Rivista DMA - Beati i poveri (Gen - Feb 2010)

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RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICE BEATI I POVERI damihi animas 2010 Anno LVII Mensile n. 1/2 Gennaio/Febbraio Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) rt.1, comma 2 - DCB Roma

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Rivista delle Figlie di Maria Ausiliatrice

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damihianimas2010Anno LVII Mensile n. 1/2 Gennaio/Febbraio

Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) rt.1, comma 2 - DCB Roma

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4 EditorialeNovità per il 2010di Giuseppina Teruggi

5IncontriBeati i poveri

13Primopiano14Il perchè di TeresaLa scelta di don Bosco

16Radici di futuroStoria come amore alla vita

18Amore e Verità Per uno sviluppo umano integrale

20Filo di AriannaMillesettecentoventi

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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dmaRivista delle Figlie

di Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81

00139 Roma

tel. 06/87.274.1 • fax 06/87.13.23.06e-mail: [email protected]

Direttrice responsabileMariagrazia Curti

RedazioneGiuseppina TeruggiAnna Rita Cristaino

CollaboratriciTonny Aldana • Julia Arciniegas

Mara Borsi • Piera Cavaglià

Maria Antonia Chinello • Anna CondòEmilia Di Massimo • Dora Eylenstein

Laura Gaeta • Bruna GrassiniMaria Pia Giudici • Palma Lionetti

Anna Mariani • Adriana NepiLouise Passero • Maria PerentalerLoli Ruiz Perez • Paola Pignaltelli

Lucia M. Roces • Maria Rossi

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27In ricerca 28CultureL’amicizia tra la tartarugae l’aquila

30 PastoralmenteDiventare adulti

32Donne in contestoA quindici anni da Pechino

33Parole chiaveSinagoga, casa dell’incontro

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ANNO LVII • MENSILE / GENNAIO FEBBRAIO 2010

35Comunicare36Faccia a faccia

38Comunicare la fedePer una buona comunicazionedella fede

40Video Verso l’eden

42ScaffaleRecensioni video e libri

45LibroAli bruciate. I bambini di scampia

46CamillaUna marcia in più

n.1/2 gennaio-febbraio 2010Tip. Istituto Salesiano Pio XI

Via Umbertide 11,00181 Roma

ASSOCIATAUNIONE STAMPA PERIODICA ITALIANA

Bernadette Sangma• Martha SéïdeTraduttrici

francese • Anne Marie Baud giapponese • ispettoria giapponese

inglese • Louise Passeropolacco • Janina Stankiewicz

portoghese • Maria Aparecida Nunesspagnolo • Amparo Contreras Alvarez

tedesco • ispettorie austriaca e tedescaEDIZIONE EXTRACOMMERCIALE

Istituto Internazionale Maria AusiliatriceVia Ateneo Salesiano 81, 00139 Roma

c.c.p. 47272000Reg. Trib. Di Roma n. 13125 del 16-1-1970Sped. abb. post. art. 2, comma 20/c,

legge 662/96 – Filiale di Roma

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di Michele Rua sarà vista in questa ottica.Alcuni temi generatori dell’enciclica di Bene-detto XVI “Caritas in Veritate” fanno da tramaalla rubrica Amore e verità, mentre Parolechiave evidenzia tematiche inerenti al dialo-go interreligioso e interculturale. Nella sezio-ne Culture ci sono racconti e storie di vita didiversi contesti asiatici e in Donne in conte-sto vengono proposti nuclei di riflessione sul-la condizione della donna in varie parti delmondo, sulla base di testimonianze e buoneprassi presentate all’ONU.

Sappiamo quanto sia importante fare dellenostre comunità ambienti di vita e di speran-za. In Faccia a faccia sono offerti spunti di ri-flessione a partire dalle tematiche della co-municazione, soprattutto inerenti alle dina-miche delle relazioni interpersonali. Il Capi-tolo ha ribadito il valore prioritario dell’evan-gelizzazione oggi, in ogni contesto cultura-le: Comunicare la fede si propone di rispon-dere e questa urgenza.Continuano le rubriche Filo di Arianna, Pasto-ralmente, Scaffale video e libri, Camilla.

Buon anno, dunque, in compagnia di DMA Ri-vista: presenza amica e discreta, che vuol par-lare alla vita e costruire rete in tutto l’Istituto.

[email protected]

Novità per il 2010Giuseppina Teruggi

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La nuova veste grafica del DMA vuole essereun augurio di cammino in novità in questoanno che conclude la prima decade del millen-nio. In continuità con la sua natura di strumen-to per la formazione delle FMA, aperta anchea laiche e laici, la Rivista presenta, nella primaparte, una nuova modalità di proposta di rifles-sione. Il Dossier viene sostituito dall’Intervista,che interpella persone significative a cui si chie-de un approfondimento del tema scelto.

Incontri è il titolo scelto per questa prima par-te. Nella ricerca di una tematica unitaria chefacesse da leit motif per tutto l’anno, il grup-po redazionale ha ritenuto urgente propor-re quella della ‘povertà’, vista nell’ottica del-l’identità carismatica e della missione educa-tiva, con riferimento al secondo Orientamen-to del CG 22°. A partire dal rimando biblicoche ne è il fondamento: Beati i poveri in spi-rito, ogni Incontro approfondisce la relazio-ne tra povertà e missione, giustizia, salvaguar-dia del creato, bene comune, sobrietà.

Varie le novità anche nelle Rubriche. In lineacon l’invito del Capitolo di approfondire le fi-gure dei Patroni, la Rivista aiuta a riflettere suIl perché di Teresa/Il perché di Francesco. Dinatura storica è la sezione Radici di futuro, chepercorre il cammino dell’Istituto attraversoesperienze e testimoni che aiutano a raffor-zare l’audacia del ‘da mihi animas’. La figura

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Beatii poveri...

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tentano di scaricare la responsabilità suisingoli e sulle diverse comunità.I primi sostengono che le nazioni e le co-munità più potenti hanno imposto un ingiu-sto sistema al resto dell`umanità che do-vrebbe essere rifiutato e sostituito con unsistema più giusto che porti alla fine di que-ste situazioni di povertà; adesso anchequelle stesse nazioni stanno attraversandoun momento di crisi. Gli altri insistono sul fatto che la povertà èdovuta al fallimento individuale e delle co-munità che non riescono a valorizzare le op-portunità così come si presentano loro; essidovrebbero uscire da una sorta di letargoe imparare ad aiutarsi.Entrambi i punti di vista contengono delleverità. Ma entrambi sbagliano nel tentaredi scaricare tutta la responsabilità sugli al-tri: i primi sugli esistenti sistemi di sfrutta-mento e su coloro che controllano questestrutture schiavizzanti; i secondi su coloroche danno lente e ed inefficaci risposte pre-sentandosi con un senso di impotenza difronte a nuove prospettive.Se si applicasse al mondo degli affariun’etica della responsabilità collettiva, lemoderne società riuscirebbero a cam-biare le loro strutture economico-finanzia-rie – dei veri e propri mostri che hannocausato povertà e ingiustizia – per costrui-re nuove strutture di solidarietà. In questo modo anche i gruppi più debolisi sentirebbero rafforzati nel loro impegno

Intervista all’arcivescovo Thomas Menamparampil, sdb

Beati i poveri...Anna Rita Cristaino, Bernadette Sangma

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Alla nostra richiesta di Incontro, Mons.Thomas si è dimostrato subito molto di-sponibile. L’approccio è stato virtuale,ma lui non ha mancato di contattarci unavolta arrivato a Roma. Incontrandolo si percepisce il senso mis-sionario del suo parlare e anche l’affetto pa-terno che dimostra alle FMA. La sua esperienza in una diocesi in cuispesso i cristiani sono vittime di discrimi-nazioni l’ha reso un uomo essenziale ecentrato sulla Parola di Dio.Molte le citazioni e le metafore biblicheusate per far comprendere la dimensioneevangelica della povertà, ma molti anchei richiami alla concretezza della vita di tut-ti i giorni. Nell’intervista parte dalla costa-tazione della situazione di crisi che granparte delle società del mondo stanno at-traversando e che provoca ulteriore po-vertà, tocca i temi della povertà evangeli-ca come testimonianza di chi ha fatto unascelta di consacrazione al Signore, i temidella formazione alla povertà, e soprattut-to ripete con forza due concetti per luifondamentali: la speranza operosa e la co-mune appartenenza.

Costatando l’odierna situazione mondiale, dalsuo punto di vista, quali sono le cause pro -fonde relative alla povertà?

Molti attribuiscono l’attuale situazionedi povertà nel mondo al sistema di strut-ture economico-finanziarie, altri invece

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di combattere con le loro forze la situazio-ne di crisi, confidando in strutture chepossano dare loro speranza per il futuro. Credo, che per un dialogo costruttivo tra lediverse opinioni, siano necessarie personecostruttrici di ponti, che sentano il signifi-cato della loro missione, che con coraggiosappiano rivolgere richieste di maggiorgiustizia ai potenti, incoraggiando chi è piùindietro, sottolineando la natura del nostrodestino condiviso come esseri umani e mo-strando come lo sviluppo della parte più de-bole dell’umanità può portare vantaggitangibili anche ai potenti. Ci sono già uomini profetici che agisconoin questo modo, incitando chi è vittimadella situazione di crisi e di povertà ad im-parare e a trarre speranza dalle esperien-ze positive di altri che hanno con pazien-za ricostruito il loro avvenire. Io spero cheanche tra i religiosi ci possano essere sem-pre più persone di questo tipo.

È convinzione diffusa affermare che non sitratta tanto di povertà di risorse, ma di po-vertà di umanità. Lei cosa ne pensa?

È giusto ciò che si dice nella domanda, mami piacerebbe ammorbidire il tono di pes-simismo quando parliamo di “povertà diumanità”. Dobbiamo essere realistici. Ancheuna lettura non approfondita della storiamostra che gli esseri umani non semprehanno saputo fidarsi gli uni degli altri.Schiacciare la “speranza” degli “altri” è sta-to il nostro principale sport. E noi abbiamospesso pensato di aumentare la nostra“speranza” indebolendo quella di qual-cun altro. É il buon senso che ci dice che lenostre speranze sono concatenate e che po-tremo riemergere dalla “povertà di umanità”solo quando riconosceremo questa gran-de verità della “comune appartenenza”. Bisogna avere una più ampia visione dellerealtà. Le nostre risorse conosciute sonosolo una infinitesima piccola porzione in

Thomas Menamparampil, 73 anni, salesiano. Vescovo di Guwahati città dell’Assam nell’IndiaOrientale, diocesi dove i cattolici sono 50 mila su6 milioni di abitanti. È stato il primo missionarioad infrangere la barriera dell’Arunachal Pradesh,uno Stato indiano che fino al 1978 era proibitoagli evangelizzatori. Nell’ultimo Sinodo dei ve-scovi, mons. Thomas Menamparampil ha tenu-to una delle cinque relazioni introduttive sul-la Parola di Dio nella vita della Chiesa.Ha scritto i testi a commento della via Crucis,che Benedetto XVI ha presieduto al Colosseoil venerdì santo del 2009. Tra le sue pubbli-cazioni edite dalla San Paolo ci sono: NeverGrow Tired, A Path to Prayer; Let Your Light Shine; Challenge to Cul-ture; Thoughts on Evangelization; and Cultures: In the Context of Sharing the Gospel.Numerosi anche i suoi articoli per diverse riviste sui temi dell’Evangelizzazione, delle Culture, della Pace, della Vita Religiosa e della Pastorale.

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L’Asia per un po’ di tempo è rimasta più in-dietro in campo politico ed economico, mapoi ha trovato strade percorribili per gua-dagnare e rafforzare le proprie strutture po-litiche ed economiche. Ha saputo usare anche in questo campo lasaggezza della propria filosofia. Ma ci sono società più al margine, che spes-so sono isolate, perse dietro lotte locali perla sopravvivenza. In molti casi ci sonogruppi di persone anche nelle società piùricche che non riescono ad emergere e adentrare come protagoniste dello sviluppo.Questi gruppi di persone hanno bisogno diessere guidati in modo speciale. Le società più marginalizzate di ogni conti-nente chiedono l’attenzione del mondo, leloro voci si alzano in proporzione al sensodi impotenza che spesso provano. I gruppideboli all’interno delle società più sviluppa-te, rivendicano maggiore equilibrio, senten-dosi spesso come Davide contro Golia.

In base a quanto delineato, qual è la “diffe-renza cristiana”?

Il cristiano, di fronte alla rabbia che situa-zioni di questo tipo generano in gruppi dipersone, deve ripetere ciò che Gesù dis-se a Pietro: “Metti via la spada… colui cheprende la spada perirà per mano di essa”. Bisogna avere il coraggio di rivendicare ipropri diritti come l’apostolo Paolo quan-do affermò la sua cittadinanza romana, etutelare i diritti dei più deboli prenden-do la loro difesa come Paolo stesso fececon lo schiavo Onesimo nei confronti delpadrone Filemone. In questo rientra an-che il lavoro per il riconoscimento dell’u-guaglianza delle donne. Nel suo recente libro L`idea della Giusti-zia, Amartya Sen, economista indiano, Pre-mio Nobel per l’economia nel 1998, dice

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rapporto a quelle non ancora esplorate esconosciute. In più, la nostra abilità nell`usodi queste risorse permette uno sviluppo in-definito. Non abbiamo, quindi, bisogno dialcun pessimismo. Se le nostre mani e i no-stri cuori sono uniti, si prospetta un`era diarricchimento reciproco. O moriremo insie-me. Il libro della Genesi al cap. 41 parla del-le mucche magre che inghiottiscono lemucche più grasse. Non è la prima volta checose del genere accadono nella storia. Posso dire quindi che sono d’accordo chelo scenario oggi rivela una vera “povertà diumanità”. Ma non ne siamo condannati.Questa può essere superata.

Davanti all’odierno scenario di povertà gene-rale, quali sono le interpretazioni a livello cul-turale e antropologico più significative, e lerelative reazioni?

È evidente che alcune società e alcune strut-ture economiche sono più equipaggiate peraffrontare questa crisi.

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

«Riaffermiamo l’urgenza della testimonianza

profetica della povertà

e dell’opzione prioritaria per l’educazione

delle/dei giovani più bisognosi

mediante processi concreti e condivisi»

(Atti del CGXXII n° 42.2)

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che per raggiungere lo stato di una “giu-stizia perfetta”, abbiamo fallito nel ri-spondere ai bisogni immediati di diversesituazioni, spesso infliggendo più grandiingiustizie e ponendo mete troppo lonta-ne per una realistica realizzazione. Mentre si fa uno sforzo per raggiungeredelle condizioni ideali, bisogna fare ancheil necessario per rispondere alle richiestedelle diverse comunità in diversi contestisenza sfuggire dalla quotidianità.Come primo passo i cristiani dovrebberoimpegnarsi per far sì che ci siano meno in-giustizie nei campi dove loro sono chia-mati a lavorare. Ogni servizio che si svolge ha un suo sco-po, se si fa bene il proprio compito, si po-trà arrivare più facilmente alle mete pre-fissate. La reale situazione di “minorità evangelica”

crea talvolta pessimismo. Come uscire dalloscoraggiamento di tale condizione? E comeconciliarla con l’esigenza della visibilità?

Anche qui si rischia di cedere al pessimi-smo, specialmente quando giustifichiamoil numero di credenti e di vocazioni che di-minuiscono, filosofizzando sul fenome-no, e pretendendo che un più basso nume-ro possa dare una qualità più alta. Spessoperò dove si accetta questa giustificazione,accresce un letargo pastorale, si indeboli-sce l’impegno apostolico e ci si rassegna aguardare alla crisi presente come ad una“realtà cosmica che non può cambiare”. Ma il pessimismo immediatamente scom-pare quando qualcuno mostra la sua vo-lontà di accettare le sfide e di esploraremodi di affrontare il problema frontalmen-te. Non guardate ai fiori sbiaditi, ma guar-

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sibili in voi. Abbiate la giusta risposta perognuno, ma datela con umiltà ed amore.Parlate, insegnate, scrivete articoli, scrive-te lettere piene di significato. Cosa farestese arrivaste a capire che l’unico Vangelo chepuò far piacere leggere ad una persona è lalettera che state scrivendo? Scegliete gli angoli dimenticati del mondo,i settori e le sfere di attività “negligenti”, chivive ai margini della società, come ogget-to della vostra attenzione durante le vostrepreghiere. Siate creativi e pensate attenta-mente ad un modo per aiutare le comunitàcristiane più deboli.

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date piuttosto alle querce rigogliose e ainuovi germogli. Non vi scoraggiate sulle ter-re aride abitate dai potenti e dai sofistica-ti, correte alle valli verdi dei timidi, degli esi-tanti, dei ricercatori, di coloro che si pon-gono domande, e di coloro che hanno vo-glia di imparare, lì c’è un tesoro nascosto.Guardate al vibrante movimento ecclesia-le e tendetegli una mano di supporto. En-trate nelle vite delle persone e comunica-te il vostro messaggio a seconda del conte-sto. Siate pronti a dare risposta a chiunquevi chieda ragione della vostra speranza, elasciate che i segni della speranza siano vi-

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

Gesù ci fa una proposta: se voi vi occupate del bene, del benessere degli altri, beati!Perché? Perché permettete a Dio di occuparsi di voi, questa è la beatitudine.

(Padre Alberto Maggi)

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Cooperate con ogni agente attivo che è pre-parato a portare il Vangelo nel mondo. E non dimenticate che è il più piccoloseme di senape che crescerà per diventa-re il più grande albero.Come donne consacrate per l’educazione deigiovani quali vie percorribili, in ordine allapovertà evangelica, possiamo indicare allenuove generazioni?

I miei suggerimenti sono semplici. Trovategioia nella vita radicale. Continuate a cerca-re di fare di più, di dare di più, servire di più,condividere di più; ed imparate a fare a menodi molte cose, così da essere generose nelvivere la vostra vocazione. Riducete le vostreesigenze egoistiche. State più attente ai ri-chiami che vengono da coloro che hannofame di attenzioni, di incoraggiamenti e distabilità. Mettete questo prima delle vostreesigenze di comfort. Come educatrici, avre-te bisogno di usare molte più cose rispetto

a quelle previste dal vivere semplice dellapromessa evangelica. Rimanete distaccate.Non lasciate che l`efficacia apostolica dellacomunità diventi ostacolo al vivere persona-le e condiviso delle sfide della Parola di Dio.E per ultimo, non limitate il concetto di po-vertà solo alle “cose”, all`avere o al non ave-re. Misuratelo con la radicalità evangelica vi-vendo una vita intensa di assoluto impegnonella gioia piena. Sia la vostra vita un sacri-ficio vivente. Sia una candela che si consu-ma al servizio del Signore e della sua gente.

In base alla sua esperienza quale suggerimen-to darebbe ad una comunità FMA per vive-re la povertà evangelica?

Posso solo ripetere ciò che ho già detto.Ma andando oltre aggiungerei, restiamovicini alla maggioranza delle persone del-la classe media delle società. Abbiamo di-mestichezza con i loro standard di vita. As-

Gli inviati di Gesù non portano con sé beni materiali. Si sono messi i sandali, hanno preso il bastone che permette loro di camminare suogni strada (vale a dire in luoghi di facile o difficile accesso). Non hanno però pane né denaro: non sono dipendenti retribuiti da un’istituzione,non sono operai che appartengono a un’impresa… Vanno con poco bagaglio: semplicemente con ciò che hanno indosso. In tal modo possono essere testimoni di un regno che è grazia, dono di Dio chenon si può mai comprare, vendere o meritare. Proprio la povertà li rende solidali con gli altri nel senso più radicale della parola:non possono pagare un albergo o comprare una casa. Devono chiedere ospitalità, rimettendosi così nelle mani di coloro che vorrannoriceverli… Questi inviati di Gesù sono missionari con il segno della loro vita pove-ra. Prima di offrire, di dare qualcosa agli altri, cominciano con il ricevere: si mettononelle mani degli uomini e delle donne del posto, in atteggiamento di intensa pic-colezza, di somma povertà. Soltanto in questo modo si presentano - e sono - testimoni del regno di Dio cheguarendoli li trasforma

(Xavier Pikaza, Il vangelo di Marco, Borla Roma 1996).

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La ricchezza di quanto espresso potrebbe sin-tetizzarla in un augurio?

Dico solo questo: “Rallegrati…il Signore èvicino”. Non lasciate che i numeri semprepiù bassi di percentuale della fede o dellavocazioni vi facciano dimenticare la veritàche il Signore è vicino. Pensiamo ai piccoli numeri cosa hannocompiuto nella storia della nostra salvezza:i trecento di Gedeone , contro le forze po-tenti, Gesù con i suoi dodici “traballanti”. Pensiamo alla debolezza che diventa forza:Mosè che è nato in una famiglia Israelita, lapiccola figura di Davide, le labbra impuredi Isaia, l`inesperienza di Daniele, la vulne-rabilità di Giuditta. Si pensi ai giovani, ai meno preparati chediventano segni di speranza per le gene-razioni future: Abele, Giacobbe o Giusep-pe d`Egitto e finalmente il figlio del car-pentiere. Se sei debole ed insignifican-te, sei prescelto.Quello di cui abbiamo bisogno oggi sonopersone di grande calibro, impegnate, rivol-te a Dio, fedeli, degne di fiducia, equilibra-te e convincenti; capaci di appartenere adun gruppo, e di accettare decisioni comu-ni; persone piene di risorse che possanocambiare una difficoltà in opportunità eduna sconfitta in una vittoria sicura. La sorpresa ha sempre giocato un ruolo im-portante nel modo con cui Dio si è rappor-tato con l’umanità. Le sorprese di Dio risie-dono nel futuro. Auguro alle Figlie di Ma-ria Ausiliatrice molte sorprese di Dio! “Sia-te allegre perché ho vinto il mondo”.

[email protected]@cgfma.org

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similiamo i valori che hanno sviluppatoquando hanno dovuto combattere per far-si una vita. Esponete i giovani membri del-la vostra congregazione, non ad un nuo-vo panorama di “regole di povertà”, ma allasofferenza dei poveri che vivono alla por-ta accanto o un po’ più in là. Condivide-te quello che è in più con i più bisogno-si nel vicinato. Accettate i sacrifici che levostre attività implicano nei quartieri po-veri, nei villaggi e nei vostri servizi pasto-rali. Siate umane con le sorelle anziane chehanno bisogni speciali, ma non dimenti-cate di mettere le sfide del Signore sopraa tutto il resto. Non esiste uno stato di“perfetta povertà”, ma possiamo continua-re a sforzarci per arrivarci? Lasciate che ivostri cuori siano pieni di compassione!

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

«Accompagniamo le comunità

ispettoriali a dare una testimonianza

profetica di povertà, che susciti

un rinnovato slancio missionario

e orienti concretamente l’opzione prioritaria

per l’educazione dei giovani più poveri»

(Programmazione del Consiglio generale pag.16)

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Approfondimenti biblici

educativi e formativi

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tipo di religiosa che il nostro Padre sogna-va e metterlo a confronto con gli insegna-menti di Teresa d’Avila, soprattutto riguar-do a tre realtà fondamentali: che tipo didonna deve essere la FMA, lo stile di vita co-munitario, la possibilità di una sintesi tra lavita attiva e contemplativa.

Quale donna?

Secondo suor Piera Cavaglià, nostra segre-taria generale e studiosa della spiritualità sa-lesiana, Teresa è una donna unificata«…senza contrapposizioni o dicotomie.In essa tutto l’umano viene valorizzato eunificato dalla presenza di Dio. Questo stu-pisce se lo si inquadra nel tempo della rifor-ma luterana, colorata di pessimismo.Teresa sa armonizzare la contemplazione el’instancabile attività, lo spirito di fede e laconcretezza pedagogica con cui guida lesuore, l’interiorità e la gioia comunicativa,l’umiltà e la denuncia coraggiosa del maledi quegli pseudo-dotti che intralciano ilcammino della santità».Le suore della riforma francescana di Madriddicevano di lei: «Sia lodato Iddio che ci hafatto conoscere una santa che noi tutte pos-siamo imitare; parla, dorme e mangia comenoi, e non è complicata nel trattare con lepersone». Una sua biografa contemporaneascrive: «Fino alla fine Teresa fu sempre de-liziosamente umana. Quando, ormai inpunto di morte, si accorse che la suora che

La scelta di don BoscoGraziella Curti

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Mentre torniamo alle radici della nostra spiritualità, come ci ha indicato il Capitolo, ci viene spontanea una domanda:perché don Bosco ha scelto Teresad’Avila e Francesco di Sales comepatroni del nostro istituto? Che cosa hanno a che fare un vescovoe una monaca con la semplicità e la concretezza della vita salesiana?

Un profilo annunciato

Don Bosco non dà molte spiegazioni sullascelta di Teresa d’Avila a patrona dell’Istitu-to delle FMA. Conserviamo però, insieme adalcune brevi citazioni orali, un testo rivela-tore: quello dei Tratti caratteristici della FMAdelineati nelle prime Costituzioni (1885) Tale testo si trova ancora in apertura dellanostra Regola di vita e ne costituisce, comescriveva madre Rosetta Marchese, “unasintesi vigorosa”. La FMA deve possedere:

1.Carità paziente e zelantenon solo verso l’infanzia, ma ancora versole giovani e verso qualsiasi persona allo sco-po di fare il maggior bene possibile

2. Semplicità e modestia con santa allegrezzaspirito di mortificazione interna ed esterna;rigorosa osservanza di povertà…Da queste indicazioni possiamo scorgere il

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la vegliava, Anna di San Bartolomeo, era pre-da di un grande sconforto, la chiamò a sé.Racconta suor Anna: “Appena mi vide, mifece un sorriso e, abbracciandomi, pose ilsuo capo tra le mie mani. Restò in questo ab-braccio fino all’arrivo della morte; io ero piùmorta della santa”». Una testimonianzache ci richiama le ultime ore di Maria Do-menica, che amava molto Teresa d’Avila.

La formazione delle Figlie dell’Immacolata

Una testimonianza ricavata dalla biografiadi madre Petronilla Mazzarello rivela qualeformazione teresiana avesse caratterizzatola formazione delle Figlie dell’Immacolata.Già anziana, amava ritornare sulle letture che

avevano illuminato gli anni della giovinez-za di Maria Domenica. «La trovavo spesso –ricordava – occupata nella lettura delle pe-tizioni del Pater di Santa Teresa. Appena ar-rivavo, passava il libro a me perché le legges-si a voce alta un tratto e poi glielo ripetessicon parole mie. Al commento pensava lei elo faceva con aurea semplicità. Ella gustavatanto la lettura di quel libro e cercava di far-la gustare a me […]. Mi faceva scrivere del-le massime di S. Teresa che parlavano del-la presenza di Dio» (MACCONO, Suor Petro-nilla Mazzarello 84). La scelta di don Boscoè stata, dunque, quasi determinata da que-sta conoscenza di Teresa che già avevanoMaria Domenica e le altre giovani che face-vano parte delle Figlie dell’Immacolata.

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Dalle lettere di Teresa

Per conoscere più facilmente le doti femminilidi Teresa servono le sue lettere dove lei si rive-la come una donna indipendente, simpatica, ca-pace di humour, energica e ricca di passione.

A Lorenzo de CepedaPer ragione di questi nostri conventi, case diDio e dell’Ordine, sono diventata un’affaristacosì esperta che ormai m’intendo di tutto…[24, 6.15].

A Maria MendozaSe Lei vedrà il Provinciale dei domenicani, lorimproveri da parte mia perché essendo sta-to vari giorni a Salamanca,non è venuto a tro-varmi: e dire che gli voglio tanto bene! [32,7].

A Girolamo GracianMi è venuto da ridere nell’apprendere che leidesidera altre tribolazioni. Per amor di Dio, cilasci respirare almeno qualche giorno. Pensiche non è solo a sopportarle [ 271,7].

Tanti sono i tratti di Teresa, che emergono dal-la sua vita, e che don Bosco avrebbe voluto ri-conoscere nelle Figlie di Maria Ausiliatrice. Inparticolare: la gioia, il coraggio, la radicalitàevangelica, la libertà di spirito, l’apertura aglialtri, il realismo. In sintesi: un’esperienzaspirituale espressa nell’ottica dell’amiciziaverso Dio e verso gli altri.

Per una conoscenza attualizzata di Teresa d’A-vila, consigliamo Teresa d’Avila: la vita, il pen-siero, l’identità di donna di Waltraund Herb-strith- Ed. Città Nuova

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dato attraverso le tracce che ne sono rima-ste. Ma ogni generazione ha bisogno di ri-scrivere la storia, di ricomprendere il vissu-to, perché si parte sempre da interrogativiposti alle fonti, al passato. Le domande na-scono dalla propria vita, esperienza, conte-sto, inquietudini. Secondo Benedetto Croce la storia è sem-pre storia contemporanea. Nel senso che ri-vive nelle persone che si accostano con undeterminato interesse. Diversamente, non esisterebbe più, se nonper quello che ha lasciato in eredità fino alpresente. Non è detto, però, che chi vive im-merso nell’immediato riconosca le radici discelte, atteggiamenti, abitudini, mentalità.

Distanza tra passato e presente

L’interesse per il passato deve fare i conticon l’anacronismo. La tendenza cioè a giu-dicare il passato con la mentalità di oggi. Perquesto gli storici dicono che il passato vacompreso, più che giudicato. Per com-prenderlo, è necessario entrare nel conte-sto, nella mentalità dei protagonisti dellastoria e nel loro mondo. È l’esercizio di riconoscere la distanza trapassato e presente. È il motivo per cui il pas-sato non può dare ricette per affrontare leesigenze dell’oggi. L’oggi ha qualcosa in co-mune con ieri, ma ha anche aspetti diver-si, irriducibili, che vanno riconosciuti, pernon rifugiarsi nella ripetitività, nell’immo-bilismo. Sarebbe il contrario di una fe-

Storia come amore alla vitaGrazia Loparco

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La storia è davvero radice di futuro?Secondo Cicerone e gli antichi, la storia è magistra vitae. Anche don Bosco ha scritto delle Memorie nella convinzione che i suoi figli avrebbero potuto rinfrancarsinelle difficoltà e continuare a confidare nella Provvidenza.

I fatti di ogni giorno sembrano smentire chela storia insegni a non ripetere gli errori diieri. Difatti, si può imparare solo se si è di-sposti ad ascoltare. Ma senza ingenuità, per-ché la storia non si ripete, il passato è pas-sato. Dunque radice di futuro perché l’espe-rienza di chi ci ha preceduto può aiutare amaturare un senso critico, creativo e re-sponsabile nei confronti del proprio presen-te, inedito. Difatti, la storia porta a compren-dere che un vissuto può lasciare traccia, chela storia che si sta scrivendo oggi non è unframmento scollegato. In una congregazio-ne, è ancora più evidente che ci si pone inun percorso più ampio, e la creatività puòfiorire su una continuità, che dà consisten-za come pedina di lancio, integra l’ineditoe prepara il prossimo cambiamento.

Siamo noi che interroghiamo il passato

Sarebbe un grande equivoco credere di po-ter conoscere bene il passato. In realtà neconosciamo pochissimo, quello che ci è

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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deltà creativa, che interpella la responsabi-lità di ciascuno. Essa viene esercitata ren-dendosi consapevoli del mondo in cui sivive, senza restringerlo negli angusti spazidegli interessi immediati. Un senso criticonei confronti del presente, spinge ad aguz-zare lo sguardo, interrogare altre espe-rienze di vita, per scandagliare i segreti del-la riuscita o dei fallimenti altrui. Tenendoconto che ogni tempo è in certa misura ir-ripetibile. Nell’Istituto delle FMA la considerazione difigure luminose, come anche la conoscen-za di momenti o risposte mancate, è appel-lo a conoscere meglio il DNA dello spiritosalesiano, del carisma, che si può esplora-re di fatto solo nelle sue realizzazioni sto-riche, dunque nelle persone, vissute in cer-te circostanze, in un determinato tempo eluogo. Con i condizionamenti e le oppor-tunità della loro concreta situazione. Che possono essere più meno assimilabi-li a quelle di oggi, nelle diverse ispettoriee Paesi. Eppure, al di là delle forme espres-sive, mutevoli perché storiche, ci sono al-cuni atteggiamenti di fondo, valori, certez-ze, che distinguono lo spirito salesiano daun altro e preservano dallo scadere in unagenericità scolorita. Senza identificarsi in modo superficiale, sipuò attingere all’esperienza altrui, met-tendosi in ascolto dei giovani che interpel-lano gli educatori di oggi, la loro passioneeducativa, non arbitraria, ma incastonata inuna “genealogia”.

Uscire dalla tirannia del presente

La situazione attuale porta a restare prigio-nieri del presente, che per tanti aspetti si dif-ferenzia rapidamente non solo dal passatoremoto, ma anche da quello prossimo. Si di-venta però autoreferenziali. Incapaci di un

confronto con altri. Chiusi nei propri sche-mi. Creduli che la realtà non possa esserediversa. La storia, affermava T. Radcliffe, cilibera dalla “tirannia del presente”, perchéci mostra che le cose non devono essere ne-cessariamente come sono oggi. Come nel passato le cose sono cambiate,potranno cambiare anche adesso. Dun-que è una spinta ad agire e impegnarsi permigliorare, non a conservare, a rassegnar-si, a sopravvivere.

Non rifugiarsi nella nostalgia del passato

La rievocazione delle figure riuscite di unIstituto può ingenerare una forma di rifu-gio nostalgico nel passato. Tanto più che spesso ci si limita a riconsi-derare le origini, la comunità primitiva,senza addentrarsi nel vissuto più articola-to delle generazioni successive a quellaeroica degli inizi. In tal caso si può caderein una mistificazione del passato, in una let-tura a tesi, strumentalizzata secondo quel-lo che si intende dimostrare. Dove si utilizzano solo le fonti che confer-mano ciò che si desidera trovare. Il contra-rio dell’ascolto umile e aperto della vita.

Dalla consegna del passato, responsabilità nell’oggi

La continuità della vita, la genealogia del ca-risma e delle buone pratiche educative pon-gono ogni religiosa in un atteggiamento diresponsabilità e creatività dinanzi alla mis-sione e all’istituzione di cui è parte. Senza ripetere in modo scontato, si impa-ra l’arte del discernimento per amore del-le persone di oggi. E questo è già prepara-re il domani. Dunque reale amore alla vita.

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forza a servizio dello sviluppo (n.13).Lo sviluppo integrale come vocazione(n.16); implica libertà responsabile (n.17), ri-spetto della verità (n.18), centralità della ca-rità (n.19). Oggi il quadro dello sviluppo èpolicentrico (n.22). Non è sufficiente pro-gredire solo da un punto di vista economi-co e tecnologico. Bisogna che lo svilupposia anzitutto vero e integrale (n.23): socia-le (n.25), culturale (n.26), economico (n.27),etico-morale (n.28-29).

C’interroghiamo

Di fronte alla crisi dei valori, all’individua-lismo, al consumismo, al poco rispettodella vita, alla violenza… che cosa sta facen-do la nostra Comunità educante per resti-tuire alle nuove generazioni una visione giu-sta della persona umana? Convinte che losviluppo umano è uno sviluppo integrale,come ci collochiamo, in quanto Comunitàeducante, di fronte alle situazioni di fame,miseria, malattie endemiche, analfabeti-smo… che affliggono tanti popoli?Come la Comunità educante cerca di ri-spondere alla domanda di senso, alla ricer-ca di relazioni autentiche, al bisogno diprofonda esperienza di Dio, alla sete di fe-licità delle giovani e dei giovani?

In azione

Gli aspetti della crisi e delle eventuali solu-zioni, nonché di un nuovo possibile svilup-po, sono sempre più interconnessi, si im-

Per uno sviluppo umano integraleJulia Arciniegas, Martha Séïde

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Con questa rubrica ci proponiamo di offrire alle Comunità educantialcuni spunti per una rilettura, in chiave educativa, dell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate. A partire da un tema generatore da approfondire - in questo primonumero lo sviluppo umano integrale -siamo invitate/i a lasciarci interpellaree a trovare nuove vie per attuare la Dottrina Sociale della Chiesa nei nostri contesti.

Rileggiamo l’Enciclica

L’amore come principale forza propulsivaper il vero sviluppo di ogni persona e del-l’umanità intera (n.1).La carità nella verità, via indispensabileper la promozione di un vero sviluppo uma-no integrale (n.4).La verità, amata e testimoniata, condizionedello sviluppo e del benessere sociale (n.5).Verità e amore per un agire sociale respon-sabile (n.5).La carità, illuminata dalla luce della ragionee della fede, per uno sviluppo sempre piùumano e umanizzante (n.9).La fedeltà all’uomo esige fedeltà alla verità,sola garanzia di libertà e possibilità di unosviluppo umano integrale (n.9).Lo sviluppo, umanamente e cristianamen-te inteso, cuore del messaggio sociale cri-stiano e la carità cristiana come principale

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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plicano a vicenda, richiedono nuovi sforzidi comprensione unitaria e una nuova sin-tesi umanistica. La crisi diventa così occa-sione di discernimento e di nuova proget-tualità. In questa chiave, fiduciosa piuttostoche rassegnata, conviene affrontare le dif-ficoltà del momento presente (Cf. n.21).Individuare alcuni passi per rendere ope-rativo l’approfondimento fatto.La Dottrina Sociale della Chiesa offre lechiavi per discernere come situarsi nella

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Credo in un’umanità diversa, più fraterna.Il mondo ha bisogno di respirare armoniosamente

in maniera umana.Gli uomini tutti devono arrivare a riconoscersi gli uni gli altri

come uomini, come fratelli, nell’utopia della fede.Credo nell’impossibile e necessario uomo nuovo!

Dom Pedro Casaldaliga

complessità del mondo odierno. Verifi-chiamo in che modo essa è presente nellanostra offerta educativa.Lo sviluppo come vocazione esige un pro-cesso di formazione e di autoformazionecontinua. Identifichiamo alcuni segni chepermettono di cogliere l’integralità di que-sto processo nel nostro ambiente. Altri?...

[email protected]@yahoo.com

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Una lettura della situazione e dei dati sta-tistici in questa direzione ha degli aspettirealistici, ma è parziale, incompleta. Se ac-colta nella sua parzialità, questa interpreta-zione ha il potere di far dimenticare l’essen-ziale della vita consacrata e di alimentarepensieri, convinzioni e comunicazioni cheincrementano un senso di malessere capa-ce di spegnere quella gioia e quell’entusia-smo che sono necessari per operare effica-cemente nell’ambito dell’educazione.È strano, eppure questi pensieri pessimi-stici convivono spesso con la chiara con-vinzione che il carisma salesiano non èesaurito, né superato. E tale convinzioneè sostenuta, oltre che dall’attuale dichia-razione di emergenza educativa che evi-denzia l’importanza della missione, anchedalla richiesta pressante di presenze sale-siane e di frequenza delle/dei giovaninegli ambienti salesiani. Ma, a parte igrandi numeri, le richieste e le emergen-ze, una vita donata a Dio, che anchecome comunità diventa memoria evange-lica e segno ed espressione del suo amo-re preveniente, è comunque significativa.

Millesettecentoventi consacrate fedeli

Millesettecentoventi FMA morte nell’ulti-mo sessennio significa anche e soprattut-to un lungo corteo di donne consacratefedeli al Dio che le ha sedotte nella gio-vinezza, alla Chiesa, all’Istituto, a se stes-se, alle/ai giovani. È un grande, poderoso

MillesettecentoventiMaria Rossi

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Non si tratta di una data. È un numero chesi trova nei dati statistici della Relazione sul-la vita dell’Istituto nel sessennio 2002-2008,che Madre Antonia ha presentato al Capi-tolo generale XXII. Si riferisce alle Figlie diMaria Ausiliatrice che dal 2001 al 2007 “cihanno lasciate per la Casa del Padre”. Unnumero così grande può destare sorpresae prestarsi a interpretazioni molto diverse.

Millesettecentoventi FMA morte in seianni. A prima vista viene da pensare a unastrage, a un mare di risorse scomparsodalla scena della Chiesa e dell’Istituto. Ungrande impoverimento se si tiene contodel fatto che le morti superano il nume-ro delle giovani che entrano e che, so-prattutto nell’Occidente, l’invecchiamen-to dei membri è una realtà generalizza-ta. È un dato che si presta a previsioni ne-gative, pessimistiche, che possono por-tare allo scoraggiamento, alla depres-sione, alla perdita di senso. Nelle comunità, non è raro sentire affer-mazioni come queste, espresse spessocon sofferenza e tristezza: “Se le giova-ni non entrano più da noi, ma vanno in al-tri Istituti, vuol dire che non siamo signi-ficative, che non abbiamo più senso”. Eanche: “Stando così le cose, io, onesta-mente, non mi sento di incoraggiare unagiovane ad entrare nell’Istituto”. “Ormaisiamo destinate a morire, a scomparire”.“Ai nostri tempi non era così. Eravamo intante e piene di entusiasmo”.

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e armonioso inno alla fedeltà e all’amoreautentico. Più che una perdita, è unagrande vittoria, un trionfo. È pure un monumento a Maria Ausiliatri-ce, forse non previsto da Don Bosco, chesi va edificando in Cielo e che non puòignorare quello sulla Terra ancora nume-roso – le circa 14.000 presenze non sonopoche - che cammina nelle vie del mon-do, che si dibatte con le difficoltà del vi-vere, dell’educare, dell’operare per la di-fesa delle/dei più deboli, delle/dei bambi-ne/i, delle donne, delle/dei giovani.

Oggi, la fedeltà non è molto apprezzata, anzispesso è guardata con diffidenza e con suf-ficienza da coloro che si credono all’avan-guardia. Essa, però, racchiude una profon-dità abissale: quella dell’amore che nonmuta con le culture e con il progresso tec-nologico. Anche nei tempi dalle mille pos-sibilità, dell’efficienza, del disincanto, l’amo-re autentico, per sua natura, è per sempre.Ha le sue radici nell’Assoluto e non tolle-ra relativismi, pur comprendendo le fatichee le crocifissioni che la fedeltà comporta. L’amore è un sentimento profondo, esigen-te, straziante a volte, che nella piena matu-rità umana va oltre il sentire, e genera e siprende cura di ogni forma di vita. Non èun’emozione effimera e passeggera per cui,come spesso si sente dire oggi basandosisu una malintesa psicologia, quando non sisente più la primitiva attrazione o il gioio-so entusiasmo giovanile, si può lasciare ilpartner o la vita consacrata.Al di là delle opinioni e delle teorie, le mil-lesettecentoventi, ora avvolte nel grandeSilenzio, dicono con forza che la fedeltàè possibile anche nell’attuale contesto cul-turale permissivo e relativista. Esse, conaccentuazioni diverse, proclamano che ledifficoltà, le crisi evolutive, le incom-

prensioni, possono essere superate e di-ventare occasioni di crescita e che nien-te e nessuno può impedire di restare fe-deli all’Amore fino all’abbraccio finale.

Vivono ancora con e in noi

Le “1720 sorelle che ci hanno lasciate per laCasa del Padre”, non l’hanno fatto comple-tamente. In modi diversi, esse vivono anco-ra con e in noi. Esse, avendo condiviso gioiee dolori, intrecciato relazioni di aiuto, di so-stegno, di illuminazione, a volte anche esi-genti e conflittuali, continuano a vivere inchi ha fatto strada con loro. A parte le gio-vanissime, tutte abbiamo il ricordo di al-cune. I loro volti, le loro espressioni, i loroatteggiamenti, in occasioni particolari, avolte anche quotidianamente, riemergo-no alla memoria con la dolcezza, la forza,la fecondità di un tempo.Alcune, in me, sono molto vive e presenti.Pensando a loro e alle millesettecento-venti, ultimamente, ho interpellato parec-chie suore. È stata una esperienza che mi haconfermato la realtà del loro continuare avivere in chi resta. Mentre le suore mi rac-contavano delle sorelle che avevano cono-sciuto, assumevano un atteggiamento di chioffre qualcosa di intimo, di sacro. A volte ab-bassavano anche il tono della voce comeper proteggere un prezioso tesoro. Ripor-to alcune di queste testimonianze.Le vicarie hanno il compito non simpati-co di chiedere aiuto per i cosiddetti uf-fici e lo fanno maggiormente con le gio-vani suore. Una suora ricorda con vene-razione suor Letizia, vicaria in casa gene-ralizia. Lei chiedeva collaborazione per gliuffici, ma poi, anche da anziana e con legambe gonfie, era là, presente, e con lostraccio puliva il pavimento. Nessunariusciva a toglierglielo di mano.

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tenzioni nei confronti delle suore. Un gior-no, a una mamma ha inviato 10.000 lire, unasomma discreta in quei tempi, perché po-tesse recarsi, senza preoccupazioni all’ospe-dale a trovare la figlia, allora giovane suo-ra e gravemente ammalata. La lista potreb-be continuare all’infinito o quasi. Riportoancora una testimonianza.Scrive una suora di suor Teresina: “Era faci-le cogliere in lei quella parola di fede cheallarga gli orizzonti e dà respiro. Quandoqualcosa non andava, diceva: “Lui sa”. Misembra di vederla, dritta ed energica, spin-gere i carrelli su e giù nei lunghi corridoi del“Don Bosco”; preparare il necessario per lerefezioni dei bambini, della comunità; en-trare e uscire dalla cella frigorifera con il ber-rettino di lana in testa e controllare la frut-ta richiesta da una sorella, il necessario perquella che doveva andare in gita, la lista del-le richieste varie e quella più lunga delle suepremure. E tutto con quella silenziosa pru-denza del “non sappia la tua sinistra quel-lo che fa la tua destra”.

Suor Caterina Pesci diceva spesso: “Se in-segno qualcosa a una suora giovane, con-tinuerò a vivere in lei”. E la sottoscritta, cheha avuto la fortuna di udirne la voce e di go-derne le attenzioni, può affermare chequesto è vero e non solo per lei. Le suore interpellate, mentre parlavanodelle sorelle che avevano condiviso untratto di vita con loro, lasciavano trapelarecome i fatti, gli atteggiamenti e i gesti ricor-dati fossero ancora vivi in loro come pro-messa e presagio di feconda fedeltà.

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Suor Adriana, insegnante di lettere. Unasuora la ricorda con ammirazione e affettoper il suo saper conciliare una cultura ro-busta con la ferialità e la quotidianità, perla capacità di darsi ai lavori manuali (lava-re le pentole) e contemporaneamente di farpensare, di stimolare a un sapere che andas-se oltre il superficiale, il banale.Suor Anna, indiana. Una sorella, sua conna-zionale, la ricorda con tanta simpatia eammirazione per la sua intelligenza vivacee pronta, unita a una grande semplicità. Eramolto attenta ai bisogni delle sorelle eaveva passione e compassione per i pove-ri. Accolse e seguì fino alla maggiore etàquattro ragazzi privi di tutto.Missionaria in Haiti, suor Adriana vive nelricordo luminoso e riconoscente di unasuora haitiana. Era molto sensibile al proble-ma della fame. Per continuare a nutrire tut-ti, anche dopo morte, desiderava che sul-la sua tomba venisse piantato un albero dimango. Un giorno, ormai anziana, mentretornava a casa, si vide a breve distanza ungruppo di facinorosi con le pietre in mano.Volevano assalire il tram e derubare lagente. Suor Adriana chiese al conducentedi fermare il mezzo. Scese e da sola andòverso i facinorosi con passo lento per i di-sturbi dell’età, ma sorridente e disposta atutto pur di salvare la gente. Avrebbero po-tuto ammazzarla, ma nessuno scagliò le pie-tre. Lei si avvicinò e abbracciò tutti, uno allavolta. Le pietre caddero a terra. Erano gio-vani uomini che avevano fame. Li invitòpresso la sua comunità, soddisfece i biso-gni immediati e poi si interessò perché po-tessero vivere senza far del male. Suor Pierina è ricordata per la sua saggez-za, la competenza, l’amore all’Istituto, la ca-pacità di discernimento. E suor Ivana perl’attenzione verso i disperati e la pazienzanell’ascoltarli. E Madre Ersilia per alcune at-

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La classe, un romanzo sulla scuola, resoconto di un’esperienza

narrata con strepitoso senso dell’ironia

COMPITO IN CLASSE

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Mi chiamo Souleymane. Sono abbastanza cal-mo e timido in classe e a scuola. Ma fuori sonoun’altra persona: eccitato. Non esco molto. Aparte per andare a boxe. Da grande vorrei rea-lizzarmi nel campo dei condizionatori e so-prattutto non mi piacciono le coniugazioni.

Khoumba è il mio nome ma devo dire chenon mi piace molto. Mi piace il francese tranne quando il pro-fessore è scarso. La gente dice che ho un brutto carattere, èvero ma dipende da come mi si rispetta.

TEMA: MI PRESENTO...

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Mi chiamo Frida, ho 14 anni dallo stesso nu-mero di anni vivo a Parigi con mio padre emia madre […]. Da grande vorrei fare l’avvocato perché pen-so che è il mestiere più bello del mondo eche è stupendo difendere la gente.

Mi chiamo Dico e non ho niente da dire su dime perché nessuno mi conosce a parte me.

Mi chiamo Hinda, ho quattordici anni esono felice di vivere, da grande vorrei farel’insegnante….

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Testi tratti da François Bégaudeau, La classe, Torino, Einaudi 2008

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ma LE DOMANDE

Quali sono i valori della scuola e come fare in modo che la società li riconosca?

Quali devono essere i compiti della scuola per i decenni a venire?

Verso quale tipo di uguaglianza deve tendere la scuola?

Come deve adattarsi la scuola alla diversità degli allievi?

Come motivare e far lavorare efficacemente gli studenti?

Come i genitori e gli interlocutori esterni alla scuola possono favorire il successo scolastico degli studenti?

Come lottare efficacemente contro la violenza e il bullismo?

Come migliorare la qualità della vita degli studenti a scuola?

TEMA: MI PRESENTO...

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Lettura evangelica

dei fatti contemporanei

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a gustar il mio.Il rospo arrivò e disse: Ora, tartaruga, met-titi dentro la zucca. Tua moglie ti coprirà condel cibo e l’aquila ti porterà a casa sua so-pra gli alberi.Poco dopo l’aquila tornò. La moglie dellatartaruga le disse: Mio marito non c’è ma halasciato questa zucca piena di cibo per la tuafamiglia.L’aquila volò via con la zucca, senza sospet-tare che la tartaruga era lì dentro.La tartaruga poteva sentire tutto quello chediceva: Ha, Ha, ho gustato il cibo della tar-taruga ma lui non potrà mai visitare il mionido per gustare il mio.Quando la zucca fu svuotata nel nido del-l’aquila, la tartaruga uscì fuori e disse: Ami-ca aquila, hai visitato la mia casa così tantevolte che ho pensato sarebbe stato carinogodere della tua ospitalità.L’aquila era furiosa: Ti spacco la faccia! Mariuscì soltanto ad urtare il suo becco con-tro il guscio della tartaruga.Ho visto che tipo di amicizia mi offri, dissela tartaruga, e visto questo, portami a casa,perché la nostra amicizia è finita.L’aquila portò la tartaruga a casa e mentrevolava via la tartaruga disse: L’amicizia richiede parità. Io ti accolgo e tumi accogli. Dato che hai deciso di non farecosì, ridendo di me per la mia ospitalità, nonsono più tua amica. Favola africana

[email protected]

Il racconto: L’amicizia tra la tartaruga e l’aquila Mara Borsi

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La tartaruga e l’aquila non possono incon-trarsi spesso: una passa il suo tempo tra lenuvole e l’altra sulla terra. Ma quando l’a-quila capì che cara compagna poteva esse-re la tartaruga, venne a cercarla nella suatana. La famiglia della tartaruga fu moltocontenta della sua compagnia e l’aquilamangiò così bene che tornò varie volte: ognivolta che andava via rideva, Ha, ha! Possogodermi l’ospitalità della tartaruga sullaterra, ma lei non potrà mai raggiungere ilmio nido in cima agli alberi!Ben presto le frequenti visite dell’aquila, ilsuo egoismo e la sua ingratitudine furonosulla bocca di tutti gli animali della foresta.L’aquila e il rospo non andavano d’accordo,perché spesso l’aquila mangiava rospi. Il rospo chiamò la tartaruga: Amica tarta-ruga, offrimi da mangiare e io ti aprirò gliocchi. Dopo aver mangiato, il rospo disse:Amica mia, l’aquila si sta approfittando del-la tua gentilezza, dopo ogni visita vola viaridendo e dice “Ha ha! Posso godermi l’o-spitalità della tartaruga sulla terra ma leinon potrà mai godersi la mia, perché il mionido è in cima all’albero”. La prossima vol-ta che l’aquila ti visiterà, dille: Dammi unazucca, e manderò del cibo anche a tua mo-glie e ai tuoi piccoli.L’aquila portò una zucca, si divertì e men-tre partiva disse: Tornerò dopo per il rega-lo per mia moglie. L’aquila volava ridendotra sé e sé come al solito, Ha, ha! Ho gusta-to il cibo della tartaruga, ma lei non verrà mai

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Intervista a Adiome Aboya Philomene

Adiome era il cognome della mia nonna pa-terna e Philomène il suo nome. Aboya è ilcognome di mio padre. Sono FMA da 15anni. Ho lavorato in un centro di formazio-ne professionale, nell’animazione pastora-le, nella comunicazione sociale. A Port-Gen-til (Gabon) sono stata promotrice e anima-trice con i giovani di una emittente radio:“Expression jeune”. A Pointe-Noire (CongoBrazzaville), ero coordinatrice dell’Orato-rio, delegata della comunicazione dellamia comunità. Ora sono a Roma per il cor-so di spiritualità salesiana.

Quali sono i valori della tua cultura che più ami?

Uno dei punti di forza della cultura afri-cana è il senso della comunità. Ed è appun-to questo che mi accorgo di amare di più.L’ubutu africano, la visione tipica dell’esi-stenza, mette l’accento sui legami, sul con-senso, sulla comunione ed esprime la di-namica dei valori e dei molti legami cheuniscono l’umanità. Le relazioni sonoperciò molto importanti e la cultura afri-cana dà molto rilievo al fatto di essere edi stare bene con gli altri.Provengo da un paesino del Camerum a120 km dalla capitale Yaoundè, apparten-go all’etnia Yambassa “Gunu”. Siamo sei

figli. Nella mia famiglia non esistono cu-gini. Mio nonno aveva 5 mogli e i figli del-le mie zie e zii sono miei fratelli. Questaè secondo la cultura Bantù la mia famigliastretta. Nel villaggio ci sono altre famiglie,ma siamo tutti fratelli e sorelle perché ab-biamo gli stessi antenati. Ogni bambino,bambina, porta almeno due cognomi. Ilnome e il cognome di un membro della fa-miglia per non dimenticarlo e il cognomedi suo padre per sapere chi l’ha generato/a.

Vivendo in un ambiente internazionale che cosa apprezzi di più di altre culture?

Vivendo in un ambiente internazionale ciòche apprezzo di più è la ricchezza della diver-sità. Quando i diversi si incontrano e la rela-zione è giusta e fraterna vi è un vero e pro-prio arricchimento. L’ambiente internaziona-le consente di conoscere tradizioni, usi e co-stumi di altri Paesi e soprattutto di vivere l’in-terculturalità nella vita quotidiana. Le altre cul-ture illuminano la mia cultura e mi aiutano aconoscerla e ad apprezzarla di più.

Incontrando persone di altri Paesi e culture quali difficoltà sperimenti?

Da bambina ho imparato che “il bianco”è la persona educata, ricca, che ha ciò cheè buono. Non è vero ma questa era lamentalità. Nell’Istituto ho vissuto conpersone di colore e cultura differente daquella Bantù. Incontrando persone dirazza bianca inconsciamente ci sono duerischi: una certa perdita di identità, viven-do e facendo ciò che fanno gli altri perchéconsiderati migliori; il ripiegamento su mestessa per conservare le mie radici, con-siderando la diversità come minaccia.Questi rischi potrebbero diventare proble-ma se al centro delle relazioni non ci fos-se la carità di Cristo e lo spirito di famigliache caratterizza il carisma salesiano.

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co a se stesso per tutta la vita, non rima-ne via di uscita che imparare ad accetta-re di essere e di diventare “adulti plurimi”sia rispetto a se stessi, sia rispetto a colo-ro che si preparano ad esserlo.Coltivare la propria identità plurima aumen-ta la possibilità di essere più felici renden-do meno infelici i non adulti.Se l’adulto non perde il contatto con la pro-pria biografia, e mostra al non adulto di vo-lerla arricchire con lui, allora ciascuno cre-sce “diventando co-autore di un romanzoeducativo scritto insieme”.Come ogni romanzo che si rispetti, a lietofine o meno, chiede al lettore pazienza, dinon sfogliare rapidamente le pagine per ve-dere come si concluderà, così l’adulto- inquanto educatore- dovrebbe sostenere lascrittura della trama della propria e altrui esi-stenza con pazienza e passione.

Ma come adulti, abbiamo ancora passione per questa “arte”?

Siamo disposti a spenderci, a perdere tem-po per i giovani?L’educazione, come la definisce un autore,è una silenziosa, poco spettacolare, lungamarcia da perseguire, richiede all’adulto ilconvincimento e la scoperta che è lui o leiper primo che sta cambiando mentre la per-corre; che sta assumendo altre categoriementali respinte all’inizio del cammino: l’im-prevedibilità, l’impossibile quiete, l’incer-

Diventare adultiPalma Lionetti

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Ricomprendere la presenza dell’adultoin quanto educatore. Essere “adulti sorgivi” capaci di narrare una promessa buona sulla vita.

Uno dei primi lavori eseguiti dal giovane ar-tista Bernini per il cardinale Borghese è ilgruppo scultoreo in cui sono ritratti Eneache solleva in spalla il vecchio padre Anchi-se seguiti dal piccolo Ascanio. Il soggetto è tratto dall’Eneide dell’autorelatino Virgilio e rappresenta alla lettera ilmomento della fuga da Troia in fiamme.Le diverse età dei protagonisti si fondonoin un intreccio di forme e movimenti doveemerge Enea nella sua virile rassegnazionela quale è vinta dallo sguardo severo, ma fi-ducioso in se stesso e nella ricerca del luo-go dove ricominciare a vivere.Se fino a qualche tempo fa per rappresen-tare la continuità costruttiva tra le genera-zioni ci si poteva ispirare a questa bella scul-tura che riprende Enea quale icona classi-ca del padre e, quindi, dell’adulto, oggi que-sto non è più possibile.L’adulto non può esibire una identità mo-nolitica, gonfia di certezze. Si è passati, in-fatti, da una concezione di identità adultagranitica e monovalente ad una concezio-ne che pensa l’adultità come una zona diluci e ombre, abitata da più tensioni.Tramontata, ormai, l’dea di adulto identi-

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tezza, il rischio, l’apprendere dall’espe-rienza. Forse anche nelle nostre ComunitàEducanti a volte è debole la possibilità diquel dialogo personale tra adulti e giovaniche richiede tempo e che consente dimettere a fuoco problemi, scelte, impegni,prospettive, preferendo così gli appunta-menti dove non vi è la possibilità di un dia-logo faccia a faccia e rischiando l’astrattez-za, la verbosità e la lontananza della vita.La vocazione educativa dell’adulto allora ri-chiede il ricomprendersi come “adulti sor-givi”, capaci di spendersi e costruire relazio-ni semplici e buone, in cui si tocca conmano la stima sovrabbondante per cia-scun giovane, la com-passione per il suocammino e il suo travaglio, la speranza in-crollabile nelle sue risorse.Questo significa che abbiamo bisogno di ri-scoprire alcune grandi coordinate dellarelazione umana che sono andate smarri-te; di rinsaldare l’alleanza tra cura ed edu-cazione poiché le prestazioni di cura nonesauriscono tutta l’educazione. Oggi, dice D. Demetrio, madri e padrisono diventati troppo “curanti” più che“educanti”. È vero che la carenza di cure èla causa di quell’analfabetismo emotivo dicui molti parlano, ma la carenza di educa-zione compromette e minaccia il futuro.

Educare allora è chiedersi come adulti: ma che mondo vogliamo?

La posta in gioco è alta ed esige da par-te di noi adulti una ricomprensione delnostro ruolo dentro l’emergenza educa-tiva riscoprendo, oltre la fatica, la bellez-za di educare. Tale riscoperta è possibi-le sperimentarla quando il compito edu-cativo viene portato avanti con il soste-gno di una vera passione.

Purtroppo, la valanga di sondaggi e dianalisi negative degli ultimi decenni han-no compromesso il rapporto tra le gene-razioni, rendendo il mondo adulto sem-pre più dimissionario rispetto al compi-to educativo. Eppure, accompagnare un figlio, un gio-vane nel suo itinerario di crescita, perchédiventi se stesso, è una tra le avventureumane più straordinaria, che offre alla per-sona adulta la possibilità di scoprire aspet-ti nuovi della vita e della sua stessa perso-nalità. E anche quando il dialogo si fa im-praticabile e la comunicazione sembra in-terrompersi, l’educatore non preme l’ac-celeratore, sa attendere quanto ha semi-nato con pazienza, fiducia, benevolenza eaffetto porti i suoi frutti.Se le cose stanno così, allora formarsi e tra-sformarsi in quanto adulti ed educatori di-venta la condizione indispensabile permettersi in stato di disponibilità a lasciar-si educare continuamente dalla vita, dall’e-sperienza, “accolta con la maturità di chiin essa non vede degli accadimenti casua-li, ma un appuntamento per sé e per la pro-pria crescita in umanità”.Quindi, apprendere insieme dall’espe-rienza diventa un’esigenza prioritaria perle nostre comunità educanti, “apprende-re dalla pratica educativa, per leggervi laricchezza di umanità e le crescite che essarichiede e suggerisce, invitando a un con-tinuo lavoro su di sé.”Essere insieme “adulti sorgivi” capaci di nar-rare una promessa buona sulla vita!

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puntati sui governi ai quali si chiederà di dareil resoconto di quanto hanno attuato della Piat-taforma di Pechino negli ultimi quindici anni. C’è un certo scetticismo. “Basta con le parole!”dicevano le donne a Pechino quindici anni fa. Devaki Jain, economista ed attivista indianascrive: «Sembra cruciale realizzare un saltoquantico nel trovare nuove idee per soddisfa-re le aspirazioni e le lotte delle donne alla giu-stizia». Le intuizioni nuove per trasformarequesta inaccettabile situazione, secondo lei,devono venire proprio dalle donne. L’idea ri-chiama il ‘genio femminile’, espressione notadi Giovanni Paolo II. L’impegno dell’Istitutoper l’empowerment della donna delineato nel-le Linee della Missione Educativa va proprioin questa direzione. Si punta a “rafforzare laprogressiva capacità delle donne di diventa-re protagoniste di cambiamento” (n. 178)partendo dalla consapevolezza della propriadignità, dei propri diritti e della grande poten-zialità di investire nelle relazioni umane.

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Riflettendo sulle nostre azioni concrete, que-ste privilegiano le donne soprattutto neicontesti ad alta povertà puntando sull’auto-coscienza, sull’inserimento sociale, sulla for-mazione culturale, sull‘autonomia economi-ca, sulla cura della salute, sulla formazione allaleadership e sulla lotta contro lo sfruttamen-to. L’orizzonte ultimo, però, va oltre il ricono-scimento dei diritti o della soggettività fem-minile perché, come dice una teologa italia-

A quindici anni da Pechino Bernadette Sangma

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Sono trascorsi 15 anni dalla QuartaConferenza Mondiale sulla Donnasvoltasi a Pechino (Beijing) nel 1995.La più celebre Conferenza mondialecon 6.000 delegati di 189 Statimembri dell’ONU, 4.000rappresentanti delle ONG e 3.000partecipanti al Forum delle ONG.

Per il movimento delle donne, Pechino ha si-gnificato il culmine di due decenni di attivi-smo per parlare al mondo del loro program-ma di cambiamento. “Passiamo dall’analisi al-l’azione” ripeteva Gertrude Mongella, unadonna cattolica tanzaniana, segretaria gene-rale della Conferenza. Il risultato racchiusonella Dichiarazione e nella Piattaforma diPechino è chiamato il programma mondialepiù potente per orientare il processo dell’em-powerment delle donne. Nel testo della Dichiarazione si afferma cheil raggiungimento degli obiettivi dell’ugua-glianza, dello sviluppo e della pace per tuttele donne di tutte le parti del mondo è nell’in-teresse di tutta l’umanità. Il benessere delledonne è strettamente legato a quello dei mi-nori e dell’intero nucleo familiare. A distanza di 15 anni, l’ONU ha in program-ma una verifica dell’attuazione della Piat-taforma da parte dei governi. Il momento cen-trale dell’evento chiamato Beijing+15 saràdall’1 al 12 marzo 2010 a New York durantel’annuale sessione della Commissione ONUsullo Status della Donna. I riflettori saranno

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na Lilia Sebastani, superare le ingiustizie e lediscriminazioni nei confronti delle donne edelle bambine è semplicemente una tappa ne-cessaria. Questa fase essenziale deve spinge-re verso il raggiungimento di un ethos di re-ciprocità: «ampliare la comprensione del-l’essere umano, in modo che la polarità ma-schile-femminile sia contemplata sin dall’ini-zio in reciprocità e comunione» per esprimer-la con le parole di Nuria Calduch Benages, re-ligiosa biblista spagnola.

Questo ci rimanda alla considerazione dellenostre azioni educative fin dai primi anni del-la vita. All’interno del nostro Istituto, in con-testi diversi, ci sono esperienze di educazio-ne alla reciprocità uomo-donna più o menoconsolidate. Pare comunque che ci resta an-cora molto da fare e questa è una sfida che sipone alla nostra stessa formazione persona-le, comunitaria e come Istituto.

Cosa può significare Beijing+15 per il nostro Istituto?

È già da dieci anni che l’Istituto è regolarmen-te presente all’ONU con l’intento di portarela nostra voce, le nostre intuizioni di donnecristiane e le nostre esperienze dirette nelcampo dell’empowerment delle donne edell’educazione alla reciprocità uomo-donna. Le nostre esperienze concrete dell’em-powerment delle donne e delle ragazzenelle situazioni di povertà, emarginazione ea rischio parlano molto in questo ambientein quanto sono testimonianze eloquenti diuna trasformazione reale. Da questo punto di vista possiamo dire cheBeijing+15 per noi è una sfida e un invito acontinuare a investire sulle donne e sulle bam-bine coniugando i nostri sforzi a livello microcon quello macro. La presenza e la partecipa-zione alla Commissione ONU sullo Status del-la Donna ci offre una di questa opportunità.

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retico, è il “compagno di viaggio”, il “fra-tello” che cerca l’incontro, l’aiuto, la rela-zione. E’ un cammino da percorrere insie-me, “che coinvolge tutti nelle comunitàimpegnate secondo le soggettività di cia-scuno”. (U.U. 28)Scrive il Cardinale vietnamita NguyenVan Thuan: “Predisporci al sacrificio del-l’unità significa mutare il nostro sguardo,dilatare il nostro orizzonte, saper ricono-scere l’azione dello Spirito Santo cheopera nei nostri fratelli, scoprire voltinuovi di santità, aprirci ad aspetti ineditidell’impegno cristiano.La vocazione cristiana è vivere l’unità”.

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Sinagoga. Casa dell’incontroBruna Grassini

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“L’unità di tutta l’umanità lacerataè volontà di Dio. Per questo motivo Egli ha inviato suo Figlioperché, morendo e risorgendo per noi,ci donasse il suo Spirito d’amore…Alla vigilia del sacrificio della Croce,Gesù stesso chiede al Padre per i suoi discepoli e per tutti i credenti in Lui, che siano una cosa sola,una comunione vivente”. Ut Unum Sint, 6

Bet Kness: è il termine ebraico che indi-ca la Sinagoga. Cuore di ogni comunitàebraica, dovunque è costruita, è semprerivolta a Gerusalemme. E’ il luogo privile-giato della preghiera. All’interno una pic-cola abside custodisce l’ “Arca Santa”che contiene i Rotoli della Scrittura: la To-rah e la Lampada Eterna, sempre accesagiorno e notte nel Tempio. Sono passati più di millecinquecentoanni dalla separazione dei cristiani dai“fratelli ebrei”.Roma: 13 aprile 1986, un Papa, GiovanniPaolo II, entra nella Sinagoga, accolto dal-le autorità ebraiche, col Rabbino Capo ElioToaf. Un coro possente canta il Salmo 150:“Lodate il Signore nel suo santuario. Lo-datelo nel firmamento della sua potenza”.Nel “benvenuto” echeggia tutta la storiabimillenaria della comunità ebraica. Si apre una nuova visione: l’ altro non è l’e-

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Informazioni notizie

novità dal mondo

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La comunicazione nel tempo della Rete

Il tema per la Giornata Mondiale delle Comu-nicazioni sociali, che Benedetto XVI ha propo-sto alla Chiesa e al mondo nel 2009, sollecita-va a considerare le nuove tecnologie “una” del-le risposte al desiderio fondamentale delle per-sone di entrare in rapporto le une con le altre.Il desiderio di comunicazione e amicizia è peraltro radicato nella nostra stessa natura di es-seri umani. Precisamente, in uno dei passag-gi-chiave del suo Messaggio, il Papa scriveva:«Il desiderio di connessione e l’istinto di comu-nicazione, che sono così scontati nella cultu-ra contemporanea, non sono in verità che ma-nifestazioni moderne della fondamentale e co-stante propensione degli esseri umani ad an-dare oltre se stessi per entrare in rapporto congli altri». Nessuna novità, allora? Non propria-mente, perché la mutazione è epocale; tutta-via potrebbe anche solo trattarsi dell’ennesi-ma trasformazione che cambia la pelle, ma nonil cuore che va comunque alla ricerca dei bi-sogni di sempre. Il dialogo, il rispetto e l’ami-cizia sono valori assolutamente antichi che oggichiedono di essere vissuti in forme inedite amotivo dell’ambiente mass-mediale che è sta-to così radicalmente trasformato.

Ricominciare dalla relazione

La comunicazione secondo Mounier «è menofrequente della felicità, più fragile della bellez-za: basta un nulla a fermarla o a spezzarla tra duesoggetti». Per Ebner, filosofo viennese precur-

Perchè faccia a faccia?Maria Antonia Chinello, Lucy Roces

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Può sorprendere il titolo che quest’anno si è pensato di darealla rubrica che, da decenni ormai,viene dedicata alla comunicazione in DMA Rivista. Soprattutto se la si pone a confronto con i temi affrontati in questi ultimi due anni: la lettura educativa di alcune forme di espressione e comunicazione dei giovani. L’intento è porsi in continuità per fornire alle comunità educantialcune chiavi di lettura e di interpretazione che aiutino a fronteggiare l’incalzantecambiamento che si sta producendosotto i nostri occhi, a volte attoniti.

Ne siamo consapevoli. Il ritmo dell’innova-zione diventa a volte insostenibile per chiproviene da ben altre velocità e rischia di tra-sformarsi in un handicap culturale. Le di-mensioni e le prospettive che apre il mon-do, ai tempi del Web 2.0 (e forse tra non mol-to del 3.0), non sono facili da definire e mo-nitorare, perché la realtà della comunicazio-ne sembra sfuggire da ogni lato, quasi cheogni sua rappresentazione sia carente.Se il mutamento è inarrestabile e incalzan-te, la comunicazione, come sempre, e oggiforse ancora di più, può rispondere agli stes-si bisogni di sempre della persona, nel per-corso lungo una vita del crescere verso lapienezza dell’essere uomo e donna.

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sore delle filosofie del dialogo di Buber, Marcel,Lévinas, Mounier, le relazioni giuste significanouno stile di rapporto che conduce a un incon-tro effettivo con l’altro. Esse stesse sono l’incon-tro. Ogni comunicazione è dunque il compier-si di una relazione empatica che si costruisce inun lento passaggio dall’Io al Tu al Noi: Il cristia-no non dialoga per strategia, ma perché è il suostatuto di umanità profonda, sostiene EnzoBianchi in un’intervista. Nel nostro tempo, dovele distanze si assottigliano sempre più, dove iconfini degli spazi sfumano e si fanno semprepiù nomadi e aperti, la persona corre il rischiodi essere un navigatore solitario che attraversan-do le molteplici reti vive di “zapping” percetti-

vo e culturale, di “mordi e fuggi” interattivo, manon percepisce la dimensione di mistero checontraddistingue il suo venire al mondo e il suovivere il mondo in un certo tempo e in un cer-to spazio. Bisogna allora ripartire, ricostruire, ricucire,educarci alla relazione interpersonale, da ciò chenessun computer potrà mai darci: l’impattodella presenza, della voce dell’altro. Non è suf-ficiente la qualità del tempo offerto alla relazio-ne, è altrettanto importante la quantità. Per Pau-lo Freire la parola è qualcosa di più che un sem-plice strumento che mette in relazione. Per il pe-dagogista brasiliano, nella parola vi sono due di-mensioni: azione e riflessione. «Non esiste pa-rola autentica che non sia prassi. Quindi, pronun-ciare la parola autentica significa trasformare ilmondo».La relazione umana non è un gioco e richiedetempo, rispetto dell’altro, attesa, ascolto attivoe reciprocità, in ogni ambiente e situazione divita. La comunicazione mediata è una dei cana-li che si ha oggi a disposizione nel variegato pa-norama di un sistema di comunicazione semprepiù integrato. È nella continuità tra le due comu-nicazioni, quella online e quella offline, è nel su-perare la frammentarietà e ricondurre all’u-nità, e unicità della persona, che si potrà sana-re la contrapposizione tra reale e virtuale, ridi-segnare il territorio umano e la dinamica relazio-nale, non moltiplicare le connessioni in Rete ascapito dei legami con chi è vicino. «Soltanto nel-l’Io-Tu si ha autentica relazione, si raggiungonoalti livelli di reciprocità; soltanto in questa dimen-sione l’Io si educa e si costituisce come esisten-za perché vale la legge: “Io mi faccio nel Tu e fa-cendomi dico Tu”», scriveva Martin Buber. Da educatrici siamo chiamate a dare pienezzaalla nostra missione. Il fondamento del compi-to educativo è l’impegno responsabile volto a co-gliere ed accettare l’appello imprevedibile chevia via si presenta nella realtà dei giovani e del-le giovani che abbiamo di fronte.

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Good-bye e-mail, ciao Wave! Sta arrivandosul mercato un prodotto che rinnoverà ra-dicalmente la comunicazione online tantoda farci dire “addio“ alla posta elettronica.Google Wave (Onda) è stato pensato da Larse Jens Rasmussen, i due fratelli che hannoinventato Google Maps. Google Wave prevede condivisione in tem-po reale tra molteplici utenti, che simulta-neamente possono scrivere documenti(Wikis), condividere fotografie, aggiornareblog, fissare appuntamenti e chattare in gran-di gruppi. Google Wave può essere affasci-nante, ma può nascondere anche qualchecomplicazione. Come per Gmail (il serviziodi posta elettronica di Google), GoogleWave sarà libero e potrà essere utilizzato trapochi mesi. E così vedremo se… lo straordi-nario Google Wave soppianterà definitiva-mente la cara, vecchia e-mail…

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tromba “in Si-bemolle”. I suoi suoni, in ve-rità un pò indecorosi all’inizio, con la prati-ca sono arrivati a trasmettere melodie apprez-zabili; c’era un unico problema: i cani, chenon sopportano le note acute, univano allamusica i loro tristissimi lamenti».

Gli strumenti sono da sempre un suppor-to al messaggio, e in questo caso anche ilmissionario lo conferma. E se è vero chequesta esplosione tecnologica ha dato ungrande impulso ai mezzi di comunicazio-ne, è pur vero che mai come oggi si comu-nica tanto poco. Per cui uno dei concettifondamentali da ricordare è il fatto che imezzi stessi non devono mai diventare laparte principale della comunicazione, madevono invece avere un ruolo di media-zione nel processo comunicativo. Quelvecchio missionario del Pime, che ora hagià raggiunto il Padre, ci ha fatto capirecome il mezzo, per quanto sia rudimenta-le o moderno, ha sempre un ruolo di aiutoe non può sostituire le persone, tantocome emittenti quanto come riceventi.

Ma allora ci chiediamo: come fare affinchéogni nostra azione e progetto possa esseredavvero comunicativo? Il comunicare non èinfatti una semplice trasmissione di messag-gi, va ben oltre. Provate a pensare quante vol-te ognuno di noi, pur con le migliori inten-zioni del caso, è rimasto amareggiato perchénon è stato capito o male interpretato. Lostesso accade nel processo stesso di Evan-

Per una buona comunicazione della fedeClaudio Pighin

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Oggi più che mai sentiamo quanto sia grande e difficile la sfida del comunicare. E se l’oggetto di questa sfida è la fede, allora ci sentiamo ancor più piccoli e smarriti. Per questo motivocomunicare la fede è il vero nodocentrale del nostro essere Chiesa e soprattutto persone di Chiesa.

Alcuni anni orsono, un mio confratello mis-sionario che raggiunse lo Stato dell’Amapà,nella regione amazzonica, nel lontano 1948,mi disse: «Il cammino dei mezzi di comuni-cazione, da quei tempi ad oggi, è stato im-menso. Oggi, possiamo entrare in contattocon tutto l’universo: possiamo comunicarenello stesso momento con milioni di perso-ne. Allora invece, per affrontare le distanze,un altoparlante gracchiante, posto in alte tor-ri, era il massimo. Nelle chiese i microfonierano, quasi sempre, una vera disgrazia. Masi riusciva a trasmettere qualcosa. Il cervel-lo di noi missionari si trasformava in una fu-cina di invenzioni. Ci si chiedeva: come ot-tenere un contatto con le periferie? Esistevainfatti solo il contatto diretto, di casa in casa.Armati di un campanello, si dava l’avviso delnostro arrivo. I cani (sempre i primi ad acco-glierci), poi i bambini e infine gli adulti si riu-nivano all’ombra di un albero o all’entrata diuna casa: così iniziava il catechismo. La situa-zione è migliorata quando il semplice cam-panello è stato sostituito da una potente

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gelizzazione: quante difficoltà per aiutare laParola di Dio ad incarnarsi nella vita dellagente. E di chi è la colpa di tutto questo? Cer-tamente vi concorrono molti fattori, ma milimiterei a sottolineare quello vitale, l’animadi tutto: l’incapacità di comunicare.

Allora insistiamo, che cos’è davvero comuni-care? L’allora missionario p. Lino Simonelliaveva capito che per meglio evangelizzare ilpopolo amazzonico era necessario entrare incontatto diretto con la gente, vivere una re-lazione personale con l’altro, cioè essere pre-senti. Quindi appare evidente quanto sia ne-cessaria una certa identificazione tra colui che

invia e colui che riceve il messaggio: solo cosìpotrà stabilirsi un reale ed efficace atto comu-nicativo. È il desiderio di questo atto che spro-na a diventare una fucina di invenzioni,come diceva il sacerdote. Chi veramentevuole comunicare non si stanca mai nè si an-noia di cercare soluzioni per migliorare la co-municazione stessa. Altro insegnamentofondamentale che ci dà p. Simonelli, è il fat-to che comunicare non è mai un atto solita-rio o individuale, anche perchè ci si imbattespesso nel problema di come comunicare, adesempio, con persone distanti e in situazio-ni in cui non possiamo essere presenti. Sempre lui mi diceva, infatti: «Visto che eraimpossibile avere contatti costanti con le co-munità disperse lungo la foresta, abbiamocoinvolto le maestre delle elementari dei vil-laggi. A loro facevamo riferimento per tuttociò che riguardava l’insegnamento del cate-chismo. Armati di ciclostile (il computerdell’epoca), preparavamo le lezioni settima-nali di catechismo e le consegnavamo allemaestre, con le quali mantenevamo uncontinuo contatto affichè potessero esserepreparate per questo compito». Una buona comunicazione necessita quin-di spesso di una mediazione. Noi, infatti,come persone, siamo limitati in tutti i sen-si. Ecco allora il bisogno di cercare qualco-sa o qualcuno che ci possa aiutare a sosti-tuire o mediare la nostra assenza. Dobbia-mo pertanto ricordare che un processo co-municativo può e talvolta deve coinvolge-re più persone e più metodologie, senzaperò dimenticare la dovuta preparazione esenza che venga lasciato nulla al caso oall’improvvisazione.

Possiamo allora dire che anche la fede,parte integrante della nostra vita, ha bisog-no di una vera comunicazione per poter es-sere davvero recepita e compresa.

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Padre Claudio Pighin, che quest’anno cureràper noi la rubrica Comunicare la fede, è sacer-dote del Pontificio Istituto Missioni Estere(PIME), è missionario da molti anni nell’Amaz-zonia brasiliana. Si è specializzato nei campi della pastorale del-la comunicazione e della missiologia. Giorna-lista pubblicista, è autore di numerosi docu-mentari e vari libri a carattere religioso e cul-turale in lingua italiana e portoghese. È stato di-rettore del Centro di Comunicazioni Sociali eprofessore dell’Istituto di Catechesi Missiona-ria e della Facoltà di Missiologia della Pontifi-cia Università Urbaniana, è docente all’IRFP (Isti-tuto Regionale di Formazione Presbiterale) diBelém - Parà, Brasile e fondatore e direttore del-la scuola di comunicazione sociale e della casaeditrice Missão Friuli Amazonia in Belém – PA,Brasile.

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In fuga con il clandestino

Con un tocco leggero che perònon trasforma in commedia ladrammaticità di un viaggio“della speranza”, l’autore scan-disce l’intera vicenda - una tra-versata per terra e per mare -con una struttura narrativa li-neare. La prima immagine delfilm è da cartolina: un mare bel-lissimo con un promontorio incampo lungo e un suggestivotramonto. Poi si fa strada un

barcone sovraccarico di clan-destini che sfidando le leggicontro l’immigrazione per cer-care pane e lavoro nei paesi delricco Occidente. Avvistati da una vedetta dimare, il protagonista Elias sibutta e fugge a nuoto, affidan-dosi alla fortuna. Dopo un ro-cambolesco sbarco, si risve-glia su una spiaggia della Gre-cia e scopre d’essere capitato inun lussuoso villaggio turistico,l’Eden Club Paradise, dove sipratica il nudismo e si trascor-re il tempo in divertimenti di

svago leggero. Elias si mimetiz-za per non essere riconosciu-to ma, scambiato per un inser-viente del Club deve barca-menarsi ed accettare tuttoquello che gli capita, finché in-contra una specie di mago cheintrattiene gli ospiti e lo scegliecome collaboratore nei suoigiochi di prestigio. Il mago gliporge un biglietto da visita ac-compagnato da un invito: “Sevieni a Parigi, vienimi a trovareal Lido». Elias lo riceve come un pegno,una promessa, un’autentica

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VERSO L’EDEN(Eden à l’Ouest)di Costa GavrasFrancia/Italia/Grecia 2009

Dopo ben 40 anni, il grande regista Costa-Ga-vras – già celebre nel 69 per l’Oscar al «Miglio-re film Straniero: Z l’Orgia del Potere» – tornaa girare nel suo paese natale, la Grecia, con unapellicola sull’attualissimo tema dell’emigrazio-ne che racconta con l’occhio partecipe e inda-gatore di chi pone sempre l’uomo al centro del-le sue storie. Un’opera vigorosa e al tempo stes-so poetica, tra impegno e solidarietà. Emigratoper ragioni politiche dalla Grecia alla Francial’autore stesso dichiara: «Verso l’Eden prova adar voce al percorso, al vagare, alla storia di co-loro che ieri fummo noi stessi alla ricerca di untetto. La storia di Elias (il protagonista) non équella di Ulisse… né la mia. Ma io mi ricono-sco in Elias, questo straniero che non mi è estra-neo... Non è autobiografico, ma è un film mol-to personale. Conosco il dramma di chi è co-stretto a lasciare tutto quello che conosce per

avventurarsiverso l’igno-to, spinto dalbisogno di so-pravvivere».

In altre parole il regista esplicita con chiarezzal’intento di proporlo come un ritratto/apolo-go del dramma dell’emigrante oggi. Provieneinfatti da un paese non identificato, parla unalingua irriconoscibile, è presentato in mezzoad altre centinaia di persone che come lui ten-tano la fortuna: sono chiari elementi univer-salizzanti. Ma lo fa interpretare dal fascino diRiccardo Scamarcio che conquista, reggel’intera pellicola e ne determina il coinvolgi-mento, anche se in molti momenti è quasimuto. A parlare sono i gesti, gli atteggiamen-ti, gli sguardi. Basta poco a volte per stare dal-la parte dei più indifesi. Ma è sufficiente?

a cura di Mariolina Perentaler

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speranza e da quel momentoquell’indirizzo diventa un mi-raggio: la sua unica méta. Riu-scito a fuggire dal villaggio,farà di tutto per raggiungere lacapitale francese: viaggia conogni tipo di mezzo, viene de-rubato, accetta di lavorare innero, finisce in un dormitoriopubblico, braccato ovunquedalla polizia riesce sempre asfuggire. Di tanto in tanto tro-va anche qualche persona chelo aiuta finché - tra avventuree disavventure - attraversatal’Europa, supera i confini eraggiunge Parigi. Ma una volta arrivato s’accor-ge che la sua realtà è ben diver-sa da quella sognata: «la capi-tale della tolleranza, il nuovoEden del mondo insorgente» Cerca disperatamente delmago finchè approda al “Lidò”,dove un anziano grasso e gen-tile gli indica il mago al lavoro,aggiungendo una considera-zione pensosa: «C’è un talecaos nel mondo! Solo unmago può cambiare le cose».Preannuncio o profezia? Costa Gavras la utilizza perchiudere-concludere la suatoccante parabola: con un col-po di fantasia ci mostra Elias ri-masto in lacrime, solo, delusoe senza aiuto, che azionando labacchetta magica ricevuta dalmago, fa illuminare la Tour Eif-fel. La polizia sembra circon-darlo ma poi poliziotti improv-visamente spariscono. Elias va verso la Torre che luc-cica, mentre tutto intorno a luisi ferma. Solo lui continua acamminare… accompagnatoda una musica extradiegetica.

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ANNO LVII • MENSILE / GENNAIO FEBBRAIO 2010

SULL’IDEA DEL FILM

fornire una specie di ‘corso ac-celerato’ sugli atteggiamentidei nostri paesi ricchi e nevro-tici (Eden a l’Ouest), attraversola corsa di Scamarcio che incar-na un emblematico emigrante.

Costa Gavras affronta il temadella migrazione partendo dalbarcone zeppo di profughitipo “Lamerica” (celebre filmdi Amelio, anni ‘95) ed acquemediterranee come “sprofon-do” dell’umanità contempora-nea. L’isola d’approdo nel vil-laggio/vacanza modello Alpi-tour – è solo il primo assaggiodei numerosi scenari/set cheElias attraversa: caldo corpoper una quarantenne single te-desca che lo aiuta amorevol-mente, passeggero malvolutodi una coppia di automobilistigreci, loser anni ‘50 sui carri be-stiame e sulle carriole conscrofe, operaio in una fabbri-ca di riciclaggio dove i malca-pitati si pagano in nero e consalate trattenute alla fonte. In-fine, al traguardo, la delusionedell’ultimo inganno: una Pari-gi di lussi e di guardie, di caose contraddizioni. In sintesi, l’Elias di Gavras si ar-rabatta e scappa da una fameatavica, dal peso dell’oggetti-va povertà, ma – come scrivebene Liberazione: «Ci con-duce con lui. Accompagna ogni pubbli-co a toccare con mano ilfondo del barile: un opulen-to, egocentrico, e spessobarbaro Occidente».

SUL SOGNO DEL FILM

Favorire l’intercettazione di unSOS: “Noi greci, voi italiani, sia-mo stati migranti. Non dobbia-mo scordarlo” - Costa Gavras.

«Pur con tratti lievi, il registamette in campo non solo ilsuo essere dalla parte delfuggitivo ma anche le forticontraddizioni di un’Euro-pa divisa tra slanci di solida-rietà e pericoli di chiusuramentale e culturale». Lo scrive la CommissioneVPF mentre l’attore puglieseribadisce: “Quando Costa-Gavras mi ha fatto leggere lasceneggiatura, gli ho fattonotare che la scena degli uo-mini armati di torce e petto-rine che davano ‘la cacciaall’uomo’ era piuttosto irrea-le. Poi… sono arrivate le ‘ron-de’! E, da italiano – lo confes-so – mi vergogno”. Da sempre affezionato a temipolitici e di denuncia sociale,il caso che sceglie di racconta-re in quest’opera è presenta-to come ‘consueto’ più che tra-gico, ma la sofferenza della so-litudine e dell’estraneità nonsono attutite. La pellicola diGansel spinge ogni spettato-re a domandarsi: “Io cosa avreifatto o cosa farei?” È capace diinquietare per far cogliere chela questione interpella cia-scuno personalmente. Che quest’opera è da pro-muovere, da vedere, magari trainsegnanti, educatori e stu-denti, come una salutare occa-sione per discutere.

PER FAR PENSARE

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brillanti. Le prove però si inceppano quando, per ovvimotivi, tutti rifiutano di accettare la parte di Giuda, iltraditore. Lei si rassegna alla situazione e decide dicontribuire allo spettacolo non della passione di Cri-sto, ma di quella dei poveri cristi che sono i carcera-ti, e lo adatta alla loro condizione. «Sono un non cre-dente, confessa l’autore in conferenza stampa, ma cre-do che la religione abbia un ruolo importante nellanostra cultura e non ho nulla contro chi cerca rispo-ste di natura spirituale alle domande che la vita cipone. Di qui l’idea del film (…) Quale posto miglio-re della galera per parlare di sacrificio, espiazione?».Attrezzature, scenografie, costumi, abbigliamentisono frutto dell’attività artigianale dei detenuti. L’og-getto che s’impone all’attenzione per maestosità epeso strutturale è la grande croce di legno che occu-pa tutto lo schermo. Attorno e sopra agiscono, si sten-dono, recitano gli interpreti anonimi, in particolarequello che sta al posto di Cristo. Non è legato né, tan-to meno, trafitto da chiodi, ma è ugualmente croci-fisso, pur rimanendo libero di scendere dal patibo-lo, di cantare e danzare assieme ai colleghi. La traspa-renza dei simboli è totale, tuttavia apre e lasciaaperte domande su problematiche profonde.

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TUTTA COLPA DI GIUDA DAVIDE FERRARIO ITALIA - 2009

Un’interessante commedia musicale, ambientataalle Vallette di Torino. “Non un film sul carcere, maun film nel carcere”, ci tiene a precisare il regista Da-vide Ferrario che, dal 2000, conduce laboratori audio-visivi al San Vittore. Un’opera che trasforma il carce-re stesso nella scenografia di ‘possibili emancipazio-ne e riscatto’. Accanto agli attori, lavorano detenutie personale autentici della sezione VI blocco A, chehanno richiesto un tempo lungo per costruire il rap-porto di fiducia, ma a cui spetta il merito della sostan-ziale sincerità di tutta l’opera. La pellicola, veramen-te atipica e originale, racconta la storia di Irena, gio-vane regista di teatro sperimentale, incaricata dal cap-pellano del carcere di inserirsi da educatrice e di al-lestire uno spettacolo sulla Passione di Cristo. Dopoqualche resistenza personale che giustifica con la suaimpreparazione in campo religioso, accetta l’impe-gno e riesce a conquistare/coinvolgere i sui interpre-ti improvvisati con humour, entusiasmo e scioltezza

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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vaghisce del piccolo Sosuke. Ma la fantasia con cuiMiyazaki la ripropone si nutre di tutti i miti fondantidella cultura giapponese, a cominciare dall’ambivalen-te presenza del mare, elemento di vita e insieme sfi-da rischiosa, per continuare con il ruolo positivo e ras-sicurante delle figure femminili (quasi tutti i personag-gi di I° piano sono donne) a fronte della latitanza diquelle maschili. Come perni strutturali poggia sudue presupposti di spessore: il primo riguarda l’unitàdella realtà, il secondo è rappresentato dal rapportobambini-natura. Visivamente è un tripudio di colori.Non solo: di colori in movimento, di colori che pren-dono forme, di forme che evolvono anche cromatica-mente oltre che significativamente, mentre accadonocose portentose. L’immagine più bella di quest’ incan-tevole Ponyo sulla scogliera è quella di una bambinaa braccia aperte che corre a perdifiato sulla cresta diun’onda gigantesca, perché solo così potrà completa-re la sua metamorfosi da creatura ibrida, metà pescee metà umana, in bambina vera. Ma soprattutto cor-re dal suo amore Sosuko. Un film da non perdere. Aqualsiasi età. Una festa per gli occhi e per l’anima.

PONYO SULLA SCOGLIERA HAYAO MIYAZAKI GIAPPONE – 2009

Poesia e magia rendono da sempre davvero unici i filmdi Hayao Miyazaki, di cui l’ultimo, Ponyo sulla scoglie-ra. Il 68enne autore giapponese è considerato un mitovivente per i cultori dei cartoni animati. Ma anche chinon conosce il suo nome, sa chi sono i suoi personag-gi: Heidi, Anna dai capelli rossi, Lupin III, Conan il ra-gazzo del futuro.«Il mondo diventa sempre più diffi-cile – rileva durante un’intervista – ma finché nasce-ranno bambini sarà viva la speranza. Per questo inPonyo sulla scogliera racconto del “nascere”». E lo fa“disegnando” una favola colorata che si affida alle manidi 70 artisti, senza mai ricorrere agli effetti speciali del-la grafica computerizzata. Scritto da lui stesso, il film“nasce” fra la terra e il mare, sul loro confine impren-dibile e incerto. La sua storia è semplicissima: quelladi una pesciolina rossa che decide di diventare unabambina in carne e ossa quando, emersa sulla spiag-gia con la testa incastrata in un vasetto di vetro, s’in-

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a cura di Mariolina Perentaler

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Don Tonino Bello ALFABETO DELLA VITAPaoline 2009

Non c’è tra noi chi non abbia letto almeno qual-che pagina di questo originale e infaticabile mi-nistro del Vangelo, che, chiamato alla dignità epi-scopale, amò continuare a chiamarsi don Toni-no Bello e sempre confermò con i fatti quandoandava annunciando con le parole. A oltre sedici anni dalla morte, i suoi scritti, le sueomelie conservano inalterata la loro attualità, poi-ché scaturite da un cuore innamorato di Dio edella vita. Il libretto che presentiamo è unasemplice raccolta di pensieri su svariate temati-che, distribuite secondo le 21 lettere dell’alfabe-to (abbandono, bellezza ecc.). Ad esempio, allavoce abbandono: “Camminare con Cristo signi-fica abbandonarsi a Lui, non aggrapparsi a Lui…Chi si aggrappa ha sempre paura; chi si attaccaa Gesù Cristo, ai santi… perché ha paura, deveun po’ dubitare della sua fede”. Centottanta paginette di saggezza evangelica, chepossono offrire uno spunto per qualche breve so-sta di riflessione.

Marc Joulin IL SANTO CURATO D’ARSPaoline 2009

In questo “anno sacerdotale” dedicato al sacerdo-zio ministeriale, è stato scelto a rappresentareidealmente la figura del sacerdote S. Giovanni Ma-ria Vianney: unico parroco canonizzato dallaChiesa, ben rappresenta il modello di coloroche sono chiamati a essere guida della fede, ac-compagnando con animo di padre, in ogni età esituazione della vita, quella variegata comunità difedeli che è la famiglia. Per chi ancora non abbialetto una biografia completa di questa incantevo-le figura di prete, l’agile libretto che presentiamone offre un ritratto semplice e breve ma non su-perficiale. Sfrondando quanto potrebbe essercidi leggendario in alcuni episodi tramandati, il li-bro non omette certa gustosa aneddotica e soprat-tutto infiora il racconto di citazioni testuali, origi-

nalissime nella loro profondità e capacità immagi-nativa, rivelandoci così una delle caratteristiche piùaffascinanti di questo umile grande servo di Dio.

Bonimi Castelli, Di Tullio, Rosa I MEDIA PER CRESCEREPaoline 2009

Il libro è destinato soprattutto alla formazione de-gli educatori, animatori, catechisti, Da un approccio iniziale in chiave difensiva ormaisuperato, si è giunti a un atteggiamento costrutti-vo, che considera i media come l’ambiente in cuisi sviluppa la crescita del ragazzo e che si propo-ne di alfabetizzare i giovani nei linguaggi della cul-tura mediatica, sviluppandone una competenzache li porti a produrre essi stessi testi multimedia-li, usando mezzi adeguati: televisione, computer,videocamera, libri, lettore DVD ecc. Non esperimenti saltuari e disordinati, ma veri la-boratori in cui si lavori con metodo e con chiariobiettivi. Comunicatori dei contenuti della fede,i catechisti potranno efficacemente valersi di talemetodologia, purché, naturalmente, sia ben chia-ro il “che cosa “ e “perché” comunicare.

Anna Maria Canopi MARIA, DONNA DELLA BELLEZZA INTERIOREPaoline 2009

È così difficile parlare di Maria! Un libro che s’inti-toli a lei desta un involontario moto di diffidenza.Forse troppo si è scritto di questa creatura fatta, po-tremmo dire, di silenzio, che Dio solo può intera-mente comprendere e possedere. Basta però sfo-gliare le prime pagine di questo piccolo libro perrestare sorpresi. Forse solo una contemplativa im-mersa abitualmente, per vocazione, nel silenzio, puòtrovare parole davvero inedite e vere parlando diMaria. E parlando di lei, la tutta santa, il discorso sidistende a parlare del nostro cammino verso la san-tità. Se Gesù è la Via, la Vergine è lo specchio di san-tità, il modello purissimo, colei che ci accompagnamaternamente, quasi prendendoci per mano, allasequela del Figlio.

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a cura di Adriana Nepi

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lotterò per il futuro dei bimbi di Scampia». Checosa ha fatto emergere in Davide il desideriodi una vita diversa da quella che conduceva?Un giorno, ritornando dall’ora d’aria, trova unVangelo lasciato da qualcuno su una branda.Lo apre e trova il suo nome, Davide, ripetutopiù volte. Qualcosa scatta dentro. Da lì un cam-mino, faticoso, di trasformazione, il desiderioe la riuscita di diventare altro da quello che eranei ranghi della camorra. Pagine di Vangelo euna poesia di David Maria Turoldo, “Amoreche mi formasti”, saranno la dolce inquietudi-ne che porteranno l’autore ad un radicale cam-biamento di vita che oggi gli occhi dei suoi fi-gli gli ricordano perché può incontrarne losguardo con limpidezza e fierezza.

Davide Cerullo, un giovane di Scampia, con co-raggio ha scelto di uscire dal tunnel della per-dizione, prendere la parola a farsi testimone diun cambiamento possibile, dell’agire silenzio-so ma pugnace dei tanti esempi di sacerdoti,consacrati e laici che lottano giorno dopo gior-no per offrire ai ragazzi di Scampia la possibi-lità di scegliere per la vita. E l’altro autore, donAlessandro Pronzato? Egli tira le fila del discor-so, tenendo insieme un materiale delle memo-rie spesso volutamente confuse, quasi a vole-re che a prendere la parola sia il mondo caoti-co che è Scampia. Il libro si divide in due par-ti: la prima che vede susseguirsi squarci di vitae di morte nel contesto degradato di Scampia;una seconda in cui Davide e Ciro, un ragazzoche non vuole vivere secondo il Sistema camor-ristico, si affacciano idealmente su quella realtà,su quel dolore, ingiustizie e sofferenza, ma an-

Ali bruciate. I bambini di ScampiaEmilia Di Massimo

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“È la mia Vela, con il Vesuvio sullo sfondo. Ditequel che volete, ma io mi ostino ad amare que-sto luogo che sposa la miseria con la poesia”.Basterebbe soltanto questa affermazione diDavide Cerullo, autore insieme ad AlessandroPronzato del libro: “Ali bruciate. I bambini diScampia”, per comprendere il messaggio che gliscrittori vogliono comunicare. In sintesi: non un“j’accuse ma un confiteor” comunicato attraver-so gli occhi e l’esistenza dei bambini, dei loro so-gni che si fondono con la povertà e, miracolo-samente, diventano un poema drammatico manel quale la speranza resta sempre dominante.Sì, la speranza: filo d’oro che pervade ogni pa-gina del testo, proprio dentro la disperazione.

Le “ali bruciate” di tanti bambini sono dedica-te a tutti coloro che hanno sbagliato direzionema hanno trovato sul loro cammino la mano diqualcuno al quale si sono affidati. Dal libro, che rappresenta la testimonianza di-retta di Davide Cerullo che a quattordici annifaceva il pusher, vendeva droga e guadagnavacinquecento euro al giorno, si alza forte la voceche invita a cambiare perché nessuno è irrime-diabilmente perduto, niente può considerar-si per sempre compromesso. Un credente, seè veramente tale, non può ritenere nessuna si-tuazione “disperata” e nessuna persona, tan-to meno se giovane, “irrecuperabile”. Gli irre-cuperabili sono solo un’invenzione della no-stra malafede che ci fa credere che tutto è per-so, che non si può fare nulla, che tutto è irri-mediabilmente compromesso. Afferma Davi-de Cerullo: «Sono caduto, mi sono rialzato,sono caduto ancora. Ora non sbaglierò più. E

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che sulla speranza, la gioia e il bene, alla ricer-ca di «una ragione valida perché si possa e sidebba cambiar vita».“Ali bruciate” sono i bambini di Scampia, ma inrealtà sono i bambini di ogni parte del globo aiquali sono negati gli elementari diritti umani.Leggendo il libro si apprendono vicende ag-ghiaccianti di giovani vite, ma le loro storie han-no come sfondo la tragica realtà degli adulti. Lamaggior parte dei bambini diventa criminale peraiutare i genitori a sfamare il resto della famiglia.

Scampia, comunque, non è solo storia di degra-do sociale; alle Vele in particolare, abita anchetanta gente perbene, solidale, che vive realmen-te ogni giorno in comunione con gli altri. Ma èurgente dare a questa gente uno straccio di op-portunità, un’alternativa. E allora si potranno ve-der realizzati, davvero, i miracoli! Tale afferma-

zione vorremmo che emergesse in tutta la suavalenza perché l’immagine in nero di Scampiaviene presentata troppo spesso da coloro chegiudicano per sentito dire, senza conoscere iproblemi reali, come quello della povertà eco-nomica, culturale, della mancanza di prospet-tive di lavoro, dell’abbandono da parte di colo-ro che avrebbero il dovere di prendersi a cuo-re i problemi della gente comune. Le personeche a Scampia vivono onestamente potrebbe-ro essere più numerose se non ci fossero piùghetti, per cui troppi bambini sono costretti avivere in strada o chiusi a chiave in casa, prigio-nieri delle paure e delle ansie dei propri geni-tori. Davide Cerullo è consapevole che un al-tro colore di Scampia è anche il rosso, il sangueche così spesso vi scorre, ma afferma conprofonda convinzione: «Io posso garantire cheper dipingere il quadro di Scampia bisogna met-terci anche il verde… Il colore della speranza».

Scampia non è Napoli, è un tratto di esso; Scam-pia è la via crucis di una moltitudine di innocen-ti, non è l’inferno, altrimenti non ci sarebberopersone che lavorano onestamente, difenden-do la propria “diversità”. «Scampia è il figlio piùdebole e bisognoso di maggior cura, è unquartiere che va letto, capito, aiutato e amato…»È quanto ha voluto sottolineare, sin dal suo ar-rivo in Campania, il cardinale Crescenzio Sepe,il quale ha baciato quel lembo di terra parteno-pea credendo nella possibilità di riscatto, affer-mando implicitamente che Scampia deve esse-re nel cuore più che sui luoghi comuni… Leggere “Ali bruciate” fa riflettere, inquieta,interroga. “Cosa posso fare?”, ci si chiede, esi vive l’esperienza della propria incapacità;ma ogni pagina non chiede gesta eroiche,vuole solo suggerirci un principio educativodal sapore familiare, apparentemente sempli-ce ma in realtà talmente impegnativo da fargiocare a molti l’intera esistenza.

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quante cose vediamo noi, meglio di altri!?Le vediamo ad occhi chiusi! Basterebbeche in comunità si avesse la pazienza diconsultarci e ascoltarci un po’ di più e si-curamente tutti i discernimenti sarebbe-ro ben riusciti. Perché noi, ormai, ne ab-biamo viste talmente tante, da saperscorgere la volontà di Dio dove non ce n’èproprio più traccia. Pensate un po’! Pur-troppo, però, il nostro destino è vederee tacere! O vedere e borbottare!E non abbiamo i denti, sì, ma quante cosesappiamo mandare giù noi?!Per non parlare poi di quello che, nono-stante i nostri apparecchi acustici, sappia-mo sentire! Distinguiamo benissimo ciòche è salesiano e carismatico, da ciò chenon lo è! “Sentiamo” se una cosa è giu-sta o sbagliata! E se a volte sembra chedormiamo un po’ durante le conferenze,è solo per delicatezza che lo facciamo: sidicono, al giorno d’oggi, certe cose, an-che durante le conferenze (in cui imper-versano i power-point), che vale la pena,per amore di carità, fingere di dormire! E che dire infine della scarsa tonicitàmuscolare che, ad una certa età, causa ral-lentamenti? Mah! Io dico solo che alme-no noi anziane in comunità ci siamo! EC-COME! Sempre! Gambe lente, ma cuo-re vigile! Ditemi allora se arrivare alla ter-za età non significa davvero avere unamarcia in più!

Una marcia in più!

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Povera, vecchia Camilla! Tra alti e bassi miavete sopportato 17 anni! È ora di chiude-re! Questo forse è il mio ultimo anno.Metto quindi al bando tutte le altre qui-squiglie, per dedicare la mia attenzione al-l’unica cosa che conta e che (purtroppo)non mi sarà tolta: la mia anzianità!Si tratta di una fase della vita temuta, maassai preziosa! Provare per credere! Nesviscererò le caratteristiche lungo i nume-ri di questa annata, secondo il mio pun-to di vista, ovviamente!A mo’ di introduzione, partirei da alcuniaspetti fisici della terza età! Che nonsono da sottovalutare, ma neppure da so-pravvalutare!Diciamo che la persona anziana va “ma-neggiata con cura”, poiché diventa fisica-mente “fragile”: ha menomazioni senso-riali, quali una diminuzione dell’acutezzavisiva, associata a un deterioramento del-la capacità uditiva. Non è psicologismo, osalutismo, questo. No! Ne parla, nella Bib-bia, anche il Qoelet: “Si offuscheranno ledonne che guardano dalle finestre (gli oc-chi) e si chiuderanno le porte sulla strada(le orecchie), cesseranno di lavorare ledonne che macinano, perché rimaste inpoche (i denti)”. Insomma, essere anziani significa perde-re potenziale psico-fisico. Tuttavia, paro-la di Camilla, noi vecchiette siamo solo ap-parentemente svantaggiate. È vero, gli oc-chi si appannano per le cataratte, ma

RIVISTA DELLE FIGLIE DI MARIA AUSILIATRICEdma damihianimas

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INCONTRI: Povertà e missione

PRIMO PIANO: Amore e verità Per una collaborazione feconda

IN RICERCA: Pastoralmente Formarsi e lavorare insieme

COMUNICARE Faccia a faccia Comunicare in famiglia

NEL

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L’orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia,

un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo d’essere amati.

(Teresa d’Avila V. 8,5)

Page 48: Rivista DMA - Beati i poveri (Gen - Feb 2010)

CANTO ALLA VITA

Io resto quieto e sereno,come un bimbo

svezzato in braccio a sua madre,come un bimbo svezzato

è in me l’anima mia.

(Sal 131, 2)