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RASSEGNA STAMPA di giovedì 30 giugno 2016 SOMMARIO “La preghiera come via di uscita” è stato il concetto centrale dell’omelia di Papa Francesco durante la S. Messa di ieri nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo: “La Parola di Dio di questa liturgia contiene un binomio centrale: chiusura / apertura. A questa immagine possiamo accostare anche il simbolo delle chiavi, che Gesù promette a Simone Pietro perché possa aprire l’ingresso al Regno dei Cieli, e non certo chiuderlo davanti alla gente, come facevano alcuni scribi e farisei ipocriti che Gesù rimprovera. La lettura degli Atti degli Apostoli ci presenta tre chiusure: quella di Pietro in carcere; quella della comunità raccolta in preghiera; e – nel contesto prossimo del nostro brano – quella della casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove Pietro va a bussare dopo essere stato liberato. Rispetto alle chiusure, la preghiera appare come la via di uscita principale: via di uscita per la comunità, che rischia di chiudersi in sé stessa a causa della persecuzione e della paura; via di uscita per Pietro, che ancora all’inizio della sua missione affidatagli dal Signore viene gettato in carcere da Erode e rischia la condanna a morte. E mentre Pietro era in prigione, «dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui». E il Signore risponde alla preghiera e manda il suo angelo a liberarlo, “strappandolo dalla mano di Erode”. La preghiera, come umile affidamento a Dio e alla sua santa volontà, è sempre la via di uscita dalle nostre chiusure personali e comunitarie. È la grande via di uscita dalle chiusure. Anche Paolo, scrivendo a Timoteo, parla della sua esperienza di liberazione, di uscita dal pericolo di essere lui pure condannato a morte; invece il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza perché lui potesse portare a compimento la sua opera di evangelizzazione alle genti. Ma Paolo parla di una “apertura” ben più grande, verso un orizzonte infinitamente più vasto: quello della vita eterna, che lo attende dopo aver terminato la “corsa” terrena. È bello allora vedere la vita dell’Apostolo tutta “in uscita” grazie al Vangelo: tutta proiettata in avanti, prima per portare Cristo a quanti non lo conoscono, e poi per buttarsi, per così dire, nelle sue braccia, ed essere portato da Lui «in salvo nei cieli, nel suo regno». Ritorniamo a Pietro. Il racconto evangelico della sua confessione di fede e della conseguente missione affidatagli da Gesù ci mostra che la vita di Simone, pescatore galileo – come la vita di ognuno di noi – , si apre, sboccia pienamente quando accoglie da Dio Padre la grazia della fede. Allora Simone si mette sulla strada – una strada lunga e dura – che lo porterà a uscire da sé stesso, dalle sue sicurezze umane, soprattutto dal suo orgoglio mischiato con il coraggio e con il generoso altruismo. In questo suo percorso di liberazione, decisiva è la preghiera di Gesù: «Io ho pregato per te [Simone], perché la tua fede non venga meno». E altrettanto decisivo è lo sguardo pieno di compassione del Signore dopo che Pietro lo aveva rinnegato tre volte: uno sguardo che tocca il cuore e scioglie le lacrime del pentimento. Allora Simone Pietro fu liberato dal carcere del suo io orgoglioso, del suo io pauroso, e superò la tentazione di chiudersi alla chiamata di Gesù a seguirlo sulla via della croce. Come accennavo, nel contesto prossimo del brano degli Atti degli Apostoli c’è un particolare che può farci bene notare. Quando Pietro si trova miracolosamente libero fuori dal carcere di Erode, si reca alla casa della madre di Giovanni detto Marco. Bussa alla porta, e dall’interno risponde una domestica di nome Rode, la quale, riconosciuta la voce di Pietro, invece di aprire la porta, incredula e piena di gioia insieme corre a riferire la cosa alla padrona. Il racconto, che può sembrare comico – e che può dare inizio al cosiddetto “complesso di Rode” –, ci fa percepire il clima di paura in cui si trovava la comunità cristiana, che rimaneva chiusa in casa, e chiusa anche alle sorprese di Dio. Pietro bussa alla porta. “Guarda!”. C’è gioia, c’è paura… “Apriamo, non apriamo?...”. E lui è in pericolo, perché la polizia può prenderlo. Ma la paura ci ferma, ci ferma sempre; ci chiude, ci chiude alle sorprese di Dio. Questo particolare ci parla della tentazione che sempre esiste per la Chiesa: quella di chiudersi in sé stessa, di fronte ai pericoli. Ma anche qui

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 30 giugno 2016

SOMMARIO

“La preghiera come via di uscita” è stato il concetto centrale dell’omelia di Papa Francesco durante la S. Messa di ieri nella solennità dei Ss. Pietro e Paolo: “La Parola di Dio di questa liturgia contiene un binomio centrale: chiusura / apertura. A questa

immagine possiamo accostare anche il simbolo delle chiavi, che Gesù promette a Simone Pietro perché possa aprire l’ingresso al Regno dei Cieli, e non certo chiuderlo davanti alla gente, come facevano alcuni scribi e farisei ipocriti che Gesù rimprovera. La lettura degli Atti degli Apostoli ci presenta tre chiusure: quella di Pietro in carcere; quella della comunità raccolta in preghiera; e – nel contesto prossimo del nostro brano – quella della casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove Pietro va a bussare dopo essere stato liberato. Rispetto alle chiusure, la preghiera appare come la via di uscita principale: via di uscita per la comunità, che rischia di chiudersi in sé stessa a causa della persecuzione e della paura; via di uscita per Pietro, che ancora all’inizio

della sua missione affidatagli dal Signore viene gettato in carcere da Erode e rischia la condanna a morte. E mentre Pietro era in prigione, «dalla Chiesa saliva

incessantemente a Dio una preghiera per lui». E il Signore risponde alla preghiera e manda il suo angelo a liberarlo, “strappandolo dalla mano di Erode”. La preghiera,

come umile affidamento a Dio e alla sua santa volontà, è sempre la via di uscita dalle nostre chiusure personali e comunitarie. È la grande via di uscita dalle chiusure.

Anche Paolo, scrivendo a Timoteo, parla della sua esperienza di liberazione, di uscita dal pericolo di essere lui pure condannato a morte; invece il Signore gli è stato vicino

e gli ha dato forza perché lui potesse portare a compimento la sua opera di evangelizzazione alle genti. Ma Paolo parla di una “apertura” ben più grande, verso un orizzonte infinitamente più vasto: quello della vita eterna, che lo attende dopo

aver terminato la “corsa” terrena. È bello allora vedere la vita dell’Apostolo tutta “in uscita” grazie al Vangelo: tutta proiettata in avanti, prima per portare Cristo a quanti

non lo conoscono, e poi per buttarsi, per così dire, nelle sue braccia, ed essere portato da Lui «in salvo nei cieli, nel suo regno». Ritorniamo a Pietro. Il racconto

evangelico della sua confessione di fede e della conseguente missione affidatagli da Gesù ci mostra che la vita di Simone, pescatore galileo – come la vita di ognuno di noi –, si apre, sboccia pienamente quando accoglie da Dio Padre la grazia della fede. Allora Simone si mette sulla strada – una strada lunga e dura – che lo porterà a uscire da sé

stesso, dalle sue sicurezze umane, soprattutto dal suo orgoglio mischiato con il coraggio e con il generoso altruismo. In questo suo percorso di liberazione, decisiva è

la preghiera di Gesù: «Io ho pregato per te [Simone], perché la tua fede non venga meno». E altrettanto decisivo è lo sguardo pieno di compassione del Signore dopo che

Pietro lo aveva rinnegato tre volte: uno sguardo che tocca il cuore e scioglie le lacrime del pentimento. Allora Simone Pietro fu liberato dal carcere del suo io

orgoglioso, del suo io pauroso, e superò la tentazione di chiudersi alla chiamata di Gesù a seguirlo sulla via della croce. Come accennavo, nel contesto prossimo del

brano degli Atti degli Apostoli c’è un particolare che può farci bene notare. Quando Pietro si trova miracolosamente libero fuori dal carcere di Erode, si reca alla casa della madre di Giovanni detto Marco. Bussa alla porta, e dall’interno risponde una

domestica di nome Rode, la quale, riconosciuta la voce di Pietro, invece di aprire la porta, incredula e piena di gioia insieme corre a riferire la cosa alla padrona. Il

racconto, che può sembrare comico – e che può dare inizio al cosiddetto “complesso di Rode” –, ci fa percepire il clima di paura in cui si trovava la comunità cristiana, che rimaneva chiusa in casa, e chiusa anche alle sorprese di Dio. Pietro bussa alla porta.

“Guarda!”. C’è gioia, c’è paura… “Apriamo, non apriamo?...”. E lui è in pericolo, perché la polizia può prenderlo. Ma la paura ci ferma, ci ferma sempre; ci chiude, ci chiude alle sorprese di Dio. Questo particolare ci parla della tentazione che sempre

esiste per la Chiesa: quella di chiudersi in sé stessa, di fronte ai pericoli. Ma anche qui

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c’è lo spiraglio attraverso cui può passare l’azione di Dio: dice Luca che in quella casa «molti erano riuniti e pregavano». La preghiera permette alla grazia di aprire una via di uscita: dalla chiusura all’apertura, dalla paura al coraggio, dalla tristezza alla gioia. E possiamo aggiungere: dalla divisione all’unità. Sì, lo diciamo oggi con fiducia insieme

ai nostri fratelli della delegazione inviata dal caro patriarca ecumenico Bartolomeo, per partecipare alla festa dei Santi Patroni di Roma. Una festa di comunione per tutta la Chiesa, come evidenzia anche la presenza degli arcivescovi metropoliti venuti per

la benedizione dei palli, che saranno loro imposti dai miei Rappresentanti nelle rispettive Sedi. I santi Pietro e Paolo intercedano per noi, perché possiamo compiere con gioia questo cammino, sperimentare l’azione liberatrice di Dio e testimoniarla a

tutti” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Moraglia presiede messa in suffragio del card. Capovilla 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 16 “La preghiera, via di uscita” Francesco: evitiamo la tentazione di chiuderci ai problemi. All’Angelus: “Pietro e Paolo bussano al cuore di noi cristiani” Pag 21 Il senso della vita è abitare il tempo che resta di Vincenzo Rosito IL FOGLIO Pag 2 “Scuse ai gay? Dio ci salvi dal politicamente corretto”, dice il card. Napier di Matteo Matzuzzi Il porporato sudafricano risponde via twitter al tedesco Marx WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I lefebvriani non cercano l’accordo di Andrea Tornielli Un comunicato del vescovo Bernard Fellay, superiore della Fraternità San Pio X: non ci interessa anzitutto un riconoscimento canonico, «al quale abbiamo diritto». Aspettano «un Papa che ritorni alla santa Tradizione» 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Giovani e lavoro, i passi avanti trascurati dai governi Ue di Dario Di Vico CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Medie imprese rassicuranti di Paolo Gubitta Il Nordest che traina 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 14 – 15 La giunta dimezza i dirigenti. I sindacati: “Manovra inutile” di Alberto Vitucci e Enrico Tantucci Ca’ Farsetti, rivoluzione in municipio. “Salva Venezia” legato alla benevolenza di Renzi Pag 21 Oggi cena islamica aperta a tutti di m.a. Verso la fine del Ramadan. In via Monzani invitati rappresentanti del Comune e del Patriarcato Pag 22 “Ora la Cittadella della solidarietà non è più un sogno” di Marta Artico

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Un nome, una garanzia: a don Armando Trevisiol un lascito milionario IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I Meno veti e più buon senso di Tiziano Graziottin Venezia accessibile? Servono le rampe, non le impuntature Pag III Il grande assalto alle isole di Venezia di Paolo Navarro Dina Tornate al centro dell’interesse generale dopo gli anni dell’abbandono, ora fanno gola a tanti CORRIERE DEL VENETO Pag 4 Jesolo, arriva il wi-fi gratis in tutto il litorale di Mauro Zanutto Spiaggia, alberghi, negozi e ristoranti: 14 chilometri interamente connessi grazie alla fibra ottica 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 “Io, papà senza soldi e lavoro, riconoscerò la mia piccola Sara. Questo veneto è meraviglioso” di Emilio Randon Dopo la gara di solidarietà, la bimba sarà riaccolta dai genitori 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 26 di Gente Veneta in uscita venerdì 1 luglio 2016: Pagg 1, 4 – 5 Grest, una scommessa sul futuro Animatori, genitori e sacerdoti intervengono nel dibattito aperto da GV: «E’ un deposito di valori, cantiere per giovani cristiani» Pag 1 L’omaggio a un attore. E’ vera commozione? di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 1 L’Europa ha bisogno di salmoni, non di pecore di Giorgio Malavasi Pag 7 Padre Pavan apre una Porta Santa in Amazzonia di Francesco Bottazzo Il missionario mestrino del Pime ha guidato il pellegrinaggio, a bordo delle canoe, lungo il rio, fino alla chiesetta: «E’ stata un’esperienza che ha fatto bene ai pellegrini, ma anche a me perché aiuta a non perdere il gusto di vivere la mia fede con le persone semplici» Pag 10 Malamocco bella, grazie ai lavori, ma senza vita di Lorenzo Mayer A otto anni dalla chiusura dei cantieri, la riqualificazione del borgo è apprezzata ormai dai residenti e dai commercianti. Manca però quel che potrebbe ravvivare la località: c’erano cinque locali (bar e ristoranti), ora ne sono rimasti solo due Pag 13 «La vita in Gesù è bella. Comunque»: la lezione di Francesca di Giorgio Malavasi C’erano mille persone, martedì scorso al Sacro Cuore, per il congedo cristiano a Francesca Scarpa Funaioli, morta sabato 25 dopo cinque anni di lotta contro la malattia. Il marito ricorda la sua capacità di relazione, il coraggio oltre la paura e le parole che ha detto fino all’ultimo: «Solo l’amore resta» Pag 16 Emergency: utenti raddoppiati, sempre più italiani di Alvise Sperandio In cinque anni sono passate da 20 a 38 al giorno, in media, le persone che si sono fatte curare nell’ambulatorio di via Varé a Marghera. Il 40% sono stranieri irregolari, il 14% sono italiani, in lento e continuo aumento; tra loro persone un tempo benestanti Pag 20 Antognoni: «La fede è stata la mia roccia» di Lorenzo Mayer

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«Mi ha salvato nei momenti di difficoltà. Gli Europei? Bene l’Italia». Oggi il campione del mondo di “Spagna 1982” è capodelegazione della Nazionale Under 21: «Il calcio è cambiato» Pag 21 Museo su Albino Luciani a Canale d’Agordo, si apre il 26 agosto La sede museale è l’edificio, ora restaurato, che un tempo ospitava il Municipio. L’edificio e l’esposizione si sviluppano su quattro piani: dalla Valle del Biois ai 33 giorni di pontificato In allegato l’inserto “Bio, buono e giusto: i settimanali diocesani del Nordest raccontano insieme l’agroalimentare di oggi” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le intese al ribasso di Franco Venturini Pag 1 Il solco profondo sull’Europa tra le élite e il mondo reale di Ernesto Galli della Loggia Pag 9 La sfida: globali ma equi di Gordon Brown Pag 13 Ecco il piano sicurezza per i grandi aeroporti di Guido Olimpio e Fiorenza Sarzanini Metal detector potenziati, controlli a stive e servizi di terra: le mosse dell’intelligence LA STAMPA Seggio all’Onu. Che cosa non ha funzionato di Stefano Stefanini AVVENIRE Pag 1 Le visioni che mancano di Fulvio Scaglione Quel seggio per due al vertice dell’Onu Pag 3 La nuova rotta di Ankara tra tattica e vera svolta di Riccardo Redaelli Perché il paese è sempre più nel mirino dei terroristi. Dall’aiuto agli jihadisti alla “pace” con Russia e Israele IL GAZZETTINO Pag 1 Turchia decisiva nella lotta al terrorismo di Alessandro Orsini Pag 1 Staffetta all’Onu, il seggio a metà penalizza l’Italia di Marco Gervasoni LA NUOVA Pag 1 L’ambiguità del Sultano col Califfo di Renzo Guolo Pag 4 Onu, buon pareggio per l’Italia di Andrea Sarubbi

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Moraglia presiede messa in suffragio del card. Capovilla Si svolgerà oggi dalle 18 presso la basilica di S. Marco, e sarà presieduta dal Patriarca Francesco Moraglia la S. Messa in ricordo e nel trigesimo del card. Loris Capovilla morto il 26 maggio scorso. «Il Patriarca - recita una nota - invita la comunità ecclesiale

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veneziana ad unirsi a tale appuntamento quale momento diocesano di memoria e ringraziamento davanti al Signore per il grande dono dell'indimenticato don Loris». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 16 “La preghiera, via di uscita” Francesco: evitiamo la tentazione di chiuderci ai problemi. All’Angelus: “Pietro e Paolo bussano al cuore di noi cristiani” Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata dal Papa nella Messa di ieri. Di seguito le parole di Francesco. La Parola di Dio di questa liturgia contiene un binomio centrale: chiusura / apertura. A questa immagine possiamo accostare anche il simbolo delle chiavi, che Gesù promette a Simone Pietro perché possa aprire l’ingresso al Regno dei Cieli, e non certo chiuderlo davanti alla gente, come facevano alcuni scribi e farisei ipocriti che Gesù rimprovera (cfr Mt 23,13). La lettura degli Atti degli Apostoli (12,1-11) ci presenta tre chiusure: quella di Pietro in carcere; quella della comunità raccolta in preghiera; e – nel contesto prossimo del nostro brano – quella della casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove Pietro va a bussare dopo essere stato liberato. Rispetto alle chiusure, la preghiera appare come la via di uscita principale: via di uscita per la comunità, che rischia di chiudersi in sé stessa a causa della persecuzione e della paura; via di uscita per Pietro, che ancora all’inizio della sua missione affidatagli dal Signore viene gettato in carcere da Erode e rischia la condanna a morte. E mentre Pietro era in prigione, «dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). E il Signore risponde alla preghiera e manda il suo angelo a liberarlo, “strappandolo dalla mano di Erode” (cfr v. 11). La preghiera, come umile affidamento a Dio e alla sua santa volontà, è sempre la via di uscita dalle nostre chiusure personali e comunitarie. È la grande via di uscita dalle chiusure. Anche Paolo, scrivendo a Timoteo, parla della sua esperienza di liberazione, di uscita dal pericolo di essere lui pure condannato a morte; invece il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza perché lui potesse portare a compimento la sua opera di evangelizzazione alle genti (cfr 2 Tm 4,17). Ma Paolo parla di una “apertura” ben più grande, verso un orizzonte infinitamente più vasto: quello della vita eterna, che lo attende dopo aver terminato la “corsa” terrena. È bello allora vedere la vita dell’Apostolo tutta “in uscita” grazie al Vangelo: tutta proiettata in avanti, prima per portare Cristo a quanti non lo conoscono, e poi per buttarsi, per così dire, nelle sue braccia, ed essere portato da Lui «in salvo nei cieli, nel suo regno» (v. 18). Ritorniamo a Pietro. Il racconto evangelico (Mt 16,13-19) della sua confessione di fede e della conseguente missione affidatagli da Gesù ci mostra che la vita di Simone, pescatore galileo – come la vita di ognuno di noi –, si apre, sboccia pienamente quando accoglie da Dio Padre la grazia della fede. Allora Simone si mette sulla strada – una strada lunga e dura – che lo porterà a uscire da sé stesso, dalle sue sicurezze umane, soprattutto dal suo orgoglio mischiato con il coraggio e con il generoso altruismo. In questo suo percorso di liberazione, decisiva è la preghiera di Gesù: «Io ho pregato per te [Simone], perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32). E altrettanto decisivo è lo sguardo pieno di compassione del Signore dopo che Pietro lo aveva rinnegato tre volte: uno sguardo che tocca il cuore e scioglie le lacrime del pentimento (cfr Lc 22,61-62). Allora Simone Pietro fu liberato dal carcere del suo io orgoglioso, del suo io pauroso, e superò la tentazione di chiudersi alla chiamata di Gesù a seguirlo sulla via della croce. Come accennavo, nel contesto prossimo del brano degli Atti degli Apostoli c’è un particolare che può farci bene notare (cfr 12,12-17). Quando Pietro si trova miracolosamente libero fuori dal carcere di Erode, si reca alla casa della madre di Giovanni detto Marco. Bussa alla porta, e dall’interno risponde una domestica di nome Rode, la quale, riconosciuta la voce di Pietro, invece di aprire la porta, incredula e piena di gioia insieme corre a riferire la cosa alla padrona. Il racconto, che può sembrare comico – e che può dare inizio al cosiddetto “complesso di Rode” –, ci fa percepire il clima di paura in cui si trovava la comunità

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cristiana, che rimaneva chiusa in casa, e chiusa anche alle sorprese di Dio. Pietro bussa alla porta. “Guarda!”. C’è gioia, c’è paura… “Apriamo, non apriamo?...”. E lui è in pericolo, perché la polizia può prenderlo. Ma la paura ci ferma, ci ferma sempre; ci chiude, ci chiude alle sorprese di Dio. Questo particolare ci parla della tentazione che sempre esiste per la Chiesa: quella di chiudersi in sé stessa, di fronte ai pericoli. Ma anche qui c’è lo spiraglio attraverso cui può passare l’azione di Dio: dice Luca che in quella casa «molti erano riuniti e pregavano» (v. 12). La preghiera permette alla grazia di aprire una via di uscita: dalla chiusura all’apertura, dalla paura al coraggio, dalla tristezza alla gioia. E possiamo aggiungere: dalla divisione all’unità. Sì, lo diciamo oggi con fiducia insieme ai nostri fratelli della delegazione inviata dal caro patriarca ecumenico Bartolomeo, per partecipare alla festa dei Santi Patroni di Roma. Una festa di comunione per tutta la Chiesa, come evidenzia anche la presenza degli arcivescovi metropoliti venuti per la benedizione dei palli, che saranno loro imposti dai miei Rappresentanti nelle rispettive Sedi. I santi Pietro e Paolo intercedano per noi, perché possiamo compiere con gioia questo cammino, sperimentare l’azione liberatrice di Dio e testimoniarla a tutti. Pubblichiamo il testo integrale della riflessione svolta dal Papa prima della recita dell’Angelus. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Celebriamo oggi la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, lodando Dio per la loro predicazione e la loro testimonianza. Sulla fede di questi due Apostoli si fonda la Chiesa di Roma, che da sempre li venera come patroni. Tuttavia, è l’intera Chiesa universale che guarda ad essi con ammirazione, considerandoli due colonne e due grandi luci che brillano non solo nel cielo di Roma, ma nel cuore dei credenti di Oriente e di Occidente. Nel racconto della missione degli Apostoli, il Vangelo ci dice che Gesù li inviò a due a due (cfr Mt 10,1; Lc 10,1). In un certo senso anche Pietro e Paolo, dalla Terra Santa, furono mandati fino a Roma per predicare il Vangelo. Erano due uomini molto diversi l’uno dall’altro: Pietro un «umile pescatore», Paolo «maestro e dottore», come recita la liturgia odierna. Ma se qui a Roma conosciamo Gesù, e se la fede cristiana è parte viva e fondamentale del patrimonio spirituale e della cultura di questo territorio, lo si deve al coraggio apostolico di questi due figli del Vicino Oriente. Essi, per amore di Cristo, lasciarono la loro patria e, incuranti delle difficoltà del lungo viaggio e dei rischi e delle diffidenze che avrebbero incontrato, approdarono a Roma. Qui si fecero annunciatori e testimoni del Vangelo tra la gente, e suggellarono col martirio la loro missione di fede e di carità. Pietro e Paolo oggi ritornano idealmente tra di noi, ripercorrono le strade di questa Città, bussano alla porta delle nostre case, ma soprattutto dei nostri cuori. Vogliono portare ancora una volta Gesù, il suo amore misericordioso, la sua consolazione, la sua pace. Abbiamo tanto bisogno di questo! Accogliamo il loro messaggio! Facciamo tesoro della loro testimonianza! La fede schietta e salda di Pietro, il cuore grande e universale di Paolo ci aiuteranno ad essere cristiani gioiosi, fedeli al Vangelo e aperti all’incontro con tutti. Durante la Santa Messa nella Basilica di San Pietro, stamani ho benedetto i palli degli arcivescovi metropoliti nominati in quest’ultimo anno, provenienti da diversi Paesi. Rinnovo il mio saluto e il mio augurio a loro, ai familiari e a quanti li hanno accompagnati in questo pellegrinaggio; e li incoraggio a proseguire con gioia la loro missione al servizio del Vangelo, in comunione con tutta la Chiesa e specialmente con la Sede di Pietro, come esprime proprio il segno del pallio. Nella stessa celebrazione ho accolto con gioia e affetto i membri della Delegazione venuta a Roma a nome del Patriarca Ecumenico, il carissimo fratello Bartolomeo. Anche questa presenza è segno dei fraterni legami esistenti tra le nostre Chiese. Preghiamo perché si rafforzino sempre più i vincoli di comunione e la comune testimonianza. Alla Vergine Maria, Salus Populi Romani, affidiamo oggi il mondo intero, e in particolare questa città di Roma, perché possa trovare sempre nei valori spirituali e morali di cui è ricca il fondamento della sua vita sociale e della sua missione in Italia, in Europa e nel mondo. Pag 21 Il senso della vita è abitare il tempo che resta di Vincenzo Rosito

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La percezione del tempo nelle prime comunità cristiane era fortemente improntata dall’idea che la venuta del Signore sarebbe stata imminente e definitiva. Alla luce di questa consapevolezza uomini e donne si ritrovavano per spezzare il pane e per trasmettersi il dono dello Spirito mediante il bacio reciproco: «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). Non è semplicemente un tempo di attesa fiduciosa quello in cui i riti e i gesti vengono collocati e in funzione del quale assumono colori e significati peculiari. Quello della comunità dei credenti è un tempo che inizia a correre: questa è la sua qualità più profonda e incisiva. Mangiare, lavorare, giocare, riposare «finché egli venga» significa vivere immersi nella coscienza di un tempo che resta, un tempo che assume una spinta e un’accelerazione avendo ormai una direzione e custodendo un senso rivelato, sebbene non ancora del tutto manifestato. L’accelerazione non è dunque estranea al tempo marcato e inaugurato dall’incarnazione del Figlio di Dio. Il cosiddetto tempo messianico è intrinsecamente accelerato nel senso che è un tempo sensato. Ha una fine che si riverbera contestualmente nel fine, ovvero nel senso delle azioni e delle imprese di coloro che lo abitano. L’accelerazione cristiana del tempo non è ansiogena, né mette fretta perché plasma non la quantità delle azioni che si possono o si devono compiere in un determinato periodo, bensì la qualità delle opere e delle imprese umane che possono essere finalmente direzionate. L’accelerazione del tempo cristiano si perverte quando non è più in grado di esprimere la sensatezza delle pratiche in funzione del tempo che resta, lasciando libero campo al tempo che manca. La percezione che gli individui hanno del tempo all’interno delle complesse società globalizzate è ravvisabile nell’idea di un tempo che manca in maniera assoluta e a-finalistica. Abbiamo la sensazione di non avere tempo sufficiente per le molte cose che dovremmo fare e ci rendiamo conto che ci manca oggettivamente il tempo per svolgere le molteplici azioni del quotidiano. Il tempo che manca, a differenza del tempo messianico, non si accorcia in funzione del proprio fine, ma è semplicemente poco, troppo e drammaticamente poco. L’accelerazione diventa così cieca, senza respiro, si fa accumulazione compulsiva di eventi e di azioni senza dischiudere un orizzonte finalistico e conclusivo di senso. Fa riflettere come negli ultimi anni l’accelerazione sia diventata oggetto di analisi e di ricerche nel campo degli studi filosofici, sociologici e compaia contestualmente in diversi documenti del magistero ecclesiale. Si parla ad esempio di un vero e proprio paradigma dell’accelerazione sociale (Social Acceleration Theory) che ha nel filosofo e sociologo tedesco Hartmut Rosa uno dei massimi esponenti. Nelle ricerche di questo autore l’accelerazione diventa una categoria dell’analisi sociale proprio perché la percezione e l’organizzazione del tempo influiscono sulla creazione degli spazi e in ultima istanza sulle relazioni interpersonali e sui rapporti di potere. L’avere poco tempo a disposizione non è dunque una mera percezione individuale. Per Hartmut Rosa infatti l’accelerazione è reale perché scaturisce prima di tutto dai mutamenti tecnologici. Può essere definita accelerazione tecnologica quella crescita esponenziale della velocità dei processi di produzione o di comunicazione nelle società contemporanee. A questa deve essere affiancata l’accelerazione dei mutamenti sociali ovvero l’incremento con cui cambiano e si susseguono mode, stili di vita e abitudini sociali. Le istituzioni tradizionalmente affidabili, in quanto persistenti al susseguirsi di più generazioni, diventano sempre più momentanee e instabili. L’occupazione è un campo in cui l’accelerazione dei mutamenti sociali è particolarmente evidente: le strutture lavorative della prima modernità sopravvivevano a più di un generazione, si pensi alle diverse aziende o attività lavorative a conduzione familiare. Fino agli anni Settanta del secolo scorso invece il lavoro era quello di una vita intera, era ancora in grado di segnare la biografia di un’esistenza costruita attorno a un’unica e sola professione. Oggi infine l’impiego è pensato per essere velocemente e più volte cambiato nell’arco della medesima vita lavorativa. Solo alla luce di questi mutamenti si può parlare di un’accelerazione dei ritmi di vita, ovvero della più comune percezione di chi vive o sopravvive avendo poco tempo per fare tutto. Stiamo dunque parlando dell’accelerazione indotta dalla logica del multitasking, ovvero dalla necessità di fare più cose contemporaneamente. Le singole azioni per unità di tempo si moltiplicano, per questo il tempo viene drammaticamente a mancare. Non è un caso che l’accelerazione sia la prima categoria diagnostica proposta da papa Francesco nell’enciclica Laudato si’: «La continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella che in

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spagnolo alcuni chiamano rapidación (rapidizzazione)» (n.18). Anche nel testo dell’enciclica il lavoro compare nuovamente come campo privilegiato per la critica dei tempi «rapidizzati» di produzione, di utilizzo e di consumo dei beni. L’accelerazione dei tempi di lavoro e della durata di un impiego comporta la trasformazione radicale della logica produttivistica intesa sempre più come competizione tra più soggetti o comunità di individui. Alla luce di questi mutamenti il lavoratore viene valutato e retribuito in funzione di una prestazione facendo in modo che la sua opera, da luogo di liberazione e di realizzazione, diventi un ambito totalizzante di alienazione. Mentre il lavoro accelerato si perverte in una sorta di dipendenza dal lavoro stesso, il tempo libero assume valore e significato solo perché è un «tempo senza lavoro», vale a dire un tempo vuoto o svuotato. La vita accelerata non ha bisogno soltanto di ritmi lenti e ben scanditi. Abbiamo bisogno di « politiche del tempo», così come anche di azioni pastorali o pratiche ecclesiali che partano dalla « superiorità del tempo sullo spazio». Ciò significa inaugurare processi e aprire ambiti di socialità in cui si integrino tempi e rapporti diversificati. Decelerare non significa soltanto ridurre il ritmo o il numero delle cose che facciamo, ma piegare il tempo della produzione al tempo della socialità. Il tempo della prestazione a quello della presenza conviviale, il tempo dell’autorappresentazione ecclesiale a quello della comunione-koinonia. IL FOGLIO Pag 2 “Scuse ai gay? Dio ci salvi dal politicamente corretto”, dice il card. Napier di Matteo Matzuzzi Il porporato sudafricano risponde via twitter al tedesco Marx Roma. Ancora prima che lo dicesse il Papa rispondendo a una domanda rivoltagli a bordo dell'aereo che lo riportava a Roma dall'Armenia, era stato il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, presidente della Conferenza episcopale tedesca e stretto collaboratore sul fronte finanziario di Francesco - è coordinatore del Consiglio per l'economia - a sostenere l'esigenza di "chiedere scusa ai gay" (Francesco, nella sua risposta, aveva aggiunto anche "ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati nel lavoro"). Il porporato bavarese era intervenuto a una conferenza organizzata presso il Trinity College di Dublino, in Irlanda. In quell'occasione aveva detto che "la storia degli omosessuali nelle nostre società è stata molto negativa, poiché abbiamo fatto molto per marginalizzarli". Ecco perché "come chiesa e come società dobbiamo dire 'mi dispiace, mi dispiace'". A giudizio di Marx, "dobbiamo rispettare le decisioni delle persone. Dobbiamo rispettarle, dissi nel primo Sinodo sulla famiglia, e alcuni rimasero scioccati. Ma io credo sia normale. Non si può affermare che una relazione tra un uomo e un uomo che sono reciprocamente fedeli non rappresenta nulla, che non ha valore". Il cardinale tedesco si è smarcato persino da quanto sostenne, un anno fa, il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, all'indomani dell'approvazione tramite referendum delle nozze omosessuali in Irlanda. Parolin parlò di "sconfitta per l'umanità" e oggi Marx preferisce far cadere la questione: "Non commento gli altri, perché non è buona cosa". A ogni modo, "lo stato secolare deve regolare le relazioni tra omosessuali e noi come chiesa non possiamo avere una posizione contraria", anche se - ammette - "il matrimonio è un'altra cosa". "Dio c'aiuti!", ha twittato subito il cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo sudafricano di Durban, a chi gli chiedeva conto sul social network delle affermazioni del confratello tedesco: "La prossima volta dovremo chiedere scusa per aver insegnato che l'adulterio è un peccato! Il politicamente corretto è la più grande eresia di oggi", ha scritto Napier. Quest' ultimo, francescano con fama tutt'altro che da conservatore - prima del Sinodo straordinario del 2014 era annoverato tra i cosiddetti progressisti, stando alle riduttive categorie mediatiche - era stato colui che dinanzi ai giornalisti aveva detto che la relatio post disceptationem letta in Aula dal cardinale ungherese Péter Erdo era in realtà stata scritta da Bruno Forte e che "non corrispondeva alla realtà" del dibattito che s'era effettivamente svolto. Domenica sera, parlando con i giornalisti al suo seguito, Francesco era tornato sul tema: "Io ripeterò la stessa cosa che ho detto nel primo viaggio (sul volo di ritorno da Rio de Janeiro, nel 2013, ndr) e ripeto anche quello che dice il Catechismo della chiesa cattolica: che non vanno discriminati, che devono essere rispettati, accompagnati pastoralmente. Si possono condannare, non per motivi ideologici, ma per motivi - diciamo - di comportamento politico, certe

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manifestazioni un po' troppo offensive per gli altri. Ma queste cose non c'entrano con il problema: se il problema è una persona che ha quella condizione, che ha buona volontà e che cerca Dio, chi siamo noi per giudicarla? Dobbiamo accompagnare bene, secondo quello che dice il Catechismo. E' chiaro il Catechismo!". Niente di nuovo, dunque, se non la conferma di quel che è sempre stato. Il Papa ha però aggiunto una frase, che poca eco ha avuto: "La Chiesa deve chiedere scusa di non essersi comportata" bene "tante, tante volte, e quando dico chiesa intendo i cristiani. La chiesa è santa, i peccatori siamo noi". WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I lefebvriani non cercano l’accordo di Andrea Tornielli Un comunicato del vescovo Bernard Fellay, superiore della Fraternità San Pio X: non ci interessa anzitutto un riconoscimento canonico, «al quale abbiamo diritto». Aspettano «un Papa che ritorni alla santa Tradizione» «La Fraternità non è alla ricerca innanzitutto di un riconoscimento canonico». Il comunicato che monsignor Bernard Fellay, superiore dei lefebvriani, ha reso pubblico il 29 giugno 2016 sembra mettere per il momento nel cassetto ogni ipotesi di accordo e di rientro nella piena comunione con il Papa. Dal 25 al 28 giugno, Fellay e i suoi assistenti, gli abati Pfluger e Nely, hanno avuto una serie di colloqui con gli altri due vescovi lefebvriani, Tissier de Mallerais e de Galarreta, così come con tutti i superiori maggiori della Fraternità. L’incontro si è tenuto a Anzère, nelle Alpi svizzere. Al termine dei lavori, il superiore ha rilasciato una dichiarazione. «Lo scopo della Fraternità Sacerdotale San Pio X - si legge nel comunicato - è soprattutto la formazione dei sacerdoti, una condizione essenziale del rinnovamento della Chiesa e la restaurazione della società». Seguono quattro punti. Nel primo di questi si afferma che «nella grande e dolorosa confusione attuale nella Chiesa, la proclamazione della dottrina cattolica richiede la segnalazione di errori che sono penetrati all’interno di essa, purtroppo incoraggiati da molti pastori, fino a al Papa stesso». Nel secondo punto la Fraternità «nello stato attuale di grave necessità che gli conferisce il diritto e il dovere di distribuire l’aiuto spirituale alle anime che ricorrono a lei, non ricercando in primo luogo un riconoscimento canonico, al quale ha diritto in quanto opera cattolica». La Fraternità «ha un solo desiderio: portare fedelmente la luce della tradizione antica di 2000 anni che mostra l’unica strada percorribile in questo momento di oscurità dove il culto dell’uomo sostituisce il culto di Dio nella società e nella Chiesa». Nel terzo punto Fellay afferma che «la “restaurazione di tutte le cose in Cristo”, voluta da San Pio X» non può «essere raggiunta senza il supporto di un Papa che favorisca concretamente il ritorno alla santa Tradizione. Fino a quel giorno benedetto, la Fraternità X intende raddoppiare i suoi sforzi per stabilire e diffondere con i mezzi assegnati dalla Divina Provvidenza, il regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo». Infine, il superiore lefebvriano annuncia che la Fraternità «prega e fa penitenza perché il Papa abbia la forza di proclamare integralmente la fede e la morale. Così sarà accelerato il trionfo del Cuore Immacolato di Maria che noi chiediamo, mentre ci avviciniamo al centenario delle apparizioni di Fatima». Vale la pena di ricordare tutti i passi fatti dalla Santa Sede in questa vicenda del possibile rientro dei lefebvriani alla piena comunione, un cammino iniziato nell’anno 2000 con Giovanni Paolo II. Benedetto XVI prese decisioni importanti nei loro confronti, acconsentendo a quelle che per la Fraternità San Pio X erano condizioni previe: la liberalizzazione della messa antica e la revoca delle scomuniche ai vescovi consacrati illegittimamente da monsignor Lefebvre nel 1988. Papa Ratzinger prima liberalizzò il messale antico (motu proprio Summorum Pontificum, 2007), quindi tolse le scomuniche (gennaio 2009) ai quattro vescovi lefebvriani. Come si ricorderà, la decisione scatenò una forte polemica a motivo delle dichiarazioni negazioniste sulle camere a gas di uno di questi, Richard Williamson, poi staccatosi dalla Fraternità San Pio X perché considerata troppo accondiscendente con Roma. Dopo mesi di dialoghi teologici, venne predisposto un preambolo dottrinale che i lefebvriani avrebbero dovuto siglare. Nel frattempo è cambiato prima il Prefetto della congregazione per la dottrina della fede, poi il Papa. E lo stesso preambolo sembrava essere diventato meno importante. Negli ultimi mesi si era infatti parlato semplicemente di un riconoscimento canonico per la Fraternità, che avrebbe acquisito lo status di «prelatura personale» alle dirette dipendenze della Santa Sede. Le parole di Fellay nel

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comunicato del 29 giugno lasciano intendere di non essere molto attratti neanche da questa possibilità. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Giovani e lavoro, i passi avanti trascurati dai governi Ue di Dario Di Vico Per tentare di riprendere il dialogo con i giovani dobbiamo aspettare di «aver reinventato il capitalismo», come sostengono diversi intellettuali, o non è più sensato far funzionare le politiche del lavoro? La domanda potrà sembrare bizzarra perché mescola ambiti di riflessione non omogenei ma fotografa lo stato della discussione. Dopo ogni elezione tanti segnalano l’ampliamento della distanza tra giovani e società politica, i governi però non sono capaci di inserire i temi della condizione delle nuove generazioni nell’agenda delle priorità. Non sono capaci di infilare le politiche attive del lavoro, non dico, nelle mitiche «riforme strutturali» ma nemmeno in cima alla comunicazione. Avete, forse, visto nei mesi scorsi uno spot di Matteo Renzi a sostegno di Garanzia Giovani? No. E il motivo è semplice: quel programma di registrazione dei giovani inattivi presso i Centri per l’impiego oppure la partenza della nuova Agenzia del Lavoro (l’Anpal) sono considerate questioni settoriali che possono investire tutt’al più la responsabilità di un singolo ministro. Eppure nell’attesa della palingenesi del modello economico vigente è proprio dalle concrete politiche del lavoro che passa il dialogo con i giovani e che si può rigenerare fiducia dal basso. In fondo il numero esorbitanti di Neet italiani (ben oltre 2 milioni) fa da pendant all’aumento del tasso di astensione alle urne. Segnalano entrambi l’interruzione di una relazione. Il deficit di interlocuzione, del resto, non è solo italiano. Garanzia Giovani (mai nome fu più sbagliato perché alimenta di per sé l’illusione di un lavoro paracadutato dall’alto) è un programma interamente finanziato dalla Ue ma ben 8 Paesi della comunità europea a fine maggio 2016 non avevano speso neanche il 30% delle somme messe a disposizione. I nomi dei Paesi inadempienti sono addirittura secretati (!) e finora ne sono trapelati solamente due: Spagna e Regno Unito. L’Italia invece almeno in questo caso ha fatto i compiti e ha superato abbondantemente il target intermedio di spesa. E’ chiaro però che un’inadempienza così clamorosa come quella generata dall’inefficienza degli 8 Paesi sta pesando negativamente sul possibile rifinanziamento di Garanzia Giovani da parte di Bruxelles, previsto inizialmente a partire dal 2017. Ma al di là delle considerazioni sul budget Garanzia Giovani in Italia si è rivelato un flop oppure no? Sulla base dei dati Isfol il ricercatore Francesco Seghezzi di Adapt ha ultimato un’elaborazione secondo la quale al 65% dei ragazzi registratisi è stato offerto un tirocinio e successivamente un terzo di coloro che sono entrati in azienda sono stati confermati. Alla fine del percorso di mobilitazione previsto dal programma sono stati occupati 188 mila giovani, di cui però 115 mila hanno trovato l’occupazione da soli o prima che fosse concluso l’iter di coinvolgimento previsto dai Centri per l’impiego. Seghezzi sostiene anche che il pescaggio di Garanzia Giovani non è stato profondo come avrebbe dovuto perché tra i coinvolti solo il 35% viene dal mega-serbatoio degli inattivi totali. Da parte governativa si obietta che si è trattato di un test sulle politiche del lavoro che non aveva precedenti, che è servito ad attivare comunque un milione di giovani e grazie ai tirocini ha avvicinato i ragazzi alla comprensione delle profonde discontinuità intervenute nel mercato del lavoro. Il termine tecnico è «occupabilità» e vuol dire che ogni giovane deve imparare a co-gestire il valore del proprio capitale umano per poi incrementarlo di continuo. Comprendere questa novità è una profonda svolta culturale (anche per le famiglie) e avrebbe richiesto in appoggio un impegno costante da parte dei governi anche in termini di comunicazione. Ma non sembrano averlo compreso. Lo stesso sta accadendo per l’Anpal che dovrebbe servire a modernizzare il nostro sistema del collocamento (i Centri per l’impiego, per l’appunto) e armonizzarlo con le agenzie private del lavoro. Il decreto istitutivo prevedeva che fosse operativa dal primo gennaio 2016 e invece a tutt’oggi mancano ancora gli atti formali per poter operare. E’ chiaro che il senso di disuguaglianza che percorre le nostre società non verrà mitigato dal varo dell’Anpal ma è ancor più vero il contrario: più si boicottano

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le politiche attive del lavoro - o come in Spagna e Regno Unito non si spendono nemmeno i soldi stanziati - più il solco tra i giovani e la società politica si allarga. Elementare. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Medie imprese rassicuranti di Paolo Gubitta Il Nordest che traina Le medie imprese sono il pezzo più pregiato della manifattura industriale italiana. Lo confermano Gabriele Barbaresco e Domenico Mauriello, che hanno recentemente presentato l’annuale indagine sui bilanci curata da Mediobanca e Unioncamere. Nel decennio 2005-2014, a livello nazionale, le imprese di questo segmento dimensionale (50-499 dipendenti, 16-355 milioni di fatturato) sono state la parte più performante di tutto il comparto manifatturiero: hanno surclassato quelle più piccole e più grandi in termini di fatturato (+35,2% a fronte del +14,3%), di proiezione internazionale (+62,9% rispetto al +42,4%) e di livelli occupazionali (+10,6% a fronte di un calo del -6,5). Sui tre parametri indicati, le medie imprese nordestine sono un po’ in affanno e si «fermano» rispettivamente a +33,0%, +58,1%, +10,1%, ma è indubbio che restano la parte più dinamica e rassicurante della nostra economia. Questi dati gettano una luce sul Veneto delle «fabbriche», che tuttavia mantiene alcune aree d’ombra. Partiamo dagli aspetti positivi. Tutte le medie imprese di cui parliamo hanno un assetto proprietario autonomo riconducibile al controllo familiare (quelle di proprietà straniera sono state escluse dall’analisi), a dimostrazione che c’è un capitalismo familiare evoluto e moderno, che ha investito e ha saputo trasformare la gestione per competere con successo sui mercati globali. I dati, inoltre, dicono anche che le medie imprese che hanno gestito il passaggio generazionale hanno ottenuto risultati migliori rispetto a quelle che non lo hanno fatto, in termini di redditività degli investimenti (7,2% a fronte di 6,2) e di redditività del capitale (6,7% a fronte dei 3,9%). Le medie imprese hanno un forte impatto sul tessuto produttivo nazionale, visto che l’80% delle forniture proviene da stabilimenti con sede in Italia e il peso delle operazioni estero su estero si fermano al 4% del fatturato, a fronte del 66% che si rileva nei gruppi manifatturieri maggiori a controllo italiano. In altri termini, le medie imprese si pongono come punto focale di supply chain radicate nel territorio e che valorizzano le specializzazioni e i saperi diffusi in varie aree a vocazione manifatturiera. Negli ultimi anni, il comparto delle medie imprese industriali non ha solo aumentato gli organici ma ne ha anche modificato la composizione, con un deciso incremento delle qualifiche più alte (impiegati e dirigenti, +21%), pur garantendo la tenuta della componente operaia (+5,6%). Il miglioramento della qualità del capitale umano si è accompagnato a un aumento della produttività per dipendente (valore aggiunto netto per addetto) che nel decennio 2005-2014 ha raggiunto un valore cumulato del 27%, non molto dissimile dall’andamento del costo del lavoro per addetto (+24,6%). È come dire che in queste imprese il recupero di produttività è stato trasferito pro-quota ai lavoratori che lo hanno generato o che la dinamica contrattuale del costo del lavoro è stata assecondata dalla crescita della produttività: comunque la si veda, è il segnale che imprenditori e lavoratori hanno intrapreso la strada giusta. All’interno di questo quadro generale, ci sono almeno due ombre. La prima si riferisce al livello tecnologico delle produzioni. A Nord Est c’è una concentrazione di imprese attive nei comparti a bassa tecnologia (abbigliamento e tessile, alimentare, carta, mobile e arredo, pelle, gioielli) molto più marcata (44,3%) rispetto ad altre aree come ad esempio il Nord Ovest (34,4%), che può diventare uno svantaggio comparato in termini di capacità di attirare, trattenere e motivare personale qualificato. La seconda è relativa alla numerosità del segmento. Nel 2014, il Nordest ospitava 1.231 medie imprese industriali, pari al 37,8% di tutte quelle presenti in Italia (3.283). Rispetto alle 1.529 del 2005, ne abbiamo perse quasi 300 (-19,5%, in linea con la media nazionale del -20,2%), di cui 51 per cessione del pacchetto di controllo a proprietà straniera, mentre altre 65 sono «uscite» per effetto di processi di fusione, acquisizione e consolidamento. Rimpolpare questo segmento dimensionale è una priorità improcrastinabile, anche per il Veneto che nel 2014 ne aveva 597 (17,9%), decisamente meno rispetto alle 1.042 della Lombardia (31,3%) con la quale ci confrontiamo

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sistematicamente su tutto. Le istituzioni creino le condizioni. Al resto, ci penseranno gli imprenditori. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pagg 14 – 15 La giunta dimezza i dirigenti. I sindacati: “Manovra inutile” di Alberto Vitucci e Enrico Tantucci Ca’ Farsetti, rivoluzione in municipio. “Salva Venezia” legato alla benevolenza di Renzi Una “rivoluzione” che elimina 14 dirigenti su 25. E riorganizza il Comune su nuove basi. «Macchina più efficiente», secondo il sindaco Brugnaro. «Scelta dirigista, atto unilaterale e senza logica» per la Cgil. Che annuncia nuove proteste e mobilitazioni. La giunta ha approvato ieri la nuova «Proposta di macrostruttura e microstruttura» del Comune nell’era Brugnaro. I direttori di settore saranno soltanto 11 e non più 25. Gli uffici saranno accorpati con logiche diverse. Saranno create alcune direzioni nuove, come 1a «Programmazione e controllo». Sono rinforzate le competenze del sindaco e del suo gabinetto a cui fanno parte la direzione «Controlli e spending review», il progetto Marghera e la Legge Speciale, la ritrovata Direzione generale, fino ad ora cancellata dall’organico. Dall’altra parte della piramide la Segreteria generale, guidata da Silvia Asteria – che ha concretamente elaborato il nuovo progetto, da cui dipendono anche i controlli per le società partecipate, il Piano Anticorruzione, le segreterie. Una delle novità più importanti è la creazione della nuova direzione «Servizi ai cittadini e alle imprese», da cui dipendono una serie di dirigenti sulle autorizzazioni per le Attività produttive, Edilizia privata, Ambiente e Trasporti. Altra direzione «pesante» quella dei Lavori pubblici. Da cui dipendono scuole, cimiteri, verde, musei, viabilità, sicurezza idraulica del territorio. Il personale viene rinominato «Sviluppo organizzativo», i Servizi sociali «Coesione sociale». Alla Polizia urbana vengono accorpati Protezione civile e Centro maree, con due nuove direzioni, gli Affari interni e le Risorse umane. Altro punto che non soddisfa i sindacati. «Una scelta molto discutibile», scrive il segretario della Cgil Funzione Pubblica del Veneto Daniele Giordano, «come se quelle persone fossero dipendenti svincolati dalla macchina comunale». «Si accentra ancor di più ogni decisione nelle mani del sindaco», scrive la Cgil, «come se il Comune fosse la sua azienda. Non si capisce quali saranno i veri risparmi e nemmeno i vantaggi per i cittadini». «Surreale», continua il sindacato dei lavoratori, «aver pensato a un dirigente che valuti i progetti specifici». Per valutare la nuova organizzazione la Cgil ha convocato una assemblea per lunedì a mezzogiorno in sala San Leonardo. «Decideremo lì come proseguire la nostra lotta», dicono. Critiche anche dal sindaco autonomo Diccap. «Operazioni di propaganda ma i risultati ancora non si vedono», dice Luca Lombardo, «dopo un anno forse questo sindaco aveva bisogno di far vedere qualcosa. Ma questa sembra una boutade pubblicitaria». «Non c’è stato alcun confronto con le organizzazioni sindacali», ribadisce Mario Ragno della Uil. Insoddisfatti anche molti dirigenti. I tredici tagliati andranno in parte in pensione, come gli «storici» Luigi Bassetto, già vicedirettore generale con l’amministrazione Orsoni, l’ex ingegnere capo Manuel Cattani dei Lavori pubblici, il ragioniere capo Piero Dei Rossi e tra breve anche Roberto Ellero, responsabile del settore cultura. Risparmio di qualche centinaio di migliaia di euro. E riflessi della nuova organizzazione che i sindacati vogliono adesso testare in concreto. «Non si possono ridurre le spese», dicono, «a scapito dei servizi al cittadino». Le caselle dei nomi ancora non sono riempite. La giunta ha infine ridotto di una trentina le posizioni organizzative: da 218 scendono a 182. «La necessità di riorganizzare il Comune si è resa necessaria per superare evidenti criticità» spiega il sindaco Luigi Brugnaro «La macchina amministrativa conta oggi 3154 dipendenti - dei quali 2963 a tempo indeterminato e 182 a tempo determinato. Erano 3218 il 2 luglio dell'anno scorso, dei quali 3027 a tempo indeterminato e 184 a tempo determinato. Mancano stradini, operai, agenti di polizia locale mentre abbiamo abbondanza di personale amministrativo e specializzato spesso con le medesime

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competenze. È mancata, negli anni la rotazione del personale, in tanti settori. Con questa riorganizzazione vogliamo creare un gruppo dirigente a capo di un’organizzazione del personale comunale in grado di assicurare prestazioni di eccellenza al cittadino, partendo da un contesto organizzativo complesso e spesso disorganizzato. Dopo una prima fase di monitoraggio sarà oggetto di successivi e continui perfezionamenti. Vogliamo pensare che "cambiare" sia anche un atto di fiducia e coinvolgimento soprattutto nei confronti dei tanti dipendenti comunali che hanno sempre svolto con passione il proprio compito, in particolare verso i più giovani». Il Piano, approvato ieri, prevede il conferimento dell'incarico ai nuovi direttori e ai nuovi dirigenti, a partire dal 1° settembre. Per tutti gli altri profili la tempistica è diversificata, infatti, fino al 1° novembre restano in carica tutte le vecchie Posizioni organizzative, data in cui verranno nominate le nuove. Il clima è cambiato tra il Governo e Venezia, tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il sindaco Luigi Brugnaro. Ci sarebbe anche questo - si mormora a bassa voce - nella decisione del Governo di rinunciare quest’anno al «Salva Venezia», non prevedendo alcun provvedimento per sanare le sanzioni derivanti dallo sforamento del Patto di Stabilità 2015 per circa 18 milioni di euro da parte del Comune di Venezia. Un “freddo” improvviso - dopo il feeling mostrato in diverse occasioni pubbliche anche in laguna - che spiega indirettamente anche come in precedenza i due membri veneziani del Governo (il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta soprattutto, ma anche il viceministro dello stesso dicastero Enrico Zanetti) si fossero spinti sino a dichiarare come molto probabile un decreto antisanzioni, esteso anche ad altri Comuni in difficoltà. E ora, invece, si lascia solo al dibattito parlamentare la possibilità di emendamenti antisanzioni che il Governo dovrebbe poi accogliere. Ma, anche qui, senza alcuna certezza. «C’è solo il decreto che riguarda le Città Metropolitane e le province che le mette al riparo dallo sforamento del Patto di Stabilità» conferma Baretta «ma non ci sarà un provvedimento specifico per i Comuni. Stiamo valutando quanto sono quelli che, come Venezia, hanno sforato il Patto e poi, in sede parlamentare, anche in base agli emendamenti presentati si valuterà. Venezia ha dal suo punto di vista la caratteristica della specialità, normata appunto dalla Legge Speciale per Venezia e che in passato ha già consentito di rientrare dalle sanzioni per lo sforamento del Patto». Baretta ricorda anche che nel decreto che riguarda le Città Metropolitane c’è un articolo che prevede la deroga per l’assunzione di maestre di asilo e materne. Ma, secondo i sindacati e anche gli stessi parlamentari veneziani del Pd non si potrebbe applicare al Comune di Venezia per lo sforamento del Patto perché non entrerebbe in vigore da subito ma solo a fine anno. Troppo tardi per “salvare” le maestre precarie veneziane e anche la regolare apertura delle scuole. Tutto, dunque, viene affidato ora all’azione dei parlamentari, sperando nella benevolenza del Governo. «Presenteremo sicuramente nel più breve tempo possibile gli emendamenti pro Venezia per lo sforamento del Patto di Stabilità 2015, agganciandoli al decreto sugli enti territoriali» commentano Davide Zoggia e Michele Mognato «e sperando di farli approvare. Certo se fosse stato il Governo a presentare già un proprio provvedimento o un emendamento al decreto, tutto sarebbe stato più semplice». I parlamentari veneziani si confronteranno sulla situazione del possibile Salva Venezia in aula, nell’assemblea generale dei dipendenti comunali convocata dai sindacati per lunedì in Sala San Leonardo. Un’assemblea che si preannuncia molto calda, perché il livello di esasperazione dei comunali dopo la rottura delle trattative con la Giunta e il rifiuto di erogare a tutti la parte stabile dei premi di produttività - circa 2 milioni di euro – è sempre più alto. Resta l’ottimismo, almeno a parole del Comune - testimoniato dalle recenti dichiarazioni dell’assessore al Bilancio Michele Zuin - sul fatto che il Governo alla fine dia una mano a Venezia sulle sanzioni per lo sforamento del Patto. Ma l’impressione è che se salvataggio parlamentare sarà, dovrà essere per tutti i Comuni inadempienti e non solo per Venezia, in nome della sua specialità. Pag 21 Oggi cena islamica aperta a tutti di m.a. Verso la fine del Ramadan. In via Monzani invitati rappresentanti del Comune e del Patriarcato

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Il Ramadan è quasi terminato. Questi giorni sono stati i più lunghi e faticosi, sia perché dopo qualche settimana la difficoltà di non prendere cibo né acqua per tutto il giorno si fa sentire, sia perché il caldo è scoppiato tutto d’un tratto e non potersi dissetare è stata per molti davvero dura. Il termine del mese sacro dovrebbe cadere il 5 o il 6 luglio: il condizionale è d’obbligo perché a decidere sarà la luna nuova. Intanto vengono pianificati i luoghi di preghiera in vista della Id Al Fitr, la “festa dell'interruzione” che cade il primo giorno del mese di Shawwal, il decimo del calendario (il 5 luglio), e che raduna migliaia di persone ogni anno. La Comunità di Mestre e provincia quest'anno ha deciso di non chiedere, come avvenuto negli ultimi tempi, un parco pubblico, ma di pregare nella moschea della Misericordia di via Monzani. Per qualche anno la festa si era svolta al parco di San Giuliano, successivamente in quello di Catene. «La Id cade in un giorno lavorativo», spiega Mohamed Amin Al Ahdab, presidente della Comunità islamica di Venezia, «e finché non abbiamo un luogo di preghiera che possa contenere tutti, è stato deciso in questo modo». Forse l'anno prossimo le cose cambieranno, anche in vista dell'acquisto di un nuovo Centro da parte dei fedeli. La comunità islamica di Spinea che si ritrova in via Negrelli, ha chiesto il parco di via Rossignago, dove i fedeli si riuniranno a pregare all'aperto. I bengalesi, la comunità più numerosa, pregheranno a Mestre nella sede della Cita, e anche nella palestra ex Edison di via Mameli. In questi giorni, nel frattempo, si moltiplicano le cene comuni di interruzione del digiuno, in cui la comunità si apre per invitare anche i non musulmani e le persone meno fortunate, a cenare assieme. Oggi alle 20.30, è in programma un momento convivile in via Monzani: invitate anche rappresentanze del Comune e del Patriarcato. Pag 22 “Ora la Cittadella della solidarietà non è più un sogno” di Marta Artico Un nome, una garanzia: a don Armando Trevisiol un lascito milionario Mestre. Un milione e 400 mila euro per la Cittadella della solidarietà. A chi lasciare il proprio denaro se non a una persona di cui ti fidi ciecamente? Don Armando Trevisiol, 87 anni e una lucidità invidiabile, si è conquistato con le opere e il sudore della fronte la fama di quello che i miracoli li realizza, che non lascia i cantieri impiantati come i politici. Quando all’inaugurazione del Don Vecchi numero 6 aveva detto dal palco di aver lasciato la strada segnata per la futura opera che lui aveva a cuore, ossia il centro direzionale per le attività caritative, in tanti non avevano capito cosa intendesse. Questo perché sulla questione c’era ancora un po’ di riserbo. «È una notizia fresca di un paio di settimane», spiega. «La donazione è stata fatta da una coppia anziana di Mestre, per ora non dico il nome perché non ricopro una posizione e sto attento a non sbilanciarmi, ma penso che presto salterà fuori. I due coniugi avevano fatto una sorta di testamento che lasciava il patrimonio dell’uno all’altro, e l’ultimo che se ne fosse andato lo avrebbe lasciato alla Fondazione Carpinetum onlus (aiuta le persone indipendentemente dalla loro provenienza e dal loro credo, ndr) come io avevo suggerito. La moglie è mancata un paio di anni fa, il marito da un mesetto. Questa coppia ci ha donato quanto aveva: l’abitazione dove risiedeva e il denaro messo da parte, soldi in contanti». Il suo prossimo sogno si realizza? «Con questo lascito cominciamo a pensare seriamente alla Cittadella della solidarietà, un progetto che avevo messo da parte: questi soldi non bastano, ma sono abbastanza per cominciare. Quando è stato inaugurato l’ultimo Don Vecchi avevo detto che, dati i miei quasi novant'anni, mi ero rassegnato a lasciare in eredità ai posteri il sogno di realizzare una struttura polivalente per dare consistenza al progetto della carità. Senonché è arrivata questa insperata donazione da parte di una persona che aveva una fiducia tale in me da lasciarmi ogni suo avere. Io ho suggerito di scegliere i centri don Vecchi. Grazie a questa donazione ho deciso di non perdere l’occasione per impegnarmi su questo progetto. Nei giorni precedenti il taglio del nastro avevo scritto una lettera formale ai membri del cda della Fondazione Carpinetum, in maniera scherzosa, dove dicevo loro: “Vi faccio la donazione di questo progetto, datemi una risposta, altrimenti chiedo a qualcuno altro”». Di eredità nella sua vita, ne ha ricevute tante, la penultima sono i 650mila euro della famiglia Saccardo per il Don Vecchi 6. «Questo finora è il lascito più grosso, ma tanti anni fa una donna mi donò un miliardo di lire. Me la ricordo ancora. Aspettava in canonica, l'ho fatta attendere tre quarti d'ora: mi ha detto che voleva lasciarmi un miliardo. Dopo poco è andata in vacanza in Polonia e la sera stessa in cui è tornata ha fatto un infarto ed è morta. Aveva redatto il testamento

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abbastanza male, ma la sua volontà era chiara. Il fratello commercialista aveva tentato di invalidare il testamento, allora la Curia mi diede un avvocato e grazie a lui ricevetti tutti i soldi fino all’ultimo centesimo. Con il denaro della donna realizzammo il Don Vecchi 2. Un’altra volta dopo un funerale venne una signora con il marito industriale: mi donarono, sempre per il Don Vecchi 2, 250 milioni di lire». Ha costruito un impero per le persone fragili... «Oggi sono 500 gli anziani e le persone meno fortunate che godono di questa opportunità. A Mestre ci sono 410 appartamenti e questo mi rende felice, perché penso che dureranno altri cinquanta, sessant'anni. Ora mi trovo a pensare: vuoi vedere che se le cose andranno per il giusto verso e se il Signore avrà ancora un po’ di pazienza a mandarmi la cartolina di precetto avrò anche la grazia di vedere questa lungamente sognata Cittadella della solidarietà?». Ci sono tante persone in città che hanno denaro? «C’è tanta gente che ha soldi e tanta che li lascia ai parenti che poi litigano tra di loro per averli». Nel penultimo Incontro, il foglio della Fondazione, lei parla di testamenti e racconta di suo padre, falegname, che le lasciò non denaro, bensì la fissazione per il lavoro. «Mio papà era casa e bottega, quello che mi ha lasciato era un patrimonio ideale». Sarà attiva a breve la fermata dell’autobus che servirà i centri Don Vecchi 5 e 6 che si trovano in via Marsala, in zona Arzeroni. Ne sono felici sia don Armando Trevisiol, che il direttore della Fondazione Carpinetum, don Gianni Antoniazzi. «Stanno eseguendo le prove e i passaggi con gli autobus», spiega quest’ultimo, «e verrà attivato un dispositivo che consente a chi si trova nei Centri e deve spostarsi, di chiedere il servizio. Siamo in presenza di un villaggio importante, aperto 24 ore su 24, le richieste sono tante». La Fondazione ricorda che la nuova struttura è visitabile (info 041.5353000 dalle 9 alle 12.30 e dalle 15 alle 18 dal lunedì al venerdì). Il don Vecchi 6 dispone di alloggi diversificati per genitori separati, famiglie giovani, lavoratori di passaggio, chi assiste parenti in ospedale, lievi disabili. Gli appartamenti sono 58 e finora sono state accolte 35 richieste. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I Meno veti e più buon senso di Tiziano Graziottin Venezia accessibile? Servono le rampe, non le impuntature A volte abbiamo l’impressione che la sacrosanta attenzione all’unicità di Venezia e la connessa vigilanza sull’inserimento (o meno) di strutture e appendici compatibili con l’essenza architettonica della città partorisca un atteggiamento di chiusura a oltranza non sempre o non del tutto giustificato. Sembra un caso di scuola, in questo senso, la partita a scacchi apertasi sulla realizzazione di rampe agevolate (o passerelle) sui ponti di Venezia. Da mesi le associazioni cittadine interessate spingono perchè ci sia una valutazione serena dei progetti presentati, chiedono che pur nella puntigliosa osservanza dei criteri sopra citati si arrivi finalmente a un capolinea e quindi alla fattibilità. In realtà il balletto di rilievi, annotazioni, prescrizioni sembra un gorgo vorticoso in grado di inghiottire ogni buona intenzione progettuale, al punto che pensando male si potrebbe pensare a una pregiudiziale ostilità verso queste installazioni. Ovvero, nel perseguimento di un ideale di estetica e compatibilità (e Dio sa quante volte ci vien da pensare che in tanti casi questa suggestiva aspirazione è rimasta lettera morta) si rischia di perdere di vista che in ballo c’è l’altrettanto sacrosanta aspirazione di tante persone (disabili, anziani, donne incinte, mamme con figli piccoli) a potersi muovere in un ambiente meno ostile. La famosa città accessibile,in sostanza, non sembra essere una reale priorità, non per tutti almeno. Serve, probabilmente, uno sforzo generale di comprensione che contemperi le varie esigenze per trovare una sintesi. L’attenzione sul tema di questo giornale - che ci pare aver portato a una ulteriore riflessione sulla rimozione delle rampe attualmente installate, certo tanto brutte quanto utili - non verrà meno, perché crediamo che la "Venezia di tutti" non possa essere solo uno slogan ad effetto ma debba tradursi in una città concretamente amica dei residenti, dei turisti e a maggior ragione di chi vive una situazione di difficoltà motoria permanente o temporanea. Pag III Il grande assalto alle isole di Venezia di Paolo Navarro Dina

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Tornate al centro dell’interesse generale dopo gli anni dell’abbandono, ora fanno gola a tanti Tutti le vogliono, tutti le cercano. Sono le isole della laguna veneta. Ricche e gloriose ai tempi della Serenissima, poi abbandonate in parte al saccheggio, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del Novecento e ora oggetto di una parziale rinascita con gli occhi di tanti imprenditori pronti ad andare alla "conquista" dei piccoli fazzoletti di terra in mezzo alla laguna. E il caso di Sant’Andrea, abbandonata dall’Esercito negli anni scorsi ma che uno stop del Tar sul ricorso di Italia Nostra Venezia ha impedito (per ora) che l’isoletta finisse privatizzata con la benedizione da parte del Comune. E quindi, ancora una volta, si è posto il problema, non solo del riuso delle isole, ma soprattutto della fruibilità pubblica. Tema non proprio scontato, vista anche la battaglia (come riferiamo qui sotto) su un’altra isola, come Poveglia tra l’associazione omonima e il sindaco Luigi Brugnaro quando era "solo" imprenditore. «Quello che manca, e da anni - sottolinea Lidia Fersuoch, presidente della sezione veneziana di Italia Nostra - è un piano comunale di sviluppo strategico sulle isole che garantisca un uso pubblico di questi territori. In realtà si è preferito approfittare del miglior offerente, soprattutto catene alberghiere, per "liberarsi" di qualsiasi fazzoletto di terra. E siamo arrivati addirittura al paradosso, che ad un’isola come Sacca Sessola è stato pure cambiato il nome in "Isola delle Rose" per sistemarci un hotel...». Al di là delle polemiche, e di fronte agli interessi, anche massicci, di soggetti privati, secondo Italia Nostra vi sono pochi strumenti di difesa delle isole come luoghi ad uso pubblico. «É da anni - spiega Gerolamo Fazzini, presidente dell’ArcheoClub di Venezia - che lavoriamo con grande successo sulle isole del Lazzaretto Nuovo e Vecchio. Abbiamo contatti con tutto il mondo che da noi viene a studiare i primi insediamenti veneziani. Siamo riusciti a restaurare molti edifici, anche grazie al Comune, al ministero dei Beni culturali e al Consorzio Venezia Nuova, ma da tempo attendiamo di conoscere il nostro futuro. Da anni chiediamo che qui si costituisca il Museo della Città. Abbiamo in deposito migliaia e migliaia di pezzi. É un vero peccato che non si decida». E così prevale la scelta di puntare sulla "privatizzazione". Insomma, meglio un imprenditore che si prende oneri e onori, ma che trasforma tutto ad uso e proprio consumo. «E pensare - continua Fersuoch - che se fossimo in presenza di un Piano strategico sulle isole, non solo i veneziani potrebbero riappropriarsene, ma anche puntare ad ottenere quei finanziamenti europei di settore che tanto interessano anche al sindaco Brugnaro. Che cosa si aspetta?». Ecco la situazione delle isole principali: SAN SERVOLO - Polo culturale della vecchia Provincia e sede della Venice International University SAN CLEMENTE - Dall’aprile 2016, l’hotel sull’isola ha assunto il nome Kempinski San Clemente dopo anni burrascosi e il transito prima sotto la Cit e poi sotto una catena alberghiera turca. CERTOSA - Assegnata all’associazione Vento di Venezia come darsena e attività nautiche SACCA SESSOLA - Dal 2014 ha cambiato nome in "Isola delle Rose" più suggestivo per ospitare il Jw Marriot Venice, albergo di 266 stanze. SANT’ANDREA - Abbandonata dall’Esercito italiano, ora è stata oggetto di contenzioso sulla fruibilità pubblica dell’isola di fronte ad una proposta di privatizzazione. LAZZARETTO VECCHIO/NUOVO - Utilizzate per usi storico culturali grazie all’Archeoclub, ma attende di essere riconosciuta come Museo della città antica. SAN GIACOMO IN PALUDO - Dopo anni in cui era usata dall’associazione Verdi Ambiente Società per scopi naturalistici, è andata alla Cassa Depositi e Prestiti che intende alienarla. SANTO SPIRITO - Per anni si è parlato di un progetto di un insediamento immobiliare privato ma non se n’è saputo più nulla. SAN SECONDO - L’isola è abbandonata ma recentemente è stata ripulita da un’associazione di volontari. LE GRAZIE - Acquistata dal gruppo trevigiano Stefanel dopo un contenzioso decennale con la Ulss 12, ma ora permangono questioni aperte legate alla bonifica. CORRIERE DEL VENETO Pag 4 Jesolo, arriva il wi-fi gratis in tutto il litorale di Mauro Zanutto

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Spiaggia, alberghi, negozi e ristoranti: 14 chilometri interamente connessi grazie alla fibra ottica Jesolo (Venezia) Beach volley, racchettoni o bocce? Passatempi ormai desueti. Oggi sotto l’ombrellone si usano smartphone, tablet o notebook perché si è sempre connessi: si naviga sì, ma sui siti, si stringono nuove amicizie, ma sui social network. Merito delle nuove tecnologie che, a seconda dei punti di vista, ci hanno migliorato o complicato la vita. È il caso del litorale di Jesolo dove domani entrerà in funzione quella che viene già definita la più grande rete internet d’Italia alla velocità di 1 Giga byte per secondo (Gbps). Una connessione totalmente gratuita sia per turisti che residenti, con copertura dalla spiaggia all’albergo, dalle pizzerie ai negozi di tutto il litorale: 14 chilometri di fibra ottica e 124 hot-spot per permettere a chiunque di utilizzare la connessione libera. Per chi è avvezzo a usare la connessione wi-fi accedere a quella gratuita di Jesolo sarà un gioco da ragazzi. Dopo aver attivato la connessione wireless sul proprio device, infatti, è sufficiente selezionare «Jesolo connected», registrarsi indicando se si è turista o residente (in questo caso servirà anche il codice fiscale) e creare l’account. La connessione wi-fi, realizzata per la parte tecnica dalla padovana N2Labs su infrastruttura di Vodafone, permetterà nella fase di avvio del servizio la navigazione senza limiti di tempo e di dati. La velocità della fibra ottica, inoltre, renderà possibile l’utilizzo di applicazioni ad alta intensità di banda, come lo streaming di video in alta definizione, connessioni multidevice e online gaming. Tuttavia, a seconda della quantità di utilizzatori connessi, la velocità potrebbe notevolmente diminuire. Infatti gli autori del progetto «Jesolo connected», Comune e Federconsorzi, sin dalla fase di avvio verificheranno il traffico dati per valutare eventuali limitazioni all’accesso. «Jesolo ancora una volta dimostra la sua attitudine a rendere sempre più accogliente e fruibile la permanenza degli ospiti non dimenticandosi dei residenti – commenta il sindaco Valerio Zoggia –. Siamo nell’era di internet, dove la connessione è diventata un’esigenza più che una comodità. Ecco quindi la nostra decisione di rendere disponibile il sistema Jesolo Connected con un investimento che rende la nostra città sempre più 2.0». Il costo di attivazione del servizio per l’estate corrente e per l’estate 2017 supera di poco i 170 mila euro. «Questa innovazione prepara la città alle sfide future e a portare maggior competitività alle imprese, alla pubblica amministrazione e ai cittadini – spiega Mauro Marelli, direttore Regione Nord Est di Vodafone Italia - . Grazie alla lungimiranza dell’amministrazione comunale di Jesolo, Vodafone ha sviluppato reti di nuova generazione con l’obiettivo di offrire la fibra ottica e l’evoluzione tecnologica della rete, il 4G+, che consente velocità di connessione in mobilità fino a 225 Mbps». Sul litorale veneto, Bibione lo scorso maggio ha attivato la connessione wireless in spiaggia per la copertura 18 mila ombrelloni. Comune di Jesolo e Federconsorzi pensano già allo sviluppo della rete appena installata, per l’utilizzo di videocamere e la realizzazione di punti informativi per i turisti. «La prima cosa che ci chiedono i turisti al loro arrivo è: avete la connessione internet gratuita? Ora non siamo secondi a nessun’altra località balneare» chiosa il vicepresidente di Federconsorzi, Amorino De Zotti. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 “Io, papà senza soldi e lavoro, riconoscerò la mia piccola Sara. Questo veneto è meraviglioso” di Emilio Randon Dopo la gara di solidarietà, la bimba sarà riaccolta dai genitori Vicenza. Gli chiedo quanti soldi ha in tasca. Lui se le svuota, sul tavolo del bar nel quartiere di Santa Bertilla a Vicenza allinea un portafogli vuoto, un mazzo di chiavi, un telefonino e mezzo pacchetto di Rothmas Blu. Non beve, accetta solo una bottiglietta di acqua minerale. Matteo ha 40 anni ed è napoletano di Marianella, sua madre - cinque figli – gestiva una tabaccheria, davanti alla tabaccheria c’era il banchetto delle sigarette di contrabbando. Campavano entrambi. Qui da noi sembra più difficile. Stamattina Matteo andrà all’ospedale San Bortolo con la sua compagna che chiameremo Anna,

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insieme prenderanno Sara la figlia nata il 22 giugno, battezzata con questo nome dalle infermiere e orfana fino a ieri, insieme andranno al comune di Torri di Quartesolo e registreranno la bambina all’anagrafe come loro figlia. Chiedo se gli sta bene il nome, dice di sì che è un nome di principessa, quella del libro di F.H.Burnett immagino. «Le porterà fortuna». Gli chiedo anche come farà ad andare a Torri di Quartesolo visto che non ha la macchina. Risponde che ci andrà anche a piedi, anche in ginocchio o con le mani. Si commuove, piange stravolto da tutta questa benevolenza che gli è piovuta addosso all’improvviso, lui disoccupato, con le bollette in protesto, senza i soldi per pagare i pasti del figlioletto Antonio all’asilo, lui che s’è venduto gli ori, la Punto, lo Scarabeo rimastogli e che a piedi portava in giro i curriculum – le faremo sapere, era la risposta – lui insomma finito contro un muro nero che d’incanto vede trasformarsi in un mondo di attenzioni, un universo di solidarietà premurose, imprenditori che gli offrono lavoro, artigiani disposti a dargli dei soldi, basta che si occupi della piccola Sara. Lo farà. Vuol lavorare anche. Chiede, vuole che gli faccia delle domande ed è come uno studente davanti ad un professore che intuisce scettico sulla sua preparazione, vuol superare l’esame. Sa bene che esame: qui da noi non si crede alla sfortuna, non fino in fondo, se uno finisce male siamo portati a credere che un po’ è per colpa sua, che in fondo se lo merita. Matteo, disperatamente, vuol dimostrare che non è colpa sua, che la sfortuna esiste veramente e che lui ha fatto tutto il possibile per evitarla. Il cuore gli dice che è tutto vero, che da domani tutto cambierà, la ragione gli suggerisce di aspettare, dopodomani, quando tutto sarà veramente finito o tutto ricominciato. Chissà. La storia è nota: lui, lei, una gravidanza indesiderata, altri figli di mezzo, una bimba che viene al mondo e che la madre abbandona in ospedale. «Non ho soldi per mantenerla». Non ne ha neanche il padre. Poi la notizia che dilaga, il rumore che fa, la gara di solidarietà che scatena e i primi dubbi: il padre va a vedere la bambina e scoppia a piangere, la mamma cambia idea o si lascia convincere. Oggi saranno all’anagrafe. Ecco, abbiamo il lieto fine, c’è lo zucchero. Ma attenzione, l’ultimo fotogramma non è la fine del film: l’amaro c’era e l’amaro resta, la coppia non era più una coppia da un anno, lui vive con la sorella, lei per conto suo, insieme potranno tornarci oppure no, Sara magari farà il miracolo, chi lo sa, vedremo, perché la vita scorre anche a telecamere spente e la solidarietà è una dama capricciosa. Matteo aveva una partita Iva, lavorava in edilizia, poi il buco che ha travolto tanti. Per pagare i dipendenti si è venduto i macchinari, ha fatto il buttafuori nelle discoteche, il portuale in Spagna, l’omino dei traslochi a Vicenza – «20 ore per guadagnare 20 euro, ma erano per mio figlio». Gli ultimi soldi li ha visti dalla Sda il Natale scorso: «Con quelli ho comprato le scarpe a mio figlio Antonio e queste che indosso, 30 euro. Andavo a piedi da Vicenza a Montecchio Maggiore a portare curricula, niente, mentre a casa arrivavano le ingiunzioni della mensa dell’asilo e io mangiavo in parrocchia, l’Aim che mi tagliava la luce e io morivo di vergogna per mio figlio. Perdere anche Sara era il sigillo del mio fallimento. Non potevo perdere anche lei e questo Veneto me l’ha fatto capire. È meraviglioso». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Le intese al ribasso di Franco Venturini Tra i molti pericoli che pesano sull’Unione Europea, il più micidiale ha un nome gentile: sollievo. Le sue tossine attenuano l’allarme del dopo Brexit, placano i timori, aprono spiragli all’ottimismo. Dopotutto in Spagna gli antisistema sono stati battuti. La Borsa mostra di voler recuperare. Ieri si è svolto tranquillamente a Bruxelles il primo vertice dei Ventisette, senza la Gran Bretagna. Il premier scozzese ha confermato a Bruxelles che Edimburgo vuole restare europea. E quanto alle contorsioni degli inglesi, prima o poi si troverà il modo di perfezionare un divorzio che non piace a chi lo ha voluto. C’è qualcosa di vero, in questa ricetta consolatoria. Ma se si prova a guardare avanti, allora emerge una formidabile dose di inadeguatezza e di cecità. Dov’è la forte reazione politica che gli europei continentali avevano più volte promesso in caso di Brexit? Dov’è l’«immediato rilancio» dell’Unione? Se i danni sono per ora circoscritti lo dobbiamo alle

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misure di protezione finanziaria predisposte dalla Bce, non certo all’impegno dei leader politici europei. I quali, seguendo una Merkel attendista, hanno preso tempo rinviando a settembre l’annunciata riscossa. Errore grave, perché sarà proprio il tempo a decidere le sorti dell’Europa. Nel marzo 2017 si vota in Olanda, dove gli euroscettici arrabbiati di Geert Wilders risultano favoriti. E prima della fine di maggio si vota per scegliere il nuovo presidente in Francia, dove il Front National di Marine Le Pen continua a guidare i sondaggi. Una coppia che dovrebbe provocare qualche brivido, visto che nel 2005 furono proprio la Francia e l’Olanda, in quest’ordine, a silurare con l’arma del referendum il progetto di trattato costituzionale europeo. E invece i passi felpati dell’Europa denunciano indifferenza, come se la storia e il calendario non esistessero. Calcolando che luglio e agosto contano al massimo per uno, la Ue dispone di sette mesi prima del test più insidioso, quello olandese. Sette mesi per adottare e rendere percepibili provvedimenti capaci di raggiungere la massa degli elettori. Sette mesi per inviare ai popoli europei messaggi nuovi e forti che possano riaccendere almeno la speranza nei confronti dell’Europa là dove oggi prevalgono la delusione e la rabbia. È diffusa ben oltre la Gran Bretagna la voglia di identità e di frontiere. La globalizzazione, anche se ha molto aiutato i Paesi emergenti, viene percepita da parti importanti delle società occidentali come un vantaggio per le élite e per la grande finanza che ha spodestato la politica a scapito della classe media. La disoccupazione che non scende produce voglia di tornare al «prima», e alimenta la paura dei fenomeni migratori. Stragi ripetute come quella che ha nuovamente colpito Istanbul obbligano a prendere atto di una insicurezza diffusa. A questo crescente «populismo», se proprio vogliamo chiamarlo così, l’Europa non può più rispondere con i compromessi al ribasso. L’Inghilterra ha suonato la campana per tutti malgrado le sue peculiarità, e l’Europa si scopre oggi in rotta di collisione con la democrazia delle urne. La via da percorrere, ora, non è quella di volere più integrazione nel momento sbagliato. Si tratta invece di ri-legittimarsi di fronte alle attese degli elettori con misure urgenti e concrete, come la garanzia sui depositi bancari (l’Italia ci sta provando e ieri Renzi ha dovuto sentirsi dire dalla Merkel che «non si possono cambiare le regole ogni due anni»), la creazione di nuovi argini ai flussi migratori con la polizia di frontiera europea, un consenso reale per spingere la crescita, l’adozione di più efficaci accordi per la sicurezza anche fuori dai confini europei. E la creazione di vantaggi comuni, modello Erasmus. Il tempo stringe, eppure l’Ue non sembra avere fretta. E rimanda, invece di creare subito il binario della controffensiva politica accanto a quello del confronto procedurale con Londra. Forse il rinvio è preferibile alla constatazione delle divisioni, al riconoscimento che è troppo tardi per recuperare gli umori divorzisti? Speriamo di no, perché una resa non piacerebbe agli elettori olandesi e francesi. Pag 1 Il solco profondo sull’Europa tra le élite e il mondo reale di Ernesto Galli della Loggia Per antica consuetudine gli intellettuali europei - specie quelli di sinistra, da settant’anni in strabocchevole maggioranza - sono molto bravi nel trovare i termini appropriati per designare le cose che non piacciono usando il marchio dell’infamia ideologica. Questa volta è stato Bernard-Henri Lévy che non si è lasciato scappare l’occasione fornitagli dalla vittoria inglese della Brexit. I cui fautori, ai suoi occhi, non sono altro che «populisti», «demagoghi», «ignoranti», «cretini», seguaci più o meno inconsapevoli di tutto ciò che c’è di peggio al mondo. Da Le Pen a Putin a Trump, «nuovi reazionari», «incompetenti», «volgari» «sovranisti ammuffiti» (termini testuali che traggo da un articolo del nostro sul Corriere di lunedì scorso). Mi chiedo come sia possibile, con tutto quello che sta succedendo, non rendersi conto che proprio pensando, dicendo e scrivendo da anni, a proposito di parti sempre crescenti delle opinioni pubbliche del continente cose come quelle scritte da Lévy, non rendersi conto, dicevo, che proprio in questo modo le élite intellettuali (e politiche) europee sono riuscite a scavare tra sé e le opinioni pubbliche di cui sopra un solco profondo di avversione e di disprezzo. A rendersi insopportabili con la loro sicumera e la loro superficialità. Prendiamo una delle accuse più ripetute, quella di «sovranismo». Che cosa vuole dire? Chi la muove ne dà regolarmente un’interpretazione che più negativa, anzi odiosa, non si potrebbe. Sovranista, secondo questa accusa, vorrebbe dire che vogliamo e dobbiamo contare solo

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«noi», che conta solo quello che ci fa comodo, che nessuno deve venire a disturbare la nostra vita quotidiana, le nostre abitudini perché tutto ciò che non ne fa parte ci mette paura e lo sentiamo come una minaccia alla nostra tranquillità. Insomma qualcosa a metà tra un «borghese piccolo piccolo» e uno xenofobo, tra Alberto Sordi e Himmler. Ma dentro il termine sovranismo non è forse contenuto il concetto di sovranità, quella cosa che il primo articolo della Costituzione (certo della «nostra» Costituzione, quella italiana, ma a quale altra dovremmo fare riferimento?, è forse indice di «nazionalismo» riferirsi ad essa?) «appartiene al popolo»? Dunque è al «popolo» o no, è agli elettori o no che spetta l’ultima parola sulle cose importanti che li riguardano? e ai primissimi posti tra questi non c’è forse la costruzione europea? E se questa con i trattati di Maastricht, di Lisbona e con la moneta unica, ha previsto la cessione proprio di parti rilevantissime della sovranità, è davvero così assurdo pensare che il popolo avrebbe dovuto, o debba, dire la sua? E perché mai, poi, se la richiesta di un referendum su un simile argomento la propone David Cameron - così com’ è effettivamente accaduto, ma come troppo facilmente ci si dimentica - allora tanti come Bernard-Henri Lévy non trovano nulla da ridire e osservano il più scrupoloso silenzio, ma se invece il medesimo referendum lo chiede un partito che a loro dispiace allora apriti cielo, è il populismo che stende i suoi tentacoli, la demagogia che vuole sostituirsi alla democrazia? Quello di Lévy è solo un esempio tra i moltissimi. In tutti gli anni trascorsi, infatti, troppa parte dell’intellettualità europea, e proprio quella più autorevole o legittimata - a cominciare dal giornalismo e dall’intellettualità economico-giuridica, in mille modi legata a filo doppio al potere politico-statale e alle «occasioni» offerte da Bruxelles - ha chiuso gli occhi o ha troppo debolmente eccepito sulle incongruenze o sulle vere e proprie forzature che hanno caratterizzato il cammino dell’Ue. Ha fatto proprio con troppa docilità il politicamente corretto che faceva tutt’uno con l’europeismo ufficiale, spesso, tra l’altro, largamente foraggiato dalla stessa Bruxelles. È accaduto precisamente così che l’insoddisfazione che andava crescendo nell’opinione pubblica di molti Paesi del continente, vedendosi impossibilitata ad accedere al circuito della discussione pubblica qualificata e ostracizzata dai media ufficiali, vedendosi regolarmente ridicolizzata e pubblicamente apostrofata con i peggiori epiteti, sia andata sempre più radicalizzandosi, sempre più caricandosi di astio, diciamolo pure, spesso sempre più incarognendosi, dando vita alla difficilissima situazione attuale. Con l’Unione a pezzi, i sistemi politici di mezza Europa alle corde, le loro élite boccheggianti e delegittimate. Non c’è che dire: gli aedi della democrazia possono essere soddisfatti. Pag 9 La sfida: globali ma equi di Gordon Brown C’è il serio pericolo che passeremo i prossimi dieci anni a rimettere in discussione il referendum della settimana scorsa. A giudicare dalla recente esperienza della Scozia - oggi divisa tra i due schieramenti di elettori favorevoli e contrari all’indipendenza, in seguito al relativo referendum del 2014 - le linee tracciate da un referendum contrastato e polarizzante per l’uscita dalla Ue segneranno la nostra politica dei prossimi anni. Già vediamo il divario tra Remain e Leave diventare il fulcro della narrazione sull’economia britannica. I sostenitori del Remain sentono di dover fare i pessimisti per dimostrare che la Brexit non potrà essere gestita senza una catastrofe, mentre quelli a favore del Leave ostentano ottimismo, sostenendo che i rischi economici siano esagerati. Nato per tentare di nascondere le divisioni nel partito dei conservatori, il referendum ha scisso profondamente l’intero Paese, isolandoci dai partner internazionali come mai prima dall’umiliazione di Suez. Un Paese variegato come il nostro non si può permettere anni di retorica isolazionistica e anti-immigrazione, tipica della campagna per il Leave. Né può progredire con la tattica degli europeisti, ignorando le grandi preoccupazioni del Paese. Dato che la campagna a favore del Remain ha preferito un’argomentazione negativa - ossia che uscire fosse un rischio - a una positiva e circostanziata, continuano ad essere ignorati i due grandi miti degli euroscettici riguardo al tradimento subito dalla Gran Bretagna. I leader conservatori non hanno mai smentito la bugia della fazione separatista che paventava l’imminente inclusione della Gran Bretagna in un super-Stato federale, rubando così il mantello patriottico e fustigando gli europeisti per aver svenduto la Gran Bretagna a Bruxelles. Concentrandosi esclusivamente sulla dimostrazione delle nefaste conseguenze finanziarie per noi, i leader Tory non hanno

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mai contestato l’illusione chiave dello slogan «Riprendi il controllo»: che, in un mondo sempre più interdipendente, le nazioni possano fare a meno di allearsi per contrastare l’inquinamento, l’instabilità finanziaria, il protezionismo e le disuguaglianze. Per esempio, solo un intervento sinergico europeo può controllare i paradisi fiscali. Se l’unica opzione è di conciliare la desiderata autonomia nazionale alla necessaria cooperazione internazionale, dobbiamo allora utilizzare argomentazioni positive[...]. Eppure, tutte le volte che l’immigrazione minacciava di guadagnare la ribalta, la campagna europeista cavalcava la retorica della catastrofe post-Unione europea, trascurando le esagerate obiezioni separatiste inerenti all’immigrazione. L’elefante nella stanza è la globalizzazione: la velocità, l’autonomia e la portata dei movimenti sismici nella nostra economia globale. E la più ovvia manifestazione del mondo che abbiamo perso è lo svuotamento delle nostre città industriali, quale conseguenza del crollo della produzione manifatturiera a causa della concorrenza asiatica. Queste città ospitano una quota sproporzionata di lavoratori semi-qualificati che sentono di essere dalla parte sbagliata della globalizzazione, e che hanno scelto di votare per il Leave . Non riuscendo a vedere come la globalizzazione potesse essere addomesticata a loro favore, si sono, non sorprendentemente, uniti ai movimenti anti-globalizzazione la cui calamita è l’immigrazione. «Riprendere il controllo» sembra l’unico modo di ripararsi, proteggersi o isolarsi dal cambiamento globale [...]. La Gran Bretagna invoca evidentemente qualcuno - o qualcosa - che lenisca le ferite riportate in questa campagna. Non è una questione accademica o differibile. La fretta di staccarsi del governo scozzese solleva un problema esistenziale, e già il Regno Unito sembra essere unito solo di nome. Se Lord North è passato alla storia per aver perso un’unione - con l’America - David Cameron potrebbe passare alla storia per averne perse due - con l’Europa e la Scozia. Ma c’è una via d’uscita. Prima di tutto, abbiamo bisogno di un dialogo a livello nazionale, e una commissione nazionale, per rendere la globalizzazione funzionale agli interessi della Gran Bretagna. Alcuni dicono che il moderno spartiacque politico sia fra un mondo aperto e uno chiuso. Ma questa categorizzazione mi sembra il rifugio di quelli che vogliono svuotare il sistema dalle ideologie ed evitare di affrontare le enormi disuguaglianze, che sono il tallone d’Achille della globalizzazione [...]. Secondo, dobbiamo porre rapidamente fine all’incertezza sul futuro delle relazioni britanniche con l’Europa analizzando tutte le possibilità - il modello norvegese, svizzero, canadese e dell’Organizzazione mondiale del commercio [...]. Conosciuti i risultati, dovremmo rimanere aperti ad ascoltare tutte le proposte alternative dell’Unione europea. Terzo, il governo scozzese vuole solo studiare come la Scozia possa essere parte del Mercato unico europeo. Ma è più ragionevole cominciare valutando come la Scozia possa conservare i benefici di essere parte dell’Europa e della Gran Bretagna. Dovremmo farlo non solo perché è nel nostro interesse - 46 miliardi di sterline di fatturato e un milione di posti di lavoro sono legati all’Inghilterra, contro 12 miliardi di fatturato e 250 mila posti di lavoro riferiti all’Europa - ma anche perché non possiamo parlare in modo significativo e convincente di interdipendenza e solidarietà, o del nostro desiderio di cooperare e condividere, con i nostri dirimpettai del Mare del Nord, senza avere un’idea di come possiamo lavorare con i nostri vicini più stretti. Ovviamente, il Paese guarderà prima al partito Tory per vedere se può unire la Gran Bretagna. Ma il partito che può addomesticare meglio la globalizzazione è quello laburista [...]. Dobbiamo decidere che non possiamo essere semplicemente un partito contro la globalizzazione che sfrutta il rancore ma non offre risposte. Solo in questo caso, un partito laburista riformato può mostrare che può asservire una globalizzazione attualmente anarchica al popolo britannico. Pag 13 Ecco il piano sicurezza per i grandi aeroporti di Guido Olimpio e Fiorenza Sarzanini Metal detector potenziati, controlli a stive e servizi di terra: le mosse dell’intelligence Roma. Arretrare la zona di «filtraggio» predisponendo controlli all’ingresso dei principali aeroporti. Il giorno dopo la strage nello scalo Atatürk di Istanbul, i servizi di sicurezza italiani stringono ulteriormente le maglie. La possibilità di un attacco in un aeroporto di grande affluenza era stata data come probabile dai servizi di intelligence europei all’inizio del Ramadan, il 6 giugno. Una ventina di giorni fa l’allarme era stato circoscritto

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alla città di Istanbul, sia pur senza fornire indicazioni precise sull’obiettivo. E il timore è che adesso nuove azioni possano essere state pianificate in altri Paesi occidentali, non escludendo l’ipotesi di attentati simultanei. Le prime informazioni giunte dalla Turchia, in assenza di una rivendicazione immediata, convergono sulla matrice islamista e in particolare sull’Isis. Ormai si è creata una situazione che appare quasi paradossale: indebolito nelle proprie aree di influenza (dalla Siria, all’Iraq, fino alla Libia), Isis/Daesh si mostra più forte grazie all’azione di «lupi solitari» e gruppi che decidono di entrare in azione negli Stati occidentali. E puntano a quei settori nevralgici per l’economia, come appunto è il turismo. Per questo l’attenzione è ora concentrata verso tutte le mete di attrazione che possono diventare obiettivo privilegiato: le spiagge del Nordafrica così come le capitali europee. Il «filtraggio» agli ingressi e il modello israeliano - Il dispositivo di sicurezza in decine di aeroporti è stato potenziato alzando il livello dei sensori dei metal detector ed effettuando controlli mirati e continui su tutto il personale. Misure non sufficienti a scongiurare gli assalti. E dunque saranno ulteriormente rafforzati i presidi agli ingressi con la facoltà di far aprire le valigie e di controllare i documenti ben prima degli accessi ai varchi presidiati dai vigilantes privati. L’attività dell’ intelligence prevede verifiche degli addetti alle stive, al catering e a tutti i servizi di terra per prevenire eventuali complicità con personaggi legati al fondamentalismo che potrebbe utilizzarli come «basisti». Proprio come si ritiene sia accaduto il primo novembre 2015 all’Airbus 321 della «Metrojet» partito da Sharm el-Sheikh e diretto a San Pietroburgo che si è schiantato sul Sinai, provocando la morte di 224 persone, compresi 24 bambini. A Istanbul i killer hanno usato la vecchia strategia di colpire il primo cerchio di uno scalo. Non potendo arrivare sui jet, oggi molto protetti, sparano sulla folla. Per questo si deve aumentare la vigilanza in tutte le aree: con la creazione di cerchi difensivi affidati ad agenti in divisa e in borghese proprio come accade negli aeroporti israeliani. Nulla viene lasciato sguarnito: strada d’accesso, ingresso, check-in, porte d’imbarco, navette. Gli uomini della sicurezza si mimetizzano in mezzo ai passeggeri, telecamere vegliano in ogni angolo. Naturalmente si tratta di un dispositivo che ha costi enormi e per questo - al di là dei provedimenti di sorveglianza già operativi - si sta facendo un’analisi degli aeroporti ritenuti maggiormente a rischio per intervenire con urgenza. L’allerta di venti giorni fa e la lista nel computer - L’ultima segnalazione ritenuta attendibile è giunta venti giorni fa e indicava proprio Istanbul come il prossimo obiettivo, sia pur senza fornire notizie che potessero aiutare l’attività di prevenzione. Per questo - nonostante gli «allerta» siano tantissimi e arrivino prima di ogni attacco - si sta cercando di capire quale sia stata la «falla» nel sistema di sicurezza dello scalo, ma anche nell’attività dell’intelligence. In Turchia l’Isis conta su una vasta rete di militanti: alcuni sono stati arruolati nel Paese, in particolare dalla città di Adiyaman, nel Sud. Altri sono in Siria e da qui entrano proprio per compiere azioni o fornire supporto logistico ad altri fondamentalisti. L’Isis ha anche inglobato personaggi estremisti legati al qaedismo e questo gli ha permesso di allargare la base. La guerra in Siria ovviamente ha favorito questa mossa e molti pensano che il vero obiettivo del Califfo sia quello di spingere la Turchia a intervenire direttamente nel Nord della Siria dove poi sarebbe più facile provocare perdite. Nel gennaio scorso la polizia ha sequestrato il computer di un alto dirigente dell’Isis in Turchia (Yunus Durmaz, poi morto). Nei documenti archiviati si parlava di massiccia campagna di attacchi con l’intento di far scoppiare il tessuto sociale turco e danneggiare l’economia. A rischio le mete turistiche e le capitali europee - La perdita di alcune roccaforti che l’Isis aveva conquistato nei mesi scorsi ha convinto evidentemente i militanti ad agire in Occidente proprio per «difendere» la propria supremazia del terrore. Sui siti Internet jihadisti si moltiplicano gli appelli a entrare in azione «in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo». La campagna ha come obiettivo dimostrare che un movimento in difficoltà riesce comunque a reagire in modo duro, «dietro le linee» del nemico, aumentando timori e portando scompiglio. Aree a rischio - oltre alle capitali europee - vengono ritenute le mete turistiche dell’Egitto e della Tunisia, alcune aree del Kenya e naturalmente le zone balneari della Turchia. Gli analisti sono convinti che l’Italia non sia bersaglio primario, ma la propaganda Isis continua a puntare su Roma. LA STAMPA

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Seggio all’Onu. Che cosa non ha funzionato di Stefano Stefanini Pareggiare è meglio che perdere. Ieri, alle Nazioni Unite, l’Italia pensava di vincere. Deve accontentarsi di un punto anziché tre. Respiriamo di sollievo, ma dobbiamo pensare a cosa non ha funzionato. Il compromesso fra Italia e Olanda, un anno a testa in Consiglio di Sicurezza, testimonia del buon senso di Matteo Renzi e Mark Rutte, nel disordine europeo che li circondava. L’hanno raggiunto ai margini di un Consiglio Europeo kafkiano dominato dalle tensioni sull’uscita del Regno Unito dall’Ue, mentre il mondo reale batteva alle porte con l’attentato di Istanbul, città europea, carta geografica alla mano. Al Palazzo di Vetro il ministro Gentiloni e i nostri diplomatici avevano faticosamente recuperato la manciata di voti di svantaggio. L’Italia può essere moderatamente soddisfatta. All’Onu l’Assemblea Generale è una cassa di risonanza che ha il pregio dell’universalità e il limite dell’irrilevanza. Contano le agenzie, come l’Alto Commissariato per i Rifugiati, l’Unicef, l’Organizzazione Mondiale della Sanità; contano i Caschi Blu che, dove possono, mantengono la pace; conta il Segretario Generale. Conta soprattutto il Consiglio di Sicurezza, cinghia di trasmissione fra legittimità internazionale e realpolitik delle grandi potenze, del burro e cannoni, delle crisi intrattabili. E’ una democrazia molto imperfetta, in cui i cinque membri permanenti (P5: Russia, Usa, Francia, Regno Unito, Cina) sono molto più uguali degli altri. Non riflette più gli attuali equilibri mondiali; non dà spazio ai Paesi emergenti; è spesso paralizzato dal veto. Ma funziona. Il seggio non permanente è un riconoscimento di status internazionale. Roma ha un buon albo d’oro. Il gruppo cui apparteniamo (Weog) conta 28 Paesi e ha diritto a due posti. Entrata nell’Onu nel 1955, l’Italia è stata in CdS sei volte, 12 anni su 62. Adesso aggiunge un mezzo mandato annuale nel 2017. Questo risultato è frutto di costante impegno societario, specie nel mantenimento della pace, come in Libano e nel Corno d’Africa, e di assidua azione diplomatica a New York, nei fori multilaterali, nelle capitali di tutto il mondo. Il 2017 ci troverà nella stanza dei bottoni Onu, dove si giocano partite che ci toccano da vicino: Mediterraneo, dalla Libia alla Siria; terrorismo di Isis; confronto fra Russia e Ucraina; migrazioni e rifugiati; Afghanistan e Iraq dove addestriamo le forze armate locali; Iran reintegrato nella comunità internazionale; non proliferazione. E’ in corso un riallineamento mondiale. Medio Oriente, Ankara e Gerusalemme normalizzano i rapporti diplomatici, mentre israeliani e sauditi si scambiano segnali di fumo. Londra post-Brexit, più eccentrica rispetto all’Europa, non può più assicurare la saldatura atlantica fra Washington ed europei. Unico P5 Ue, la Francia può utilizzare il seggio permanente per compensare sulla scena internazionale il rapporto europeo con Berlino. Il 20 gennaio s’insedierà la nuova amministrazione americana. La Germania non sarà nel Consiglio di Sicurezza. L’Italia, Paese Ue e Nato, può diventare pedina chiave negli equilibri europei e occidentali. Può. Per essere all’altezza dovrà far tesoro della lezione di giovedì. Pensavamo di avere i voti. Su 128 necessari, ne sono mancati 15 alla prima tornata (solo 3 all’Aia); più di 30 nelle successive. Più che errore di calcolo è ottimismo fuorviante nell’interpretare i riscontri che riceviamo. Ci rassicuriamo da soli; trascuriamo, specie all’Ue, la costruzione di alleanze. Per vincere all’Onu, come insegnava Paolo Fulci, bisogna prendere i voti in Africa, Asia, America Latina. Svezia e Olanda, di fama troppo rigoriste, ne hanno ricevuti più di noi: forse la loro coerenza paga più della nostra innata duttilità. Abbiamo chiuso ambasciate e rubinetti della cooperazione. Per circostanze indipendenti dalla nostra volontà si sono aperti contenziosi bilaterali seri con tre Paesi leader: Brasile, India ed Egitto. Avremo ragione da vendere su tutti e tre, ma non abbiamo saputo isolarli dai rapporti complessivi. Alleati e partner si domandano spesso quanto sia convinto il nostro impegno. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, l’Italia ha offerto alla Francia solidarietà verbale, non aiuti militari per alleggerirla in Mali (glieli ha dati la Germania). Né abbiamo innalzato l’asticella contro Isis in Iraq e in Siria. La leadership che rivendichiamo in Libia è finora rimasta sulla carta. Il 2017 ci vedrà in Consiglio di Sicurezza e con la Presidenza G7. Ce ne possiamo servire per rilanciare Europa e Atlantico sotto attacco dall’interno. Restano i nostri assi cardinali ma richiedono una capacità nazionale di visione, strategia ed esecuzione. Una politica estera di piccolo cabotaggio non basta più. AVVENIRE

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Pag 1 Le visioni che mancano di Fulvio Scaglione Quel seggio per due al vertice dell’Onu Arrivare secondi pari merito in una corsa a tre in cui si era partiti favoriti non è certo un successo. Ed è quindi da questo punto di vista che bisogna partire per analizzare ciò che è successo all’Onu, dove i due seggi non permanenti al Consiglio di Sicurezza che toccavano all’Europa Occidentale sono stati assegnati uno alla Svezia (promossa alla prima votazione) e l’altro fifty-fifty a Italia e Olanda, che siederanno nel Consiglio un anno a testa. Stupisce che molti parlino di “conquista” del seggio quando alla vigilia del voto persino i giornali svedesi e olandesi davano per sicura la promozione dell’Italia. Ma tant’è. È da apprezzare, semmai, la lucidità con cui il nostro ministro degli Esteri Gentiloni, visto lo stallo (alla quinta votazione si era ancora in parità, 95 voti a testa rispetto ai 128 necessari), ha saputo concepire e proporre al collega olandese la soluzione di compromesso. Ci sarà tempo per analizzare questa battuta di (quasi) arresto. Vien da pensare che una certa libertà di pensiero – sulle politiche per la gestione dei flussi migratori, per esempio, sulla crisi in Libia o sul confronto con la Russia in Europa – ci abbia fatto perdere qualche appoggio importante e qualche voto rispetto a un Paese in ambito Nato molto allineato e coperto come l’Olanda. Ma ora poco importa. Se l’Italia non esce vincitrice dalla vicenda, altri ne escono decisamente sconfitti. La prima ad aver perso l’ennesima occasione per darsi una fisionomia e una dignità politica globale è l’Unione Europea. Per lungo tempo l’atteggiamento europeo verso le Nazioni Unite è stato lacerato dall’ambizione della Germania di ottenere per sé un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, mentre gli Usa patrocinavano la causa dell’amico Giappone. L’Italia è stata, invece, uno dei Paesi più sensibili all’idea di un seggio permanente assegnato all’Unione Europea, che è assai più di una mera organizzazione regionale internazionale (come l’Unione Africana o l’Organizzazione degli Stati Americani) e comunque rappresenta l’8% della popolazione mondiale, il 20% degli scambi commerciali mondiali e un Pil ormai superiore a quello degli Usa. Idea di rappresentanza collettiva che ha sempre trovato un ostacolo nell’ampia quota europea (Francia e Gran Bretagna) tra i membri del Consiglio, ma che avrebbe avuto enorme valore almeno simbolico in questo voto arrivato subito dopo la Brexit. L’Europa non solo non ha nemmeno provato a darsi un progetto comune, un coordinamento di fronte all’Onu, ma ha addirittura mandato tre suoi Paesi, dei quali Italia e Olanda sono pure fondatori della Comunità europea, a scontrarsi come se fossero rivali e privi di un presente e di un futuro comuni. Difficile lamentarsi dei populismi rampanti se si manca così clamorosamente di iniziativa e visione. Ma ancor più sconfitte dell’Unione Europea escono da questo voto le stesse Nazioni Unite. E per capire perché basta guardarsi intorno. Il maggiore bacino di crisi, oggi, è il Mediterraneo. Il Medio Oriente è in fiamme e gli incendiari fanno ogni sforzo per trascinare con sé anche Paesi più solidi come Turchia e Libano. L’Africa del Nord ribolle ed è diventata, oltre che palestra per i terroristi, anche trampolino di lancio per le migrazioni. L’Adriatico è ormai anche il mare di nazioni come Bosnia e Kosovo che cercano di resistere alle infiltrazioni dell’islamismo. Più in generale, il Mediterraneo – che è appunto mare tra le terre – collega Asia, Africa ed Europa e in qualche modo li lega a problemi che, se non sono comuni, fanno poca fatica a travasarsi dall’un continente all’altro. Di fronte a tutto questo, l’Italia era il candidato perfetto a quel seggio nel Consiglio di Sicurezza. Siamo coinvolti in prima persona, abbiamo affrontato da soli questioni enormi, abbiamo idee da proporre. Col massimo rispetto per tutti, che c’entra l’Olanda con tali questioni? Che cos’ha da proporre? Che cos’ha proposto finora? Che ci sia stato un blocco sulla scelta dimostra che anche all’Onu vanno di moda le manovre di palazzo. Questo lo si sapeva già. Ma segnala pure che all’Onu si sono ormai persi di vista i problemi veri, quelli che tormentano i popoli e segnano i loro destini. E non c’è sconfitta peggiore di questa. Pag 3 La nuova rotta di Ankara tra tattica e vera svolta di Riccardo Redaelli Perché il paese è sempre più nel mirino dei terroristi. Dall’aiuto agli jihadisti alla “pace” con Russia e Israele Nelle prime analisi sul nuovo, terribile attentato all’aeroporto di Istanbul prevale la tesi della vendetta di Daesh contro la Turchia, colpevole di aver lungamente flirtato con i

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terroristi jihadisti, dapprima aiutandoli logisticamente (e molto di più) perché ritenuti utili pedine nello scacchiere mediorientale per poi mutare politica, contrastandoli. Insomma, per citare il celebre adagio, “chi semina vento, raccoglie tempesta”. Si tratta di analisi ineccepibili: alle smentite di Ankara che ha sempre negato di aver offerto una sponda importantissima al fanatismo violento sunnita non ha mai creduto nessuno. E pur tuttavia, non bisogna mai stancarsi di sottolineare come vi sia una amara differenza fra chi il vento lo ha seminato, ossia il presidente Erdogan (ben protetto nel suo sontuoso palazzo da satrapo orientale), e chi raccoglie tempesta, ossia la gente comune. Non solo con centinaia di uccisi e feriti nell’impressionante catena di attentati di questi ultimi mesi, ma anche con migliaia di persone che stanno per perdere il lavoro quale primo effetto del crollo degli arrivi di turisti. Una conseguenza meno appariscente rispetto al computo delle vittime ma altrettanto immediata è infatti, quella che va a colpire un settore vitale per l’economia del Paese come il turismo. Da questo punto, la Turchia aveva beneficiato delle turbolenze scatenatesi con le primavere arabe cinque anni fa – che avevano quasi arrestato il flusso di turisti verso Egitto, il Levante e la Tunisia – ma ora sta a sua volta pagando pesantemente il clima di insicurezza. Insomma, non basta il sottolineare le responsabilità dell’establishment politico turco; dobbiamo sforzarci di comprendere il perché di questo cambio di rotta e quanto esso sia strutturale e non meramente tattico. Come ormai acclarato, Erdogan e il suo “gran consigliere” di geostrategia, l’ex primo ministro Davutoglu, avevano puntato a inserirsi nel vuoto geopolitico regionale scatenato dal minor interventismo statunitense delle presidenze Obama e dai cambiamenti provocati dalle primavere arabe. L’ambizione era di fare della Turchia – e del suo partito islamista al governo – un punto di riferimento per il Medio Oriente, aumentandone il peso regionale. Pilastri di questa strategia erano l’appoggio al movimento dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo arabo e l’abbattimento del regime alawita di Assad in Siria. I miliziani jihadisti (delle diverse correnti, salafiti-jihadisti, qaedisti, fedeli a Daesh…) erano un utile strumento: per anni la Turchia ne ha permesso e gestito il passaggio, offrendo anche un prezioso sostegno logistico e militare. Istanbul era un centro nevralgico di questo network: all’aeroporto e al porto della città agivano – indisturbati da parte delle forze di sicurezza turche – affiliati di Daesh che ricevevano e accompagnavano sui campi di battaglia i volontari del jihad. Conseguenza di questa benevolenza erano i ricchi guadagni che derivavano dai traffici di contrabbando – soprattutto di petrolio – avviati con il califfato jihadista (e nei quali, secondo alcune ricostruzioni, è implicata la stessa famiglia del presidente). La strategia si è tuttavia rivelata fallimentare: Assad è ancora al potere, la Fratellanza musulmana è indebolita ovunque, l’arroganza e l’unilateralismo delle scelte internazionali di Erdogan hanno minato la fiducia dell’Occidente e ancor più della Nato verso la Turchia, si sono moltiplicate le incomprensioni e le inimicizie con gli altri attori regionali. Freddissimi a lungo i rapporti con Egitto e Arabia Saudita, problematici quelli con l’Iran e l’Iraq, quasi al punto di rottura quelli con la Russia, dopo l’abbattimento di un jet russo ad opera delle forze militari turche. Lo scorso anno, così, Erdogan ha iniziato a sganciarsi dalla propria strategia: sono state concesse basi aeree in territorio turco alla coalizione anti-Daesh, le forze di sicurezza sono uscite dal loro torpore e hanno iniziato a colpire la filiera logistica jihadista nel Paese. Proprio in questi giorni – con una mossa che sarà costata molto a un uomo dall’ego così smisurato – il presidente turco ha scritto a Putin, offrendo le proprie scuse per la morte del pilota russo. Premessa necessaria per riavviare le relazioni politiche ed economiche, visto che Mosca aveva per rappresaglia bloccato gli scambi commerciali e imposto visti agli operatori economici turchi. Un tentativo di normalizzazione verso nord attuato in contemporanea al ripristino delle relazioni diplomatiche fra Turchia e Israele, interrotte da anni dopo lo sciagurato attacco israeliano contro la “flottiglia della pace” che portava aiuti a Gaza assediata nel 2010 e che aveva provocato la morte di alcuni attivisti turchi. Base dell’accordo con Israele sono la riduzione della libertà d’azione e del sostegno che Ankara offre ad Hamas e importanti progetti energetici, oltre a una evidente convergenza anti-iraniana e anti-Hezbollah, ossia gli attori – assieme ai russi – che si battono con più forza per sostenere il regime di Damasco. Non si tratta certo di una rivoluzione copernicana della visione geopolitica regionale turca, ma di sicuro un evidente mutamento di indirizzo. Il problema quanto questo sia tattico, ossia solo figlio delle sconfitte subite nella regione o della impossibilità di resistere alle pressioni internazionali, e quanto strutturale. Erdogan ha davvero capito

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che l’usare l’estremismo islamico come pedina si rivela sempre disastrosamente autolesionista (come potrebbero testimoniare i sauditi, grandi fautori del salafismo, o i pakistani che hanno creato i Taliban?). Ha compreso che le sue ambizioni erano sproporzionate all’effettivo ruolo che la Turchia può giocare nella regione? L’avventurismo e le pulsione anti-democratiche di Erdogan l’hanno screditato dentro e fuori il paese. Ma il suo controllo sul sistema Turchia è ancora molto forte. Anzi, l’emergenza sicurezza – che egli cavalca in modo spregiudicato in funzione anti-curda può paradossalmente offrirgli dei vantaggi politici interni. Al momento, il riposizionamento in politica estera sembra più frutto della necessità contingente, che altro. Lo dimostra anche l’attivismo turco nella battaglia attorno ad Aleppo – forse la battaglia decisiva di questo lungo conflitto siriano – ove migliaia di miliziani di Jabhat al-Nusra (che non è Daesh, ma è pur sempre una formazione ispirata da al-Qaeda) sembrano ricevere rifornimenti dalle frontiere turche. La solidarietà per i continui colpi inferti da terroristi, che per anni hanno potuto operare impunemente nel Paese, non deve fare velo sugli errori e sulle ambiguità del governo di Ankara. Ma neppure impedirci di vedere alcuni cambiamenti di rotta. Pronti a guardare con minore sfiducia alle prossime mosse del sultano, se egli inizierà a non smentire le proprie parole con fatti che vanno nella direzione opposta. IL GAZZETTINO Pag 1 Turchia decisiva nella lotta al terrorismo di Alessandro Orsini La data decisiva per comprendere l’odio dello Stato islamico contro la Turchia è il 23 luglio 2015, quando Erdogan consentì agli aerei americani di decollare dalle basi turche per bombardare le postazioni dell’Isis. Il danno fu ingente. Gli aerei americani, anziché partire dalle basi del Golfo Persico, si avvicinavano, fatalmente, ai domini dell’Isis, che confinano con la Turchia. Grazie al risparmio di carburante, e grazie a manovre più rapide e agevoli, i piloti Usa aumentavano la propria efficacia e uccidevano un numero sempre più grande di militanti jihadisti. L’Isis avrebbe voluto colpire New York o Washington, ma, non avendo i mezzi per farlo, scaricava la sua rabbia contro le città turche, innescando un’escalation. L’Isis colpiva la Turchia, che colpiva l’Isis, in una spirale che giunge fino agli attentati più recenti. La Turchia è uno dei Paesi che ha maggiormente danneggiato l’Isis, ma il suo impegno non è riconosciuto, per due ragioni. La prima ragione ha a che vedere con la propaganda di Putin, il quale ha descritto la Turchia come un Paese che favorisce gli interessi dell’Isis, condizionando, negativamente, l’opinione pubblica mondiale. Putin ed Erdogan lottano tra loro per il predominio in Siria. Putin sostiene il presidente della Siria, Bassar al Assad, che Erdogan cerca di scalzare. Il 24 novembre 2015, un missile turco ha addirittura abbattuto un aereo russo che aveva sconfinato nel suo spazio aereo. La Turchia è inoltre un membro della Nato. Come tale, rappresenta un pericolo potenziale permanente per la Russia. Anche se le relazioni tra Putin ed Erdogan hanno subìto una distensione negli ultimi giorni, gli effetti nocivi della propaganda russa restano vivi nella mente delle persone e alimentano il pregiudizio anti-turco. La seconda ragione per cui tanti osservatori continuano ad affermare che la Turchia è alleata dell’Isis dipende dal fatto che, per un periodo di tempo limitato, la Turchia non ha contrastato l’Isis, nel timore di liberare i curdi da un nemico. In sintesi, per chiarire una volta per tutte il ruolo della Turchia nella lotta contro l’Isis, occorre distinguere due fasi. La prima fase, che va dalla proclamazione dello Stato islamico, il 29 giugno 2014, fino al 23 luglio 2015, quando Erdogan concede l’uso delle basi agli americani, è caratterizzata dalla non-lotta della Turchia contro l’Isis. La seconda fase, che va dal 23 luglio 2015 e arriva fino a oggi, è caratterizzata dalla lotta della Turchia contro l’Isis, come dimostra il fatto che la Turchia è stata colpita dall’Isis più di qualunque altro Stato, fatta eccezione per Siria e Iraq. La logica delle organizzazioni jihadiste è stringente e si riassume in una formula: «Colpiamo chi ci colpisce». Né i capi dell’Isis, né quelli di Al Qaeda, colpirebbero un Paese amico. I terroristi non uccidono mai a caso. Se la Turchia è stata colpita dall’Isis è perché la Turchia ha colpito l’Isis. Questa affermazione, che ha un margine di errore pari a zero, ci consente di entrare nell’universo mentale degli jihadisti, rendendo comprensibili i loro attentati. Chiarito che la Turchia combatte contro l’Isis, chiediamoci come mai abbia deciso di lanciarsi nella lotta dopo essere rimasta a guardare per alcuni mesi. La ragione

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è che la Turchia teme gli Stati Uniti più dei curdi e, ovviamente, più dell’Isis. Gli americani hanno una linea di politica estera molto semplice da riassumere: «Chi non ci aiuta nella lotta contro il terrorismo islamico è un nostro nemico o lo diventerà». L’amministrazione Obama, dopo avere invitato la Turchia a intervenire contro l’Isis senza ottenere risultati, ha organizzato una serie di incontri con Erdogan, al quale ha spiegato che non avrebbe tollerato ulteriori perdite di tempo. Il tutto con la “forza cortese”, tipica del linguaggio diplomatico, che non ammette repliche. Siccome nessun Paese del mondo può permettersi, con atti o omissioni, di mettere in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Erdogan ha rotto gli indugi. Quando la politica internazionale diventa questione di vita o di morte, si mostra per ciò che realmente è: una giungla, in cui comanda il più forte. Pag 1 Staffetta all’Onu, il seggio a metà penalizza l’Italia di Marco Gervasoni Se c’è una struttura internazionale che, ancor più della Ue, richiederebbe un ammodernamento, a fronte dei numerosi fallimenti, questa è l’Onu. E in particolare il Consiglio di Sicurezza, frutto dei rapporti di forza della guerra fredda, con i membri permanenti costituiti dagli Stati vincitori del secondo conflitto mondiale, più la Cina, entrata successivamente. Non a caso per molto tempo il Consiglio ha svolto uno scarso ruolo decisionale, mentre qualche peso in più lo ha ricoperto dopo il 1989, benché pochi conflitti degli ultimi decenni abbiano ottenuto il via libera dell’Onu. E infatti nel 2004 il segretario Kofi Annan avviò una riforma per allargare i membri permanenti, a cui si candidò anche la Germania, del resto seconda finanziatrice Onu dopo gli Usa. Ma, a dimostrazione del carattere pachidermico della struttura, dopo 12 anni ancora si sta discutendo. Anche se il ruolo del Consiglio non va sopravvalutato, farne parte è per ogni Stato una risorsa importante, tanto che la competizione per aggiudicarsi i seggi non permanenti, assegnati a rotazione, è sempre molto accesa. Una partita in questi giorni giocata anche da noi, e il caso ha voluto che si svolgesse pochi giorni dopo il referendum sulla Brexit. Se l’uscita del Regno Unito dalla Ue fornisce infatti al nostro Paese un ruolo di primo piano nel consesso europeo, che dobbiamo far fruttare al meglio, meno chiaro è capire se abbiamo ottenuto un successo sul fronte mondiale. Fra i tre contendenti per due seggi aggiuntivi - Svezia, Olanda e Italia - dopo anni di lavoro diplomatico eravamo dati per favoriti. Ma abbiamo raccolto meno voti di Stoccolma e per evitare una contesa defatigante, Roma e l’Aja hanno optato per una staffetta, il primo anno il seggio andrà all’Italia e dal 2018 all’Olanda. Una decisione sensata, tanto più che non sarebbe stata comprensibile una guerra all’ultima scheda tra due Paesi appartenenti al nucleo duro dell’Europa, proprio nel momento in cui si discute di una maggiore integrazione e addirittura di una difesa comune. Eppure, rispetto alle attese della vigilia, non ci si può nascondere un sentimento di delusione. Nonostante lo sforzo importante svolto dall’Italia nell’assistenza ai profughi, più volte elogiato dall’Onu, questo non è bastato. Né è servita l’argomentazione ragionevole per cui gli altri due contendenti, Svezia e Olanda, appartengono a una stessa unità geografico-economica, quella del Nord Europa, mentre l’Italia avrebbe rappresentato l’area mediterranea. E se Roma ha raccolto i voti soprattutto degli Stati africani e arabi, l’Olanda ha fatto valere la sua antica identità coloniale, aggiungendovi quelli asiatici. Durante la guerra fredda l’Italia seppe ritagliarsi un ruolo importante all’interno degli equilibri mondiali, confermato negli anni Sessanta e poi all’inizio degli anni Novanta, quando due esponenti di prestigio come Amintore Fanfani e Bettino Craxi furono nominati ad altissimi incarichi dell’Onu. Oggi il mondo è completamente cambiato, e anche grandi players faticano a trovare un ruolo in situazioni sempre più ingovernabili. E non sarebbe generoso affermare che nella Seconda Repubblica l’Italia non abbia svolto politica estera. È però mancata continuità, spesso l’alternanza dei governi ha prodotto interruzioni di strategia o mutamenti di rotta non utili all’immagine e soprattutto alla forza del nostro Paese. In quest’anno in cui l’Italia siederà al Consiglio di sicurezza e poi, dal 2017, quando guiderà anche la presidenza del G7, bisognerà fare di tutto per dimostrare che abbiamo buone idee per il governo del mondo. LA NUOVA Pag 1 L’ambiguità del Sultano col Califfo di Renzo Guolo

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L’attentato all’aeroporto di Istanbul sembrerebbe essere opera dell’Is. Certo, la Turchia è nel mirino anche di alcuni gruppi curdi, ai quali il governo di Ankara ha dichiarato guerra aperta. Ma le modalità operative, l’attacco con un commando destinato a farsi esplodere dopo aver seminato la morte con il kalashnikov, ricorda quello dei gruppi jihadisti. A Parigi e Bruxelles come altrove. Anche perché la strage avviene durante il Ramadan, il mese della pratica religiosa del digiuno che, i radicali islamisti, interpretano come purificazione rituale contro chi, ai loro occhi, impersona il Male. Ad assumere il volto del Male è qui il governo di Erdogan che, nel corso del tempo, è passato da una politica di oggettiva convergenza di interessi con l’Is - la lotta contro il regime di Assad, la frontiera aperta per i foreign fighters che si recavano a combattere in Siria e al contrabbando di petrolio con cui il Califfato si finanziava - a un mutamento di linea che ha mandato in rotta di collisione il “sultano” Erdogan e il “califfo” Al Baghdadi. Un’ambiguità che si è cominciata a incrinare dopo la forte pressione americana sull’alleato turco, pur sempre membro della Nato, che ha “monetizzato” la rinuncia a quella politica di accomodamento nei confronti dell’Is in cambio della mano libera contro i curdi: il loro protagonismo evoca alla Turchia, qualunque sia il suo governo, il fantasma del Grande Kurdistan transfrontaliero, che ne spezzerebbe l’unità territoriale. E dopo la mossa russa: l’intervento di Mosca a fianco dell’Iran e dell’Hezbollah libanese a sostegno di Assad ha mutato i rapporti di forza sul terreno. Ankara non può permettersi, se vuole contate in Medioriente, di essere tenuta fuori dai sistemi di alleanza che determineranno le aree d’influenza nella regione. Così l’esercito turco ha ripreso il controllo della frontiera e ha diminuito la sua pressione nei confronti dello Ypg, il gruppo curdo siriano che ha vinto la battaglia di Kobane e ora guida la marcia verso Raqqa, la capitale del Califfato nel Levante. La revisione della politica turca si è arricchita negli ultimi giorni con la ripresa delle storiche relazioni con Israele, interrotte da sei anni, dopo lo scontro sulla flottiglia turca che portava aiuti a Hamas a Gaza , e con le formali scuse a Mosca, a lungo richieste e sempre negate, per l’abbattimento del caccia russo accusato di aver violato lo spazio aereo turco lo scorso novembre. Così le “convergenze interessate” sembrano appartenere al passato o hanno minore rilevanza strategica. E l’Is colpisce con forza, e ripetutamente, il governo di Ankara, oltretutto espressione di un gruppo, come l’Akp, che gli islamisti radicali, sempre molto duri con le formazioni di filiera Fratelli musulmani che si misurano con i processi elettorali e non provano a fondare uno stato islamico, considerano «apostata». Anatema ribadito da uno degli ultimi numeri della rivista del gruppo, “Dabiq”. Non a caso gli jihadisti, dal luglio dello scorso anno, hanno colpito più volte il Paese: a Suruc, a Ankara, in più occasioni nella stessa Istanbul. Per l’Is colpire “Costantinopoli” ha un valore politico e simbolico particolare. Genera insicurezza collettiva in una città che è ponte con l’Occidente, mette in crisi il turismo già frenato da precedenti attentati. Galvanizza uno schieramento provato dai colpi militari subiti in Siria, Iraq e Libia. Mostra ai militanti e simpatizzanti jihadisti quale sia la strategia futura: il ritorno alle forme di guerra asimmetrica riconducibili alle operazioni di martirio classiche anziché la costruzione e la difesa di una realtà statuale che ormai rischia di ritrovarsi senza territorio. Si tratta di un tentativo di rispondere, nel secondo anniversario della rifondazione del Califfato, alle evidenti difficoltà in cui versa l’organizzazione. Una campagna prevedibilmente destinata a intensificarsi. Magari reclutando tra i gruppi islamisti turchi che si radicalizzano e sono sempre più ostili alla politica del “traditore” Erdogan e tra le immense e disperate fila dei profughi siriani accampati oltreconfine. Il fatto che l’attentato non sia stato ancora rivendicato, come quelli effettuati in precedenza del resto, potrebbe avere a che fare con la necessità dell’Is di non andare a una guerra aperta con la Turchia in un momento così difficile. Contando che l’avvertimento sia stato compreso e gli spazi per una “nuova ambiguità” si riaprano. Pag 4 Onu, buon pareggio per l’Italia di Andrea Sarubbi Ci sono pareggi che valgono una vittoria, quelli in rimonta ancora di più. Ma al di là del risultato, certe volte conta anche il gioco. E l’Italia all’Onu si è giocata bene le sue carte, uscendo in maniera nobile da una situazione complicata e prendendo un piccione e mezzo con una fava: il mezzo piccione è l’anno (potevano essere due, ma anche zero) in

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cui il nostro Paese siederà nel Consiglio di sicurezza tra i membri non permanenti, dal primo gennaio al 31 dicembre 2017, per lasciare poi il posto all’Olanda; il piccione intero è il messaggio che noi e i Paesi Bassi, entrambi fondatori dell’Europa, siamo riusciti a dare all’Unione e al mondo intero, a sessant’anni da quei trattati di Roma che firmammo insieme quando il resto del continente ci prendeva per sognatori. Martedì era il giorno atteso da tre anni: dalla Svezia, dall’Olanda e da noi, che ci giocavamo con loro due poltrone al tavolo dei Grandi per il biennio 2017-2018. Razionalmente eravamo noi i favoriti: non solo per il grande contributo che diamo all’Onu in termini economici e di peacekeeping, ma anche perché alcune fra le principali crisi mondiali (Libia, Siria, migranti nel Mediterraneo) si giocano sulle nostre coste o in quelle di fronte. Ma nelle trattative diplomatiche - spesso guidate da interessi particolari, soprattutto per i Paesi che hanno bisogno di ricevere finanziamenti nella cooperazione o sostegno politico - la ragione conta fino a un certo punto, e così il primo seggio è andato alla Svezia. Per un pelo l’Olanda non ce l’ha fatta ed è stata costretta al ballottaggio con noi, che eravamo una dozzina di voti dietro. Lì comincia una partita nuova, come nei supplementari del basket. Nei primi tre nessuno raggiunge il quorum, ma c’è una costante: loro sempre avanti, noi in rimonta (99-92, 96-94, 96-95); nel quarto arriva finalmente il pareggio (95-95) e si paventa lo spauracchio latinoamericano: nel 1979 Colombia e Cuba vanno avanti per 155 ballottaggi, finché non si ritirano e viene eletto il Messico; nel 2006 Guatemala e Venezuela resistono per 48 votazioni, e pure quella volta arriva un Paese terzo (Panama) a godere fra i due litiganti. Già dal quarto ballottaggio - mentre su Twitter gli olandesi cominciano a citare Johan Cruijff, con la sua frase sugli italiani che «magari non vincono, ma non li batti mai» - appare all’orizzonte l’ipotesi di un candidato last minute pronto a infilarsi tra Roma e Amsterdam: appena spunta nei corridoi del Palazzo di vetro il nome della Germania, però, la diplomazia italiana e quella olandese sono già al lavoro per uscire dallo stallo. E la soluzione, appunto, è la più pratica: un anno per uno, come del resto accadde per cinque volte tra metà anni Cinquanta e metà Sessanta e come potrebbe tornare di moda, soprattutto in ambito Ue, anche ora. Il bicchiere mezzo vuoto dice che non portiamo a casa un biennio intero: soggettivamente ce lo saremmo meritato per quanto fatto, oggettivamente sarebbe stata una soluzione migliore rispetto a due Paesi nordici. Il bicchiere mezzo pieno racconta invece che siederemo nel Consiglio di sicurezza, mentre l’ultima volta che ci trovammo in una soluzione così competitiva (il ballottaggio con la Norvegia, nel 2000) restammo fuori dalla porta. E non sarà un anno qualunque, perché il 2017 - ottenuto da Paolo Gentiloni nella trattativa con il collega olandese Bert Koenders, che si è preso il 2018 - sarà anche quello in cui l’Italia presiederà il G7, in programma a Taormina a fine maggio. Per dodici mesi, insomma, saremo al centro della scena internazionale, e se sapremo giocarci le nostre carte potrà essere un momento fondamentale per noi e per lo stesso Mediterraneo. Ecco perché, nonostante avessimo fatto la bocca all’idea di battere l’Olanda, questo pareggio non può avere il sapore della sconfitta. Ne usciamo a testa alta, dimostrando di sapercela giocare e di saper trattare, e oltre tutto vendendocela anche bene: il claim di «due Paesi fondatori dell’Europa che in un momento così delicato per l’Ue danno prova di collaborazione, facendo un passo ciascuno per camminare insieme» è un bellissimo spot anche per i nostri compagni di avventura nell’Unione. Alla faccia di chi ha deciso di andarsene. Torna al sommario