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“MORFOLOGIA FUNZIONALE DELLA CELLULA TETTONICA DELLE PLACCHEPROF. PASQUALE PADUANO

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““MMOORRFFOOLLOOGGIIAA FFUUNNZZIIOONNAALLEE

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 INTRODUZIONE -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 DERIVA DEI CONTINENTI ------------------------------------------------------------------------------------------------ 5

3 PROVE A SOSTEGNO DELLA TEORIA DELLA DERIVA DEI CONTINENTI ------------------------------ 7

4 FORZE MOTRICI E CONTESTAZIONI ALLA TEORIA DI WEGENER ------------------------------------- 11

5 NUOVI STUDI ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13

6 FONDALI OCEANICI ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 15

7 PALEOMAGNETISMO ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 20

8 TEORIA DELLA TETTONICA DELLE PLACCHE ----------------------------------------------------------------- 22

9 MARGINI DIVERGENTI --------------------------------------------------------------------------------------------------- 25

10 MARGINI CONVERGENTI ----------------------------------------------------------------------------------------------- 27

11 MARGINI TRASCORRENTI ---------------------------------------------------------------------------------------------- 30

BIBLIOGRAFIA* -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 32

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1 Introduzione

La teoria della tettonica delle placche, nata negli anni sessanta, interpreta secondo un

modello unitario tutti i grandi fenomeni geologici che interessano il nostro Pianeta, ovvero l’origine

e distribuzione dei vulcani, dei terremoti e delle catene montuose. In altre parole tale teoria permette

di spiegare la complessa dinamica della Terra (fig.1) che sta alla base di molteplici fenomeni

connessi con l’evoluzione della superficie terrestre e del pianeta in generale, quali attività sismica,

vulcanica, orogenesi, formazione di strutture come fosse oceaniche e archi insulari, variazioni del

chimismo delle rocce magmatiche.

Fig. 1 – Modello unitario della tettonica delle placche che spiega la dinamica terrestre.

Il tema dell’evoluzione del Pianeta ha da sempre suscitato aspri dibattiti, generando

differenti risposte ai principali quesiti in merito allo sviluppo della Terra. Nel corso dei secoli si

sono affermate principalmente due fondamentali e opposte teorie che raccoglievano trasversalmente

i consensi del mondo scientifico:

Teoria fissista: non ammetteva modificazioni di posizione delle terre o dei bacini

marini, ipotizzando una distribuzione dei continenti e dei mari da sempre analoga a

quella odierna. La formazione delle catene montuose andrebbe ricercata nel

raffreddamento della crosta primordiale

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Teoria mobilista: ammetteva l’esistenza di spinte tangenziali capaci di produrre uno

spostamento laterale di masse continentali, ma non riusciva a spiegare in maniera

univoca l’origine di tali spostamenti

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2 Deriva dei continenti

Una delle teorie mobiliste più note e conosciute si deve ad Alfred Wegener, meteorologo

tedesco, che la pubblicò nel 1912, dandole il nome di Deriva dei Continenti.

Wegener ipotizzò che le terre attualmente emerse costituissero, all'inizio dell'Era mesozoica

(circa 200 milioni di anni fa), un blocco unico che chiamò Pangea (fig.2), circondato da un unico

mare, vastissimo, che chiamò

Panthalassa.

In seguito a colossali fratture,

la Pangea si sarebbe spezzata in due

continenti: Laurasia e Gondwana, tra i

quali si formò un mare chiamato

Tetide.

I due continenti si spostarono

indipendentemente l’uno dall’altro

frantumandosi ulteriormente, fino a

raggiungere l’odierna distribuzione.

Nello stesso tempo si formarono l’Oceano Pacifico, Indiano e Atlantico (fig.3)

Fig. 2. La Pangea ipotizzata da Wegener.

(immagine da http://www.glosgeotrust.org.uk/huntleyteachers.shtml)

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Fig. 3. Frammentazione della Pangea da 200 milione di anni fa fino ad oggi.

(immagine da http://hawaii.hawaii.edu/math/Courses/Math100/Chapter1/Notes/Exercises/Demo135.htm)

Per poter dare una giustificazione al movimento dei continenti Wegener distinse la crosta

terrestre in due strati, in base alla costituzione chimica, aventi differenti comportamenti fisici. Lo

strato più esterno lo chiamò SIAL perchè costituito in prevalenza di silicio (Si) e alluminio (Al), e

lo immaginò galleggiante sullo strato sottostante, che definì SIMA, dall'abbreviazione di Si-licato di

Ma-gnesio, elementi predominanti in questo strato.

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3 Prove a sostegno della teoria della deriva dei continenti

Benché Wegener non fosse stato il primo a sostenere l’ipotesi che un tempo le terre emerse

costituissero un unico grande continente (vedi Approfondimento), egli fu il primo a presentare

numerose prove a favore di tale ipotesi, provenienti da campi di studio disparati; in particolare egli

addusse argomenti geologici, litologi, paleontolgici, paleoclimatici e geodetici.

Approfondimento

1596 Il cartografo olandese Abraham Ortelius nel suo lavoro Thesaurus Geographicus suggerisce per la

prima volta che i continenti possano non essere rimasti sempre nelle loro attuali posizioni. Egli

afferma che le Americhe siano state “allontanate dall’Europa e dall’Africa… da terremoti ed

inondazioni”.

1620 L’astronomo inglese Francis Bacon scrive della sorprendente coincidenza tra le linee di costa sulle

due sponde dell’Atlantico. Egli conclude che i continenti separati dall’Atlantico costituiscono un

puzzle di pezzi che un tempo erano uniti e per qualche motivo si sono staccati e separati.

1858 Lo studioso francese Antonio Snider-Pellegrini pubblica il volume La creation et ses mystéres

dévoilés che include una mappa in cui l’Africa e l’America sono unite. Egli suggerisce che Americhe

Africa ed Europa costituissero un tempo un unico continente, basandosi soprattutto sullo studio di

flore fossili.

1885 Il geologo austriaco Edward Suess fornisce ulteriori conferme all’ipotesi di Bacon basandosi

sull’esame dei fossili. Egli suggerisce che tutti i continenti dell’emisfero meridionale fossero un

tempo uniti, data la somiglianza tra i fossili in essi rinvenuti.

Wegener iniziò ad interessarsi alle ipotesi sulle somiglianze paleontologiche tra le due

sponde dell’Atlantico nel 1911. All’epoca la scienza ortodossa spiegava tali somiglianze con la

formazione di ponti effimeri tra i continenti. Egli, colpito dalla concomitanza delle evidenze

paleontologiche e della coincidenza tra le linee di costa, si formò l’idea della fondamentale

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correttezza dell’ipotesi che i continenti fossero un tempo uniti e si dedicò alla ricerca di ulteriori

prove.

Nel 1915 pubblicò l’opera fondamentale The origin of continents and oceans, ripubblicata

successivamente con espansioni nel 1920 e nel 1922. In quest’opera egli formula compiutamente la

teoria conosciuta in seguito con il nome di Deriva dei Continenti.

Sulla somiglianza delle linee di costa lui

fece un passo avanti. Di fatti Wegener non

considerò le linee di costa, ma il margine esterno

delle piattaforme continentali, riducendo in tal

modo le incongruenze e ottenendo un incastro più

preciso.

Nel 1965, Edward Bullard, geofisico

britannico, con l’ausilio di tecniche

computerizzate (fig.4), ottenne una corrispondenza

molto maggiore confermando l’esattezza

dell’intuizione di Wegener.

Correlazioni strutturali e litologiche

Nel far combaciare i bordi dei continenti,

Wegener notò una correlazione tra le successioni

stratigrafiche e anche tra le catene montuose, le

quali sembravano proseguire dal Sudamerica

all'Africa.

In particolare, la catena della Provincia del

Capo, in Sud Africa, trovava la sua prosecuzione

nelle catene della regione di Buenos Aires, in

Argentina, e in quelle dell'Antartide. La «serie del

Fig. 4. Accostamento dei margini delle piattaforme continentali

periatlantiche eseguito da Bullard et al. nel 1965.

Fig. 5. Similitudini geologiche ai margine continentali

(Crippa 2002)

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Karroo», in Sud Africa, una successione di rocce sedimentarie formatesi in ambiente continentale

oltre 200 milioni di anni fa, è praticamente uguale a quella che affiora nella regione di Santa

Caterina, in Brasile. Le antiche catene montuose della Norvegia, della Groenlandia, della Scozia,

assumevano uno sviluppo unitario se si accostavano le rispettive terre

Distribuzione delle specie fossili

Wegener giustificò la distribuzione delle specie fossili con il contatto che doveva esserci

stato in passato tra i continenti (fig.6).

I fossili di Mesosaurus , un rettile vissuto circa 270 milioni di anni fa, furono ritrovati

in Brasile e anche nell'Africa del Sud , ma un animale di acqua dolce non avrebbe

potuto attraversare l'oceano.

I fossili di Glossopteris, una felce di 300 milioni di anni fa, sono stati rinvenuti in

Sud America, Sud Africa India , Antartide e Australia . Una terra fredda come

l'Antartide non avrebbe mai potuto ospitare felci come Glossopteris se la sua

posizione e il clima fossero stati quelli attuali.

Fig. 6. Distribuzione dei fossili di Mesosaurus e Glossopteris

(immagine da http://www.minerva.unito.it/SIS/Modelli%20terresti/WegenerHolmes.html)

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Distribuzione delle rocce indicatrici del clima

Wegener, meteorologo e paleoclimatologo evidenziò che

rocce sedimentarie come i depositi di carbone , indicanti

condizioni umide, si trovano in zone attualmente fredde come il

Nord Europa, mentre strati di tilliti (depositi rocciosi di origine

glaciale), tra loro contemporanei (tra i 220 e i 300 milioni di

anni fa) erano presenti sia in Africa meridionale che in

Sudamerica,

India e Australia,

e sotto di essi si

trova roccia in

posto, striata e

solcata.

Le frecce in fig.7 indicano la direzione di movimento dei ghiacciai in base alle strie lasciate

sulle rocce sottostanti. Le direzioni delle strie si spiegano in maniera univoca con l’unificazione dei

continenti e con una calotta glaciale su un Polo Sud situato in corrispondenza dell’attuale Sud

Africa (fig.8)

Misurazioni geodetiche

Le misurazioni geodetiche hanno permesso di stabilire un movimento relativo fra Europa e

Groenlandia. Wegener stesso partecipò a due spedizioni in Groenlandia nel 1906-08, dimostrando

con strumenti empirici che l'isola si allontanava di 32 metri all'anno dall'Europa.

Successivamente si apprese che quei calcoli erano affetti da parecchi plateali errori,

aumentando in tal modo le fila dei detrattori della sua teoria

Fig. 7. Direzione di movimento dei ghiacciai sui diversi

continenti Fig. 8. Andamento unitario delle strie

lasciate dai ghiacciai unificando i

continenti

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4 Forze motrici e contestazioni alla teoria di wegener

Grazie al movimento dei continenti, Wegener propose una teoria orogenetica alternativa a

quella allora in voga della contrazione terrestre. Secondo Wegener l’attrito causato dallo scorrere

dei continenti sulla crosta oceanica provocava corrugamenti sul fronte avanzante dei continenti

(catene tipo Ande o Montagne Rocciose) e la collisione tra due continenti dava luogo a

corrugamenti più intensi (catene tipo Alpi e Himalaia).

Ma quali erano le forze motrici in grado di spostare interi continenti e di farli collidere

sollevando catene montuose talora maestose?

Wegener propose un meccanismo che potesse spiegare tali fenomeni, anche se lui stesso

rimase molto incerto sulla natura delle forze motrici in gioco; di fatti affermava nei suoi studi “Il

Newton della deriva non è ancora apparso. E’ probabile che la soluzione completa del problema

delle forze motrici sia ancora lontana..”

Wegener ipotizzava due distinte componenti capaci di spiegare il movimento dei continenti:

La forza di fuga dai poli: generata dalla forza centrifuga prodotta dalla rotazione

terrestre, spiega il movimento dei continenti verso l’equatore

La forza di “marea”: generata dall’attrazione della Luna, spiega i particolare la deriva

verso Ovest dei continenti americani

I fisici dell’epoca contestarono duramente le suddette ipotesi adducendo le seguenti

motivazioni:

La forza di fuga dai poli, riscontrata dall'analisi dei dati, sarebbe stata estremamente

debole e, inoltre, non c'erano prove che il fondo oceanico potesse esser così plastico

da permettere lo scorrimento dei continenti.

La forza di marea esercitata dalla luna avrebbe fermato la rotazione terrestre in poco

tempo se fosse stata realmente capace di spostare le masse continentali

La mancanza di una spiegazione largamente condivisa e plausibile su quali forze potessero

essere in grado di spostare interi continenti, rese la teoria di Wegener estremamente debole agli

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occhi degli studiosi dell’epoca i quali la contestavano anche nel merito delle argomentazioni

addotte dallo scienziato tedesco a sostegno della sua teoria.

I punti più contestati erano:

le linee di costa sono soggette a movimenti verticali che ne modificano la forma,

perciò la combaciabilità è solo una coincidenza;

le serie magmatiche e sedimentarie delle coste opposte non sono esattamente

identiche;

la flora e la fauna nei diversi continenti è simile ma non identica;

gli organismi avrebbero potuto attraversare gli oceani se si ipotizzava la presenza di

“ponti continentali”, oggi scomparsi a causa dell’erosione o sfruttando “zattere”

naturali come i tronchi d’albero;

la glaciazione paleozoica è stata messa in dubbio perché le zone interessate erano

troppo lontane per essere raggiunte dai venti umidi apportatori di precipitazioni;

non si spiega perché la Pangea avrebbe dovuto rimanere unita per fino alla fine del

Paleozoico per poi smembrarsi in poco tempo

Non tutti gli scienziati erano però detrattori della teoria; ci furono anche importanti

sostenitori come Daly, Du Toit che divenne suo discepolo, Argand, e Holmes.

Il geologo svizzero Emile Argand sostenne che la collisione tra continenti fosse la migliore

spiegazione possibile per le deformazioni da lui riscontrate nelle Alpi svizzere.

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5 Nuovi studi

Nel 1930 il geologo inglese Arthur

Holmes, sostenitore della teoria di Wegener,

suggerisce un meccanismo alternativo a quello

proposto da Wegener per spiegare la deriva dei

continenti: basandosi su recenti studi di sismica

applicata al mantello, che indicavano come

questo non si comportasse come un corpo

solido, egli ipotizzò che un mantello non

completamente solido e molto duttile potesse

essere soggetto a circolazione convettiva

(fig.9); la parte superiore delle celle convettive

del mantello avrebbe potuto fornire la spinta necessaria al movimento dei continenti.

Conscio delle difficoltà incontrate da Wegener egli precisò che la sua ipotesi era “puramente

speculativa” e che “non ha alcun valore scientifico finché non sarà avvalorata da evidenze

indipendenti”.

A partire dal 1968, una speciale nave

oceanografica, la Glomar Challenger (fig.10), fu

impegnata a trivellare centinaia di pozzi profondi fino a

1,7 km nel fondo dell’oceano, usando una torre da

perforazione petrolifera montata a mezzanave e una lunga

serie di aste snodate e flessibili.

Da ogni pozzo furono recuperati campioni di

sedimenti, con o senza basalto sottostante, che furono

studiate per ottenere dati quali l’età e l’inclinazione

magnetica dei basalti e lo spessore, la composizione e il contenuto dei fossili dei sedimenti

sovrastanti.

Fig. 9. Movimenti convettivi nel mantello ipotizzati da Holmes

Fig. 10. Glomar Challenger

Fig. 12. JOIDES Resolution

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Questo progetto internazionale era chiamato DSDP –

Deep Sea Drilling Project (Progetto di perforazione in mare

aperto), diretto dalla JOIDES – Joint Oceanographic

Institutions for Deep Earth Sampling – un’organizzazione

che riuniva vari istituti oceanografici.

Il DSDP terminò nel 1983, ma il lavoro continua

tuttora grazie all’ODP – Ocean Drilling Program – che

impiega una nave molto più grande e perfezionata chiamata

JOIDES Resolution (fig.11).

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6 Fondali oceanici

I risultati delle esplorazione oceanografiche consentirono di aumentare enormemente le

nostre conoscenze e la nostra comprensione dei fondali oceanici. Considerati fino a quel momento

solo come delle piatte e statiche piane abissali, si scoprì che il fondo degli oceani presentava una

estrema varietà di forme e strutture, ma che soprattutto erano dotati di una dinamica molto più attiva

e veloce di quella che interessava le aree continentali (fig.13).

Fig. 13. Mappa dei fondali oceanici.

Le due principali strutture che furono

individuate in quegli anni furono:

dorsale oceanica: lunga catena

montuosa, attraversata da una

Fig. 13. Schema della dorsale oceanica

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spaccatura centrale, la rift valley, dislocata da ampie fratture, faglie trasformi. Compongono

un sistema di rilievi sommersi che supera gli 80.000 km di lunghezza, con altezze, rispetto

alla piana abissale, di anche 3000 m.(fig.14) La più estesa è la Dorsale Medio-atlantica.

fossa abissale: strette e profonde

depressioni, lunghe migliaia di kilometri,

poste principalmente nei pressi di aree

continentali (fig.15). Sono sede di intesa

attività sismica.

La fossa più profonda è la Fossa delle

Marianne, nell’Oceano Pacifico occidentale, con circa 11 Km di profondità.

Al di la di una migliore conoscenza fisica dei fondali oceanici, dai dati estratti dalle navi

oceanografiche emersero due principali scoperte:

Lo strato di sedimenti che ricopre il fondo oceanico aumenta gradualmente di

spessore allontanandosi dalla dorsale.

L’età dei sedimenti accumulatisi sui fondali e dei basalti della crosta oceanica è via

via crescente allontanandosi dalle dorsali ma mai anteriore al giurassico; entrambi si

dispongono secondo fasce coeve, simmetriche rispetto alla dorsale.

Questi nuovi dati sembravano offrire una prova evidente della validità del meccanismo

proposto da Holmes nel 1930 relativo alle celle convettive capaci di spostare i continenti e ripreso

negli anni sessanta dal geologo americano Arthur Hess.

Fig. 15. Schema della fossa abissale

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Fig. 16. Età dei fondali oceanici

In una pubblicazione del 1962 Hess inserì tutte le nuove scoperte in una nuova teoria, che

egli stesso chiamò “dell’espansione dei fondali oceanici” (sea-floor spreading). Utilizzando l’idea

delle celle convettive di Holmes, egli ipotizzò che le rift valley fossero zone di risalita di magma e

di formazione di nuova crosta oceanica.

Ciò avverrebbe in corrispondenza delle zone ascendenti delle celle convettive del mantello e

provocherebbe l’allontanamento dei due settori di crosta oceanica adiacenti alla rift valley.

Hess inoltre propose che la crosta oceanica si sarebbe poi inabissata in corrispondenza delle

fosse oceaniche poste in prossimità dei margini continentali, originando forti attriti, causa principale

dei terremoti in quei settori.

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In questo schema i continenti avrebbero giocato un

ruolo passivo trasportati come parte integrante di grandi

placche litosferiche soprastanti la zona convettiva del mantello

(fig.17).

All’inizio degli anni trenta Il geologo giapponese

KiyooWadati e il sismologo americano Hugo Benioff

osservarono separatamente che la distribuzione di vulcani

e terremoti è correlata, e che essi si concentrano

soprattutto lungo i margini dei continenti; inoltre osservano che gli ipocentri dei sismi

profondi disegnavano piani fortemente inclinati, tra 30° e 60°, che scendevano al di sotto delle

fosse oceaniche. A questi piani si dà oggi il nome di piani di Benioff (fig.18).

Tali piani, pertanto, potevano essere considerati i luoghi in cui si verificava il trascinamento

verso il basso della litosfera. A tale fenomeno venne dato il nome di subduzione.

Fig. 18. Schema rappresentativo del piano di Benioff (da Lupia Palmieri, Parotto, Saraceni, Strumia , 2010, Zanichelli)

Con queste altre scoperte il quadro dell’espansione dei fondi oceanici era praticamente

completo, ma i dati erano ancora sparpagliati e mal coordinati tra loro.

Fig. 17. L'espansione dei fondali oceanici ipotizzata

da Hess. (da Bosellini, 1978).

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Mancava una prova decisiva che permettesse di riunire tutte le conoscenze vecchie e nuove

in un quadro generale. Tale prova venne data dal paleomagnetismo.

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7 Paleomagnetismo

I geofisici hanno scoperto che i poli magnetici

terrestri, ad intervalli di tempo variabili, si scambiano

reciprocamente le loro posizioni. Si definisce “normale”

l’attuale campo magnetico ed “inverso” quello in cui

l’attuale polo nord magnetico prende il posto del polo sud

magnetico e viceversa (fig.19).

All’inizio del XX secolo il paleomagnetologo

francese B. Bruhnens e, più tardi, in modo più accurato il

paleomagnetologo giapponese M.Matuyama classificarono

le rocce magnetizzate in due classi, rispettivamente a polarità normale, ovvero analoga a quella

attuale terrestre, e a polarità inversa, ovvero opposta a quella attuale terrestre.

Negli anni ’40 si scoprì che rocce della stessa età hanno sempre lo stesso tipo di

magnetizzazione e si attribuì questo fenomeno a periodiche ma irregolari inversioni di polarità del

campo magnetico terrestre; si ricostruì, basandosi su migliaia di misure paleomagnetiche, una scala

cronologica delle inversioni di

polarità negli ultimi 25 milioni di

anni.

Negli anni ’50 si

cominciarono ad effettuare misure

del campo magnetico sugli oceani da

aerei con l’uso di magnetometri

sviluppati durante la guerra per la

rilevazione di sottomarini; esse

evidenziarono la presenza di

anomalie magnetiche positive e

negative, attribuite all’effetto della

magnetizzazione residua delle rocce

dei fondali oceanici (basalti) che può

Fig. 19. Linee di forza del Campo magnetico

terrestre.

Fig. 20. Rappresentazione schematica della formazione di bande alternate

parallele alla dorsale oceanica.

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sommarsi al campo terrestre annuale se le rocce possiedono una polarità normale, dando luogo ad

un’anomalia positiva, o sottrarsi se le rocce possiedono polarità inversa, dando luogo ad

un’anomalia negativa.

La distribuzione delle anomalie in bande alternate (fig.20), parallele alle dorsali oceaniche,

con sequenza analoga a quella della scala geocronologica ricostruita per gli ultimi 25 milioni di

anni, confermò definitivamente la giovanissima età dei fondali oceanici e la loro età crescente

allontanandosi dalle dorsali.

I geofisici americani Vine e

Matthews proposero nel 1963 un modello

che spiegasse la formazione delle bande

magnetiche alternate disposte parallelamente

alle dorsali oceaniche. Essi ipotizzarono che

l’attività lavica in corrispondenza della rift

valley producesse colate basaltiche. Durante

il raffreddamento si ha la formazione di

cristalli di magnetite (abbondante nelle rocce

basaltiche), i quali si dispongono

parallelamente all’orientazione del campo

magnetico terrestre (fig.21). Quando la

temperatura della roccia scende al di sotto

del punto di Curie (580 ºC per la magnetite e

680 ºC per l’ematite) la magnetizzazione

acquisita dovuta all’isoorientamento dei cristalli ferromagnetici diviene stabile (magnetizzazione

termorimanente) e può essere persa solo per successivo riscaldamento al di sopra del punto di

Curie.

Vine e Matthews proposero che le lave magnetizzate fossero trasportate sulla litosfera

oceanica lontano dalle dorsali; ad ogni inversione di polarità del campo magnetico terrestre

corrisponde un’inversione della polarità residua delle lave basaltiche.

Fig. 21. Distribuzione delle anomalie magnetiche presenti su un

tratto della dorsale medio atlantica (Reykjanes Ridge) situato a

sud ovest dell'Islanda.

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8 Teoria della tettonica delle placche

La teoria di Hess fu accolta con favore negli ambienti scientifici e provocò un ulteriore

fermento di ricerche che, in pochi anni, portò alla formulazione da parte di Tuzo Wilson della

Teoria della Tettonica delle Placche. Essa nasce come sintesi globale dei diversi contributi

scientifici fino ad allora apportati da diversi studiosi, con particolare riferimento alle teorie di

Wegener e Hess, in grado di spiegare i principali fenomeni geologici del pianeta, come la

formazione dei bacini oceanici e delle montagne, la distribuzione e le caratteristiche dei vulcani e

delle fasce sismiche.

Nella formulazione di Tuzo Wilson la teoria prevede la suddivisione della Terra in 12

placche litosferiche. La crosta di ogni placca può essere solo oceanica o in parte oceanica ed in

parte continentale. Il movimento delle placche è dovuto al meccanismo proposto da Hess di

convezione del materiale mantellico dell’astenosfera.

Wilson apportò due contributi maggiori alla teoria, che contribuirono a fornirle solide basi e

a renderla bene accetta negli ambienti accademici:

spiegò la presenza di catene vulcaniche all’interno delle placche (ad es. la catena

delle isole Hawaii) con il concetto di hot spot, ovvero della presenza di punti caldi

con radici sottostanti il mantello litosferico: questi punti ancorati in profondità

lasciano sulla placca che gli scorre sopra una striscia di vulcani di età crescente

allontanandosi dall’hot spot

risolse i problemi prettamente geometrici e dinamici del movimento relativo tra

placche introducendo il concetto di margini trasformi che andava ad aggiungersi a

quelli già proposti da Hess di margini attivi e passivi.

Attualmente si contano oltre 20 placche litosferiche con dimensione assai differenti,

comprensive sia di aree continentali che oceaniche, oppure solo delle une o delle altre (fig.22).

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Fig. 22. Distribuzione delle placche litosferiche

Le zone di contatto tra le placche litosferiche costituiscono regioni dove si concentrano

preferenzialmente i più intensi fenomeni geologici (magmatismo, sismicità, tettonica, vulcanismo,

plutonismo ecc.), a causa del movimento relativo di placche semirigide su una superficie sferica.

I limiti di placca (fig.23) vengono classificati in funzione del movimento relativo delle due

placche a contatto:

Margini divergenti o costruttivi, lungo i quali due placche si allontanano l'una dall'altra,

lasciando spazio per la risalita di magma dal mantello che forma nuova crosta oceanica, per

questo sono detti anche costruttivi. I margini in accrescimento, sono delimitati dalle dorsali

oceaniche. L'effettiva direzione del moto relativo non è necessariamente perpendicolare a

questa linea, anche se spesso lo è.

Margini convergenti, lungo i quali due placche si muovono l'una verso l'altra, provocando

la subduzione di una placca sotto l'altra, nel caso in cui almeno uno o entrambi i margini

siano costituiti da litosfera oceanica (nel primo caso è la placca oceanica ad immergersi),

oppure provocando la collisione delle due placche, nel caso in cui i bordi affacciati siano

costituiti entrambi da litosfera continentale. I margini convergenti, detti anche distruttivi

perché si riassorbe litosfera (solo una delle due placche sprofonda), sono delimitati da fosse

oceaniche o catene montuose recenti. Anche in questo caso la direzione del moto relativo non

è necessariamente perpendicolare a tale linea, e in generale non lo è

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Margini trasformi, lungo i quali due placche scivolano orizzontalmente l'una rispetto

all'altra, senza formazione o distruzione di litosfera, per questo si dicono anche conservativi.

Siccome il movimento relativo lungo la faglia è esattamente parallelo alla direzione della

faglia stessa, ne segue che le faglie trasformi sono le uniche linee che ci danno la direzione

del moto relativo tra le placche.

In genere, una placca è limitata da una combinazione di margini appartenenti a queste tre

categorie. Qualunque movimento lungo uno dei margini di una placca comporta come conseguenza

riaggiustamenti lungo altri margini. Dove si incontrano tre placche si individuano le cosiddette

giunzioni triple

Fig. 23. a) margini divergenti, b) margini convergenti, c) margini trascorrenti

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9 Margini divergenti

Le placche litosferiche si allontanano le une dalle altre e si accrescono attraverso la

formazione di nuova litosfera. Si possono distinguere due tipi di margini divergenti:

Margini intracontinentali

Margini intraoceanici

I primi si localizzano in aree

continentali e rappresentano l’inizio della

formazione di un nuovo oceano. Sono

caratterizzati da una serie di fasi

schematizzate nella figura 24 che possono

essere così descritte:

Fase 1: la risalita di magma solleva la

crosta causando fratture nella litosfera

Fase 2: la crosta viene sospinta di

lato, blocchi di roccia sprofondano

generando la rift valley

Fase 3: l’allargamento continua e si

forma un braccio di mare che dà origine ad un oceano in espansione

Fase 4: l’espansione origina un sistema di dorsali oceaniche.

La grande Rift Valley dell'Africa (fig.25) orientale rappresenta una struttura di questo tipo.

Si tratta di una lunghissima frattura della crosta terrestre, che prende origine dal Mozambico e si

estende verso nord fino all'Eritrea, terminando nel Mar Rosso e nel golfo di Aden che separano

l’Africa dalla penisola arabica. Questi mari rappresentano bacini oceanici in embrione, all’inizio del

loro sviluppo. Hanno fondali costituiti da crosta basaltica, con una fossa tettonica mediana identica

a quella delle dorsali oceaniche

Fig. 24. Schema di formazione di una rift valley continentale

(da Schiannini P, Massetti A.E., 1997 – MARKES Editor)

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I margini intraoceanici rappresentano l’evoluzione

estrema di quelli intracontinentali. Sono rappresentati

dall’articolato e vasto insieme delle dorsali oceaniche, non

a torto considerate le più vaste catene montuose presenti

sul Pianeta che attraversano in modo continuo gli oceani

Atlantico, Indiano, Antartico e Pacifico.

Generalmente la dorsale si trova a 2500 m sotto il

livello del mare, ma può anche emergere, come accade in

Islanda, o formare isolette vulcaniche, come le Azzorre.

Fig. 25. Localizzazione delle fosse tettoniche

nell'Africa Orientale.

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10 Margini convergenti

I margini di due zolle che si avvicinano l’una all’altra sono detti margini convergenti, e

possono dar luogo a zone di subduzione o a zone di collisione continentale in relazione ai tipi di

crosta presenti sulle zolle opposte. Nei margini di subduzione ambedue le zolle sono oceaniche,

oppure una zolla oceanica si scontra con una continentale; parleremo rispettivamente di margine

oceano – oceano e di margine oceano – continente. Nei margini di collisione si scontrano due zolle

continentali; si parlerà quindi di margine continente – continente.

Per la sue caratteristiche (alta densità, limitato spessore e bassa temperatura) la crosta

oceanica sprofonda più facilmente di una di tipo continentale. La subsidenza che si verifica

all'aumentare della distanza dalla dorsale (per raffreddamento, aumento della densità e carico di

sedimenti), favorisce il fenomeno di subduzione della crosta oceanica sotto i blocchi continentali.

La zolla che subduce identifica il cosiddetto piano di Benioff lungo il quali si manifesta la sismicità

elevata, da superficiale a profonda, che caratterizza queste zone.

Nei margini oceano –

oceano (fig.26), la zolla più

densa subduce sotto l'altra in

corrispondenza di una fossa. La

rigida placca che sprofonda (si

pensa che scenda fino a 700 km

prima di essere completamente

assimilata nel mantello) si

riscalda a causa del gradiente

geotermico, diventando più

plastica. Il materiale fuso tende

a salire perché è diventato meno denso rispetto alla zona circostante, generando un'attività

plutonico-vulcanica sopra il piano di Benioff, accompagnata da terremoti. In questo modo, sulla

placca rimasta in superficie, si forma una serie di vulcani allineati, chiamata arco magmatico.

L'associazione di fossa di subduzione e arco magmatico è detta sistema arco-fossa, come la cintura

Fig. 26. Margine oceano – oceano

(da Schiannini P, Massetti A.E., 1997 – MARKES Editor)

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di fuoco circumpacifica. L’arcipelago del Giappone, rappresenta uno degli esempi più noti di arco

magmatico.

Nei margini oceano –

continente (fig.27) una placca

con crosta oceanica comincia a

sprofondare sotto il continente.

Come nel caso precedente, si

forma il piano di Benioff, solo

che i fenomeni si verificano in

ambiente continentale.

La placca che discende

fonde, generando lava di tipo

andesitico. Durante la risalita, parte di esso rimane

imprigionato nella crosta continentale formando batoliti,

che la sollevano e la ispessiscono. Il magma che giunge

in superficie dà origine ad effusioni esplosive

andesitiche. Si forma così un arco vulcanico lungo il

bordo del continente. Nella subduzione vengono

raschiati i sedimenti accumulati lungo il margine

continentale, quando era passivo, i quali, compressi e

sollevati, dando origine a una catena a pieghe e falde di

ricoprimento.

La struttura che si genera, costituita sia dalla

catena a pieghe e falde che dall’arco vulcanico

continentale descritto in precedente prende il nome di

Cordigliera; le Ande sono il tipico esempio di margine oceano – continente (fig.28).

Nei margini continente – continente (fig.29), nessuna delle due placche in avvicinamento

reciproco riesce a subdurre sotto l’altra perché la crosta continentale è troppo leggera per affondare

nelle rocce dense del mantello. Il risultato di questa convergenza è una vera e propria collisione tra

le placche, innescando in tal modo il processo di orogenesi. Il termine orogenesi significa ‘’genesi

delle montagne’’ e si realizza attraverso piegamenti ed accavallamenti degli strati di roccia.

Fig. 27. Margine oceano – continente

(da Schiannini P, Massetti A.E., 1997 – MARKES Editor).

Fig. 28. Schema rappresentativo del margine oceano

continente che da vita alla Cordigliera delle Ande

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Prima che le due masse

continentali collidano, sono

separate dalla crosta oceanica

formatasi nel corso di un

precedente processo di

espansione del fondo oceanico.

La collisione tra due placche con

crosta continentale è perciò

preceduta dalla convergenza tra

crosta continentale e crosta

oceanica. In questa fase si forma un arco magmatico sul bordo del continente antistante la fossa

oceanica. Alla fine i due continenti si scontrano e i sedimenti vengo compressi, piegati e deformati;

si forma così una catena montuosa composta di sedimenti deformati e frammenti dell’arco

magmatico. Le Alpi e l'Himalaya sono gli esempi più spettacolari di questo tipo di margini (fig.30).

Fig. 30. Le catene alpina e himalayana nel rispettivo quadro geodinamico.

Fig. 29. Margine continente – continente

(da Schiannini P, Massetti A.E., 1997 – MARKES Editor).

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11 Margini trascorrenti

Nel margine trascorrente (fig.31) le due placche scivolano l'una rispetto all'altra, senza che

vi sia né produzione di crosta, come avviene nelle dorsali oceaniche, né distruzione di crosta, come

nelle zone di subduzione.

Oltre all'attività sismica superficiale, non si verificano fenomeni endogeni di rilievo. Un

margine trasforme può connettere due zone divergenti, come nel caso delle faglie oceaniche

trasformi, oppure una zona divergente ed una convergente, oppure due zone convergenti.

I margini trasformi sono

presenti solamente nelle aree

oceaniche, con un'unica eccezione: la

faglia di S. Andreas, in California

(fig.32). Essa collega un margine

divergente (la dorsale medio-Pacifica)

con un margine convergente (l'arco

vulcanico Nord Americano). Una

parte della California si è già staccata,

ed è prevedibile che diventerà un'isola

del Pacifico

L'esistenza delle faglie trascorrenti è dovuta alla sfericità della Terra. Infatti, due placche che

si allontanano tra loro hanno velocità uguali rispetto al margine se sono su un piano, ma diventano

diverse in base alla latitudine se sono su una sfera, perciò si producono fratture trasversali.

Fig. 31. Margine trascorrente.

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Fig. 32. Faglia di Sant'Andrea, esempio di margine trascorrente.

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Bibliografia*

Nelson L., Cox M. M. I principi di biochimica di Lehninger. Edizione Zanichelli 2010.

Barberi F, Gasperini P. (1983) – Il rischio vulcanico. Le Scienze. Quaderni, 4.

Bolt B. (1986) – L’interno della Terra. Zanichelli, Bologna.

Bosellini A. (1984) – Le scienze della Terra. Bovolenta, Bologna.

Casati P. (1985) – Scienze della Terra. Elementi di geologia generale. CittaStudiEdizioni,

Milano.

Cox A., Hart R.B. (1990) – La Tettonica delle placche. Zanichelli, Bologna

Filippini M, Bignami L. (2004) – Corso di geografia generale. Minerva Italica, Milano.

Schiannini P., Massetti A.E. (1997) – Pianeta dinamico. Corso di geografia generale.

Markes, Milano.

Trevisan L. GigliaG. (1978) – Introduzione alla geologia. Pacini Editore. Ospedaletto Pisa.

* I testi riportati in bibliografia vanno intesi dallo studente soprattutto come letture consigliate per

approfondire i temi affrontati nella lezione.

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