Il buttafuori di Dio - estratto libro - Paoline

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L’avvincente autobiografica di John Pridmore, ex criminale londinese, che si converte a Dio trasformandosi in un evangelizzatore pieno di fede e di entusiasmo. http://www.paolinestore.it/shop/il-buttafuori-di-dio.html

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PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2011 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

Titolo originale dell’opera: From Gangland to Promised Land© 2002 & © 2004 John Pridmore and Greg Watts

Traduzione dall’inglese a cura di Augusto Monacelli

Le foto di copertina e dell’inserto sono state gentilmente concesse da John Pridmore

Alla memoria del mio caro papàBrian Bailey Pridmore,

morto il 20 settembre 2004.Gli voglio bene e lo ricordo con nostalgia.

Riposi in pace.

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I.

FIGLIO DI UN POLIzIOTTO

Era l’estate 1991: facevo l’usciere, o meglio il but-tafuori, al Nightingales, un noto pub nel West End di Londra. La serata era trascorsa abbastanza tranquilla. Non vedevo l’ora di portare allo Stringfellows, un al-tro locale, una ragazza che si era fermata a chiacchiera-re con me. Ecco un lato positivo del lavoro di buttafuo-ri: la continua presenza di donne.

Al termine della notte, come di consueto, feci il giro del locale, invitando le persone a finire di bere. La mag-gior parte dei guai nei pub e nei nightclub si verifica al momento della chiusura: tanti non capiscono che gli uscieri non guadagnano alcun soldo in più ad aspettare che gli altri finiscano con comodo di bere. Ecco perché hanno fretta di mandare via la gente.

Mi avvicinai a un gruppo di ventenni scalmanati, se-duti a un angolo del bar, e dissi in tono deciso: « Forza, ragazzi. Finite di bere, per favore ».

« Quando lo voglio io », replicò secco uno con la ma-glietta bianca, chiaramente ubriaco.

« Senti », dissi, chinandomi sul tavolo, « tra due mi-nuti ve ne dovete andare tutti. È chiaro? »

Si misero a ridere, continuando a sorseggiare la birra.Mentre mi spostavo dalla parte opposta del bar per

far uscire altra gente, udii un gran baccano. Mi guardai

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attorno e vidi due colleghi trascinare fuori i tipi sbron-zi. Accorsi a dare una mano.

Come arrivai alla porta, i cinque urlarono tentando di rientrare. Con un rapido scatto bloccai loro l’entra-ta e, infilando la mano nella tasca del giaccone, arrivai a toccare il tirapugni. Mentre i colleghi uscieri se la vede-vano con gli altri quattro, il tipo più ubriaco diede uno spintone per cercare di passare. “Eh no, mio caro”, pen-sai fra me e me, riacciuffandolo con il gomito e con tut-ta la forza del corpo. Questi si scagliò di nuovo contro di me, ma stavolta gli assestai un colpo sul mento, che lo fece barcollare all’indietro. Farfugliò qualche paro-la ad alta voce, poi crollò. La testa, battendo per terra, sembrò quasi esplodere, schizzando sangue dappertut-to. Mi rinfilai in tasca il tirapugni e feci un cenno per indicare che l’avevo colpito solo con un cazzotto. Non pensavo che sarebbe crollato in quel modo.

La gente, alla vista di quel corpo immobile lì per terra in un lago di sangue, era in preda al panico e urlava. Gli altri uscieri erano paralizzati, non sapevano cosa fare. Poi uno di loro corse a chiamare l’ambulanza. I clienti inizia-rono ad affollarsi attorno al tizio per terra, visibilmente sotto shock. Mi sentivo stordito, e tutto questo trambu-sto mi appariva come un’immagine sfocata.

« È morto, è morto! », gridò una ragazza.“Se è morto, è colpa sua”, pensai. Subito dopo sen-

tii una mano pesante sulla spalla. « Andiamo, John, lo hai ammazzato ».

Era il mio amico Bulldog, venuto dall’East End per bere con me.

« Vado a riprendere la macchina, John, dammi le chiavi. Tu prendi un taxi davanti al Cairos ».

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Bulldog sapeva che il pub metteva sempre a dispo-sizione un taxi al Cairos (un club della via accanto), se un cliente fosse stato ferito da un buttafuori. In questo modo nessuno ci avrebbe visto uscire dal pub. Gli pas-sai le chiavi, attraversai in fretta il bar dal seminterrato e uscii dalla porta di servizio. Quando arrivai al Cairos, Bulldog era già lì, seduto in macchina. Anziché prende-re il taxi che era in attesa, preferii mettermi io al volan-te e tornare a Leyton.

« John, lo hai ammazzato. Devi stare attento a quel-lo che fai », mi disse in tono serio Bulldog, mentre pas-savamo per lo Strand. Bulldog era un pezzo da novanta nell’East End e abituato a queste cose.

« Non so », risposi d’impeto, mentre mi tornava in mente quanto accaduto.

« Qualcuno al pub ha fatto il tuo nome alla polizia? »« No, nessuno dirà niente ».« Bene. Vuoi dei soldi per andare all’estero, in Spa-

gna o da qualche altra parte? »« Ce li ho i soldi, Bulldog », risposi, facendo spalluc-

ce. « Non c’è problema, non ti preoccupare, ce la pos-so fare ».

La mia storia ha inizio il 4 febbraio 1964 all’ospedale Salvation Army di Hackney, un quartiere a nord-est di Londra. Essendo nato nella zona da cui si sentono suo-nare le campane della chiesa di St-Mary-Le-Bon, posso definirmi un vero Cockney londinese. Mio fratello Da-vid è nato nel 1961.

La nostra era una famiglia operaia. Mamma faceva lavori di vario genere, come la commessa, mentre papà faceva il poliziotto. La prima casa in cui abitammo era

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una bifamiliare con tre camere in una via chiamata Bri-dge End a Walthamstow, nella periferia estrema di Lon-dra, vicino alla foresta di Epping. Una zona trafficata e altamente popolata, famosa per ospitare il mercato di strada più lungo d’Europa. La casa mi piaceva, soprat-tutto perché aveva una cantina e, sul retro, un piccolo giardino di venti metri quadri.

Mamma era nata nella zona di Elephant and Castle, a sud-est di Londra, e aveva una sorella; papà a Wood-ford, vicino a Walthamstow. Aveva una sorella e quat-tro fratelli, questi ultimi, caso curioso, diventati tutti po-liziotti. I miei si conobbero una sera, quando mamma e un’amica chiesero indicazioni a papà e a un suo col-lega. Iniziarono quindi a uscire in quattro. Mamma e papà andarono subito d’accordo e, dopo qualche anno, si sposarono. All’epoca mia madre era cattolica prati-cante. Papà proveniva da una famiglia anglicana, ma non era molto credente. Mamma pose una condizione per il matrimonio: i figli dovevano crescere da cattolici.

Il mio ricordo più lontano nel tempo è il giorno in cui compii quattro anni. Papà mi chiese se volevo resta-re a casa o andare a giocare a scuola: gli risposi che vole-vo restare a casa. Per il compleanno mi regalò una dama con i pezzi a forma di indiani e cow-boy.

Il primo giorno alla scuola elementare Thorpe Hall di Selbourne Road, non feci che piangere per tutto il tempo. La preside, la signorina Cobblestick, sembrava avermi in simpatia, nonostante fossi un birichino. Ogni volta che mi mandavano da lei, mi dava una caramella che prendeva da un barattolo dietro la scrivania. Altre volte, mi sedevo sotto la sua scrivania a colorare figu-re, guardando affascinato la cassaforte inserita nel pavi-

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mento. Quando la signorina Cobblestick se ne andò, fu sostituita dalla signora Ruttey, che era terribile.

Per la piega che avrebbe preso la mia vita, non sor-prende se già al tempo della scuola elementare fre-quentassi una « gang ». Vicino casa passava la ferrovia Liverpool Street-Clingford. Un cavalcavia e un sotto-passaggio erano un ottimo posto dove giocare per me, David e altri amici. Un giorno ci beccò la polizia che, dopo averci dato una sonora sgridata, prese i nostri nomi e cognomi. Quando tornai a casa non dissi nien-te ai miei. Una settimana dopo, papà tornò dal lavoro molto irritato, avendo saputo da uno dei poliziotti del-la questura che avevo giocato sui binari della ferrovia. Così mi presi un’altra bella lavata di capo e andai a let-to presto.

Spesso andavamo al cinema Granada di Wal-thamstow e, siccome papà era un poliziotto del posto, entravamo gratis. Il direttore del cinema era conten-to della sua presenza, perché se un ragazzo avesse ini-ziato a creare guai, papà lo avrebbe subito buttato fuo-ri. È quanto accadde durante il film Il Grinta con John Wayne, quando due ragazzini si stavano rendendo in-sopportabili. Papà, allora, li prese per i capelli e li tra-scinò fuori. Mi piacque molto il modo in cui era inter-venuto, mi sembrava degno di John Wayne.

A sei anni, per il mio compleanno, i nonni materni ci portarono in macchina a Hastings (papà, pur avendo preso la patente, si rifiutava di guidare da quando ave-va assistito a un terribile incidente stradale avvenuto un giorno di Natale). Con il sole in faccia, io e mio fratel-lo sguazzavamo nel mare sotto lo sguardo dei nonni, se-duti sulla spiaggia. Mamma e papà erano andati in città.

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Tornarono tenendosi per mano e, sorridendo, ci disse-ro che avremmo trascorso tutta la settimana a Hastings. Io e mio fratello andammo in visibilio e corremmo ad abbracciarli.

Fu una settimana splendida, uno dei ricordi d’infan-zia più belli che si possono avere. Dormivamo sopra un pub e trascorrevamo ogni giorno al mare, visitando il castello e andando al luna-park. Un pomeriggio, papà e David se ne andarono da soli da qualche parte, mentre io e mamma facemmo una passeggiata sul lungomare, concludendo la giornata, a tarda sera, in un ristorante italiano. Ricordo che mi fece portare del latte caldo al malto servito in un lungo bicchiere.

Le domeniche papà mi portava spesso al bar del cen-tro sportivo della Polizia Metropolitana, dove giocava a carte. Una volta, durante il gioco delle tre carte, gli capi-tò una mano di tre re. « Che bella mano, tre re! », escla-mai. Gli altri poliziotti scoppiarono a ridere; papà, in-vece, non era affatto divertito.

Papà amava il suo lavoro di poliziotto e aveva un sac-co di storie da raccontare. Ricordo quando diceva di aver incontrato il ladro più scaltro che avesse mai cono-sciuto. Aveva la tattica di intrufolarsi, di mattina presto, in un gruppo di case, ed entrare e uscire dalla porta di servizio di ognuna. Si portava via sempre e solo soldi. Finite le sue irruzioni, riponeva il denaro in una gros-sa busta marrone indirizzata a se stesso e la gettava nel-la cassetta della posta. In tal modo, se mai lo avessero acciuffato, non avrebbe avuto con sé nulla per cui es-sere accusato.

Gli anni Sessanta erano l’epoca dei fratelli Kray, fa-migerati gangster dell’East End londinese. Da bambi-

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no non sapevo nulla di quel mondo, ma ricordo quan-do papà una notte disse, tutto fiero, di aver fermato per eccesso di velocità i fratelli Kray che, in tale circostan-za, si erano dimostrati gentili e cortesi.

Se mamma faceva gli straordinari al lavoro, papà ci veniva a prendere a scuola con la macchina della poli-zia e ci portava alla sua mensa, dove attendevamo che finisse il turno lavorativo. Era un momento bellissimo: tutti i poliziotti scherzavano e giocavano con noi a bi-liardo o ci davano caramelle. Ammiravo molto la poli-zia, soprattutto perché, penso, aveva potere e autorità.

Come ogni bambino, a Natale avvertivo sempre un’at-mosfera magica. La settimana prima, papà mi portava al West End per farmi scegliere i regali. Guardare tutti i gio-cattoli esposti da Hamley e Selfridge era favoloso. Dopo raggiungevamo a piedi Piccadilly Circus, pranzavamo in un ristorante e andavamo al cinema. Durante il viaggio di ritorno in metropolitana, spesso mi addormentavo.

La religione non ebbe una parte importante nella mia infanzia. Mamma si era allontanata dalla fede cattolica su-bito dopo la mia nascita, e andava in chiesa solo qualche volta. Quando avevo tre anni mi portava a Messa, dove mi annoiavo. Per me era molto più interessante, in seguito, andare con papà alle corse dei cani e delle macchine che stare seduto in una chiesa tutt’altro che attraente. Mam-ma mi indicava sempre la chiesa dove ero stato battezza-to, ogni volta che ci passavamo davanti. In ogni caso, an-che a quell’età ero sempre affascinato da Dio. Una volta chiesi a una zia di comprarmi una Bibbia per bambini.

Ho tanti ricordi felici di quei primi anni d’infanzia. Il più bello è quello del decimo compleanno. Avevo sem-pre desiderato un cane. Un giorno papà ordinò all’au-

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tista della macchina della polizia di fermarsi, entrò in casa con una scatola di scarpe, la pose sul tavolo e dis-se: « Questo è per te ». Tolsi il coperchio e feci salti di gioia: dentro c’era un cucciolo di Labrador. Non riu-scii a contenere l’emozione e corsi ad abbracciare papà. « Spero che non dia problemi », disse ridendo. « Ha vo-mitato per tutta la macchina ». Ripensando a quei primi dieci anni, mi sentivo sicuro, contento, amato e stimato.

All’età di undici anni, ricevetti la notizia che mi avrebbe rovinato l’infanzia. Ritornato dal corso dei Sea Scouts, andai di fretta in cucina e trovai mamma e papà che litigavano. Non avevo mai visto papà così adirato. Appena mi videro, mi ordinarono di andare in came-ra. Vi trovai mio fratello che piangeva. Non volle dirmi il motivo per cui mamma e papà stavano litigando, ma pronunciò una parola mai udita prima: divorzio.

Poco dopo, i miei salirono in camera e si sedettero su entrambi i lati del letto. « Ragazzi, dovete scegliere con chi volete vivere », disse papà in tono lento ma deciso.

« Perché, papà? », chiesi, non riuscendo a capire la domanda. « Cos’è, uno scherzo? »

« Noi ci separiamo », replicò mamma, piangendo.Ancora non capivo cosa volessero dire. « Perché

devo scegliere con chi voler vivere? Io sto con tutti e due. Siete mia mamma e mio papà ».

David rimase in silenzio e in lacrime. Sembrava ca-pire di cosa stessero parlando. Quella notte, in camera, cercò di spiegarmi che mamma e papà sarebbero anda-ti a vivere in luoghi diversi, quindi dovevamo decidere con chi voler abitare.

« Ma perché? », protestai. « Perché devono andare a vivere in luoghi diversi? Non ha senso ». Ero completa-

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mente confuso. Ripensandoci, credo di aver inconscia-mente preso la decisione di non amare più: in tal modo, avrei evitato di ferirmi.

Le settimane seguenti, mamma si chiuse molto in se stessa, rivolgendoci poco la parola. Un giorno papà ci disse che si sarebbe assentata per un po’ di tempo, trat-tenendosi a Claybury. Rimasi sbalordito. A scuola, Clay-bury era chiamata « la casa dei matti »; a volte ci diceva-no « tu dovresti andare a Claybury ». Si trattava infatti di un ospedale psichiatrico.

Quando un giorno mamma andò via con la valigia e salì sulla macchina di uno sconosciuto, la casa mi sem-brò vuota e fredda. Ogni sera, tornato da scuola, mi aspettavo sempre di trovarla. Spesso piangevo finché non mi addormentavo, chiedendomi perché se ne fosse andata e quando l’avrei rivista.

Dopo un po’, io e David ottenemmo il permesso di andarla a trovare dopo la scuola. Prendevamo l’auto-bus da Walthamstow fino alle porte di Chigwell e, dopo aver percorso una via, imboccavamo il vicolo che con-duceva a Claybury. L’ospedale era un enorme e squal-lido edificio in stile vittoriano, esteso in tutto il terreno circostante. Ogni volta che camminavo per i lunghi cor-ridoi, sentivo odore di disinfettante, che mi dava spes-so il voltastomaco.

Mamma sembrava diversa a Claybury. Secondo Da-vid, stava prendendo delle pillole per guarire. Alcu-ni pazienti dell’ospedale mi facevano paura. Andavano in giro mormorando da soli, oppure stavano seduti nel soggiorno con lo sguardo fisso nel vuoto e fumando una sigaretta dietro l’altra. A volte sentivo gridare da qual-che parte. Era un luogo terribile.

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Iniziai a provare risentimento verso papà poiché, pensavo, era colpa sua se mamma se n’era andata, io volevo che restasse con noi. In quel periodo, alla scuo-la superiore di Chapel End, riversavo in classe tutta la rabbia che avevo dentro. Facevo a botte, mi trastullavo in classe ed ero indisciplinato. Mi azzuffavo sempre con ragazzi più grandi di me, e presto mi soprannominaro-no « testa calda ». A scuola, sapendo che dovevo andare a trovare mamma, non mi trattenevano più per punizio-ne, anche se prendevo più bacchettate degli altri alunni.

A casa, iniziavo a fare l’impertinente con papà e ri-fiutavo di obbedirgli. Sapevo che gli dava fastidio. Di-cevo che sarei andato a vivere con mamma quando sa-rebbe uscita da Claybury. Mi mancava terribilmente. Un giorno, per far capire a papà come mi sentivo, spac-cai un tiro al bersaglio che mi aveva comprato. Era uno dei miei giochi preferiti, ma volevo disperatamente di-mostrargli come mi sentivo.

Mamma, durante la sua permanenza a Claybury, era confusa. A volte, quando l’andavo a trovare, mi chiede-va di andarmene, altre volte mi abbracciava. Ero preoc-cupato per lei, mi sembrava che stesse diventando come gli altri degenti. Mi ero rassegnato al fatto che non stes-se bene, ma mi chiedevo se sarebbe mai uscita da quel posto. La mia insicurezza aumentò quando papà, poco dopo il ricovero di mamma, annunciò che ci saremmo trasferiti in un bilocale della polizia a Walthamstow.

Se ripenso a quel periodo davvero traumatico del-la mia vita, c’è una cosa che spicca: nessuno mi chiese come mi sentivo, che effetti avesse provocato su di me la separazione dei miei. Anche i nonni, che abitavano a Walvorth Road, sull’altra sponda del fiume, sebbene mi

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accogliessero a braccia aperte quando andavo da loro nei weekend, non mi chiedevano mai cosa mi passas-se per la mente. Questo mi irritava ancora di più. Pro-babilmente fu proprio il fatto di sentirmi così isolato e trascurato che mi spinse a rubare denaro a mio padre.

All’inizio sembrava che mamma sarebbe dovuta ri-manere a Claybury per qualche anno; invece, l’anno dopo uscì e fu trasferita a Forest House, un centro di riabilitazione collegato all’ospedale. Più in là nel tem-po, mi disse che le cure l’avevano aiutata, e che nonno aveva fatto celebrare una Messa per lei. Trovò lavoro in un’impresa di mobili vicino alla mia scuola. Gli anni precedenti aveva lavorato come segretaria presso un’e-noteca della City.

Ricordo che papà, preoccupato per un’eruzione cu-tanea che mi era venuta, mi portò dal medico. Questi indicò che lo sfogo era dovuto allo stress e si raccoman-dò che non vedessi mamma – sarebbe stata questa, se-condo lui, la causa del problema. Papà ebbe vita dura, dovendo badare a me e David e nel contempo al suo la-voro di poliziotto. Fece molti sacrifici e di certo diede priorità alle nostre esigenze.

Mamma mi veniva a trovare a scuola all’ora di pran-zo. Mi aspettava nell’area-giochi e mi portava in un bar lì vicino a mangiare qualcosa. Cominciavo a dare gran-de importanza a questi incontri. Un giorno, papà si pre-sentò a scuola e vi trovò mamma. Le disse che secondo il medico, era meglio se per un po’ di tempo mi avesse lasciato stare. A vederli litigare sull’argomento, mi sen-tivo impotente e addolorato. Il fatto che mamma fosse venuta a trovarmi a scuola mi aveva fatto sentire specia-le, per una volta.

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Feci amicizia con un altro ragazzo della mia età, Si-mon, il che contribuì ad alleviarmi un po’ il dolore di quei sei mesi. Lo conobbi quando mi passò davan-ti mentre facevo la fila alla mensa della scuola. Lo pic-chiai, ma poi diventammo amici, scoprendo che a tutti e due piaceva giocare ai soldati e interessavano i serpen-ti (mi stupiva che suo zio li tenesse in una cassa di vetro nel salotto). Simon e io ottenemmo il permesso di anda-re in campeggio, per un weekend, a Southend-on-Sea. Clive, il fidanzato della mamma di Simon, fu disposto a darci un passaggio a casa, e papà mi portò da Simon. Ben presto Elsie, la mamma di Simon, e papà iniziaro-no a frequentarsi e Clive uscì di scena.

Per me e Simon sarebbe stato bellissimo se mio pa-dre e sua madre si fossero sposati, avremmo vissuto in-sieme come fratelli. Simon aveva due sorelle: Emma, di sei anni, e Linda, di diciotto. Qualche settimana dopo, ci trasferimmo in un appartamento della polizia a Romford. Ma i primi screzi fra Elsie e papà non si fe-cero attendere. Non è semplice per due famiglie vivere sotto uno stesso tetto, e papà ed Elsie la pensavano di-versamente su come metter su famiglia.

In quel periodo, mamma lavorava in una cooperati-va e abitava in un monolocale a Leyton. Aveva divorzia-to da papà e ora frequentava un uomo di nome Alan. Io e mio fratello David trascorrevamo spesso i fine set-timana con lei. Alan mi adorava e talvolta mi portava in giro in motocicletta.

Un sabato entrai nell’appartamento (come spesso fa-cevo da quando mamma mi aveva dato la chiave) e tro-vai una valigia nella stanza. Incuriosito, l’aprii e vidi che era piena di banconote da cinque e da dieci sterline. La

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tentazione era troppo forte: presi un mucchietto di quei soldi e me lo infilai nella tasca dei pantaloni. Da allora, ogni volta che andavo nell’appartamento, prendevo al-tro denaro. Simon e io lo spendevamo nei takeaway, per andare a mangiare al ristorante (dove potevamo bere la birra) e passare delle giornate a Southend, dove una vol-ta pagai cinquanta giri sulla pista di go-kart.

Mi ero ormai trasferito alla Reading Court School di Hardoll Hill. Andavo molto bene agli esami, perché avevo buona memoria, ma facevo fatica a stare atten-to in classe. Disturbavo, anche se la lezione era tenuta dall’insegnante più severo. Le materie che studiavo, ec-cetto arte, mi interessavano poco. Non ne vedevo l’u-tilità. Non avevo voglia di restare a scuola sette ore al giorno, e non ne facevo certo mistero. Al confronto con Chapel End, Reading Court era molto meno rigida. Mi bacchettarono solo una volta.

Intanto cominciavo a taccheggiare. La prima volta fu quando papà mi diede dei soldi per comprarmi un paio di scarpe da ginnastica. Entrai in un negozio, mi infilai le scarpe sotto la giacca e uscii. La maggior parte delle cose che sottraevo era inutile. Lo facevo solo per divertimento.

Un pomeriggio, un investigatore mi scovò in un ne-gozio di Littlewoods, a Romford. La polizia, una vol-ta arrivata, mi perquisì e mi trovò in tasca dei por-tatovaglioli, che ammisi di aver rubato nei grandi magazzini Debenhams. Mi fecero salire sul sedile po-steriore della macchina e mi portarono al commissariato di Romford. Papà, quando arrivò, mi disse di non esse-re sorpreso di quello che avevo fatto, visto il mio solito comportamento.

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La settimana seguente, dovetti tornare al commis-sariato con papà per essere diffidato. Lui non sembra-va preoccupato, tanto che durante il viaggio in autobus non faceva altro che raccontare barzellette. In realtà, era più in ansia per me di quanto non ritenessero gli al-tri poliziotti. Conclusa la diffida, mi disse, in tono se-vero, che se avessi continuato a taccheggiare sarei fini-to al riformatorio.

L’incidente e la minaccia del riformatorio non mi fe-cero perdere il brivido per i furti. Rubavo perché vole-vo attenzioni. Dopo che i miei si erano separati, mi sen-tivo trascurato. A parte Simon e David, nessun altro si preoccupava di come mi sentissi.

Un giorno Alan, il fidanzato di mamma, telefonò a papà per dirgli che avevo rubato soldi. Nel giro di pochi mesi, avevo sottratto la bellezza di 1400 sterline.

« Che succede, John? », chiese papà.« È perché tu e mamma avete divorziato », risposi.« Che vuoi dire? »« Voglio tornare con tutti e due ».Quella sera papà mi rivelò ciò che temeva. « Da poli-

ziotto, ho visto tanti ragazzi prendere questa strada, che porta al disastro. Io ci tengo a te, John, e non voglio che tu faccia la stessa fine ».

Quando incontrai Alan, temevo il peggio. Invece mi fece sedere e, in tono affettuoso, mi disse di avermi per-donato, ma voleva sapere perché avevo rubato il dena-ro. Risposi balbettando che lo avevo fatto solo per in-gordigia. Anche se questo era in parte vero, non mi sentivo di ammettere che il motivo principale era dovu-to al profondo dispiacere che provavo per la separazio-ne dei miei. Non ce l’avevo con Alan per la separazio-

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ne, i responsabili erano mamma e papà. Quando mi resi conto di aver deluso e offeso Alan, una persona gentile e disponibile, mi sentii molto in colpa.

Ma questo non bastò a fermarmi. Presto passai dai taccheggi alle rapine, facendo irruzione nelle case insie-me ad altri due coetanei, Chris e Kenny. Chris era gras-sottello e portava sempre una maglia della squadra del Liverpool, mentre Kenny era magro, aveva i brufoli e sembrava aver sempre bisogno di una bella lavata. Di solito per uscire mi arrampicavo dalla finestra della mia stanza, saltavo su uno scalino e quindi per terra. Incon-travo Chris e Kenny sulla via principale alle tre di not-te. Entravamo nelle scuole, nelle guardiole d’ingresso ai parchi, nelle fabbriche, dappertutto. Una volta rubam-mo una serie di mazze e palle da golf, e ci divertimmo un mondo il giorno dopo a giocarci nel parco.

Lo facevamo solo per il brivido del furto, non perché volevamo le cose che rubavamo. Se trovavamo dei soldi, come nella mia scuola, tanto meglio. Papà, avendo in-tuito che la notte me la svignavo, metteva dei fiammife-ri attaccati alla porta anteriore e a quella di servizio per vedere se mi fossi mosso.

Non ci misero molto a prendermi. Accadde una not-te, quando io e Chris entrammo in un negozio di ani-mali. Per qualche motivo che non ricordo, avevamo de-ciso di rubare dei topolini bianchi. Qualcuno avrà visto che ci arrampicavamo sul muro dietro il negozio: entro cinque minuti, infatti, arrivò la polizia, che ci colse in flagrante e ci portò al commissariato di Romford. Du-rante l’interrogatorio, entrambi ammettemmo di aver rubato una macchina quella notte. Ci riaccusarono e ci riportarono a casa.

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Papà, venuto a sapere dell’accaduto, andò su tutte le furie. Alcune settimane dopo, mi presentai in tribuna-le, dove fui giudicato colpevole di furto aggravato, poi-ché Chris era stato trovato in possesso di un coltello a scatto. Come pena, mi diedero 24 ore da passare presso un centro di servizi sociali. Questo significava che ogni sabato pomeriggio, per dodici settimane, avrei dovuto passare due ore a fare lavori di carpenteria. Anche se li odiavo, non mi fecero perdere il vizio di fare irruzione nelle proprietà altrui.

Qualche settimana dopo, durante le vacanze esti-ve, entrammo di nuovo nella nostra scuola, attratti dal-la prospettiva dei soldi per la cena. Quella volta, però, l’ufficio amministrativo era chiuso a chiave. Cercammo di aprire la porta a calci e spinte, ma invano. Furiosi, iniziammo a spaccare tutto quello che ci capitava sotto gli occhi. Calmata la rabbia, avevamo provocato danni per migliaia di sterline, sembrava che alcune parti della scuola fossero state distrutte da una bomba.

Due giorni dopo, guardando dalla finestra, ragge-lai vedendo arrivare due poliziotti, i quali, rivolgendo-si a Elsie, dissero di avere un mandato di perquisizione. Elsie, sbalordita, chiese cosa fosse successo, ma io feci spallucce e mi sedetti in salotto aspettando l’inevitabi-le. A che sarebbe servito fuggire? Ero pronto ad affron-tare la « solita musica ».

Qualche minuto più tardi, i poliziotti entrarono in salotto portando in mano vari oggetti rubati, trovati sot-to il mio letto. Mi arrestarono, mi fecero salire in mac-china e mi portarono al commissariato di Romford per l’imputazione. Avevano trovato altri oggetti nelle case di Chris e Kenny, anch’essi accusati. Tutti e tre doveva-

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mo presentarci al tribunale di Romford dopo una quin-dicina di giorni.

Quella sera papà mi disse, con aria preoccupatissi-ma, che voleva parlarmi a quattr’occhi. « John, stavolta non credo che te la caverai, ti porteranno via. Io ti con-siglio di ripartire da zero e confessare ogni cosa che hai fatto. Altrimenti saranno guai seri per te. Dammi ret-ta, John ».

Ascoltai papà, più preoccupato per me che arrabbia-to per quello avevo combinato, e mi convinsi che aveva ragione. Sarebbero stati guai seri se mi avessero portato via. In quel caso, non volevo che mi ripiombassero ad-dosso le accuse. Il mio obiettivo era uscire prima possi-bile e rimanere fuori.

In tribunale, dove papà mi fece da assistente, confes-sai sessanta reati di furto. Non sapevo però che, prima dell’udienza, Chris e Kenny erano entrati in una fattoria e avevano rubato una pistola. Quell’arma, seppur scari-ca, ci mise tutti in cattiva luce. Quando il giudice racco-mandò che tutti e tre andassimo al riformatorio, sudai freddo. Ne avevo sentite di tutti i colori sui riformato-ri. Adottavano metodi brutali. D’un tratto, pensando a quest’eventualità, mi resi conto di quello che ero di-ventato. Il magistrato aggiunse che la sentenza defini-tiva poteva essere emessa solo da un giudice della cor-te d’appello per processi penali. Nel frattempo decretò che noi tre saremmo stati messi in custodia obbligato-ria dei nostri genitori.

Il giorno del mio processo, un mattino di settem-bre, entrati nel tribunale Chelmsford, incontrai il mio avvocato. Papà l’aveva nominato su consiglio di Sher-win, un altro esperto legale che avrei di nuovo incon-

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trato pochi anni più tardi. In tale occasione, imparai come, con il denaro, sia possibile ottenere una senten-za di non condanna.

« Se vai in aula uno », disse in modo chiaro il mio av-vocato, « capiterai con il giudice Greenwood e io non potrò fare nulla. Ti manderanno al riformatorio ».

L’altoparlante scandì il mio nome, seguito dalle paro-le « aula uno ». È la fine, sono perduto, pensai, alzando-mi. Poi però mi dissero che Greenwood era stato asse-gnato a un’altra aula e sostituito da un altro giudice. Tirai un sospiro di sollievo e rivolsi un sorriso nervoso a papà.

Il giudice, dopo aver ascoltato la deposizione dell’av-vocato di Chris, chiese se anche il mio avvocato difen-sore e quello di Kerry avessero da dire la stessa cosa. Essi annuirono, ed egli ordinò una pausa di dieci minu-ti. Mentre ero seduto in aula, sentivo che la vita mi stava scivolando via. Cosa avrebbe deciso il giudice? Di man-darmi in un centro di servizi sociali? Poco male, rispet-to al riformatorio. O magari mi avrebbe lasciato andare.

Quando tornò, si mise seduto e, schiaritosi la voce, esclamò: « Considerata l’età dei tre imputati, sarò cle-mente. Mi dicono che sono consapevoli della gravi-tà dei loro reati. Spero che abbiano imparato la lezio-ne. Pertanto, li condanno a tre mesi in un centro di detenzione ».

Mi misi le mani nei capelli. Non il riformatorio, ad-dirittura il centro di detenzione, ero proprio fregato! Chris e Kenny erano altrettanto sotto shock. Ma davve-ro ci avrebbero recluso per tre mesi?

Papà si avvicinò e poggiandomi con delicatezza la mano sulla spalla, mi disse, visibilmente scosso: « Mi di-spiace, John ».

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TESTIMONIANzE

Estratti dalle email inviate a John

« Ciao, John. Stamattina sei venuto nella nostra scuola e hai parlato della tua vita. Volevamo solo ringraziarti del tuo intervento, ci ha davvero aperto gli occhi. Abbiamo grande rispetto per te, perché hai avuto la forza di ammettere di aver fatto tante brutte cose nella vita, ma poi hai cercato di rimet-terti sulla retta via, e ci sei riuscito. Questo ci spinge a essere grati per ciò che abbiamo e ci dà fede in Dio… »

(Due studenti di una scuola superiore inglese)

« … Anch’io ho lavorato come buttafuori in un bar quand’ero più giovane. Vivevo un po’ come te, anche se for-se ero un po’ meno pazzo… Sono arrivato a metà libro. È una lettura fantastica ».

(Un poliziotto di Long Island, Stati Uniti)

« Ciao, John. Sei venuto nella mia scuola la settimana scorsa. La tua testimonianza è stata davvero incredibile! Ho apprezzato ogni aspetto del tuo racconto, e alla fine mi hai detto di sorridere sempre. Beh, da allora non ho più smes-so! All’inizio sembravi molto provato, ma dentro mi hai ri-

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cordato un po’ mio padre. Ho letto quasi tutto il tuo libro, è davvero avvincente! »

(Un adolescente inglese)

« Lo scorso novembre mia figlia ha sposato un uomo che ha detto di averla conosciuta a Londra quando lei era bam-bino. Anche lui viveva una vita come la sua. Mi ha racconta-to di averla incontrata dopo la sua conversione, non riusciva a comprendere il suo cambiamento… Ora sta cercando di ri-mettere ordine nella sua vita. Sta leggendo il suo libro, rica-vandone grande incoraggiamento, specie nei momenti in cui sta per cedere a brutte abitudini… »

(Una madre irlandese)

« Sono contentissimo di essere venuto. Mi sono commos-so, mi sono sentito preso da qualcosa di indescrivibile. È sta-to come se avessi aspettato tutta una vita (15 anni) per anda-re in quella chiesa. Sentivo di farne davvero parte… Mi sono sentito una persona diversa. Alla fine ho trovato Dio… »

(Anonimo dal Regno Unito)

Recensioni del libro su Amazon

« Avevo letto sull’inserto letterario del Times un articolo su John Pridmore e su come si era gettato alle spalle una vita spesa nel crimine, così ho deciso di provare a leggere il libro. È stata una lettura mozzafiato. Quest’uomo faceva davvero una vita da criminale. Alcune descrizioni dei suoi scontri vio-

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lenti mi hanno fatto accapponare la pelle. È stato brutale, ma oggi è un’altra persona, promuove la pace e la preghiera. Da insegnante di inglese, mi ha colpito lo stile narrativo di Greg Watts. La storia scorre in modo impeccabile. Il libro, a mio avviso, diventerà un classico nel suo genere ».

« È uno dei libri migliori che ho letto, davvero avvincen-te. Ho letto libri di altri uomini duri, ma questa è la storia di un gangster, molto profonda ».

« Quando ho finito di leggere questo libro, avevo le la-crime agli occhi. Il giorno dopo, l’ho letto di nuovo. È una storia straordinaria, si presta bene per un bel film. Ha tutto: sentimenti più nascosti, momenti assai commoventi, lotte e ispirazioni. Un libro favoloso! »

« Un amico irlandese mi ha inviato questo libro, sapen-do che mi piacciono i gialli. Ma questo è diverso. È fanta-stico, ricco di spunti ispirativi! Ora l’ho prestato a un colle-ga di lavoro ».

« Che libro stupendo! Mi è capitato davanti per caso men-tre ero in una libreria. Ne ho letto due pagine e mi è subito piaciuto lo stile… A tratti la storia è un po’ impressionante, ma è raccontata in modo esemplare dagli autori ».

INDICE

I. Figlio di un poliziotto pag. 7II. In gattabuia » 25III. Ancora in tribunale » 34IV. Buttafuori » 48V. Il mondo della droga » 68VI. Senza controllo » 80VII. Lo hai ucciso! » 93VIII. Messo in ginocchio » 109IX. La giungla di cemento » 133X. Tutti i tuoi peccati sono debolezze » 149XI. Il Bronx » 173XII. La Terra Santa » 189XIII. In giro a evangelizzare » 202XIV. La proposta » 218XV. Proiettili, fragilità e grazie » 249XVI. Cercare Dio » 275

Epilogo » 299

Ringraziamenti » 305

Testimonianze » 307

06H

124

Nel malfamato East End di Londraera « qualcuno ».

Nelle sue giacche non mancava maiun machete e un tirapugni.

Faceva soldi a palate spacciando droga, aveva un attico,

belle macchine e belle donne.Per poco non uccideva un uomo

fuori di un nightclub.

Poi è accaduto qualcosa di straordinario...