Povertà gloria di Dio - estratto libro - Paoline

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A partire da alcune provocazioni del nostro tempo, l’Autore sviluppa un tema a lui molto caro: non si accoglie il mistero di Dio se non si rinuncia ai criteri di successo, di potere, di sicurezza a qualunque costo. http://www.paolinestore.it/shop/poverta-e-gloria-di-dio.html

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« Non molto tempo fa, Véronique, ve-dendomi molto triste, viene da me, mi getta le braccia al collo e, con una tene-rezza infinita, mi dice: “Paparino mio, non piangere, ti darò io qualcosa”. E la povera figliola cerca, tra i suoi giocattoli, quello che potrà offrirmi.

Oggi a messa, questo ricordo mi scuo-te con un impeto tale che non può non corrispondere a qualcosa di divino. C’è qualcosa di più straziante della compas-sione di chi non ha niente, e che però vuol dare qualcosa? E Dio non è forse il Povero dei poveri? ».

(Léon Bloy, Il mendicante ingrato, 31 maggio 1895)

 

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INTRODUZIONE

Povertà

Dire che Dio si è fatto come noi per farci co-me lui è certamente espressione cristiana. Dio un giorno sarà « tutto in tutti » (1Cor 15,28) e noi « saremo simili a lui » (1Gv 3,2), ma ciò è un dramma dal principio alla fine, che non può es-sere eluso a cuor leggero strimpellando chitarre: al centro c’è la croce del Cristo. Ed è l’esperien-za moderna, soprattutto, a suggerirci che i mo-tivi per cui Dio ha deciso di impoverirsi facen-dosi uomo e per sempre sono sostanzialmente due: il peccato, la smania cioè che abbiamo avu-to fin dal principio di farci uguali a lui (cfr. Gen 3,5), e il dolore che ne è conseguito, soprattut-to quello vissuto nella carne dai giusti e dalle tante creature senza colpa alcuna, che in ogni at-timo, ovunque e da sempre, continuano a tribo-lare sulla faccia della terra (cfr. Rm 8,22).

Un impoverimento che potrebbe tuttavia ave-re arricchito non soltanto noi (felix culpa), ma Dio stesso. Dio impoverendosi in Cristo ha as-sunto un grado d’amore e di compassione che forse non conosceva prima, perché il vero amo-re sta nel dolore che si riesce a condividere con

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chi soffre. Ma ora che Dio si è impoverito sof-frendo accanto a noi, ha pure lui bisogno del no-stro amore capace di soffrire con lui. « La grazia del Signore », dice Paolo ai Corinzi, sta nel fatto che egli « da ricco che era, si è fatto povero » per noi, perché noi diventassimo « ricchi per mezzo della sua povertà » (2Cor 8,9). Cosa significa far-si ricchi della sua povertà? Significa farsi pove-ri con i poveri, significa far di tutto affinché « vi sia uguaglianza » supplendo, con la propria « ab-bondanza », all’« indigenza » di chi non ha nulla (2Cor 8,14). E Paolo vuol qui richiamarci la manna che veniva donata da Dio a Israele fug-giasco nel deserto: « Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno » (2Cor 8,15; Es 16,18). Dunque un prin-cipio di uguaglianza semplicissimo che non ri-chiede troppi giri di parole per essere capito.

La povertà e il dolore non sono mai un valo-re, ma lo diventano là dove si entra nella condi-visione con i sofferenti e i poveri. Il Cristo non ha scelto di soffrire né di morire, ma ha insegna-to con la sua vita che il dolore acquista tutto il suo senso attraverso la comunione con chi soffre e muore. Gesù non indica l’indigenza fine a se stessa e nemmeno la sobrietà dei sapienti che amano il distacco dalle cose terrene per una vita più spirituale e pensosa. A Gesù preme la procla-mazione del « vangelo di Dio », e fin dall’inizio della sua missione dice: « Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel

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Vangelo » (Mc 1,14-15). La Lieta Novella era già tutta nelle labbra della Madre che lo aveva anco-ra in grembo quando, là sulla montagna, Elisa-betta la salutò rivelandola « benedetta (…) fra le donne ». Perché? Perché aveva « creduto nell’a-dempimento di ciò che il Signore » aveva detto a lei e promesso a Israele: rovesciare « i potenti dai troni » e innalzare gli umili, ricolmare « di beni gli affamati » e rimandare « i ricchi a mani vuo-te » (Lc 1,39-55).

La radicalità evangelica della povertà non è un ideale ma una necessità conseguente al momen-to cruciale in cui si è chiamati a vivere dando tut-to, anche la vita se necessario, perciò non può es-sere compresa con il metro della sapienza e dell’etica, né vissuta all’interno di programmi a lunga scadenza. Nel mondo sono necessarie trop-pe cose per limitarsi a vivere con il solo aiuto del-la provvidenza. Se metti al mondo un figlio, non puoi far altro che vivere come già vissero Maria e Giuseppe, con gli imprevisti quotidiani che in-combono e l’umiltà di chi si trova costretto a or-ganizzare, giorno dopo giorno, il proprio cammi-no. Scappare in Egitto con un figlio ancora bambino perché c’era chi lo cercava « per ucci-derlo » non dev’essere stata cosa da poco (Mt 2,13-18). Nel mondo serve certamente la sapien-za dei Proverbi che dice a Dio: « Non darmi po-vertà né ricchezza » (30,8), ma a volte anche la prudenza dei « serpenti »: essere semplici come « colombe » non basta (Mt 10,16). Come non ba-

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stano rimozione e fuga di fronte a quanto di ter-ribile accade. Albert Camus ci ha fatto notare, tramite il protagonista de La caduta, come in Ge-sù stesso potrebbe essere nato a un certo punto una sorta di senso di colpa venendo a sapere del-la strage degli innocenti su ordine di Erode. « In fin dei conti egli aveva informazioni di prima ma-no, aveva dovuto sentir parlare d’un certo mas-sacro degli innocenti. I bambini di Giudea mas-sacrati mentre i suoi genitori lo portavano al sicuro, perché erano morti, se non per causa sua? Non l’aveva voluto lui, certo. Quei soldati insan-guinati, quei bambini squarciati in due, gli face-vano orrore. Ma egli non era uomo da poterli di-menticare, ne sono sicuro. E la tristezza che s’indovina in tutti i suoi atti, non era l’inguaribi-le malinconia di colui che di notte sentiva la vo-ce di Rachele gemere sui suoi piccoli e rifiutare conforto? Il lamento saliva nella notte, Rachele chiamava i suoi figli morti per lui e lui era vivo ».

La via della povertà e della croce che indica Gesù ha un paio di motivazioni almeno: perché siamo « nel mondo » e non « del mondo » (Gv 17,13-14) e perché « i poveri » li avremo sempre con noi (Mc 14,7). Fin che dura il mondo, con la povertà e l’ingiustizia continueremo comunque a farci i conti, come continueremo a fare i conti con il male e con le stragi degli innocenti, ieri a Be-tlemme e oggi sulle coste del nostro Mediterraneo o sotto le macerie dei bombardamenti. La radica-lità evangelica va compresa alla luce della pro-

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messa e dell’attesa, di un frattempo, di un tempo breve e precario che non può durare a lungo, di una « notte avanzata » e un « giorno vicino » (Rm 13,12) al quale tendiamo con tutte le nostre for-ze. Soltanto così si può vivere ogni cosa « come se non » la si vivesse, ma dopo duemila anni sap-piamo fin troppo bene come il tempo non sia sta-to « breve », come « la figura di questo mondo » non sia ancora passata (1Cor 7,29-31), e come i credenti siano fin da subito stati costretti a rifare i conti con il mondo e le sue logiche, con la spiri-tualizzazione delle attese, con il metro della sa-pienza e dell’etica.

Non si deve certo cadere nelle superficiali no-stalgie del bel tempo andato, la speranza ci spin-ge verso il futuro, ma le istituzioni addette alla carità dei nostri giorni con tanto di uffici, ammi-nistrazione e bilanci, sono ben altro dall’abitu-dine diffusa nelle prime comunità cristiane di ri-servare con immediatezza un letto e un pezzo di pane al povero e al forestiero che avesse bussa-to alla porta. Si dice che durante la liturgia, ce-lebrata in semplici abitazioni e non certo nelle cattedrali, i credenti lì riuniti portavano sull’al-tare indumenti e viveri per chi non li avesse (cfr. Gc 2,15-16; Eb 13,13-16).

Ha ragione Bonhoeffer: « La libertà dei mes-saggeri di Gesù deve dimostrarsi nella loro po-vertà ». Non però per mettersi « in vista come mendicanti, con vesti stracciate, né essere di pe-

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so agli altri come parassiti. Ma devono girare in-dossando il “vestito di servizio”, cioè povera-mente » (Sequela). In un documento di origine siriaca risalente al III secolo, si raccomanda al vescovo di non muoversi di un millimetro veden-do entrare un ricco e un potente che non doves-se trovare posto in mezzo all’assemblea: egli con-tinui a leggere e ascoltare la parola di Dio, saranno altri a occuparsi di quel problema. Di-verso è invece il caso se a entrare e non trovare posto dovesse essere un povero, « soprattutto se è anziano e non c’è posto per lui, allora tu, o ve-scovo, con tutto il cuore dovrai provvedere che si trovi un posto per lui, anche quando tu doves-si sederti per terra » (Didascalia 2,58).

Se un papa come Giovanni XXIII scrive nel suo testamento spirituale: « Nato povero, sono contento di morire povero (…) al servizio dei po-veri », possiamo credergli, ma quando un papa parla di povertà dall’alto del suo trono sotto un mantello dorato e pietre preziose, dovrebbe co-me minimo chiedersi che effetto può provocare tutto ciò agli occhi dei poveri che lo guardano e se non finisca egli stesso per alimentare quell’on-da di ipocrisia che sta invadendo la storia.

Nessuno s’illuda, quando ci troveremo di fronte al Giudice ultimo, « Lazzaro povero in ter-ra » (come viene chiamato durante la liturgia fu-nebre dando un “a Dio” ai defunti) sarà là, « ac-canto » ad Abramo, e il suo sguardo ci penetrerà nel cuore. Noi tutti, chi più chi meno, rischiamo

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d’essere ricchi epuloni, e forse gli stessi « cani » che coccoliamo a sera nel tepore delle nostre confortevoli case potrebbero fare figura miglio-re della nostra: essi infatti le leccherebbero le « piaghe » al povero, come è detto nella parabo-la raccontata da Gesù (Lc 16,19-31). Noi che da piccoli ci commuovevamo ascoltando la fiaba della piccola fiammiferaia, tendiamo a riempire di denaro e di vizi i nostri figli, fino a non fargli più sentire l’orrore mentre gettano benzina sul mendicante che sta dormendo coperto di strac-ci in stazione, con il gusto di sentirne le urla mentre muore tra le fiamme. Perché lo fanno? Quand’è accaduto, a chi glielo ha chiesto hanno risposto così: « Per vincere la noia ». Bloy diceva che « l’ignoranza della povertà sembra abbruti-re più dell’ignoranza stessa di Dio » (Il sangue del povero).

La Chiesa primitiva era ancora una sorta di famiglia allargata e accogliente, dove tutti cerca-vano di darsi reciprocamente una mano. Il dia-cono non distribuiva solo il corpo di Cristo, ma anche il pane quotidiano per sfamare chi non ne aveva. Tutto doveva essere però un frattempo e non l’inizio di una istituzione duratura sotto l’e-gida della gerarchia, delle regole e dei bilanci economici: in vista c’era il banchetto del regno di Dio, l’arrivo imminente del Cristo. Il cuore della celebrazione eucaristica è stato fin dal prin-cipio escatologico, rivolto alle cose ultime; e an-

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cora oggi non avrebbe senso annunciare la mor-te del Signore, proclamare la sua risurrezione senza l’attesa della sua venuta, senza il Maràna tha dei primi cristiani nel cuore.

La povertà che rende beati indicata dal Di-scorso della montagna non è uno stato di perfe-zione a cui aspirare, ma una condizione di bi-sogno estremo da cui si desidera essere al più presto liberati. È il bisogno che rende beato il povero, è la sua fame di redenzione, una fame che il ricco sazio di tutto non conosce. Il ricco tutt’al più s’attacca al proprio benessere, s’avvi-ta nel proprio egoismo, non vedendo che se stes-so e l’aumento di quel che ha. Il motivo per cui Gesù dice che saranno « guai » per i « ricchi », è uno soltanto: perché hanno già ricevuto la loro « consolazione » (Lc 6,24). I ricchi sono in gene-re persone dinamiche e rampanti, che ripongo-no molta fiducia nel proprio denaro e nelle pro-prie forze, gente nel cui cuore c’è molto spazio per sé e pochissimo per Dio e per i poveri, che qui e ora lo rappresentano. Dunque gente che è ben lungi dall’attendere il Signore e quel che ha promesso di portare.

L’antichissima intuizione di san Paolo secon-do la quale « Dio mandò il suo Figlio, nato da donna » (Gal 4,4), da Maria Theotókos, « Madre di Dio », dirà il Concilio di Efeso nel IV secolo, sarà audacemente ripresa da Martin Lutero, che dirà come in Maria « si sono incontrate la sovrab-bondante ricchezza di Dio e la sua povertà pro-

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fonda, la gloria divina e la sua nullità, (…) la di-vina grandezza e la sua piccolezza » (Commento al Magnificat). E la « madre di Gesù » certamen-te la ritroveremo, come già alle nozze di Cana (Gv 2,1-5), anche attorno alla tavola del regno di Dio. Cana rimanda decisamente « al banchet-to di nozze dell’Agnello » (Ap 19,9), e questo perché « nei loro gesti e nel loro dialogo, la Ver-gine e il Cristo, superando largamente i festeg-giamenti locali, soppiantavano i giovani sposi di Cana per diventare lo sposo e la sposa spiritua-li del banchetto messianico » (J.P. Chalier, Le si­gne de Cana).

Mentre a Cana, su suggerimento di sua ma-dre, Gesù trasformò l’acqua in vino per la gioia dei commensali, qui farà infinitamente di più. A coloro che lo avranno aspettato « con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese », a coloro che « al suo ritorno troverà ancora svegli », il Si-gnore farà nulla di meno che questo: « si stringe-rà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli » (Lc 12,35-37). Egli sa bene che i suoi fedeli giungeranno stanchissimi e af-famati alla tavola del suo regno, affamati di con-solazione più che di pane. Da lui « provengono la ricchezza e la gloria » (1Cr 29,12), diceva re Davide, ma tutto ciò ha assunto, con Gesù e per sempre, le vesti della povertà e del servizio. Sol-tanto nel regno di Dio Rachele riuscirà finalmen-te a essere « consolata » (Mt 2,18).

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Al centro d’ogni nostro riunirci in assemblea eucaristica la Chiesa fin dal principio pone – ol-tre alla Parola di Dio e a quei gesti d’altare at-traverso i quali per mano del celebrante ci viene offerto il corpo e il sangue del Signore – l’unica preghiera che Gesù ci ha insegnato: il Padre no-stro. È una preghiera del frattempo nella quale risuona in ambito comunitario il cuore stesso della preghiera che Gesù rivolgeva al Padre da luoghi notturni e appartati chiamandolo con il termine aramaico, intimo e confidenziale, di Abbà (« Babbino mio », un po’ come accade quando un bambino si sente stretto alla guancia del suo papà). A darci l’audacia di chiamarlo co-sì, da « figli adottivi » (Rm 8,15), è stato lo « Spi-rito del suo Figlio » (Gal 4,6), colui che lo chia-mò così dal mezzo dell’angoscia notturna del Getsemani, mentre i discepoli là dormivano in preda alla « tentazione » e le « mani dei peccato-ri » stavano per agguantarlo (Mc 14,32-41).

Oltre a essere preghiera del frattempo, il Padre nostro è preghiera per Dio, a favore di Dio, per-ché nel frattempo (e non solo allora ma pure og-gi) anche Dio attende, insieme a noi, la santifica-zione del suo Nome, il manifestarsi del suo regno, il compiersi della sua volontà sulla terra tutta, mentre ora è il « principe di questo mondo » (Gv 12,9; 16,11) a dettarvi legge, a sedurre in massa le genti, a « ingannare » – attraverso « falsi cristi e falsi profeti » in grado di fare « grandi segni e mi-racoli » – persino « gli eletti » (Mt 24,24).

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Guai a pregare il Padre senza prima rendersi conto del suo bisogno e della sua povertà, senza attendere che sia di nuovo tra noi il Figlio che deve venire nell’ultimo giorno, « a giudicare i vi-vi e i morti », mentre ancora semplicemente « sie-de alla destra del Padre », come dice il Credo.

Ma anche qui, a saperla ascoltare, è la Chiesa da sempre a indicarci il modo per disporre i cuo-ri a Dio aprendoli alla speranza e alla fede. E lo fa con la preghiera che segue, durante l’assem-blea liturgica, proprio il Padre nostro. Ascoltia-mola attentamente dopo che per infinite volte l’abbiamo sentita recitare dal celebrante senza magari avere mai riflettuto abbastanza su ciò che davvero si va ascoltando: « Liberaci, o Signore, da ogni male, concedi la pace ai nostri giorni, e con il soccorso della tua misericordia saremo sem-pre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamen-to, nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo ». Ecco ciò che davvero va chiesto, da sempre, a Dio in sin-tesi e prima di ogni altra cosa, ecco qual è « la beata speranza », sottolineando in essa quanto già si è appena chiesto nel Padre nostro.

Ma non basta, a questo punto la Chiesa ha vo-luto inserire la cosiddetta « dossologia » (glorifi-cazione), presente a conclusione del Padre nostro in diversi manoscritti, e che deve essere invocata, in risposta al celebrante, dall’intero popolo: « Tuo è il regno, tua è la potenza e la gloria nei secoli! ». L’oggetto della speranza non sono dunque la de-

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bolezza e la povertà, ma la potenza e la gloria del Signore, guai a dimenticarlo!

Le pagine che seguiranno sono suddivise in tre parti.

La prima, nella quale si cerca di introdurre il lettore, tramite sette brevi riflessioni, ai contenu-ti decisivi e ultimi della fede cristiana, contenuti ormai quasi del tutto ridotti, purtroppo, soltanto a ciò che è razionalmente e mondanamente plau-sibile, abbordabile tramite le nostre buone azio-ni. E senza peraltro avere più sufficientemente a cuore la « persona » del Signore.

La seconda, centrale anche per importanza, nella quale si cerca, in dodici capitoli, di mette-re in luce altrettanti volti, tutti caratterizzati da povertà e bisogno, mediante i quali Dio ha volu-to fin qui rivelarsi.

E infine la terza, quella conclusiva, nella qua-le si tenta di dire, anche qui tramite sette brevi riflessioni, come e perché soltanto attraverso l’e-sperienza della povertà e della croce – in Dio e nella comunità umana tutta – si possa giungere, un giorno, a « giustizia e gloria » (Is 45,25).

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INDICE

IntroduzionePovertà pag. 7

Parte primaUn volto che sia Un volto

Al centro della storia » 21Fede che salva » 24Lottare con la morte » 28Lottare con Dio » 35Il paradiso e la croce » 39Il rischio della libertà » 46Dio che ci sfiora » 51

Parte secondaDoDici volti Di Dio

L’assente » 59Il nascosto » 68Il solo » 76Il silenzioso » 84Il senza bellezza » 92L’umiliato » 100

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Il povero pag. 109Lo sconosciuto » 118Il debole » 126Il morto » 134Il terribile » 143Il Primo e l’Ultimo » 153 

Parte terzatra croce e Gloria

 La beatitudine del donare » 165Le ragioni del cuore » 170La verità della fede » 174Memoria e attesa » 179La salvezza viene dal futuro » 183Il segno della croce » 189« Con grida di gioia » » 201

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano - 2016

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« L’indicibile, assurda, paradossalepotenza del Dio di Cristo è tutta nella sua indicibile, assurda, paradossale impotenza. È perché ha toccato il fondo dell’abisso del dolore e della morte, che sarà un giorno davvero in grado di salvarci dal dolore e dalla morte patita dai viventi dal principio alla fine del mondo. Il Dio biblico ci ha promesso nulla di meno che di salvare la creazione, di giudicare la storia e di far risorgere i morti.Dopo duemila anni di stravolgimenti, indifferenza, tentativi anche violenti di farla fuori, l’immagine del Crocifisso è sempre lì, appesa,visibile, ancora capace di esprimere il dolore, la solitudine, l’ingiustizia che in ogni momento devono subire i poveri inchiodati alle loro croci, i morenti tra noi.Alla fine solo la fede nel Dio crocifisso riesce a sopportare il peso della disperazione e della disfatta ».

Daniele Garota