Impatto Magazine - Vol#3 - Annunciazio'

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- 1 - !MPATTO MAGAZINE Annunciazio’ 20 novembre 2015 www.impattomagazine.it Volume 3

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Nell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia a Roma, il presepe napoletano dei fratelli Scuotto parte con destinazione New York. Nella Shrine Church of the Most Precious Blood, la tradizione partenopea diventa protagonista di un’esperienza quotidiana in cui la Natività si manifesta nella sua umanità.

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!MPATTO MAGAZINE Annunciazio’ 20 novembre 2015 www.impattomagazine.it

Volume 3

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Copertina di Paola Tufo

a napoli non piove mai

Mentre fuori piove.Un lungometraggio scritto, diretto e interpretato da Sergio Assisi mostra Napoli teatralmente viva ed entusiasta. A Napoli non piove mai, presentato al Napoli film Festival, conta su un cast di attori del calibro di Ernesto Lama, Nunzia Schiano, Francesco Palantoni per sorridere della vita, nonostante tutto.

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qualcuno volò sul nido del cuculo

Una grande storia. L’alienazione da se stessi e dal prossimo. La straniante sensazione di terrore verso un mondo che ripudia i suoi stessi figli. Il bisogno di libertà che si trasforma in un urlo che squarcia l’anima. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” torna sulle tavole del palcoscenico, quelle del Teatro Bellini, e lo fa da “Grande Storia”.

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biennale di venezia - marisa laurito

Ed io, scelgo il ragù.Alla 56° edizione della Biennale di Venezia, Marisa Laurito protagonista di una collaborazione artistica per il padiglione del Guatemala. La famosa attrice e show girl napoletana mostra, attraverso le sue opere, lo sdegno verso una cucina che è sempre più‚ artificiale e sempre meno legata alle tradizioni di un tempo.

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presepe della misericordia

Sacro esoterismo.Nell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia a Roma, il presepe napoletano dei fratelli Scuotto parte con destinazione New York. Nella Shrine Church of the Most Precious Blood, la tradizione partenopea diventa protagonista di un’esperienza quotidiana in cui la Natività si manifesta nella sua umanità.

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intervista a nicola de ianni

Un saggio pioniere. Nicola De Ianni, docente di Storia Economica presso la Federico II, si è cimentato nel profilare economicamente la storia economica del calcio, dagli albori fino al 1981. Un saggio economico, che in larghe sfumature ha il sapore di un romanzo sui rapporti umani e psicologici che hanno scandito lo sviluppo del football in Italia.

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Contenuti. volume iii - 20 novembre 2015

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mondiale. Parliamo di un processo che dura una ventina d’anni; ma è un calcio che non riscontra alcun tipo di successo, è un fenomeno della portata limitata ed è subordinato ad altri tipi di sport molto più popolari. Essendo il “calciomercato” l’elemento economico di maggior rilie-vo, nel libro si discute ampliamente del nodo relativo al passaggio di un gioca-tore da una squadra all’altra. Nei primi anni del calcio il trasferimento è subor-dinato totalmente al posto di lavoro; i giocatori sono ritenuti dilettanti, tan-to che il cambio di squadra deve essere connesso al cambio di residenza dello sportivo. Nel 1923, con il caso Rosetta, si accendono i riflettori sul finto dilettan-tismo. Que è una data chiave per la sto-ria del calcio. Ciononostante non sono convinto che il denaro sia in contrasto con una visione romantica del calcio. Più che altro, nel mio libro ho preferito

icola De Ianni, docente di Storia dell’Economia, presso la Federico II, si è cimentato nel profilare economicamente la sto-ria del calcio, dagli al-bori fino all’avventodegli

sponsor e delle televisioni nel 1981. Un saggio economico, che in larghe sfu-mature ha il sapore di un romanzo sui rapporti umani e psicologici che hanno scandito lo sviluppo del football in Italia.

Nell’immaginario collettivo il calcio prima degli anni ‘80 viene ritenuto un “calcio romantico”. Nel suo libro, però, questa sfumatura viene mes-sa in crisi dalla costante presenza del danaro. Ma, dunque, il calcio è mai stato romantico? Il calcio veramente romantico è stato quello dei pionieri, quello che troviamo in Italia preceden-temente all’inizio della prima guerra

Nicola De Ianni, autore del saggio sulla storia economica del calcio, fino al 1981, descrive la crescita, tra scandali e legami umani, dell’azienda più amata dagli italiani.

intervista a nicola de ianni

Un saggio pioniere.

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È fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l’altro, dove non si parla di responsabilità sociale. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello

sport non ti dà diritti speciali o privilegi nella vita.(Pietro Mennea - podista italiano)

Nicola De Ianni - Ph. Ginevra Caterino

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È fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l’altro, dove non si parla di responsabilità sociale. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello

sport non ti dà diritti speciali o privilegi nella vita.(Pietro Mennea - podista italiano)

Nicola De Ianni - Ph. Ginevra Caterino

È fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l’altro, dove non si parla di responsabilità sociale. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello

sport non ti dà diritti speciali o privilegi nella vita.(Pietro Mennea - podista italiano)

Nicola De Ianni - Ph. Ginevra Caterino

È fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l’altro, dove non si parla di responsabilità sociale. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello

sport non ti dà diritti speciali o privilegi nella vita.(Pietro Mennea - podista italiano)

Nicola De Ianni - Ph. Ginevra Caterino

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seppur in maniera sottile, il punto di vista dello scrittore. Ma quando si parla di calcio, è davvero impossibile mettere da parte i sentimenti? Come un imprenditore del calcio, che per es-sere troppo passionale rischia di non essere imprenditore, anche lo storico ha questo problema. Il punto è che un ricercatore in materia storica deve fare le sue scelte e le deve dichiarare, purché siano motivate. Non mi dispiace che ap-paia questa sfumatura, perché parlare di calcio, inevitabilmente, che fa correre questo rischio strutturale.

I Medici, i Borgia, la corte di Ferrara, ancora oggi le meraviglie di mecenati sono eterne, saranno eterni anche i fasti dei mecenati del calcio? Dalla metà degli anni ‘50 la parola d’ordine era “falsi mecenati”. Vi era la convinzione che i giovani turchi fossero entrati nel calcio per ricercare visibilità. La stru-mentalizzazione del calcio è un qualco-sa che a portato questo lontano da binari solidi, infatti, esso oscilla ancora oggi in un contesto abbastanza confuso. Nel cal-cio vi è uno strano spirito di corpo, dove anche quando c’è da pagare, vi aleggia sempre un aria di supporto ed un senso di assoluzione. Dino Zoff è stato un em-blema di questo spirito, è stato emargi-nato dal calcio perché troppo distante da questa caratteristica inquietante.

sottolineare la malcelata ipocrisia che si nascondeva dietro il calcio dilettantisti-co, un sistema economico sommerso ed oscurato dal concetto di sport olimpico voluto da De Coubertin.

Nel libro non ci si ferma soltanto alla crescita malsana del calcio, legata al deficit e all’indebitamento delle socie-tà, ma viene anche richiamato il filo psicologico che legava i rapporti uma-ni di pedine fondamentali - come nel caso di Ferlaino e Lauro, o di Franchi e Carraro - come ha affrontato questo tema così sensibile? L’aspetto passio-nale e personale è una costante nel mon-do del calcio e arriva, infatti, fino ai giorni nostri. È elemento che suscita interesse divenendo così sfumatura paradossale e veicolo immediato per i cambiamenti del calcio. Questo sotto alcuni aspetti, non si è mai modificato: all’inizio era tutto un po’ vago, ma un crescente successo ha fatto emergere un fattore di razio-nalità, specialmente da parte degli ad-detti ai lavori, rispetto ai fruitori. Ovvia-mente anche per gli uomini del calcio, che non possono prescindere dalla razional-ità, la passionalità è centrale. Ad esem-pio, Moggi, a prescindere dalle vicende di giustizia e dalle sue competenze, è un uomo di calcio fortemente passionale.

Uno storico non imparziale, un libro non freddo - dal suo saggio traspare,

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della disparità odierna. È cronaca di una società in cui l’evoluzione dà la mano all’involuzione generando scene ma-gistralmente interpretate dal bene e dal male, nella contesa eterna per il ruolo di primo attore.

Il presepe racconta dell’oggi in cui si vive e che non si ha il coraggio di guardare in faccia o a cui si gira la faccia: un uomo aggredisce un altro; lo preva-rica, lo schiaccia con la prepotenza del potere. Questione di mafia sì, ma que-stione d’onore? Non più, l’onore ha per-so la parola e il duello all’ultimo sangue si ferma al primo rivolo. Perché la buo-na camorra ti affligge, ti sfinisce ma non ti uccide. La prevaricazione delle mafie crea un’idea confusa di aiuto e il paradosso della pseudo pietà ne legitti-ma l’esistenza.

ltre il tempo e oltre la storia. Perché il Presepe porta con sé ogni tempo e ogni storia. È il nostro ieri con un Cicci Bacco, tra le mani il fiasco di vino, ed un Benito dormiente,

che sogna di pastori. Simbologie sa-cre e profane mescolate ad esoterismi di una terra, misteriosa nell’abisso del suo ventre. Un ventre fertile. È il nostro oggi, con occhi sbarrati di bambini dis-perati su un barcone in cerca di rifugio. Profughi dell’anima.

Con il contrasto tra la ricchezza opulen-ta di chi s’ingurgita di cibo, senza aver neanche più fame, e chi nel piatto non ha nulla, misero, con lo sguardo bramo-so di riempire il proprio ventre affam-ato. Vuoto, come lo squilibrio sociale

Nell’anno del Giubileo straordinario della Misericordia a Roma, il presepe napoletano dei fratelli Scuotto parte con destinazione New York. Nella Shrine Church of the Most Precious Blood, la tradizione partenopea diventa protagonista di un’esperienza quotidiana in cui la Natività si manifesta nella sua umanità.

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Il sacro esoterismo.

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Ciò che mi colpisce nel presepe è proprio questa dimensione scenica, la rappresentazione di una pluralità di situazioni umane e di personaggi

che esemplificano la vita in tutta la sua varietà. (Sua Em.za Giuseppe Betori)

Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

Ciò che mi colpisce nel presepe è proprio questa dimensione scenica, la rappresentazione di una pluralità di situazioni umane e di personaggi

che esemplificano la vita in tutta la sua varietà. (Sua Em.za Giuseppe Betori)

Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

Ciò che mi colpisce nel presepe è proprio questa dimensione scenica, la rappresentazione di una pluralità di situazioni umane e di personaggi

che esemplificano la vita in tutta la sua varietà. (Sua Em.za Giuseppe Betori)

Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

Ciò che mi colpisce nel presepe è proprio questa dimensione scenica, la rappresentazione di una pluralità di situazioni umane e di personaggi

che esemplificano la vita in tutta la sua varietà. (Sua Em.za Giuseppe Betori)

Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

Ciò che mi colpisce nel presepe è proprio questa dimensione scenica, la rappresentazione di una pluralità di situazioni umane e di personaggi

che esemplificano la vita in tutta la sua varietà. (Sua Em.za Giuseppe Betori)

Presepe della Misericordia - Ph. Paola Tufo

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Come in un’immagine speculare, di fronte al Caravaggio presepiale, brac-cia spalancate nella richiesta dispe-rata di soccorso. Il barcone degli apo-lidi invoca rifugio come quella conces-sa al figliol prodigo. Lui, tra le braccia del padre, si sente finalmente protet-to, accettato. Ritrova il calore della casa tra le sue mani. Una mano è maschile, decisa e forte del Padre che è Nostro, una è femminile, delicata e amorevole della Madre che accoglie tutti. Ancora una volta, dalla tela si scollano simboli universali e l’arte concretizza il biso-gno impellente del presente: l’esigenza pregnante di trovare rifugio nella mi-sericordia dell’altro perché tutti pos-siamo sentirci stranieri nel corso dell’esistenza. Il monacello, l’omoses-suale, il lebbroso personificano il nor-male esserci nel presepe del mondo.

Un capolavoro dell’arte napoletana che travalica i confini per esportare l’im-pianto culturale della città e il suo es-sere giovane attraverso l’antico. La plas-ticità dell’opera, la ricerca dei significati, la poesia insita, sono stati accolti a New York grazie alla proposta del Monsignor Sakano della St. Patrick’s Old Cathe-dral di New York e all’impegno di Tho-mas Smith, Assistant CEO della Binn’s di Williamsburg. Un presepe ortodos-so per veicolare riflessioni, dal ventre di Napoli al ventre di New York.

n diavolo tra sbarre, giù, nel ventre profon-do e sterile del presepe. Rinchiuso nell’antro di una grotta scura pronto ad azzannare, ad am-maliare e tirare in basso

verso sé. Al centro del quotidiano vi-vere, la Natività. Un uomo, un bambi-no e una donna. Uomini tra gli uomini, con il segno visibile di un dio di vita: la maternità. Il cuore divino scende nella miseria e tocca il suo popolo, nell’in-timo. Dal ventre caldo di una donna si genera la misericordia, quella che agisce e si prodiga. Quella irriverente, senza drappi, del Caravaggio.

È lì, staccata dalla tela e scolpita da mani artigiane per prendere forma nel seno della figlia di Pero che allatta il detenu-to Cimone; nei piedi nudi, neri e privi di vita, trascinati per la sepoltura; nel mantello per coprire il torso scultoreo di un uomo di spalle, senza volto, indefini-to; nell’acqua che scorre dalla mascella di un asino per dissetare gli assetati, nel corpo e nello spirito. Una misericordia tangibile, umana. Autentica. “È do-vere del presepe napoletano riconoscere al pittore l’idea di un’umanizzazione dell’atto di misericordia” sottolinea Raf-faele Scuotto, al Palazzo Mansa di Scala, nella Galleria d’arte Essearte.

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L’assessore ai Giovani, Alessandra Clemente, durante la premazione in ricordo di Attilio Romanò.

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L’assessore ai Giovani, Alessandra Clemente, durante la premazione in ricordo di Attilio Romanò.

tura creativa - gli studenti della scuo-la secondaria di primo e secondo grado hanno avuto la possibilità di esprimere le proprie idee in maniera chiara, forte e decisa. “La città in cui viviamo è mondo, e questo mondo è tutto dentro le aule”, afferma l’Assessore all’Istruzione An-namaria Palmieri: bisogna guardare ai giovani e a ciò che portano dentro di sé come risorsa ineguagliabile, unica vera arma contro la società della paura, del rancore e dell’illegalità. Fornire loro un premio in denaro, spendibile solo in libri, è un augurio a non perdere mai la voglia di esplorare e conoscere, affinché non si arrendano mai nella ricerca della libertà. “Lo stato siamo noi. Lo stato dà risposte concrete, complete. Non illude, come la camorra” ricorda Alessandra Clemente. “Napoli si sta già salvando” e lo dimo-stra decidendo di non tacere.

943, anno in cui Napoli, con le sue sole forze, riesce a liberarsi dal nazi-fascismo. È fondamentale avere pi-ena coscienza di quelle che sono le nostre radici: ci ricordano chi siamo e da dove siamo partiti, ed è medi-ante tale consapevolezza che si è liberi d’ogni oppressione. Educare alla me-moria, non permettere che alcun nome venga dimenticato, alcuna azione privata del suo senso ed alcun ideale trascurato.

La fucina delle idee è da sempre stata la scuola, istituzione che ancora una volta si conferma non solo trasversale stru-mento d’integrazione, ma soprattutto d’azione. È tra i banchi di scuola che si agitano le prime forme di senso critico e di invettiva, e proprio per questo si pun-ta sui giovani e sulla loro fantasia: attra-verso la settima edizione del concorso letterario “Attilio Romanò” - che preve-deva la redazione di un racconto di scrit-

A Palazzo San Giacomo, alla presenza degli assessori Palmieri e Clemente, il ricordo di Attilio Romanò, vittima della camorra, con un concorso letterario a lui intitolato.

concorso letterario attilio romanò

Il mondo è nell’aula.

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La Marmora; “Arremba San Zorzo”, era il grido che le ciurme dei Doria, signori di Genova, lanciavano quando andavano all’arrembaggio delle navi avversarie; “Ti con nu, nu con ti” con espressione acco-rata pronuncia nel Giuramento di Peras-to, in lingua illirica, Giuseppe Viscovich. “Coragio, no manca co’ semo nel giusto” lega indissolubilmente l’Unità alla città di Trieste. Due nomi imponenti per due incrociatori che ben hanno sostenuto il peso della responsabilità anagrafica. L’eroe dei due mondi e gli eroi della fede per due portaeromobili impiegati in o-perazioni di sostegno umanitario e di protezione civile: protagoniste, nell’am-bito di diverse missioni, anche dell’o-perazione Mare Nostrum per por-tare soccorso agli immigrati, costretti a fuggire alla fame e alla guerra. Men-tre il vento soffia, intanto, si continua a passeggiare nel soffio del passato.

l Molo Angioino non è mai stato così affascinante come nel week end di fine ottobre. Ormeggiate al molo, nella imponenza del-la propria storia, le navi militari Garibaldi e della Classe “Santi” San Giorgio – comprendente tre

unità LPD, il San Marco, San Giusto e San Giorgio - hanno aspettato di essere os-servate, ammirate e visitate da ogni na-poletano e non, desideroso di apprezzare gli incrociatori della Marina Militare. In occasione del “Giorno dell’Unità Nazio-nale e Giornata delle Forza Armate”, Na-poli ha potuto conoscere da vicino due re-altà storiche della nostra gloria militare. A piedi si percorre il molo Angioino tra la grandiosità attraccate e il vento che sof-fia sul viso. E intanto i motti delle navi, ognuno nel dialetto, ricordano la Storia italiana. “Obbedisco”, scrisse Garibal-di nel famoso telegramma al generale

Il motto della Marina Militare per l’entrata in porto della Garibaldi e della Classe San Giorgio a Napoli, al Molo Angioino in occasione della ricorrenza del 4 Novembre.

la garibaldi al molo angioino

La Patria e l’Onore.

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Illustrazione di WiskerIllustrazione di WiskerIllustrazione di WiskerIllustrazione di WiskerIllustrazione di WiskerIllustrazione di Wisker

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affondare nelle radici della propria ter-ra, fertile di umana creatività. Nel sot-totitolo della manifestazione si scopre la volontà di celebrare la figura di Pier Paolo Pasolini, in occasione del quaran-tennale della sua scomparsa. “Pasolini era un grande napoletano”, suggerisce il sindaco De Magistris, poiché “Napo-li è una città con un grandissimo spirito libertario”. Un omaggio alla sua figura giunge dal reading ideato e coordinato dal regista Giovanni Meola, in collab-orazione con 25 attori appartenenti alla compagnia “Virus Teatrali”. Le voci si dispiegano in tre diverse postazioni, dif-ferenziate per periodo di pubblicazione, nel complesso monumentale di San Do-menico Maggiore; la scenografia è mi-nimale per lasciare alle parole lo spazio d’azione cui necessitano.

omunicare ed essere compresi: da perpen-dicolari a paralleli, si ritrovano troppo spesso distanti e impercettibil-mente lontani due biso-gni essenziali all’essere

umano. Oggi quasi agli antipodi. Nella valanga di comunicazioni e interazioni sociali, nel bombardamento dell’opi-nione veloce, occorre un click per condi-videre pensieri, per rendere ridondante il bisogno di trasmettere, non si ha la cer-tezza del suo riflesso: l’essere compresi.

Così si muore, secondo Pier Paolo Pa-solini. Per vivere della memoria, al di là della fine temporale e fisica, la si deve rendere presente. La si deve compren-dere, come allora e più di allora. Leg-gende, miti, storie di uomini e donne per

La manifestazione culturale “Vivi nel ricordo”, in memoria del regista e scrittore bolognese Pier Paolo Pasolini, tra incontri, visite e confronti per tener sempre accesa la scintilla del passato, ponte per il futuro perché “la morte non è nel non poter più comunicare, ma nel non poter più essere compresi”.

manifestazione “vivi nel ricordo”

Memoria sulla pelle.

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Vivi nel ricordo - Ph. Ginevra CaterinoVivi nel ricordo - Ph. Ginevra CaterinoVivi nel ricordo - Ph. Ginevra Caterino

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parole abbiano un loro peso e possano ancora smuovere qualcosa nelle no-stre coscienze”.Di Virgilio mago vive la Napoli esoterica e, nel viaggio condotto attraverso Conducimi alla luce, tenutosi presso il Parco della Tomba di Virgilio, la messinscena di una rappresentazione teatrale richiama alla mente il mito di Orfeo ed Euridice ad opera dell’ Asso-ciazione Neartapolis.

Il tour si apre con la storia della struttu-ra: inebriati dagli odori e dai colori au-tunnali delle piante, si racconta la storia della bonifica, avvolti da un’atmosfera carica di sensazioni coinvolgenti e pro-iettati in una dimensione quasi onirica. Considerati un rimedio naturale contro la depressione, si narra che Leopardi amasse passeggiare lungo quei viali, av-volto nei meandri dei suoi pensieri. La visita alla tomba assume la dimensione di un viaggio personale che continua fino al cuore dell’antico Tunnel Vir-giliano e lì, come guide dantesche, ci ac-compagnano Orfeo, Euridice ed un can-tore che narra la loro storia con la poesia vibrante di pensieri raccontati ad alta voce. Pasolini ne era consapevole: non basta comunicare, bisogna comprende-re. Per comprendere occorre conoscere; conoscere nel profondo per capire il pa-trimonio mitologico, leggendario e, al contempo, veritiero di ciò che fu.

asolini è stato un in-tellettuale molto con-troverso, provocatorio, profondo e preveggen-te” - spiega il regista. “Tutto ciò che un intel-lettuale riesce ad elabo-

rare nel corso della sua esistenza attra-verso un’articolazione del pensiero che sia frutto di intrecci di tutta una serie di esperienze intellettuali sono sempre parole importanti. Pasolini non ha po-tuto continuare questo suo percorso, e le ultime parole che ci ha lasciato rispetto ai temi di cui stiamo parlando sono pro-prio Gli scritti corsari, talmente attuali che molto spesso io mi ritrovo a rileg-gere degli articoli e pensare: Ma come ha fatto a capire che la società sarebbe andata in questa direzione piuttosto che in quella?”.

In virtù di quell’intuizione artistica, il regista ha voluto far risuonare la pa-role del Maestro attraverso la lettura drammatizzata interpretata. Per poter arrivare, attraverso le voci di attori, in maniera colloquiale. Affinché a parlare e a trasmettere pensieri non fosse la carta, ma il corpo e le voci per giunge-re al pubblico, attento nell’ascolto delle parole di un uomo che ancora oggi ri-sulta avere molto da dire: “evidente-mente anche altri credono che queste

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Nik Spatari, pittore, scultore e architetto di origini calabresi, assieme ad una sua opera.

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Nik Spatari, pittore, scultore e architetto di origini calabresi, assieme ad una sua opera.

sato ma allo stesso tempo proiettato verso l’ignoto e il futuro. L’obiettivo di Spatari è promuovere la Calabria come snodo fon-damentale della cultura del Sud Italia e di tutto il Mediterraneo, fonte d’ispirazione continua. A tale scopo si deve la creazione del MUSABA, sintesi unica di parco - mu-seo - scuola - laboratorio, che realizza nu-merosi vernissage internazionali. L’idea di portare un profeta dell’arte mediterra-nea come Nik Spatari a Napoli - capitale di questa area del mondo - è scelta ener-gica e coraggiosa al tempo stesso. Ener-gica perché propone opere vive, piene di significati importanti, dai contenuti edif-icanti. Coraggiosa in quanto, nel contesto di un territorio messo in ombra, riesce a rispondere in maniera decisa a molti in-terrogativi, grazie ad una forza creativa e culturale che rende uomini come Spatari ambasciatori di quel richiamo artistico del Sud del mondo. no in mostra.

na bomba può progres-sivamente togliere l’uso dell’udito e della parola, ma non può fermare la creatività e il desiderio di esprimersi. E di certo non ha messo a tacere

l’estro artistico di Nik Spatari. Personali, affascinanti, vivaci: tre aggettivi per rac-contare le opere esposte al Piano Mostre del complesso universitario napoletano Suor Orsola Benicasa. In collaborazione con la Fondazione “Terzo Pilastro” e “Ci-vita”. Napoli può godere di opere dalla straordinaria forza evocatrice, attraverso immagini che rappresentano al meglio la genialità creativa dell’artista calabrese. In un percorso espositivo, tra video e im-magini, si vive la mostra in un climax ar-tistico, attraverso cui emerge la person-alità poliedrica e originale di un artista, dalle radici fondate saldamente nel pas-

Spatari e la sua personale al Suor Orsola Benincasa, il coraggio e l’energia di un uomo che affascina tra colori vividi e accattivanti, divenendo così ambasciatore del Sud.

nik spatari al suor orsola benincasa

Richiamo dell’arte.

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In occasione del Day festival, l’hal-loween edition 2016 per la Federico II. Perché quest’evento? Si tratta di un evento d’intrattenimento con l’esibi-zione di band universitarie, dei dirigenti del nostro Ateneo e di deejay. È un even-to musicale. L’obiettivo è accogliere gli studenti di tutte le aree didattiche. Siamo abituati ad una suddivisione dei saperi, dalla medicina alla giurisprudenza ma la Federico II è una comunità! Vogliamo trasmettere il senso di comunità, l’essere federiciani nel mondo. Deve essere com-presa l’unità e non l’essere frastagliati.

Come vi state muovendo per raggiun-gere l’obiettivo? Quello che facciamo da anni è creare degli eventi che rafforzi-no il messaggio nei confronti della città. Anche perché il nostro Ateneo è una città nella città.

ou wanted the best! You’ve got the best!” così i Kiss all’inizio di un concerto. Truccati come l’hard rock statunitense, si accoglie il popolo federiciano per dir loro che il meglio lo han-

no già, perché sono parte di un mon-do universitario multiplo e unico allo stesso tempo. Un gran successo per la Federico II, anche se, in molti non sono riusciti ad entrare. Dal campus di Mon-te Sant’Angelo alla Mostra, l’evento ha voluto trasmettere un messaggio chiaro. Antonio Caiazzo - Consigliere dell’Am-ministrazione dell’Ateneo – nella lo-gica imprenditoriale, parla dell’evento musicale come un’occasione per gene-rare l’effetto positivo del sentirsi parte di una comunità.

La notte di Halloween, alla Mostra d’Oltremare migliaia di ragazzi inondano il Padiglione 5. Un’onda anomala, da panico, per il Welcome day al popolo federiciano. L’Ateneo più antico d’Italia si aggrega nella consapevolezza di essere cittadino della Federico II. L’intervista all’organizzatore Antonio Caiazzo.

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nei di altre città. Bisogna solo averne la consapevolezza.

Quindi qual è l’obiettivo? Creare con-sapevolezza. È paradossale perché se si va in giro per il mondo, tutti cono-scono la Federico II. Ingegneri, piuttos-to che medici, sono considerati maestri. Abbiamo una percezione nel mondo di un livello molto alto. Invece nel nostro Paese e all’interno della stessa Univer-sità ci si lamenta troppo spesso. Non c’è ancora consapevolezza. Questo è un fattore tutto italiano. Se allarghiamo il discorso a qualsiasi aspetto, l’italiano si lamenta del bello che ha.

L’evento alla Mostra che posto occupa in questa mission universitaria? Cre-diamo che la realizzazione di eventi del genere possa produrre un effetto di rim-balzo. Genera un passaparola, un effetto divulgativo, contagioso e virale intorno al brand Federico II. Siamo un’istitu-zione, un’accademia, è vero, ma oggi se non si ragiona in ottica aziendale - e qui si parla di percezione del valore - chiara-mente non si raggiungono gli obiettivi. I giovani, tramite i social e la condivi-sione di foto, accostano a momenti di svago e di aggregazione il brand Fede-rico II e ciò genera effetti positivi. È la logica del marketing.

a Federico II ha 105 mila membri tra studenti e do-centi. Quindi abbiamo il do-vere di lanciare questo mes-saggio e di dimostrare alla città che l’Ateneo realizza progetti a 360 gradi. Non

solo istituzionali o accademici ma an-che di aggregazione dei giovani. Fonda-mentale è creare un momento che uni-sca tutti: lo studente di Economia che incontra quello di Lettere anche perché la grande ricchezza del nostro Ateneo rispetto ad altri è che racchiudiamo, nel nostro essere, la diversità dei saperi. Se vai alla Bocconi hai solo Economia e Giu-risprudenza. Noi accogliamo una grossa disomogeneità che è la nostra risorsa.

C’erano già state iniziative simili? Negli anni precedenti ci sono stati altri eventi in strutture ricettive esterne, per motivi organizzativi e logistici. L’anno scorso siamo arrivati a 6000 parteci-panti e ciò è una riprova dell’essere per-sone in continua fermentazione.

Una critica costruttiva al passato so-cial dell’Ateneo? Quando un Ateneo conta 85 mila studenti e 3 mila di perso-nale amministrativo e crea degli eventi e delle manifestazioni, deve lanciare un segnale. Il punto è che siamo molto fe-dericiani e molto attaccati alla casacca e non abbiamo nulla in meno ad altri Ate-

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della vita, dalla sessualità, passando per la religione fino alla cucina. Ed è proprio della morte della cucina e delle tradizioni culinarie del passato, che la napoletana Marisa Laurito ha molto a cuore, tanto da contribuire con le sue opere in silicone, che fanno da specchio a quella che è l’ar-tificiosità, forse eccessiva, di una cucina che con i tempi che corrono potremmo benissimo definire 3.0.

Quali sono stati i protagonisti che lei ha incontrato durante la sua carriera cinematografica, teatrale e televi-siva che più le sono rimasti nel cuo-re e perchè? “Ho avuto la fortuna di la-vorare con molti artisti importanti e non , ed ognuno di loro mi ha lasciato sulla pelle un po’ della loro polvere di stelle: Edua-rdo la professionalità’ e la dedizione per il te-atro; Arbore il gioco dell’improvvisazione.

ra dal lontano 1956 che il Guatemala non partecipava come padiglione autonomo alla Biennale di Venezia e il suo ritorno si esplica con una mostra dal titolo “Sweet Death”. Una mostra irri-

verente e provocatoria atta a smuovere la sensibilità del pubblico, anche e so-prattutto, attraverso la variante parodica delle opere esposte fino al 22 novembre. Il titolo dell’esposizione ‘Morte Dolce’ si ispira allo scenario offerto dal cimitero di Chichicastenango in Guatemala, dove la morte viene esorcizzata attraverso uno spirito gioioso e soprattutto dai colori blu, gialli, turchesi delle tombe, per af-frontare la tematica della decadenza dei valori nella società contemporanea. Una decadenza che abbraccia ogni aspetto

Alla 56° edizione della Biennale di Venezia, Marisa Laurito protagonista di una collaborazione artistica per il padiglione del Guatemala. La famosa attrice e show girl napoletana mostra, attraverso le sue opere, lo sdegno verso una cucina che è sempre più‚ artificiale e sempre meno legata alle tradizioni di un tempo.

biennale di venezia - marisa laurito

Ed io, scelgo il ragù.

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a casa sua si svolgeva una singolare tradizione domenicale, quello che lei chiamava il “Ragù Open”. Ci può rac-contare cos’era? “Preparavo un ragù gigantesco e sul fuoco c’era sempre una pentola dove bolliva l’acqua ed un’altra dove “pippiava” il Ragù’ napoletano. Erano invitati i miei amici e gli amici dei miei amici a qualunque ora, a patto che colassero loro la pasta e se la condisse-ro. È stato un periodo molto divertente, non c’erano appuntamenti ne’ orari, si sapeva che la domenica si poteva veni-re a mangiare da me! La passione è stata per me sempre una scelta basilare: tutto quello che si fa con passione diventa leg-gero, vincente ed avvincente.

Quali sono i mali che deteriorano la cucina italiana e mediterranea soprat-tutto e come possiamo combatterli ? “Il male essenziale è la ricerca dell’ orig-inalità a tutti i costi, che molti chef fa-mosi cercano quotidianamente per dis-tinguersi da altri chef, badando più’ alla composizione del piatto che al gusto, ciò emerge da una cucina Trash che non ap-partiene alla nostra straordinaria cultura culinaria. Questo non vuol dire che non sono favorevole ai cambiamenti ma tra un piattino di spaghetti al fumetto con pomodoro all’azoto ed un piatto di pasta al ragù, io per una volta tanto nella vita non ho dubbi... scelgo il ragù!”

Manfredi devo lo studio dei primi piani e la preci-sione; a Tognazzi la gioia di trasgredire, a Sergio Corbucci, il lavoro vi-sto come divertimento, a Celentano devo la ribelli-

one, la libertà’ di essere artista, a Gino Landi , l’amore per il varietà’, a Banderas la semplicità. Ma i nomi sarebbero tanti ...Mastroianni, Fellini, Nanni Loi, Gre-goretti ...”

L’arte che è in lei però, non si esplica soltanto nella recitazione, Marisa Lau-rito è anche arte pittorica e culinaria; ci racconta quale è il suo rapporto con la pittura e con il cibo? “Per fare una cosa buona in cucina c’è’ bisogno di talento, di giuste proporzioni e naturalmente ci vuole tanta passione. L’arte di cucinare che per me diventa spesso alchimia. La pittura e’ una vecchia passione che non ho mai abbandonato da quando avevo diciassette anni, e che una critica d’ar-te Daniela Del Moro mi ha spinto ad es-plorare da professionista . Adoro i colori, gli impasti, e questa materia che ho im-parato a movimentare che è il silicone. Anche in questo campo devo molto ad alcune persone che hanno creduto in me, tra cui D. Radini Tedeschi, P. Colom-bari e A. Berengo”. In alcune sue prec-edenti interviste lei ha dichiarato che

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punto che diventa “fulcro”; equilibrio di tutta un’esistenza conscia della propria caducità. Un equilibrio labile, figlio di un’intersezione necessaria eppure peri-colo- samente instabile. Quando tutto crolla, lasciando il posto esclusivamente alle macerie dell’io? Quando i mondi che albergano nella mente di ogni essere umano riescono a vivere ognuno nel-la propria dimensione, convivendo con il contesto sociale costruito ed imposto; creando un’aderenza con la propria e-sistenza. L’essere coincide con la per-cezione di sé. L’equilibrio trova la pro-pria ancora nella coincidenza. La nor-malità, forse, decade con il decadere di quella coincidenza. Si diventa dunque pazzi, disadattati, quando non si coincide più con se stessi, quando si diventa “pas-serotti tremanti spaventati dal mondo”.

esistenza di un “universo parallelo” pone l’individuo moderno ad immaginare, d’istinto, qualcosa che non ci sia. “Parallelo” a tutto ciò che la società impone come vero. Un universo

destinato, fin dalla propria definizione, a non sfiorare mai, nemmeno in virtù di errori o forzature geometriche, il so-cialmente accettato. “Parallelo” come sinonimo di fantastico, immaginifico, irreale. Oltre ad essere una possibilità fisica reale, però, gli universi paralle-li, albergano nella mente e nell’anima di ogni essere umano. Ogni individuo ha in sé un mondo altro. Perpendico-lare. La prospettiva geometrica cambia, imponendo un contatto. L’intersezione delle rette in un punto. Quello stesso

L’alienazione da se stessi e dal prossimo. La straniante sensazione di terrore verso un mondo che ripudia i suoi stessi figli. Il bisogno di libertà che si trasforma in un urlo che squarcia l’anima. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” torna sulle tavole del palcoscenico, quelle del Teatro Bellini, e lo fa da “Grande Storia”.

qualcuno volò sul nido del cuculo

Una grande storia.

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Alessandro Gassmann - Il nome del figlio

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Alessandro Gassmann - Il nome del figlioAlessandro Gassmann - Il nome del figlioAlessandro Gassmann - Il nome del figlioAlessandro Gassmann - Il nome del figlio

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cui un nuovo elemento entra a far parte di un sistema, quest’ultimo subisce una scossa. Viene introdotta un’incognita in un’equazione i cui risultati possibili sono esclusivamente due: il nuovo elemento si adegua, oppure, il sistema si piega. Dario Danise (D. Russo) è la x. L’inco- gnita. La ventata di irriverente libertà. L’alter-nativa, per chi ha sempre creduto di non averne. Il “Qualcuno volò sul nido del cuculo” firmato Alessandro Gassman ha inaugurato lo scorso 23 ottobre la stagione del Teatro Bellini. In una rivis-itazione di Maurizio de Giovanni che in nulla manca rispetto agli adattamenti di Wasserman e Forman. Jack Nicholson e Louise Fletcher, seppur restando ine-vitabilmente presenti negli occhi di chi guarda, riescono a rimanere un’ombra di riferimento piuttosto che di paragone. Riferimento che va abbandonato appe-na prima di entrare in sala per riuscire a godere di tutte le sfumature poste a variazione di una pellicola che, da sola, è storia. Una storia attualizzata, resa più vicina nello spazio e nel tempo. Una storia pronta a rivivere tra teatro e vi-deografie. Una storia che non perde mai la propria essenza. Una Grande Storia.“Le Grandi Storie non necessitano di una forma precisa, perché vanno diret-tamente a ferire la superficie dell’anima e lasciano un’indimenticabile, meravi-gliosa cicatrice.”

almeno, questo è il mo-mento in cui la società organizzata ed organiz-zante impone il pro-prio ordine. Asfissiante, limitante, degradante.L’oppressione figlia di

uno sguardo: “se stai tranquillo, stai al sicuro”. Il sipario vero non è il pesante manto rosso di velluto che si apre su una clinica psichiatrica italiana nel 1982, ma la sottile tendina che nasconde lo sguar-do gelido, di Suor Lucia (un’eccezionale E. Valgoi). Regina di un regno inesis-tente, proprio come il nido del cuculo. Regina autoproclamata di quello che è un territorio di nessuno, fertile di frutti che la società ripudia. Suor Lucia incute timore, guardando. Osservando. La vio- lenza si staglia sulla scena in maniera netta, muta. Senza mai doversi esprim-ere attraverso i gesti. Un amore per le regole che, trasformandosi in osses-sione, quasi tradisce la presenza di una patologia anche in colei che ha reso la propria aderenza alla sanità, giustifica-zione e legittimazione di un golpe di cui è sola fautrice e fruitrice. La creazione di un micro-cosmo gerarchizzato, in cui vige l’hobbesiano “homo homini lupus” im-posto, nell’inconsapevolezza generale. Un sistema perfettamente oliato, chiuso in se stesso, in una struttura spiralizza-ta. È scientifico, però. Nel momento in

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ma un milione per sorridere. Ed è questa la reazione che provi: sorridi e godi per novanta minuti delle bellezze paesaggi-stiche, culturali e sociali che solo la città di Napoli ha e che si intrecciano perfet-tamente con il racconto.

Sorridi, perché finalmente c’è chi ha de-ciso di narrare il lato ‘buono’ della cit-tà. Sorridi perché all’oscurità della sala cinematografica viene contrapposta la luminosa gioiosità dei colori di una città che non viene sodomizzata dall’opacità di narrazioni criminali. Sorridi perché paradossalmente il film che stai vedendo è intitolato ‘A Napoli non piove mai’, ma è stato presentato al ‘Napoli film Festi-val’ il primo giorno di un mese di ottobre piovoso e grigio come non mai. Sorridi perché poco importa se non vincerà mai un Oscar. Fuori continua a diluviare, ma l’hai dimenticato, perché in fondo den-tro di te lo sai: a Napoli non piove mai!

ei al cinema, in sala i posti son buoni: quattordicesima fila centrale, ottimo! Fuori quasi diluvia, ma poco im-porta perché sei al coperto; le luci affievoliscono, poi si spengono, buio. Il film inizia.

I tuoi occhi si accendono, la luce sembra squarciare la tela sulla quale sono pro-iettate le immagini, quei colori brillanti quasi sembrano vivi. Sgualcisci le palpe-bre per poi sgranare gli occhi e renderti conto che quella luce ti accompagnerà per tutta la durata del film. Non è un er-rore di proiezione, tantomeno un effet-to della fotografia, la luce è la stessa di una città che nel film viene inscenata con naturalezza e spiccata praticità. Una luce che è dentro i personaggi della com-media - come Barnaba, interpretato da Sergio Assisi, autore e regista del film - che hanno mille motivi per piangere,

Un lungometraggio di Sergio Assisi mostra Napoli viva ed entusiasta. A Napoli non piove mai, presentato al film Festival, per sorridere della vita, nonostante tutto.

a napoli non piove mai

Mentre fuori piove.

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A Napoli non piove mai - Sergio Assisi

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Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune vergognose che quelle insaguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo; solo la virtù non vi possiede altari.

(Sarrasine di Honoré de Balzac)

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Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune vergognose che quelle insaguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo; solo la virtù non vi possiede altari.

(Sarrasine di Honoré de Balzac)

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Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune vergognose che quelle insaguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo; solo la virtù non vi possiede altari.

(Sarrasine di Honoré de Balzac)

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Parigi è un paese molto ospitale; accoglie tutto, sia le fortune vergognose che quelle insaguinate. Il delitto e l’infamia vi godono diritto d’asilo; solo la virtù non vi possiede altari.

(Sarrasine di Honoré de Balzac)

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È ovvio il meccanismo dagli ingranaggi perfetti. È ovvia la ripercussione di scelte belliche in Afghanistan, Iraq, Siria: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Non è ovvio il massacro umano. Non è ovvio che paghi chi non ha avvitato l’ingranaggio. Non è ovvia l’ipo-crisia nel non estirpare la piaga. E, in-tanto, come sospese, restano immobili le lancette che scandivano altri tempi: due amanti nell’attimo eterno dell’amore; un pittore e la sua arte tra le dita, per supe-rare la fisicità e innalzare l’essere umano ad un frammento divino di cui non si urla il nome, per una scusa artefatta, ma che s’incarna nella ricerca del bello, dell’al-tro. Il tempo, lì, fermo, sospeso, tra fog-lie che sanno d’autunno. In attesa che le lancette ritornino a girare, a dispetto deg-li ingranaggi. Come la vita continua nella sua folle pedalata verso quel frammento divino che ci appartiene.

olpi, volti, voci. Spari, ostag-gi, sangue. La diretta disu-mana ha inizio e con essa il soliloquio della ragione. Una ragione sociale intessuta di moralismi e filosofie che vorrebbero essere eccelse.

Come si può formulare una qualsiasi ri-flessione nel momento stesso in cui si sta vivendo l’orrore creato dalla specie umana, a pochi cm dal volto paralizzato ad uno schermo? Non si dà il tempo a se stessi di percepire un dolore, uno strap-po emotivo. Non si elabora, si deve es-ternare. La prima azione comporta una stretta allo stomaco, ansia, paura, con-sapevolezza che ciò a cui si assiste sia il risultato di anni di devastazioni fisiche e culturali. La seconda esaspera con-vinzioni vere o presunte. Carica di odio, allarmismo. Si diventa crociati di una guerra santa dell’ovvietà, stando fermi.

Gli ingranaggi di una guerra subdola e spietata nella crociata santa dell’ovvietà mediatica. Sospesi tra la meschinità umana e l’ipocrisia di un meccanismo perverso.

venerdì tredici novembre

La vie engrenage.

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des Français se réveille enfin. Co-mment les Français se sentent-ils? Etant française moi-même, il est impossible de juger qui que ce soit. Nous sommes tous terrifiés à l’idée de savoir que d’in-nombrables innocents sont morts suite à un «jeu» barbare revendiqué par les terroristes.

Samedi 14 Novembre. La ville-lumière se plonge dans l’obscurité grisâtre et glaçante. Il n’y a plus personne qui court les rues. La foule a disparu. Pa-ris se retrouve face à un néant géant. Il n’y a plus aucune activité. Seul le bruit des radios ou encore la distribution des journaux nourrissent l’angoisse des Français. De mauvaises nouvelles s’an-noncent encore une fois. Ce matin-là, nous réalisons encore mieux l’ampleur des dégâts provoqués la veille.

haque famille a eu peur ce soir-là. Les informations fusent à toute vitesse sur les télévisions aux alen-tours de 23 heures. De gros titres apparaissent comme «Attentats à Par-

is», «Terreur au Stade de France», et plein encore d’autres titres faisant la Une dans le monde en temps réel. Puis après arrivent de nombreux appels se succèdent un par un à n’en plus finir la conversation qui finira par être étouffé en un sanglot commun. Chaque foyer reste immobile face à ces terribles nou-velles qui ne font qu’alimenter la soif de la peur. La nuit «noire» sera décidé-ment très marquante et très courte. C’est alors qu’après une nuit mouve-mentée, le 14 Novembre, la conscience

Ce fut le jour où la conscience des Français se réveille d’un cauchemar en pleine nuit. La capitale de la liberté, de la fraternité et de l’égalité ne voit que de la peur, de crainte, d’insécurité et de méfiance. Derrière les fenêtres se nichent une frayeur et une ombre du mal qui habitent et qui finissent par hanter les Parisiens.

n°13: porte-bonheur ou malédiction?

Paristouché, pascoulé.

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si violent?» ou bien encore «Pourquoi Paris est-elle sujette à un autre épisode qui rappelle un certain onze septembre Américain ?». En clair, des questions qui ne peuvent pas être répondues.

Nous Parisiens, ou autres citoyens français d’ailleurs avions compris quelque chose. Cette chose s’appelle la guerre. La guerre est déclarée à con-trecœur. La France est réputée dans le monde entier de par sa laïcité généreuse. Il est inconcevable à l’heure actuelle de pouvoir se dire que demain est un jour incertain. Nous sommes tous craintifs. La peur règne, mais la force doit battre cette peur. «Ce qui ne nous tue pas nous rend plus forts». Faisons-le pour les victimes ; faisons-le pour obtenir, ne se-rait-ce que pour un jour obtenir la paix. Cette dite paix qui devient de plus en plus irréelle lorsqu’on s’approche dangere-usement du vrai masque porté par des faux-humains. Ceux-ci, ces gens-là qui pensent avoir brisé les milles morceaux de la culture française ne sont que des pures monstres. Nous en tant peuple français, le devoir nous appelle : il y a un besoin cruel et dément de devoir relever la France et sa Paris adorée. De même à devoir rester forts face à cette redoutable épreuve qui tend à nous déstabiliser. Aimons la France et apprenons à nous aimer les uns des autres.

Correspondante venant de Paris A.B.

ous sommes tous pris d’une boule au ventre. Il y’a maintenant cette an-goisse permanente qui nous guette depuis l’at-tentat de Charlie dont on n’y prêtait plus attention

au bout de deux semaines. Cette peur-là, celle du Vendredi treize Novembre deux-milles-quinze durera-t-elle plus long-temps que celle de Charlie Hebdo? Cette insécurité, toute cette méfiance d’au-trui est maintenant installée dans nos pensées. Cet acte sera encore une fois irréversible dans notre âme, dans l’âme-même de la ville de Paris. Dès lors, nous aurons plus le choix de continuer à vivre sans oublier sans pour autant purger les peines. Paris est malade. Paris est mainte-nant rentrée dans les couloirs de la mort, de l’horreur que nécessite toute histoire.

Plus personne ne sort, pas même un chat. Les autorités nous ont vivement conseillé de rester chez nous, là où l’on peut se sentir au minimum en sécurité. Car plus rien aujourd’hui est sécurisé. Nous Parisiens ne sortons pas. Nous ne voulions que rester chez nous afin de comprendre ce qui se passe pour en-suite l’avaler de travers. Après cet ép-isode meurtrier, on se pose volontiers toutes ces questions. «Qu’est-ce que me préserve l’avenir dans un monde

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ben poco ma sarà memorabile. Il 14 No-vembre, la coscienza è finalmente sve-glia. Ed ora, ora come si sentono i fran-cesi? Ci penso, ma da francese non rie-sco ad essere giudice di me stessa. C’è solo la paura nei miei pensieri, il terrore dinnanzi al sapere che ci sono state vit-time innocenti, cadute dinnanzi ad una barbarie, già, rivendicata dai terrorristi.

14 Novembre. La città delle luci è spen-ta dal grigiore e dal freddo. Non c’è nessuno che gira per le strade. La folla è sparita. Parigi si trova di fronte solo ad un grande vuoto. Non c’è più nessuna attività. A tener vivia l’angoscia riman-gono solo i graffianti suoni delle radio e la distribuzione incessante dei quotidia-ni. Le notizie annunciate sono sempre le stesse, ancora una volta. La coscienza è finalmente sveglia, e ci si rende con-

aura, è questa l’avversaria con cui le famiglie fran-cesi, questa tragica hanno dovuto combattere. Sono circa le 23, quando ad un tratto le notizie iniziano a correre a tutta velocità,

appaiono titoli come: “Attentato a Pari-gi”, “Terrore allo Stade de France”, che in pochi secondi accrescono il timore in tutto il mondo. Ben presto partono le telefonate, quelle di conforto, ma an-che quelle di sofferenza, parole soffo-cate, che si trasformano in singhiozzi collettivi. Ciascuno di noi è paralizzato, bloccato fisicamente, ammanettato con la propria anima, perché la sete di pau-ra continua ad alimentarsi di quanto di più orribile sta accadendo. Questa notte è nera, è nera e durerà ben poco, durerà

La coscienza dei francesi si è svegliata dopo una notte da incubo. La capitale della libertà, dell‘uguaglianza e della fratellanza respira ora soltanto paura, timore, insicurezza e diffidenza. Dietro le finestre appaiono gli spaventi e le ombre del male, che tuto ad un tratto si insinuano nella mente dei parigini.

n°13: portafortuna o maledizione?

PColpiti, non affondati.

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“Cosa difende il nostro domani da un mondo così violento?” - vanno avanti, non si fermano, i dubbi non trovano ri- paro - “Perchè a Parigi è andato in sce-na un altro drammatico 11 settembre?”. Ci penso, non trovo risposta, non sono giudice di me stessa e non riesco neanche a trovare una soluzione. Questiti trop-po grandi per me, dubbi che volano su questo cielo grigio di Parigi.

I parigini e tutti i cittadini francesi già lo sanno, è guerra. È dichiarata, a ma-lincuore, ma è guerra. Ma perché tutto questo sta accadendo qui? Nella patria della laica generosità, cala il sipario del-le certezze sul nostro futuro. Si sente, “Ciò che non ti uccide, ti fortifica”; bi-sogna essere forti per le vittime, bisogna farlo per ottenere, in un glorioso giorno, la pace. Un miraggio, quest’ultima, che diviene sempre più lontana, quando ci si avvicina. Ecco la falsa maschera umana. Se si era pensato di frantumare in mille pezzi la nostra cultura, si è fallito. Siamo un popolo, quello francese, e il dovere ci chiama: c’è un disperato bisogno di rial-zare la Francia, e la sua amata Parigi. Ma allo stesso tempo dobbiamo imparare, imparare ad essere forti, forti dinnanzi ad una terribile prova che tende a de-stabilizzarci, a spingerci nel profondo pozzo dell’odio. Intanto noi resistiamo, sul bordo, resistiamo amando la Fran-cia, cercando di imparare ad amarci, ad amarci l’uno con l’altro.

to della drammaticità del giorno prece-dente. Siamo stati colpiti dritti al cuore, ma il timore vero è che l’angoscia reste-rà lì a ricordarci la nostra identità, per non più di due settimane. D’altro canto, fu così anche con Charlie. Durerà di più? I nostri pensieri ormai sono sono dif-ferenti, siamo insicuri, una ignota dif-fidenza si è insinuata nel nostro essere. Questo atto lo andremo a sommare, lo andremo a sommare in un irreversibile bilancio di odio, che ha iniziato a com-putare la nostra anima e quella di Pari-gi. Charlie è stato l’inizio, da lì abbiamo scelto di continuare a vivere, senza più dimenticare. Parigi è malata. Siamo en-trati in un tunnel dell’orrore, dinnanzi a noi le immagini della morte, di quelle morti di cui la storia necessita per an-dare avanti.

Nessuno si aggira per le strade, anche i gatti hanno deciso di ripararsi dal gri-giore. Le autorità ci consigliano viva-mente di restare a casa, li dove possia-mo sentirci al sicuro ... lì dove possiamo sentirci al sicuro? Perchè per ora nessun luogo è sicuro. I parigini temono, temo-no e si riparano, si riparano e restano chiusi. Chiusi in casa e chiusi in se stes-si, per capire e meditare su cosa stia ac-cadendo. Per digerire anche questa volta un boccone troppo amaro. Dopo questo episodio sanguinario, la mente è invasa dalle domande, i dubbi si susseguono:

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