-to dire esserci più possibilità di lavoro. Fin dal-l’inizio del libro sentiamo parlare di traffican-ti di uomini, persone che si fanno dare dei sol-di (moltissimi per quei disperati) per traspor-tare le persone da uno Stato a un altro. In Iran lo aspetta il pesante lavoro in un can-tiere in compagnia di altri muratori tutti clan-destini come lui e tutti gentili con lui. Il po-sto di lavoro diventa la sua casa e la sua pri-gione perché nessuno usciva da lì per pau-ra di essere preso dalla polizia, facevano iturni solo per andare a prendere da mangia-re. Varie vicissitudini e la violenza delle isti-tuzioni, le botte prese dai poliziotti, sceneterribili che vedremo ripetersi in tutti i pae-si che Enaiatollah dovrà attraversare per cer-care uno spazio in cui vivere.Non bisogna mai dimenticare che quellache viene raccontata in questo libro è una sto-ria vera e che il protagonista è un bambino,

e che le prove che affronta sono così dram-matiche che solo alcuni riescono a superar-le. Dall’Iran alla Turchia, passaggi compiuticon i mezzi più disparati e con il duplice ri-schio di essere scoperto e rimandato indie-tro e di perdere la vita. Poi dalla Turchia il difficilissimo passaggio inGrecia: qui la morte è stata davvero vici-na e alcuni bambini, compagni di unaterribile traversata su di un gommone, lamorte l’hanno incontrata. Se le istituzionisi sono sempre dimostrate ostili, alcunepersone hanno invece avuto umanità neiconfronti di questo ragazzino educato,spaurito e terribilmente solo. Sono proprio questi pochi, ma fondamenta-li incontri che hanno permesso a Enaiatollahdi arrivare finalmente a Torino, trovare unasplendida famiglia che lo ha preso in affidoe infine capire che era il momento di fermar-si e di costruirsi un futuro. Colpisce il letto-re tutto l’iter per ottenere il permesso di sog-giorno come rifugiato politico. Fabio Geda, in questo testo, ha saputo racco-gliere i ricordi del protagonista e restituirli allettore con la stessa forza narrativa di un ro-manzo, rispettandone lo sguardo e le verità.Il racconto è preciso e le immagini evocateraccontano anche i disagi, la paura, le speran-ze, il dolore... e poi la confusione di una si-tuazione vissuta ai limiti dell’umana soppor-tazione. Il libro è un tentativo dialogico ed en-tusiasta di ricucire i pezzi di una vicenda per-sonale, quella di Enaiatollah Akbari, strappa-ti via dagli eventi drammatici della storia re-cente, tra Medio Oriente e Occidente. Brandelli di voci, di visi, di avvenimenti spar-si nelle stanze della memoria dall’incederedella vita. In un viaggio, cartina alla mano, cheEnaiatollah ripercorre anche quando dimen-ticare sarebbe più semplice, e che racconta,ri-racconta, soprattutto a se stesso, ma con lasperanza che tutti lo ascoltino.

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

La magia delle paroleParliamo molto. A volte troppo e inutilmente le une delle altre. Senza amo-re. Quanta sofferenza nasce nel cuore di alcune di noi, quando sentiamo fra-si di critica, giudizi che non riconosciamo del tutto giusti e veri sulla nostrarealtà e il nostro agire. In occasione del cambio di casa una FMA ha scritto: «…sentire che di me lanuova comunità sapeva già “qualcosa”, che i miei limiti, la mia “fama” mi ave-vano già preceduto, mi ha reso più difficile la possibilità di cambiare davve-ro, mi ha un po’ paralizzato… avrei voluto ricominciare!”.Don Bosco insisteva moltissimo su questo aspetto della comunicazione: af-fermava essere la mormorazione uno dei più grandi ne mici della casa. Co-nosciamo tutte ciò che scriveva nelle Memorie Biografiche: “Il malconten-to prodotto dalla mormorazione allontana dal la vita religiosa” (XI,517).“Desidero che si sappia e si ritenga che colla parola mor morazione io nonintendo solamente il tagliarci i panni addosso, ma ogni discorso, ogni mot-to, ogni parola, che possa in un compagno sminuire il frutto della parola diDio udita” (III,49).E perciò vale la pena di riflettere su queste splendide parole di Ferdinand Eb-ner: «La parola giusta è sempre quella che dice amore e che ha in sé il po-tere di abbattere le muraglie cinesi. Ogni sventura umana sulla terra dipen-de allora dal fatto che gli uomini sono di rado in grado di pronunciare la pa-rola giusta. Se ne fossero capaci, si risparmierebbero la disgrazia e la penadelle guerre. Non esiste sofferenza umana che non potrebbe essere evita-ta grazie alla parola giusta, e non esiste nelle varie disgrazie di questa vita al-cuna consolazione autentica, se non quella che viene dalla parola giusta. Laparola detta senza amore è già un abuso umano del dono divino della pa-rola. La parola che dice l’amore è eterna. L’amore di Dio che ha creato l’uo-mo mediante la parola, nella quale era la vita, per redimerlo si fece “ogget-tivo” nella “parola”, ovvero esperibile ai sensi, storico, nell’incarnazione diGesù e nella parola del Vangelo» (F. Ebner).Dobbiamo sentire il richiamo e il dovere della “rivoluzione umana”: quelladell’amore! Cambiare il mondo è cambiare se stessi. Tutte le parole sono inu-tili se da stanotte, da domani saremo come ieri.È sempre necessario tra due parole scegliere quella più debole, la minore,la più casta, la più dolce…

La tua amica

Page 47: Rivista DMA - Testimoni nelle Periferie (Settembre - Ottobre 2011)

DOSSIER: Testimoni di speranza

PRIMO PIANO: Passo dopo passo Fianco a fianco con i giovani

IN RICERCA: Donne in contesto La speranza è donna

COMUNICARE Testimoni digitali Vino nuovo in otri nuovi

NEL PROSSIMO

NUMERO

NOI FACCIAMO CONSISTERE LA SANTITÀ

NELLO STARE MOLTO ALLEGRI (DOMENICO SAVIO)

Page 48: Rivista DMA - Testimoni nelle Periferie (Settembre - Ottobre 2011)

SULLA TUA PAROLA

EGLI RENDERÀ ANCORA IL SORRISO ALLA TUA BOCCA, SULLE TUE LABBRA METTERÀ CANTI D’ESULTANZA.

GIOBBE 8,21