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“LO SVILUPPO MOTORIO NEL BAMBINO (PRIMA PARTE)PROF.SSA BARBARA DE CANALE

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Università Telematica Pegaso Lo sviluppo motorio nel bambino (prima parte)

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 LA PSICOCINETICA DI JEAN LE BOULCH -------------------------------------------------------------------------- 3

2 UNITÀ MENTE-CORPO----------------------------------------------------------------------------------------------------- 5

3 ESPRESSIONE, COMUNICAZIONE, PRODUZIONE --------------------------------------------------------------- 8

4 STRUTTURA E SIGNIFICATO DELLE RISPOSTE MOTORIE ------------------------------------------------- 12

5 REAZIONE --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13

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Il testo di questa lezione, a partire dal paragrafo 2, è tratto da A. PERUCCA, B. DE CANALE,

L’educazione dell’infanzia e il futuro del mondo, Armando, Roma 2012; quanto riportato è estratto

dagli scritti di Angela Perucca. Al volume indicato si rimanda per ulteriori approfondimenti.

1 La psicocinetica di Jean Le Boulch

Jean Le Boulch, medico ed educatore fisico francese, negli anni Settanta, ha elaborato una

scienza del movimento umano, definita psicocinetica, attenta alla connessione tra gli aspetti

relazionali e funzionali. Egli ha delineato un approccio pedagogico che segue lo sviluppo

psicomotorio del bambino. Le Boulch sostiene che la tradizionale educazione al movimento

possiede una tendenza meccanicistica responsabile dell’acquisizione di schemi motori stereotipati e

rigidi; afferma che l’apprendimento delle prassie, ossia dell’insieme dei movimenti coordinati

intenzionali in vista di un risultato, deve avvenire invece per il tramite di un procedimento in grado

di conferire agli apprendimenti motori connotati di plasticità, di soggettività, di apertura.

All’interno del processo di insegnamento/apprendimento motorio e sportivo, egli distingue tre fasi

successive: esplorativo-globale, di dissociazione, di stabilizzazione.

Nella prima fase, compito dell’educatore è creare le condizioni per una libera esplorazione globale

che consenta al soggetto di entrare in contatto con il problema motorio da risolvere, affinché egli

possa, attraverso prove ed errori, trovare la risposta motoria alle domande sottese alla situazione

specifica. In questa fase, l’allievo è dunque messo in situazione, ed è sollecitato a costruire

l’apprendimento per associazione, selezione, organizzazione, facendo prova di flessibilità.

L’insegnante può osservare l’allievo nel mentre esplora e può individuarne risorse e limiti, per

gestire la progressione del suo insegnamento. La durata di questa prima fase, per la quale è

importante non affrettare i tempi, dipende da alcune variabili. Si potrà passare alla fase successiva

nel momento in cui l’allievo avvertirà naturalmente il bisogno di conoscere un modello efficace di

risposta; in quest’altra fase, detta di dissociazione, saranno proposti dall’esterno schemi efficaci che

verranno interiorizzati e rappresentati mentalmente. Nell’ultima fase, ci sarà una ripetizione del

modello interiorizzato tesa a garantire la stabilizzazione degli automatismi.

Il metodo di Le Boulch si ispira alle teorie dello sviluppo di Jean Piaget, il quale ha messo in

evidenza come lo sviluppo sia il risultato del processo di interscambio tra il soggetto e l’ambiente,

durante il quale l’individuo passa attraverso situazioni di equilibrio e disequilibrio, che comportano

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fasi di assimilazione (i dati di realtà sono incorporati agli schemi mentali esistenti) e di

accomodamento (i dati di realtà comportano una destrutturazione e una successiva ristrutturazione

degli schemi mentali del soggetto) che si stabilizzano in categorie d’azione, detti schemi.

Le fasi di Le Boulch dell’insegnamento motorio ripropongono nella loro successione le tappe della

strutturazione dello schema corporeo: la fase esplorativa-globale, tappa del “corpo vissuto” (da 0 a

3 anni, il bambino ha una padronanza globale del suo corpo nell’insieme, procede per prove ed

errori, dissocia ancora male i suoi movimenti); la fase di dissociazione, tappa della “discriminazione

percettiva” (fino a 7 anni, il bambino è in grado di portare l’attenzione sulla totalità del corpo o su

singoli segmenti corporei); la fase di stabilizzazione, tappa del “corpo rappresentato”, in cui si ha

piena presa di coscienza della propria motricità. Queste tappe corrispondono agli stadi indicati da J.

Piaget: sensomotorio, preoperatorio, delle operazioni concrete.

Questa teoria e metodologia, definita “dell’apprendimento intelligente” ed elaborata non soltanto da

Le Boulch, ma anche da Pierre Vayer, non propone perciò di spiegare e di mostrare la tecnica,

promuovendone l’acquisizione da parte del ragazzo fino ad un’adesione perfetta al modello, ma

propone un apprendimento intelligente che non parta dalla tecnica, ma che si proponga di scoprirla.

Si giunge al gesto sportivo lavorando:

- Sull’organizzazione ritmica sottesa al controllo dell’oggetto e del proprio movimento in

rapporto alle finalità;

- Sulla consapevolezza dell’alternanza di contrazione e decontrazione, da intendersi non

soltanto come fenomeni muscolari;

- Sul ruolo della respirazione da intendersi quale riflesso fisico della vita emotiva;

- Sulle conseguenze dell’allargare o restringere il campo visivo nella percezione;

- Sui livelli volontari e involontari attraverso cui si manifesta ogni forma di coordinazione;

- Sul ruolo della spontaneità del movimento in rapporto all’equilibrio.

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2 Unità mente-corpo

Anche in rapporto ai problemi dello sviluppo motorio, che coinvolge evidentemente sia

funzioni fisiche che funzioni mentali, occorre assumere un approccio integralmente umano e non

unilaterale; giova pertanto affrontare il tema della educazione al movimento ed attraverso il

movimento in una prospettiva che non sia riduttivamente biologico-funzionale.

Tutto il divenire personale è, in senso lato, azione e movimento e “la persona è un’attività vissuta

come autocreazione, comunicazione e adesione che si coglie e si conosce nel suo atto come

movimento di personalizzazione”; oltre ad offrirci questa definizione, E. Mounier ci avverte che

l’uomo è esistenza incarnata ed “è un corpo allo stesso titolo che è spirito”1.

Il personalismo risolve così il dualismo cartesiano di mente-corpo che aveva radicalizzato la

precedente distinzione platonico-cristiana fra corpo ed anima. Nel lungo dibattito che ha visto

primeggiare ora lo spirito a discapito del corpo ed ora l’aspetto corporeo e biologico rispetto a

quanto vi è nell’uomo di spirituale, il personalismo riafferma la integrale reciprocità, inscindibilità e

compenetrazione della dimensione corporea e della dimensione spirituale dell’uomo.

Pur nella sua corporeità, la persona non è, infatti, un oggetto, anche perché è l’unica realtà che

siamo capaci di vivere, di conoscere e di costruire dall’interno oltre che dall’esterno. Il corpo è il

referente del tempo e dello spazio di ogni nostra esperienza, ed attraverso le sue possibilità motorie

ci è dato di essere presenti al mondo, di esprimerci, di comunicare, di agire.

In questa sede intendiamo definire, in ordine allo sviluppo integrale del bambino e alla sua piena

educazione, il significato evolutivo dello sviluppo motorio e del movimento come area di

espressione, di comunicazione e di produzione. Sarà così possibile cogliere un iter evolutivo

evidenziabile anche attraverso la etimologia dei termini in questione. Il movimento infatti acquista

significato evolutivo come ex-pressione o forza vitale che spinge il soggetto verso il mondo e nel

mondo, come azione comune o attitudine allo scambio interpersonale e sociale, come pro-duzione o

capacità di costruire, di creare sempre nuove realtà a favore proprio ed altrui.

1 Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, A.V. E., Roma 1964, pp. 12 e 25.

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Da un punto di vista genetico, ipotizziamo perciò alcune conquiste evolutive e dei compiti di

sviluppo per la crescita motoria che coinvolgono gli aspetti relazionali e sociali del divenire

personale e che implicano, come vedremo, un integrato sviluppo affettivo, cognitivo e conativo

della persona.

Intendiamo inoltre evidenziare che l’educazione al movimento coinvolge insieme lo sviluppo

corporeo e lo sviluppo psichico, per farsi educazione della condotta e dell’agire. Ciò significa

ricondurre il movimento alla considerazione olistica delle funzioni personali del bambino,

nell’ottica cioè di una attività che non è soltanto fisica e che si qualifica come “espressione corporea

della vita psichica”, ossia vita interiore che si manifesta attraverso movimenti esteriori2.

Vogliamo sottolineare ancora che l’esigenza di considerare nella prospettiva dell’unità mente-corpo

i problemi dello sviluppo motorio e della educazione fisica non è nuova né soltanto presente

nell’area di chi muove da premesse di tipo personalistico; è universalmente noto, principalmente

dopo gli studi di J. Dewey, di J. Piaget, di J. S. Bruner, l’intrinseco rapporto che vi è tra sviluppo

motorio, attività operativa e sviluppo delle strutture mentali e delle attitudini sociali.

Persino nell’ambito delle ricerche e degli studi che privilegiano l’aspetto fisico dell’attività motoria

e puntano alla preparazione atletica, l’interdipendenza corpo-mente è messa in grande evidenza.

Essa viene riaffermata, inoltre, in tutto l’ambito degli studi sulla psicomotricità, con una enfasi

talvolta persino sospetta quando, sulla base della onnicomprensività del dinamismo psico-fisico, si

avanza la pretesa di far passare tutti gli apprendimenti attraverso l’esperienza psicomotoria. Che ciò

sia possibile e in alcuni casi persino necessario, soprattutto in presenza di certi disturbi, non

significa che sia sempre produttivo, utile ed efficace per l’educazione di tutti i bambini.

Occorre pertanto definire i confini pedagogici dell’attività psicomotoria e coglierne il valore

educativo nello sviluppo integrale della persona senza pretendere che tale valore possa essere

sempre rilevabile in termini di effetto sugli apprendimenti scolastici. Secondo alcuni Autori gli

apporti positivi della psicomotricità rispetto ai processi di apprendimento non sono tali da poter

fondare su di essi il discorso didattico. Questi Autori, perciò, pur considerando l’apprendimento

motorio essenziale e funzionale rispetto a certe mete formative, non ritengono che possa avere una

incidenza rilevante in ordine all’apprendimento scolastico cognitivo3.

2 Cfr. A. VALERIANI, Il linguaggio corporeo e la psicomotricità, l’espressione mimica e gestuale, l’animazione scenica,

in AA.VV., Il linguaggio e i linguaggi nel bambino, La Scuola, Brescia 1983, p. 165. 3 Cfr. T. M. GALLI, G. VICO, I confini pedagogici dell’educazione psicomotoria, in AA. VV., Psicomotricità e processi

educativi, Vita e Pensiero, Milano 1980, pp. 29 e ss.

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Educare al movimento probabilmente non è soltanto educare attraverso il movimento; più che

concentrarsi sugli esercizi psicomotori, può essere essenziale creare le condizioni per l’espressione

psicomotoria della persona, promuovere e curare i ritmi, le abitudini, le motivazioni, le situazioni, le

proposte e le occasioni operative che consentano al bambino di esprimere e verificare le proprie

energie, attitudini e capacità motorie. Si tratta di attivare processi che concorrano alla evoluzione

della identità oltre che percorsi tecnici per migliorare le prestazioni motorie; si tratta di condurre

alla piena umanizzazione il movimento che si esprime nella padronanza, significatività e nobiltà

umana del gesto più che nel culturismo fisico.

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3 Espressione, comunicazione, produzione

Se si affronta lo studio evolutivo del movimento seguendo l’iter epigenetico della attività

motoria e si distinguono, come è giusto fare, le forme strutturali dalle valenze funzionali, si giunge

a coglierne il significato sotto il profilo della espressione, della comunicazione e della produzione.

Il movimento umano è espressione, attraverso il corpo, della presenza al mondo dell’Io, è

comunicazione di un codice semantico nel gesto, è azione costruttiva, sul piano operativo e su

quello mentale, della persona che produce e crea nel lavoro e nell’arte. Se perciò si coglie nella sua

valenza totale, il movimento della persona trascende il movimento corporeo, anche se lo implica.

Per quanto riguarda le potenzialità espressive del movimento, importanti contributi vengono dalla

scuola francese con P. Vayer e J. Le Boulch i quali, rifacendosi allo strutturalismo fenomenologico

di J. Merleau Ponty4, hanno soprattutto evidenziato gli aspetti, le funzioni e le valenze espressive e

relazionali della corporeità e del movimento: il movimento esprime gli stati interiori, le emozioni, i

sentimenti, gli atteggiamenti verso l’altro, le identificazioni, oltre che le condizioni biofisiche del

bambino.

Espressione, tuttavia, non è ancora comunicazione, questa nasce nel bambino dalla relazione con

l’altro; non è soltanto manifestazione di bisogni, di stati, di emozioni del proprio Io, ma è ricerca di

un contatto-riconoscimento, di un incontro-scambio e infine di un’intesa con l’altro.

Se vogliamo cogliere le radici del movimento che si fa comunicazione, dobbiamo risalire alle

primissime esperienze della relazione madre-bambino.

4 Cfr. P. VAYER, Educazione psicomotoria nell’età scolastica, tr. it., Armando, Roma 1973; J. LE BOULCH, Verso una

scienza del movimento umano. Introduzione alla psicocinetica, tr. it., Armando, Roma 1975; M. MERLEAU PONTY, Il

bambino e gli altri, tr. it., Armando, Roma 1968.

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Alcuni contributi dell’area degli studi psicoanalitici possono avere in proposito particolare rilievo,

si pensi ai lavori di R. Spitz e di E. H. Erikson5.

Risalendo alle origini della comunicazione interpersonale, R. Spitz individua intorno al terzo mese,

nel volto umano, il primo segnale, e coglie la prima risposta nel sorriso, che da fatto cinestesico e

movimento involontario diventa atto intenzionale.

A questo punto il dialogo tattile fra madre e bambino si qualifica come dialogo visivo e il

movimento si fa atto comunicativo di risposta ad un segnale. È interessante notare, inoltre, che per

Spitz il “no”, espresso dapprima con lo scuotimento del capo, è la prima forma di astrazione cui il

bambino accede per comunicare: i gesti di diniego, infatti, “sono i primi simboli semantici formati

dal bambino” e “rappresentano il primo concetto astratto che si cristallizza nella vita mentale”6.

Così alcuni riflessi motori elementari, il sorriso e il rooting, acquistano valore di comunicazione

talmente rilevante da entrare nella vita psichica come organizzatori7.

Non meno rilevante, sempre in riferimento alle prime esperienze orali, è l’interpretazione che del

succhiare e del mordere fa E. H. Erikson. Egli giunge ad intendere questi primi modi funzionali ed

organici di movimento come base strutturale degli atteggiamenti di tipo incorporativo o aggressivo

che segnano le prime modalità sociali che il bambino impara nella vita. Così, ancora una volta, vien

messo in evidenza che da funzioni motorie elementari possono sorgere strutture fondamentali del

rapporto Io-mondo e quindi della comunicazione e della relazione.

Se vogliamo poi cogliere l’importanza per lo sviluppo umano del movimento, sul piano del fare

operativo, del costruire, del produrre, possiamo riferirci ai contributi dello strutturalismo cognitivo

europeo ed americano.

J. Piaget ha ampiamente dimostrato che le prime strutture mentali si formano a partire dagli schemi

motori e che l’intelligenza logica nasce dalla operatività concreta.

Al di là della divulgazione che questi concetti hanno avuto, è opportuno forse avvertire che il

passaggio da schemi sensomotori di azione a forme operative di pensiero non è così semplice e

automatico: se “dal punto di vista genetico, bisogna partire dalla attività del bambino per spiegare il

suo pensiero”, lo spostamento delle operazioni sul piano mentale e discorsivo-verbale comporta una

“presa di coscienza” e un “tirocinio” che fanno “riapparire le difficoltà da tempo dimenticate sul

5 Cfr. R. SPITZ, Il primo anno di vita del bambino, tr. it., Giunti-Barbera, Firenze 1967; E. H. ERIKSON, Infanzia e

società, tr. it., Armando, Roma 1966. 6 Ivi, pp. 76-77.

7 Ivi, capp. III e IX.

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piano dell’azione”. L’esperienza mentale non sarà, infatti, “la trasposizione pura e semplice delle

esperienze materiali più recenti e più evolute, ma supporrà tutto un nuovo tirocinio”. Se non ci si

ricorda di questo, avverte J. Piaget, si rischia di confondere l’attitudine operativa del pensiero

verbale con “l’attitudine a maneggiare una relazione negli atti”, e si può giungere a “trascurare il

verbale come se tutte le operazioni logiche non fossero, un giorno o l’altro, da imparare di nuovo

sul piano del pensiero discorsivo per servire effettivamente allo scambio sociale”. La operatività

mentale ha infatti, per J. Piaget, un connotato sociale che implica nuove forme adattive non

egocentriche8.

Gli studi di J. S. Bruner, che pure evidenziano le differenze dell’operare sul piano attivo,

rappresentativo e simbolico, ci aiutano a comprendere il nesso fra attività sensomotorie, sequenze di

azioni e sviluppo del pensiero. Per questo Autore, infatti, sin dai primi anni di vita, nei movimenti

di prensione e di manipolazione, si pongono le basi e i prerequisiti dello sviluppo di strutture

sintattico-linguistiche, quali, ad esempio, la predicazione9. E se il raggiungimento del controllo

motorio implica la specializzazione del movimento ed una riduzione dei suoi gradi di libertà, è pur

vero che “l’acquisizione del controllo di un’abilità può essere considerata come la prima

realizzazione o incorporazione di programmi che verranno usati attraverso la vita dell’individuo non

soltanto per padroneggiare compiti specializzati, ma anche per risolvere problemi di natura

solitamente non ritenuta connessa con la corporeità”; infatti, i sistemi di azione, che sorgono dalla

coordinazione intenzionale dei movimenti, sono “connessi alla soluzione di problemi spaziali,

temporali, relazionali e di identità”10

.

Nell’ottica che ci spinge a cercare dì comprendere il nesso fra attività motorie, sviluppo intellettivo

e produttività dell’uomo, ci sembra interessante anche il contributo che viene dalla scuola di Lipsia,

il cui maggiore esponente, K. Meinel, con palese impostazione ideologica, ma con ampia

discussione, documentata sul piano antropologico, psicologico e storico-sociale, sostiene che la

qualità umana del movimento, nei suoi valori di comunicazione e di produzione, nasce alle origini

della storia con il sorgere del lavoro e si perfeziona nella crescita personale dell’uomo con la

conquista delle abilità che lo rendono capace di prestazioni lavorative11

.

8 Cfr. J. PIAGET, Giudizio e ragionamento nel bambino, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1958, pp. 217 e ss.

9 Cfr. J. S. BRUNER, Prime fasi dello sviluppo cognitivo, tr. it., Armando, Roma 1971, pp. 98 e ss.

10 Cfr. J. S. BRUNER, Psicologia della conoscenza. Momenti evolutivi, tr. it., Armando, Roma 1976, II vol., p. 379.

11 Cfr. K. MEINEL E ALTRI, Teoria del movimento. Abbozzo di una teoria della motricità sportiva sotto l’aspetto

pedagogico, tr. it., Armando, Roma 1984.

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Possiamo pertanto sostenere che l’educazione al movimento richiede un’ampia e lungimirante cura

pedagogica ed una profonda comprensione dei processi di sviluppo.

Dal vitale bisogno di movimento, che caratterizza in forma pulsionale e incoordinata la vita del

bambino, alla piena padronanza delle qualità condizionali (forza, resistenza, velocità e flessibilità),

coordinative e mentali, che rendono possibile la produttività e la creatività operativa dell’adulto, v’è

un lungo cammino le cui tappe vanno:

dal fisico allo psichico e quindi dall’impulso al significato;

dallo psichico al sociale ossia dalla espressione alla comunicazione;

dal sociale al culturale ovvero dalla comunicazione alla produzione.

Questa prospettiva genetico-evolutiva consente di fornire validi criteri per l’educazione al

movimento. Infatti, ci sono compiti di sviluppo da sostenere e mete educative da conseguire, lungo

un iter che va dalla funzionalità motoria alla padronanza dell’azione e quindi alla consapevolezza e

alla finalizzazione della condotta.

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4 Struttura e significato delle risposte motorie

Attraverso il movimento del corpo, l’Io si fa presente al mondo in forme che mutano per

struttura e significato ai diversi livelli dello sviluppo. Geneticamente si possono individuare forme

di tipo reattivo, responsivo e di orientamento, legate allo sviluppo corporeo come alla maturazione

funzionale e alla evoluzione delle disposizioni motivazionali; esse possono essere lette sia lungo la

linea diacronica, che le vede emergere in forma prevalente o privilegiata nei diversi momenti della

crescita, sia in chiave sincronica come componenti di singoli eventi motori.

La reazione implica uno stimolo esterno capace di modificare uno stato o un vissuto interno e il

movimento reattivo ha i caratteri della immediatezza non sempre consapevole.

La risposta comporta la distinta percezione di sé e dell’altro in un contesto che motivi al dialogo

attraverso scambi espressivi o interazioni operative, il movimento responsivo ha i caratteri della

consapevolezza e della durata.

Il progetto richiede la maturata capacità di collocare l’azione in sequenze finalizzate aventi carattere

operativo e produttivo, ma anche un senso autorealizzativo, coinvolge, infatti, oltre che le funzioni

motorie e operative, anche le funzioni psichiche della finalizzazione, della intenzionalità e

dell’impegno in prospettiva futura.

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5 Reazione

Il primo livello della attività motoria ha struttura pulsionale emotiva e forma reattiva; sorge

sulla base di attività riflesse o propriocettive e, man mano che si sviluppano le capacità percettive e

si definisce l’ambiente circostante, evolve verso schemi motori orientati all’oggetto. Con il sorgere

delle immagini mentali e delle funzioni simboliche, il comportamento motorio acquista una

significatività che va oltre l’azione concreta e risente dello stato affettivo. In questa fase, il

movimento può essere letto fondamentalmente come reazione del soggetto al mondo circostante. La

reazione motoria è governata da basi emotive; ogni stimolo esterno ed ogni riflesso congenito che

provochino movimento inducono nell’organismo un mutamento di stato accompagnato da un

vissuto che conferisce significato all’esperienza motoria e talvolta la enfatizza.

Questo tipo di movimento, connotato sul versante interiore dalla emozione e su quello esterno dalla

reazione, ha caratteri peculiari: non implica riflessione e intenzionalità, coinvolge in maniera totale

l’organismo ed ha una evoluzione immediata con estinzione rapida. La presa di coscienza del suo

significato, la sua collocazione nella linea di continuità dell’Io, la sua integrazione nel vissuto

esperienziale è possibile a posteriori. Nel bambino, ad es., una reazione motoria di paura o di rabbia

precede la consapevolezza del sentimento e dell’azione.

Eventi motori di questo genere danno luogo a schemi esperienziali a prevalente contenuto emotivo-

affettivo, più che cognitivo-valutativo, e questi possono incidere in successione esperienze per

effetto evocativo, non interpretativo, e quindi con possibilità di significazione retrospettiva e non

prospettica.

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Queste attività motorie, come espressioni di stati interiori, possono assumere anche valore

comunicativo. Trattandosi di reazioni, esse “posseggono certamente elementi comunicativi”, ma “la

comunicazione è soltanto un sottoprodotto”12

esito della lettura e della comprensione dell’adulto,

più che della intenzione del bambino.

Nell’età infantile, le attività motorie di tipo emotivo-reattivo sono frequenti e il compito evolutivo

del bambino sembra essere quello di coniugare e coordinare sempre meglio gli aspetti bio-motori e

quelli psico-motori sì da condurre il movimento dal piano delle funzioni organiche a quello delle

funzioni psichiche, dall’impulso al significato e, in prospettiva relazionale, dal segnale al gesto

espressivo.

Man mano che egli cresce, il movimento non è più soltanto reazione emotiva o ricerca di oggetti

appaganti, ma si fa espressione del modo personale di sentire il mondo e recupera spazi non

condizionati dallo stimolo o dal bisogno.

Acquistano allora sempre maggior rilievo quelli che J. Le Boulch chiama “movimenti non

specifici”13

, prevalentemente rivolti alla espressione dei vissuti, all’attività ludica e alla ricerca

esplorativa su di sé, sugli oggetti, sugli altri.

Questa progressiva autonomia funzionale dal bisogno, consente al movimento di conquistare spazi

espressivi sempre più ampi, finalizzati alla comunicazione.

12

Cfr. S. ARIETI, Il Sé intrapsichico, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1969, p. 53. 13

Cfr. J. LE BOULCH, Verso una scienza del movimento umano. Introduzione alla psicocinetica, op. cit., pp. 68 e ss.

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