La giustizia capovolta - estratto libro di Francesco Occhetta - Paoline

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Il volume ribalta un concetto di giustizia che, punendo il colpevole, non tiene conto della riabilitazione della dignità della vittima. Un percorso, questo, che aiuta il colpevole a capire la responsabilità totale del suo gesto che include il riconoscimento del dolore della vittima e apre la strada a gesti di riconciliazione.http://www.paolinestore.it/shop/la-giustizia-capovolta.html

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PREFAZIONE

È un saggio denso e di grande profondità, questo di Francesco Occhetta. Il tema è la giustizia riparativa, at-tenta cioè non solo a comminare pene, ma anche a tute-lare la dimensione umana nascosta in ogni ferita morale e materiale, in ogni sopruso, offesa e violenza sulla persona.

Opportunamente, Occhetta comincia da un’analisi puntuale del nostro sistema carcerario.

È una situazione nota, ma che è bene ricordare per-ché quella del carcere è una realtà che tendiamo a rimuo-vere o sottovalutare, come dando per inteso che prima dei problemi di chi viola la legge occorre occuparsi dei nostri, di quelli delle persone cosiddette « perbene »… Atteggiamento non solo miope ma ipocrita, perché chi finisce in carcere è spesso un povero cristo – nel 32% dei casi straniero… – condotto al crimine anche da condizio-ni sociali avverse e dalla mancanza di alternative, laddove i crimini dei « colletti bianchi » restano spesso impuniti o ridotti a bagatelle da appositi meccanismi di legge.

Ciò detto, l’accurata « radiografia » di Occhetta sotto-linea (in estrema sintesi) che, a fronte di una riduzione del sovraffollamento riconosciuta « positiva e incoraggiante » dalla stessa Corte europea dei diritti umani (sono dete-nute 49.585 persone, a fronte di una capienza di 49.427 posti, alla fine del 2010 erano addirittura 68.000), la si-

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tuazione resta per molti versi critica. Il numero dei suicidi non si ferma (ormai sono 801, tra il 2000 e il 2014) e tutto-ra vigono leggi – la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex Cirielli sulla prescrizione dei reati – che hanno concorso in maniera determinante a fare del carcere non solo il luogo dove viene rinchiusa la povertà, ma dove emerge la povertà della politica, il deficit di misure capaci di costruire giustizia sociale.

Ancora una volta, la denuncia più forte è venuta da papa Francesco. Durante la visita in Calabria del giugno 2014, prima della messa nella Piana di Sibari dove ha scomunicato i mafiosi e i loro complici, ha visitato il car-cere di Castrovillari e, sulla scorta del Vangelo – « Ero in carcere e siete venuti a trovarmi » (Mt 25,36) –, ha rimarcato che questo carcere è lo specchio di un sistema penale selettivo, che cattura i « pesci piccoli » e lascia li-beri i grandi. Parole che incitano a costruire non solo un sistema penale più giusto, non forte con i deboli e debole con i forti, ma una società dei diritti, dove nelle carceri le persone non debbano perdere, oltre la libertà, la dignità.

Qui trova spazio la profonda riflessione dell’autore sulla giustizia riparativa. Perché se è vero che il primo passo – ce lo chiede da settant’anni la Costituzione! – è fare in modo che la pena sia costruttiva, nell’interesse del reo e della società (il che significa anche fare am-pio uso delle misure alternative, come dimostra il bas-so tasso di recidiva di chi ne beneficia), il secondo è progettare un sistema giudiziario che valorizzi il ruolo delle vittime, che non solo hanno bisogno di verità e giustizia, ma di essere riconosciute nella loro umanità e dignità. Si tratta, ha detto ancora il Papa, di « rendere giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore »,

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delineando così l’orizzonte di una giustizia capace di prendersi cura dei loro drammi e ferite.

Non parliamo, beninteso, di un cammino facile, per-ché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giu-ridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigen-ze della giustizia « retributiva » (incentrata sul rapporto tra il reato e la pena) e della giustizia « riabilitativa » (più attenta al « recupero » del detenuto).

Si tratta di un « modello » che – ricorda Occhetta – ha già conosciuto una certa diffusione nei Paesi anglo-sassoni e che ha il suo nobile antecedente nella Com-missione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, voluta da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu (ma aggiungerei anche l’esperienza del Ruanda dei tribunali Gacaca ispirati ad antichi modelli di giu-stizia comunitaria). Pagine di altissima civiltà che sep-pero ricostruire Paesi disintegrati da guerre sanguinose e fratricide a partire dall’incontro tra i carnefici e le vit-time, incontro doloroso, drammatico ma necessario per fermare una spirale di infinite violenze e vendette.

Né si deve dimenticare che anche nel nostro Paese, tra la fine degli anni Ottanta e il decennio successivo, ci fu chi tentò vie di riconciliazione dopo la stagione dei terrorismi. E come tengo a sottolineare che tra i maggiori artefici furono figure luminose come il cardinale Marti-ni e padre David Maria Turoldo, mi piace ricordare che nel suo piccolo anche il Gruppo Abele contribuì a questi percorsi di conciliazione e di speranza, accogliendo per-sone che si erano dissociate in carcere dalla lotta armata e che, sostenute in questo cammino di cambiamento, non solo sentirono il desiderio di rendersi utili agli altri, ma

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di avvicinarsi con discrezione alle loro vittime o ai loro familiari. Occhetta ricorda anche il percorso di ascolto e riconoscimento tra alcuni membri delle Brigate Rosse e Agnese Moro, la figlia di Aldo; e, a riprova di come tali esperienze portino sollievo a chi è colpito da lutti non rimarginabili, cita le bellissime parole di Lina Ghizoni, moglie di Franco Evangelista, poliziotto ucciso dal terro-rismo di destra dei Nar: « Perdonare non significa dimen-ticare il passato, si ricorda tutto, ma in modo diverso ».

È la stessa esigenza di senso e di vita che spinge, su un altro piano, i familiari delle vittime delle mafie che, tramite Libera, entrano nelle carceri minorili nella speranza che parole vere e testimonianze dirette pos-sano aprire varchi di riflessione nella mente di ragazzi in gran parte « accaparrati » dalle mafie come manova-lanza criminale. Lo testimoniano le voci all’interno del volume che Occhetta riporta.

Si tratta beninteso di percorsi delicati, quasi mai li-neari, connessi alle parti più intime dell’essere umano e dunque da gestire con attenzione ed equilibrio, perché ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a discapito dell’equità, della certezza e della fun-zione riabilitativa della pena. Occorre perciò l’impegno di tutti: istituzioni e politica, magistrature e forze di polizia, associazioni e cittadini. Solo così « legalità » smetterà di essere una parola astratta, slegata dalla vita, per diventare una manifestazione della responsabilità, dell’impegno a costruire una società dove possiamo riconoscerci diversi come persone e uguali come cittadini, nel desiderio irri-ducibile di verità e giustizia che anima le nostre vite.

Don Luigi Ciotti

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Parte prima

LE RADICI DELLA GIUSTIZIA CAPOVOLTA

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I.

TRA LE SBARRE: UNA RADIOGRAFIA

DELLE CARCERI ITALIANE

In questi ultimi anni vanno riconosciuti al legislatore italiano e all’amministrazione dello Stato un impegno sul fronte dell’ammodernamento di alcuni penitenziari e una maggiore attenzione verso le misure alternative. In generale, però, la situazione rimane complessa: nei 195 istituti penitenziari italiani, al 31 gennaio 2016, erano presenti 52.475 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 49.480. I detenuti in eccedenza rispet-to ai posti previsti erano 3.048 (+7,5%).

Il sovraffollamento sta però diminuendo. Nel giugno 2006, poco prima della legge di indulto, quando erano presenti in carcere 61.264 detenuti, era pari al 42%. Dopo l’entrata in vigore dell’indulto, la popolazione carceraria è scesa a 39.005 detenuti (31 dicembre 2006), ma alla fine del 2010 i detenuti avevano di nuovo rag-giunto il numero record di circa 68.000 unità, contro una capienza massima di 45.022.

Non possiamo nascondere che in questi ultimi vent’anni il sovraffollamento delle carceri sia stato de-terminato da almeno tre scelte legislative: la legge Bossi-Fini sull’immigrazione con le modifiche legate al decre-to sicurezza (d.lgs. 286/1998), la legge Fini-Giovanardi sulle droghe (n. 49 del 21 febbraio 2006) e la legge de-

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finita ex Cirielli (n. 251 del 5 dicembre 2005). A causa della legge Fini-Giovanardi, i detenuti tossicodipenden-ti sono raddoppiati rispetto agli altri Paesi europei; le carceri francesi e quelle tedesche hanno il 14% di dete-nuti tossicodipendenti. Avere impedito, con la legge ex Cirielli, ai detenuti tossicodipendenti recidivi di accede-re alle pene alternative ha complicato la situazione in-terna degli istituti penitenziari, che rischiano di trasfor-marsi in comunità terapeutiche. Il punto è evitare l’ar-resto e offrire la rieducazione agli spacciatori minorenni, che continuerebbero a essere utilizzati dai trafficanti di droga.

È stata la Corte europea, con la sentenza pilota Torre-giani dell’8 gennaio 2013, a imporre all’Italia di ridurre il sovraffollamento e di garantire uno spazio minimo ai de-tenuti, i quali in molti penitenziari si ritrovano a vivere in 3 mq a testa. La sentenza ha dichiarato che 7 detenuti – 3 nel carcere di Piacenza e 4 in quello di Busto Arsizio – costretti in celle troppo anguste di 3 mq e in una generale situazione di sovraffollamento, dovevano essere risarciti con 100.000 euro per danni morali. L’argomentazione della sentenza non lascia spazio a interpretazioni:

La violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone;

« la situazione constatata » è « costitutiva di una prassi incompatibile con la Convenzione ».

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Dopo un anno dalla sentenza, il Comitato dei ministri della Corte europea ha riconosciuto all’Italia il merito di avere compiuto passi in avanti, dichiarando che « le statistiche sulla popolazione carceraria mostrano trend positivi e incoraggianti ».

Inoltre, i 4 mq di spazio per detenuto, che la legisla-zione europea impone, sono ancora un miraggio per chi è recluso negli istituti penitenziari italiani. Per ovviare alle direttive europee il Ministero della Giustizia ha imposto di tenere aperte le celle nelle sezioni di media sicurezza. Ma in molte carceri questo non avviene. Nel maggio 2012, nel carcere di Bari i commissari europei hanno trovato « una cella con 11 persone in 20 metri quadrati ». In breve, per 10 posti letto previsti per legge, ci sono 14 detenuti.

Al di là delle cifre, rimane significativo un dato: l’I-talia è il Paese che occupa il terzo posto nella classifica delle carceri più sovraffollate europee, dopo la Serbia e la Grecia. Ricordiamo l’esempio più emblematico: il carcere di San Vittore a Milano, progettato per ospitare 800 detenuti, ne contiene circa 2000, che costano all’am-ministrazione penitenziaria circa 130 euro al giorno pro capite. Il 60% dei detenuti è straniero, categoria per la quale il tasso di recidività è stimato essere molto alto. Le celle sono di 8 mq e contengono 6 o 7 detenuti: lo spazio è così limitato che, pur rimanendo rinchiusi in cella 22 ore su 24, è impossibile agli occupanti stare tutti in pie-di contemporaneamente.

A causa dei costi di gestione, alcune carceri manda-mentali, strutture come quelle di Genzano di Lucania, Pisticci, Casalbordino a Pescia, sono aperte a singhioz-zo. Altre sono state ristrutturate, ma sono inutilizzate;

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II.

LA RIFLESSIONE DELLA CHIESA SULLA PENA

La situazione in cui versano le carceri rappresenta la cartina di tornasole per misurare il grado di civiltà di una società, su cui pesa il noto monito di Voltaire: « Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poi-ché è da esse che si misura il grado di civiltà di una na-zione ». Alcuni anni prima Cesare Beccaria, nella sua opera Dei delitti e delle pene (1764), aveva sollecitato la cultura giuridica del tempo a scegliere soluzioni umana-mente percorribili per gestire i penitenziari: « Se le pene saranno moderate (…) sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri (…) la compassione e l’umanità penetre-ranno le porte ferrate ». Anche a porre al centro della convivenza civile la pari dignità sociale: « Ogni pena non sia una violenza di uno o molti contro un privato citta-dino. Deve essere essenzialmente pubblica, pronta, ne-cessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi ». La logica della pena negli ordinamenti occidentali sembra avere tradito questo spirito.

La riflessione della Chiesa sulla pena si fonda sull’e-lemento antropologico dell’incontro di due dolori: quel-lo della vittima che subisce il reato e quello del carnefi-ce, dovuto alle conseguenze delle sue azioni. La riabili-tazione del detenuto e il significato della pena, di cui

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parla l’articolo 27 della Costituzione, sono possibili, per la dottrina sociale della Chiesa, a una condizione: rimet-tere al centro il dolore della vittima e dei suoi familiari. È questa la tesi centrale ribadita da papa Francesco nei suoi interventi sulla giustizia:

Si tratta di rendere giustizia alla vittima, non di giu-stiziare l’aggressore. (…) Nelle nostre società tendiamo a pensare che i delitti si risolvano quando si cattura e condanna il delinquente, tirando dritto dinanzi ai danni provocati o senza prestare sufficiente attenzione alla si-tuazione in cui restano le vittime. Ma sarebbe un errore identificare la riparazione solo con il castigo, confondere la giustizia con la vendetta, il che contribuirebbe solo ad accrescere la violenza, pur se istituzionalizzata1.

Nel 2013 la pena di morte è stata inflitta a 4.106 de-tenuti in 22 Paesi diversi, anche se la media dell’ultimo decennio è di circa 5.000 detenuti giustiziati all’anno. La maggior parte delle esecuzioni avviene in Cina, con circa 3.000 sentenze capitali eseguite (il 74,5% del tota-le mondiale), in Iran (almeno 687) e in Iraq (almeno 172). Seguono l’Arabia Saudita (78), gli Stati Uniti (39), la Somalia (27), il Sudan (21), la Corea del Nord (17), lo Yemen (13) e il Vietnam (8). Delle esecuzioni in Siria mancano i dati.

Riguardo a ciò, il Papa ha precisato:

1 Papa Francesco, Lettera ai partecipanti al XIX Congresso internazionale dell’Associazione internazionale di diritto penale e del III Congresso dell’Asso-ciazione latinoamericana di diritto penale e criminologia, 30 maggio 2014, in w2.vatican.va.

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Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottoli-neato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e ditta-toriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono « delinquenti »2.

Poi ha aggiunto:

Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dun-que chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue for-me, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta3.

Quest’ultima espressione è dirompente e volutamen-te provocatoria per gli Ordinamenti civili. Durante il suo viaggio negli Usa, visitando l’Istituto di correzione Cur-ran-Fromhold il 27 settembre 2015, il Papa ha ribadito:

Vivere comporta « sporcarsi i piedi » per le strade polve-rose della vita e della storia. E tutti abbiamo bisogno di esse-re purificati, di essere lavati (…). È penoso riscontrare a volte

2 Papa Francesco, Discorso alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, 23 ottobre 2014, in w2.vatican.va. La Chiesa ha condannato la pena di morte sia con san Giovanni Paolo II (cfr. lettera enciclica Evangelium vitae, n. 56), sia nel Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2267).

3 Ibid.

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III.

OLTRE LE SBARRE: LA GIUSTIZIA RIPARATIVA E LA VITTIMA

Nelle democrazie moderne l’idea di giustizia prevista nelle costituzioni costituisce la cartina di tornasole per valutare la qualità e la vita della democrazia. In partico-lare, sono l’armonia e l’equilibrio tra i poteri e il rispet-to del principio di legalità di un Paese a connotare l’e-ventuale condivisione dell’idea di giustizia. Quando invece un Paese inizia a dividersi, come sta accadendo in Italia, sulla riforma della giustizia, sulle finalità e la cogenza della legge, sul rapporto tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato, sul modo di riabilitare i dete-nuti, è allora possibile che il modello classico di giustizia chieda di essere integrato o addirittura ripensato. La lunghezza dei processi civili, che possono durare una decina di anni, l’imporsi di forme di giornalismo aggres-sivo e la situazione in cui versa il nostro sistema carce-rario sono le conseguenze più evidenti di un modello di giustizia in crisi.

Invece, l’« allarme rosso » che emerge dal pianeta carcere, spesso considerato un grande « smaltitore di rifiuti », sta creando una sorta di effetto boomerang: restituisce alla società italiana il compito di rispondere ad alcune domande. In quale modo si promuove nella società italiana la cultura della legalità? È possibile

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contrastare la criminalità? Come si possono sostenere le vittime dei reati e aiutare le famiglie dei detenuti? Quale tipo di lavoro e quali spazi di reinserimento sono offerti agli ex detenuti? Si possono favorire percorsi di riconciliazione tra vittima e colpevole quando si tratta di piccoli reati? Proprio la riflessione della Chiesa nel Compendio della dottrina sociale ricorda che le finalità a cui deve tendere una giustizia matura sono duplici: « Da un lato favorire il reinserimento delle persone condannate; da un altro lato promuovere una giustizia riconciliatrice, capace di restaurare le relazioni di ar-monica convivenza spezzate dall’atto criminoso » (n. 403). La nostra riflessione partirà da qui: comprendere il modo in cui nella società italiana sia possibile fonda-re la convivenza civile su un’idea di giustizia che sappia restaurare le relazioni tra colpevoli, vittime, società e Stato.

I modelli di giustizia

Il sistema penale classico su cui si fonda il nostro si-stema giuridico si basa sul modello di « giustizia retribu-tiva », al quale la legge garantisce due fondamentali princìpi: la certezza della pena e la sua proporzionalità alla gravità del danno causato. Questo modello risponde a tre interrogativi: quale legge è stata infranta; chi l’ha infranta; quale punizione dare. In tale sistema la vittima e la comunità civile non hanno voce, mentre al sistema carcerario si delega la rieducazione dei detenuti.

La Costituzione italiana prevede implicitamente an-che altri modelli, come quello della « giustizia risarcito-

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INDICE

Prefazione, di don Luigi Ciotti pag. 7

Introduzione » 11

Parte primaLE RADiCi DELLA giustiZiA CAPovoLtA

I. Tra le sbarre: una radiografia delle carceri italiane » 21Immigrati e salute tra le sbarre » 25

II. La riflessione della Chiesa sulla pena » 31

III. Oltre le sbarre: la giustizia riparativa e la vittima » 38I modelli di giustizia » 39La mediazione

nella giustizia riparativa » 43La giustizia riparativa

e la mediazione penale in Italia » 46L’esperienza della giustizia riparativa

in altri Paesi » 53Verso quale applicazione? » 57

IV. Le radici antropologiche e bibliche della giustizia riparativa » 61

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Ricostruire la giustizia perduta: la mišpat e il rîb » 66

La proposta del giurista gesuita Eugen Wiesnet » 71

Espiazione nel dialogo » 75

V. La pratica della meditazione per riabilitare i detenuti » 79Il coinvolgimento dello staff

e della società » 81Il cuore delle riforme:

la meditazione spirituale » 83

VI. Storie di riconciliazione per sconfiggere le mafie » 87

VII. I detenuti ammalati mentali » 93Il malato mentale

all’interno del diritto » 99

Parte secondaCoME E PERChé CAPovoLgERE LA giustiZiA

in DiALogo Con…

Francesco Cananziconsigliere del Csm » 107

Daniela Marcone vicepresidente di Libera » 116

Guido Chiarettipresidente della Sesta Opera San Fedele » 124

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Don Virgilio Balducchiispettore generale dei cappellani delle carceri » 138

Conclusioni Verso una riforma della giustizia » 145

Postfazione, di Giovanni Maria Flick » 151

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« Non parliamo, beninteso, di un cammino fa-cile, perché la giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributi-va”, incentrata sul rapporto tra il reato e la pena, e della giustizia “riabilitativa”, più attenta al “re-cupero” del detenuto (...). Percorsi delicati, quasi mai lineari, (...) perché il ricostruire le relazioni umane e il tessuto sociale non può andare a di-scapito dell’equità, della certezza e della funzione riabilitativa della pena ».

(dalla Prefazione di don Luigi Ciotti,presidente di Libera)

« È una tendenza che va al di là del dovere di giustizia e di solidarietà di ricordare la vittima; di rispettarla e considerarla; di ascoltarla e aiutarla essendole vicini; di consentirle una rappresentanza adeguata. Non bastano le leggi di riforma. Oc-corrono prima di tutto società e cultura; occorre quella legalità sostanziale di cui oggi si tratta anche quando si parla di prevenzione della corruzione; occorre che finalmente recepiamo la cultura della reputazione e la cultura della vergogna. Vale per la corruzione, per l’evasione fiscale; ma vale anche e soprattutto per il carcere ».

(dalla Postfazione di Gian Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale)