Freccia di Luce

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Freccia di Luce FRANCESCO CORATTI

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N.3 capitoli

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Freccia di Luce

FRANCESCO CORATTI

Copyright © 2012 Francesco Coratti

Freccia di Luce

Tutti i diritti riservati

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e

luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione.

Ogni analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale.

a Mariangela,

perché l’amore ha sempre ragione

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Jakuzia, Siberia orientale, Russia

La luce del sole era poco più di un bagliore e nel tetro pa-esaggio siberiano, la tundra, assopita nel manto di neve, ripo-sava silenziosa. La lunga notte artica si stava annunciando e il freddo, prima di passare per le ossa, entrava direttamente dal cuore. Anche il tempo, stretto nella morsa del gelo, riu-sciva a stento nel suo lento incedere. Tutto intorno era quiete. Solo una gru delle nevi, planando sul bosco di abeti, allietava l’attesa col suo dolce richiamo.

Paolo distolse lo sguardo dal becco rosso della gru e vol-tandosi, tornò a scrutare davanti a sé.

«Siamo immersi nella neve, con questo vento che mi bru-cia le orecchie e mi fa sentire un… un ghiacciolo! Ma quanto ci toccherà aspettare?» sbuffò Julie. Aveva le labbra spaccate dal freddo e non sentiva più le dita dei piedi.

Da diverse ore ormai, si erano rintanati in una specie di trincea naturale, in attesa di un contatto all’interno della base. Lo scambio sarebbe avvenuto in prossimità di un piccolo cancello, utilizzato dal personale ausiliario per portare fuori i rifiuti. I mezzi di raccolta passavano di lì solo all’alba.

«Non disperare,» la rassicurò Paolo «tra poco sarà buio e, comunque vada, ce ne andremo. Sei in buona compagnia e…» sussurrando aggiunse: «come ghiacciolo non sei niente male.»

Julie fece finta di non aver sentito. «Non pensavo che la ricerca contemplasse lo spionaggio» commentò.

«Per la ricerca occorrono grandi mezzi,» rispose lui serio «ma dimmi: a che servono se non hai curiosità? Una spia… è

solo un ricercatore più curioso.» Incrociando lo sguardo di Paolo, Julie capì che si era pre-

so gioco di lei e sorrise. «Che scemo!» «Signori, cercate di non attirare l’attenzione del FSB. An-

che se ufficialmente ci considerano dei cercatori d’oro, non siamo molto graditi» li riprese Roger con la sua voce barito-nale. Roger Hyman aveva deciso di guidare personalmente la sua spedizione in Siberia e anche se non amava particolar-mente i russi, quella era un’ottima occasione per introdurre Julie nella squadra. Ma dopo ore trascorse al gelo, anche il suo tipico buonumore rischiava di spegnersi.

In realtà quella missione andava ben oltre la ricerca delle sabbie aurifere; il loro bottino era speciale, tanto da richiede-re mesi di preparazione.

«Questa regione un tempo era la meta dei cosacchi. Cer-catori d’oro! Furono loro i primi a spingersi a queste latitudi-ni» disse Roger. Nonostante l’età, i frequenti spostamenti ed il clima, l’entusiasmo di Roger Hyman era sempre alto. Ma-gnate della finanza e amante dell’avventura, riusciva a cata-lizzare le energie di tutti sull’obiettivo che si era prefisso.

Ad un tratto una figura apparve in prossimità del cancello posteriore della base sovietica. Tutto era stato pianificato con cura ed ora l’attesa era finita.

«Leo è nascosto da ore nel suo rifugio. Spero che non si sia addormentato» osservò Paolo in tono scherzoso.

«Già, non dà segni di vita» commentò Julie. «Leo, mi senti?» domandò Roger alla radio. «Forte e chiaro» fu la risposta di Leo, che nello stesso i-

stante si sbracciò con gesti eloquenti per rassicurare i compa-gni. Era pronto a neutralizzare le telecamere di sorveglianza con uno dei suoi dispositivi elettronici. Quello era il suo ruo-lo: creare disturbo, per consentire poi a Paolo di agire senza intoppi. Nascosto al margine di una scarpata e coperto dalla tundra oltre che dalla neve, Leo attendeva il suo momento, ascoltando musica dal suo inseparabile iPod.

Julie si accostò a Paolo e gli sussurrò in un orecchio: «Stai

attento» e Paolo percepì come un brivido lungo la schiena. Forse perché le sue povere orecchie, ormai congelate, aveva-no gradito quel tepore. Forse perché le labbra carnose di Julie lo avevano sfiorato. O semplicemente perché ormai non riu-sciva più a nascondere a sé stesso la verità.

«Mi sorprendono certe attenzioni» ribatté con falsa disin-voltura. Ma il tono di Paolo tradì le sue emozioni e il silenzio imbarazzato di Julie lo confermò.

«Ragazzo, ricordi la parola d’ordine?» gli domandò Ro-ger, togliendolo dall’impasse.

Paolo annuì, evitando gli sguardi di entrambi. Aveva bi-sogno di un momento per concentrarsi e così fissò mental-mente gli splendidi occhi di Julie; due occhi neri che non a-veva il coraggio d’incrociare, ma che portava con sé come un talismano. Ancora un istante di silenzio, un profondo respiro e poi via, con rapidi movimenti, fuori dal riparo e attraverso i cespugli nani della tundra.

«Stai tranquilla, Paolo è il mio uomo di fiducia e in gene-rale… beh, penso che sia il migliore» la rassicurò Hyman. «Poi, a dire il vero, per me è molto più di un collaboratore: è quasi un figlio» confessò, provocando lo stupore di Julie. Non aveva mai sentito Roger parlare in quel modo e non tro-vando le parole per replicare, si limitò a seguire Paolo con lo sguardo.

L’uomo che si era materializzato sotto la neve, all’interno nella base sovietica, era stato contattato mesi prima della missione. Si trattava di un ufficiale con mansioni speciali, trasferito in Siberia perché aveva manifestato troppo aperta-mente il suo dissenso. Hyman e compagni sapevano tutto di lui. L’ufficiale, pronto a rifarsi una vita, era disposto a fuggi-re con tutta la sua famiglia e Roger gli stava offrendo un’opportunità.

L’organizzazione che Roger Hyman aveva messo in piedi era dedita alla ricerca, una ricerca poco ortodossa amava sot-tolineare: si occupavano di segreti del mondo scientifico, so-luzioni innovative, farmaci e prodotti della più avanzata tec-

nologia. Obiettivo delle loro missioni erano tutte quelle sco-perte che venivano occultate agli occhi del mondo per avidi interessi economici. Ogni membro dell’organizzazione, veni-va selezionato dopo attente indagini, ricerche e controlli in-crociati in tutto il mondo. Erano tutte persone in cui Hyman riponeva completa fiducia. Roger era un fautore del bene comune, tanto che negli anni aveva collezionato e restituito al mondo tesori di grande valore. Sfruttando le leve del mercato globale, aveva accelerato la diffusione di scoperte che lo riempivano d’orgoglio, come il sistema di navigazione GPS, l’algoritmo MP3 o il laser per la cura delle miopie. Aveva collezionato nemici fra le lobby del potere mondiale, ma an-che molti collaboratori legati a lui da un ideale comune.

«Non riesco più a vederlo» disse Julie. «Sta raggiungendo il muro di cinta» indicò Roger. «Ora lo vedo.» «Speriamo non ci siano intoppi.» «Perché? Gli accordi sono chiari!» Roger si voltò a guardare Julie e le disse: «Lo so, ma

quando si rischia tutto… beh, nulla è scontato.»

Roma è così lontana, pensò Paolo mentre si muoveva ra-pido nella neve. Il calore della gente era ancora più lontano. Conosceva bene i suoi limiti ed il freddo era un nemico insi-dioso. Così, per non correre rischi inutili, prese un sentiero che conduceva più a valle, lontano da occhi indiscreti. Tagliò in direzione parallela al muro di cinta, finendo nel tratto cie-co delle videocamere di sorveglianza. Ora aveva bisogno di Leo.

L’ombra che si era materializzata accanto al cancello dava già i primi segni di impazienza. Quasi ricoperto di un strato di neve, l’uomo sbuffava e nell’aria apparivano grosse nuvo-le di vapore.

Leo vide Paolo avvicinarsi al muro; avevano studiato in-

sieme la pianta della base sovietica e conoscevano perfetta-mente la posizione delle videocamere. «Ricorda Leo, non a-vremo una seconda possibilità» aveva detto Paolo prima della missione. Quelle parole risuonarono nella mente di Leo come l’eco di uno sparo. Si distese a terra più che poteva e rilassò i muscoli intorpiditi dal freddo. Prese la mira e si concentrò. Da anni Leonard Wilson lavorava per conto di Roger e mai aveva fallito un incarico. Amava il suo lavoro e amava l’elettronica forse più delle donne, specie dalla quale, per ti-midezza, si teneva sempre un po’ alla larga.

«Leo, sei pronto?» domandò Julie alla radio. Per neutralizzare le videocamere di sorveglianza, Leo a-

veva escogitato un trucco piuttosto semplice: saturare l’immagine. Tutte le videocamere erano monitorate da un si-stema elettronico centralizzato e l’interruzione del segnale video, dell’alimentazione, o anche il semplice oscuramento dell’immagine, avrebbero finito per innescare l’allarme. Inol-tre, grazie ad un circuito ausiliario nascosto, altre videocame-re avrebbero inviato le immagini ai sovietici, consentendogli di identificare Paolo. Il falco era la soluzione migliore. Deri-vato dal fucile di precisione Reminghton M24, si trattava in realtà di un sofisticato generatore ad impulsi laser, che con-sentiva di regolare automaticamente l’intensità sul bersaglio. Il falco era una delle tante creazione di Leo.

«Inizia a cantare la buona notte,» rispose finalmente alla radio «ora metto a nanna quelle guardone!»

Gli impulsi, sparati sulla videocamera, avrebbero fatto sa-lire la temperatura del sensore CMOS, saturando l’immagine e proteggendo l’identità di Paolo. L’elevata temperatura a-vrebbe portato i pixel in saturazione, fino a rendere l’immagine sfocata. Ma il sistema d’allarme disponeva anche di sonde termiche ed un calore eccessivo sulle videocamere avrebbe innescato la protezione antincendio. Il mirino del falco era in grado di rilevare la temperatura del bersaglio, correggendo l’intensità degli impulsi in modo automatico, al fine di ottenere la temperatura ottimale. Leo doveva solo

prendere bene la mira e tenere sotto controllo la temperatura esterna, che a quelle latitudini poteva raggiungere anche i cinquanta gradi sotto zero.

«Ancora un grado» ordinò Leo a sé stesso, correggendo nuovamente l’intensità del fucile. Paolo era prossimo al muro perimetrale e la prima videocamera si trovava a circa novanta metri dalla postazione di Leo. Con movimenti esperti, il fuci-le puntò la videocamera e la colpì in modo invisibile.

Paolo, che si stava avvicinando, notò il vapore fuoriuscire dalla videocamera e mentalmente contò fino a venti, per poi entrare nel campo visivo. Leo corresse rapidamente il tiro e l’intensità, per dirigere il falco sulla seconda videocamera, a meno di settanta metri dalla sua postazione. Puntò e colpì di nuovo, senza esitare e con ottima mira. Di nuovo uno sbuffo di vapore si sollevò nell’aria gelida. Paolo entrò nel campo visivo e proseguì spedito verso il cancello, dove l’ombra ini-ziava a prendere forma. Ancora una correzione a cinquanta metri per Leo, un controllo alla temperatura esterna sul suo orologio da polso e una nuova scarica di impulsi. Era l’ultima videocamera, quella posta sul cancello. Ora bisognava atten-dere per tutta la durata dello scambio.

«Compagno, vorrei due pizze ai quattro formaggi» scandì Paolo, con poca convinzione d’aver pronunciato esattamente la frase concordata.

«Il tuo russo lascia un po’ a desiderare» confermò pron-tamente il sovietico, sbuffando una nuvola di fumo dal siga-ro. «Ho dovuto purgare la sentinella per liberare i monitor di sorveglianza, ma fra poco ci sarà il cambio della guardia.» L’ombra aveva un volto raggrinzito dal freddo. La sua voce mostrava tutto il timore d’essere scoperto e per un istante la mente volò lontano, fino a raggiungere i suoi cari. Da troppo tempo, lui e la sua famiglia, erano prigionieri di quell’ingrato lavoro. Si stava cacciando nei guai, questo lo sapeva bene, ma era pronto a tutto pur di ricominciare una nuova vita.

«Sai già che il nostro obiettivo è il microchip. L’appuntamento è per questa notte, durante la prima al teatro

dell’opera» spiegò Paolo. «Hai portato i soldi?» chiese il russo. «Sì. Centomila dollari ora e il resto alla consegna,» rispo-

se Paolo «più la nostra copertura per la fuga ed il trasferi-mento in Giappone.»

«Dovete mettere al sicuro la mia famiglia,» disse il russo «ma prima che io compia la missione.»

«Non erano questi gli accordi e sai bene che non è possi-bile. Abbiamo un solo jet e questa notte voleremo via tutti» rispose Paolo. «Siamo nella stessa barca, noi, tu e la tua fa-miglia.»

Il russo non rispose e sbuffò ancora col sigaro. «Queste pillole ti consentiranno di uscire dalla base senza

essere perquisito, ti concederanno tre minuti» disse Paolo con aria circospetta.

«Cosa sono?» chiese il russo afferrando le pillole. «Contengono un preparato a base di funghi in grado di

sviluppare uno stato di morte apparente; una pillola agisce per circa quaranta minuti, due pillole ci daranno quasi due ore» disse Paolo, «da quando le assumi avrai solo tre minuti, il tempo sufficiente per prendere il microchip e farti trovare privo di sensi.»

«Chi mi dice che non ci resterò secco?» «Nessuno, puoi fidarti di me o tornartene agli alloggi co-

me se non mi avessi mai visto» disse Paolo. Il sovietico lo fissò dritto negli occhi. «Potrei insistere o raccontarti balle, ma preferisco la sin-

cerità» lo incalzò Paolo. «Una volta ne ho ingoiate tre e come vedi: sono ancora vivo, anche se per poco non sono diventato frate.»

«Questa è bella! Cos’è: hai trovato la fede prima di mori-re?» chiese il sovietico ancora indeciso.

«La fede è una faccenda personale e comunque non mi ha impedito di derubare il Vaticano per ottenere i campioni delle pillole» rispose Paolo. Cominciava a perdere la pazienza e anche Leo si stava agitando. Un’esposizione prolungata al

laser avrebbe potuto danneggiare le videocamere e comunque nulla impediva al personale di controllare le immagini, ac-corgendosi dell’anomalia. Inoltre, qualcuno sarebbe potuto arrivare in prossimità del cancello, sorprendendo Paolo e Mi-kail durante lo scambio. Per questa eventualità, il falco era dotato di una seconda canna, in grado di sparare un impulso elettrico immobilizzante. Leo era pronto ad ogni evenienza e sul lato opposto della base, nascoste vicino l’entrata principa-le, aveva piazzato delle cariche esplosive. Le avrebbe fatte brillare con un telecomando al solo scopo di creare un diver-sivo.

«Questi sono i tuoi soldi» disse Paolo. Fece passare la bu-sta con il denaro attraverso le sbarre congelate del cancello e la infilò direttamente nella tasca del russo.

«Dammi la prova che non mi stai fregando» disse il russo sbirciando la busta. «Non lo faccio per soldi, non significano niente senza la mia famiglia e la libertà.»

Paolo non aveva più tempo. A breve la copertura sarebbe saltata, mettendo a repentaglio la missione, la sua vita e quel-la dei suoi compagni. Lo sguardo si diresse alla postazione dove Julie e Roger attendevano il suo ritorno e in quel mo-mento prese una decisione.

«Ascoltami bene:» disse Paolo senza più badare alla pro-nuncia «questo è l’esplosivo necessario per portare a termine la missione. Dovrai piazzarlo in tre punti. Due all’estremità del corridoio d’accesso e una carica sulla porta del laborato-rio. Questo è il detonatore. Dopo l’esplosione, dovrai farti trovare disteso a terra e sporco di fumo. Mettiti al riparo, in-goia le pillole, fai saltare le cariche e stenditi a terra. Perderai conoscenza e tutti penseranno ad un incidente.»

«Non se ne parla. Io non rischio la vita senza una…» pro-vò a dire il russo.

«Non c’è più tempo!» lo interruppe Paolo passando attra-verso le sbarre anche una piccola scatola, era piena di fulig-gine. «Cospargiti il viso e la giacca prima dell’esplosione; servirà a rendere la cosa più reale.»

«Basta italiano, riprenditi i tuoi soldi» disse il russo. «Non mi lasci altra scelta» disse Paolo tirando fuori dalla

tasca altre due pillole, le stesse che aveva appena dato al rus-so. «Ora le ingoierò davanti ai tuoi occhi e spero che questo basti a convincerti!»

Il russo incerto lasciò cadere a terra il sigaro, sbirciò la busta che aveva in tasca, guardò un istante la videocamera che continuava ad emettere vapore e infine fece un cenno af-fermativo col capo.

«Dovrò allontanarmi di qui prima possibile, perché dovrò farmi soccorrere» concluse Paolo.

«Va bene,» sentenziò il russo «ma dovrai ingoiare le mie di pillole e io userò le tue per portare a termine la missione. O non se ne fa niente.»

«Passami quelle maledette pillole» ribatté Paolo. Senza esitare Paolo ingoiò le due pasticche e poi si rivolse

al russo con un sorriso. Mikail estrasse dalla tasca una piccola bottiglia di vodka e

ordinò: «Bevi!» Paolo afferrò la bottiglia senza esitare e tirò giù un bel

sorso. «Alla tua salute compagno.» Il russo si riprese la bottiglia e sorseggiò a sua volta. «Qual è il tuo nome?» «Mi chiamo Paolo.» «E’ stato un onore conoscerti» disse il russo prima di tor-

nare sui suoi passi. «Ora sono io che devo fidarmi» gli disse Paolo. «Cavolo, perché ci mettono tanto?» sbottò Roger, mentre

seguiva i movimenti di Paolo col binocolo. L’oscurità si sta-va avvicinando ed il freddo rendeva difficile anche riflettere con lucidità. La mente era vigile ma il corpo stava reclaman-do un po’ di calore.

«Si stanno muovendo» disse Julie, osservando la scena col suo binocolo. Solo in quel momento si rese conto di aver trattenuto il fiato per quasi tutto il tempo. Il suo viso era di-ventato paonazzo e osservando Roger al suo fianco, capì che

in vita sua non aveva mai provato delle emozioni tanto forti. Roger si sentì osservato e le chiese: «Mia cara, non penserai che sono preoccupato? Credo che abbiano finito. Ora ho solo bisogno di un buon brandy e di un bagno caldo.»

Julie non disse nulla e si limitò ad osservare l’ultimo ti-mido raggio di sole che scompariva all’orizzonte. Il cielo si era tinto di arancio e una coppia di gru dal becco rosso vol-teggiò sulla scena.

Paolo fece cenno a Leo, il quale spostò il mirino sulla vi-deocamera precedente, per consentire la ritirata.

Mikail aveva mosso solo alcuni passi verso la base e quasi completamente coperto di neve si stava apprestando a contare il denaro.

Il suono della sirena ruppe il silenzio ovattato. Paolo si voltò verso il russo che fece altrettanto ed en-

trambi rimasero per un istante immobili. Leo aveva già pun-tato l’altra videocamera, ma dalla prima stava uscendo anco-ra del fumo, non più il vapore acqueo ma un denso fumo ne-ro. Era scattato l’allarme.

«Corri Paolo. Corri!» gli urlò il sovietico. «Scappa Leo!» fece eco Paolo, sbracciandosi verso il

compagno. Poi si voltò in direzione di Roger, ripetendo il se-gnale di pericolo. «Mettetevi al sicuro» disse fra sé. Ormai non c’era più tempo e decise di muoversi senza pensare al sistema di sorveglianza. Corse nella direzione opposta da cui era venuto, con l’intento di depistare le guardie e coprire la ritirata dei compagni. La neve era soffice e per quanto Paolo si sforzasse di raggiungere un riparo fra gli alberi, l’impresa sembrava impossibile.

«Non ti lasceremo solo» Roger pronunciò la frase a denti stretti e poi afferrò il polso di Julie. «Svelta, non possiamo più restare qui.»

«Ma Paolo…» provò a protestare Julie. Roger la sollevò, senza troppi convenevoli, con una forza

che non aveva mai dato a vedere. La guardò e in quel preciso momento il boato di un’esplosione li fece voltare in direzione

della base. L’eco dell’esplosione rimbalzò nella vallata, rom-pendo il silenzio incantato di quella terra. Il fumo proveniva dal versante opposto, molto vicino all’entrata principale della base.

«Leo ha fatto saltare le cariche di copertura» disse Roger. «Lui e Paolo ci raggiungeranno alla macchina.»

Julie esitò ancora un attimo, si voltò cercando Paolo nella neve ma di nuovo venne strattonata da Hyman che la costrin-se a seguirlo.

Mikail fu sorpreso dal boato almeno quanto la gru che volteggiava sul suo capo, ma mantenne la calma e si diresse di nuovo verso il cancello.

Leo lasciò la sua postazione e scrollandosi di dosso la ne-ve si mosse affannosamente in direzione di Hyman. Aveva il cuore in gola e il fiato corto, le sue gambe non volevano ri-spondere agli impulsi del cervello e la paura gli faceva fluire tutto il sangue sul viso già arrossato.

Facendo appello a tutte le sue energie, Paolo si stava diri-gendo verso il bosco e correndo cercava di evitare la neve fresca, ma in cuor suo si stava già rendendo conto del fatto che i sovietici lo avrebbero raggiunto presto. Il bosco era troppo distante dalla strada e non avrebbe fatto in tempo a raggiungere i compagni. Si guardò alle spalle e vide Mikail, da solo dietro il cancello, che lo stava osservando. Se i sovie-tici lo avessero avvistato in fuga, fuori dalla base, Mikail non avrebbe esitato. Non era disposto a rischiare l’incolumità del-la sua famiglia e Paolo sarebbe diventato un bersaglio. Con-tinuò la sua corsa e ad un tratto avvertì un crampo lancinante allo stomaco. «Le pillole!» ebbe giusto il tempo di dire, pri-ma d’inciampare in una radice e cadere a faccia in giù nella neve fresca. Tentò di rialzarsi ma inutilmente; le gambe ce-dettero e al secondo tentativo capì che era troppo tardi. Con la sola forza delle braccia continuò a spingersi in direzione del bosco. Era a pochi metri da un grosso albero che gli a-vrebbe garantito l’invisibilità. Il veleno respingeva tutti i suoi sforzi e pochi istanti dopo i suoi occhi divennero pesanti.

«Capitano, ha sentito l’esplosione?» le guardie russe, ac-corse dopo il primo allarme, raggiunsero Mikail pochi istanti dopo.

Mikail distolse prontamente lo sguardo da Paolo e lo di-resse alla videocamera fuori servizio. «Sì, ho sentito l’esplosione, ma prima ho sentito la sirena del sistema d’allarme. Mi stavo giusto chiedendo dove fossero finite le guardie di questa base. Quando ce n’è bisogno non c’è mai nessuno» rispose con tono accusatorio. «Da quanto è fuori servizio?» domandò, indicando la videocamera da cui fuoriu-sciva il fumo.

«Capitano… le assicuro che stamani era a posto.» «Ah sì? Allora io devo essere impazzito a venire qui fuo-

ri?!» domandò Mikail irritato. «Vai a spegnere l’allarme pe-rimetrale e corri coi tuoi uomini a vedere da dove proveniva l’esplosione. Della videocamera e delle tue responsabilità parleremo più tardi.»

«Agli ordini» e le guardie si allontanarono in fretta. Rimasto solo, Mikail cercò Paolo nella neve, ma per

quanto il suo sguardo fosse allenato, non riuscì più a distin-guerlo. Sorrise compiaciuto e rientrò nella base.

«Mark metti in moto, stiamo arrivando!» Roger chiamò con la radio il suo uomo. Li aspettava sul tratto di strada ster-rata, in prossimità del bosco. Mark saltò su e mise in moto il grosso fuoristrada.

«Ok! Ho sentito l’esplosione, ci sono problemi?» chiese Mark un po’ sorpreso.

«Siamo in ritirata, Leo ci segue ma Paolo è ancora lonta-no, non riesco a vederlo» rispose Hyman.

«Dalla base si stanno alzando in volo degli elicotteri e presto saranno sul nostro versante» aggiunse Mark.

Roger non disse nulla ma Julie che correva al suo fianco intuì. Qualcosa non andava e iniziò a voltarsi per vedere se Paolo si stava avvicinando. Leo, stremato, era a cinquanta metri da loro e Julie strattonò Roger, liberandosi della sua presa, per correre incontro a Leo.

«Signorina Smith, non è il caso di fare i capricci» la rim-proverò Roger, ma Julie continuò a correre.

Raggiunto Leo e ansimando per la fatica, Julie gli chiese: «Dov’è Paolo?»

«Ha preso… un’altra strada. Per evitare che… per non farci scoprire» rispose Leo esausto. Non riusciva a parlare per la fatica e appena ripreso fiato, aggiunse: «Credo… credo sia entrato nel bosco.»

«Signore, le esplosioni sono certamente opera della com-pagnia inglese; sono in cerca di sabbie aurifere» il caposqua-dra stava presentando un primo rapporto sull’accaduto al co-mandante della base.

«Perché è suonato l’allarme perimetrale prima dell’esplosione?» interrogò il comandante.

«Non saprei signore» fu la risposta. «Chi dirige la sorveglianza?» chiese il comandante. «Il capitano Mikail Kasiski» rispose la guardia. «Convocatelo!» ordinò il comandate. Mikail fu raggiunto dalla guardia non appena rimise piede

all’interno della base; conosceva bene il comandante, non era affatto comprensivo. Pur di mascherare una sua responsabili-tà agli occhi delle autorità si sarebbe impegnato a fondo nella ricerca di un colpevole.

Mikail ostentò freddezza, mostrandosi irritato dalle do-mande in merito all’esplosione. «Questi occidentali non han-no rispetto per le nostre istituzioni e per la nostra autorità» disse rivolto alla scorta, quando valutò che anche il coman-dante avrebbe sentito le sue parole.

«A rapporto comandante» disse Mikail. «Capitano, cosa è accaduto al perimetro orientale?» chiese

il comandante osservando il suo cappotto intriso della neve che si stava sciogliendo.

«Sono mortificato comandante, ho riposto troppa fiducia

nei miei uomini. La scorsa settimana ho ordinato di controlla-re lo stato di funzionamento di tutte le videocamere di sorve-glianza, ma temo che qualcuno di loro non abbia rispettato a pieno l’incarico» Mikail pronunciò la frase abbassando gli occhi.

«Si spieghi meglio capitano» incalzò il comandante. «Circa mezz’ora fa uno dei miei uomini si è sentito male

e, mancando poco al cambio della guardia, l’ho rimpiazzato personalmente. Appena davanti ai monitor ho capito che qualcosa non andava: una telecamera non funzionava corret-tamente. Ho pensato di verificare e mi sono recato all’esterno. Pochi minuti dopo il mio arrivo una delle video-camere ha emesso del fumo nero e ha fatto scattare l’allarme perimetrale. Sono desolato, ma le assicuro che troverò i re-sponsabili» concluse Mikail.

«Va bene, può andare» lo congedò il comandante. Non appena ebbe girato l’angolo, Mikail trasse un sospiro

di sollievo e si rese conto che teneva ancora strette nel pugno le sue pillole.

Intanto, i fuggitivi avevano raggiunto l’auto e Mark li sta-va portando in salvo. Roger era particolarmente teso e conti-nuava a fissare lo specchietto laterale. L’auto era diretta ver-so la statale e Julie, girata sul sedile, teneva gli occhi fissi sul bosco.

«Mi dite cosa è andato storto?» chiese Mark per rompere la tensione che si era creata.

«Sono io il responsabile!» confessò Leo. «Non dire sciocchezze Leonard, la nostra è una squadra e

sia le vittorie che le sconfitte sono di tutti» lo riprese con to-no paternale Hyman. «Paolo è entrato nel bosco perché era la decisione più saggia; la sua scelta è stata un bene per la mis-sione e per tutti noi» aggiunse. «Se la caverà, stai tranquillo.»

La strada girava attorno al bosco per immettersi poi sulla statale. Il fuoristrada procedeva a passo d’uomo e tutti spera-vano che Paolo sbucasse da qualche parte sul sentiero, ma dopo poche centinaia di metri si resero conto che la situazio-

ne era più seria del previsto. «Paolo mi senti? Rispondi per favore. Ci troviamo sul

sentiero di ritorno vicino il bosco» Roger aveva ripetuto quella frase già una decina di volte, ma neppure l’ultimo ten-tativo ebbe una risposta.

Un elicottero si alzò in volo dalla base diretto verso il bo-sco e Roger ordinò a Mark di accelerare per portarsi sulla strada statale. «Svelto, tra un paio di curve ci dev’essere un piccolo sentiero di caccia. È coperto dagli alberi e può offrir-ci un riparo.»

«Ma Paolo non ci troverà!» protestò Julie. «Torneremo a prenderlo» rispose Roger cercando di man-

tenere il sangue freddo. «Torneremo a prenderlo» ripeté a bassa voce. Il buio si stava impadronendo della valle e con la notte sarebbe arrivato il freddo polare. In quella regione la temperatura era letale e senza un buon riparo o le attrezzature adeguate, Paolo avrebbe avuto poche possibilità di cavarsela.

«E’ in pericolo» disse Julie guardando dal finestrino. «Dobbiamo fare qualcosa e in fretta!»

«Occorre l’attrezzatura polare» rispose Mark. «Paolo è forte e può resistere, ma non abbiamo molto tempo.»

«Lo scambio è durato troppo, maledizione» si limitò a di-re Leo ancora pieno di sensi di colpa.

In quel momento un elicottero sovietico passò sulle loro teste in direzione di Jakutsk, interrompendo le loro discus-sioni e lasciandoli in silenzio.

L’auto sfrecciava a gran velocità sulla strada statale; era diretta a Jakutsk, la capitale dello stato. In lontananza la Transiberiana viaggiava attraverso la steppa, con il suo carico d’umanità, di sogni e di speranze. Il cielo si stava riempiendo di stelle, così nitide che sembrava di poterne sentire il calore e distinguerne le dimensioni.

Roger amava le stelle e da sempre, nei rari momenti di re-

lax si dedicava all’osservazione della volta celeste. Nella sua casa vicino Londra aveva fatto installare un piccolo osserva-torio astronomico. Nelle stelle cercava le risposte a mille domande, sentiva il contatto con l’universo e tornava ad esse-re un uomo semplice. La sua organizzazione operava per no-bili scopi, ma fin dove era lecito spingersi per un ideale?

«Roger, mi ascolti?» Mark lo destò dai suoi pensieri. «Perdonami, stavo pensando a Paolo» disse Roger. «Chi di noi tornerà a cercare Paolo?» domandò Mark con

insistenza. «Qualcuno dovrà andare a teatro per non destare troppi sospetti.»

«Hai ragione. Tu ed io ci occuperemo di Paolo. Per quan-to riguarda il teatro: ci penseranno Julie e Leo» disse Roger aspettando la reazione di Julie.

«Ti ricordo che sono capo scout!» protestò Julie. «Roger, posso essere utile alle ricerche. Sono brava a seguire le tracce nella neve.»

«Io l’ho cacciato nei guai e io lo aiuterò ad uscirne» ag-giunse Leo con coraggio.

«Mark è un medico e io so come è addestrato Paolo. Non ho intenzione di perdere altri validi collaboratori» concluse Roger. «Non temete, lo troveremo.»

L’auto raggiunse la capitale circa un’ora dopo aver lascia-to la base. Attraversarono il fiume Lena e furono subito nel centro abitato. Le strade erano semideserte e il fumo dei ca-mini fuoriusciva dai comignoli, creando un’atmosfera mite, quasi natalizia. Poche le persone a piedi, affrettate e infred-dolite. Nessuna consolazione nel tepore dell’auto. I quattro erano silenziosi. Roger non riusciva a darsi pace, ciò nono-stante doveva tenere duro e mantenere i nervi saldi. Doveva farlo per Paolo. In breve l’auto raggiunse l’albergo.

Julie aveva pensato e ripensato all’accaduto e alle circo-stanze che le avevano fatto incontrare Paolo più di tre mesi prima. Le loro vite si erano incrociate per caso quando i geni-tori di lei, in Italia per un viaggio di piacere, si imbatterono in uno scippatore nei pressi del Vaticano. Solo l’intervento di

Paolo riuscì a salvarli da una vacanza disastrosa. Il loro pri-mo incontro avvenne in America, quando i genitori di lei in-vitarono Paolo per i festeggiamenti del 4 luglio.

«Piacere di conoscerti. Mi chiamo Paolo Ferrari» la pre-sentazione era stata semplice ma efficace. Julie era rimasta colpita dal suo sguardo intenso, dalla sua voce profonda e calda, quasi musicale. Evitando di ammirare le proporzioni del suo fisico atletico, Julie non aveva potuto evitare in alcun modo la sua presenza, la stretta di mano, il profumo della sua pelle, quasi era riuscita a sentire il battito del suo cuore. Era entrata nel panico quando il suo di cuore aveva iniziato a fare i capricci, manifestando troppo apertamente la sua approva-zione. Imbarazzata, Julie era tornata di nuovo a scrutare il suo ospite solo quando, ignaro, le stava dando le spalle.

Scesi dall’auto i quattro si stavano dirigendo verso l’entrata posteriore dell’hotel. C’erano pochi turisti in quella stagione e quei pochi che si erano spinti fin lì stavano rien-trando infreddoliti, con il naso rosso.

«Cavolo! Dove ho messo la testa?!» disse Julie. «Ho di-menticato il telefono in macchina. Per favore Mark, passami le chiavi.»

«Tieni e non fare scherzi» le disse Mark. «Spiritoso! Non ho certo intenzione di scappare.» «Scappare no, ma… beh, non vorrei ti venissero strane i-

dee. Sbrigati.» Roger tornò a sorridere e per un po’ si diede forza. Entrato

nell’hotel, camminava spedito lungo il corridoio, ma non ap-pena ebbe girato l’angolo, il suo sorriso si spense: un ufficia-le sovietico con tre uomini di scorta lo stavano aspettando.

«Buonasera, è lei Mr. Hyman?» chiese l’ufficiale. «Sono io! A cosa devo la sua visita?» rispose con cordia-

lità e finto stupore. «Lei e i suoi uomini dovete seguirci» si limitò a risponde-

re il russo indicando l’entrata principale e una camionetta mi-litare.

«Spero che non ci faccia perdere lo spettacolo che si terrà

a teatro?» obiettò Roger. Il russo non rispose e fece cenno di andare. Julie, che stava rientrando in quel momento, ebbe giusto il

tempo di vedere Roger, Mark e Leo lasciare di nuovo l’hotel. Capì che qualcosa era andato storto e non uscì, finché non vide allontanarsi la camionetta. Prese l’ascensore senza dare nell’occhio e salì in camera. Non aveva mai indossato l’attrezzatura polare, ma si diede coraggio. Paolo poteva con-tare solo su di lei.

- 2 -

Paolo, immerso nella neve, si confondeva ormai con l’ambiente ed era distinguibile solo da vicino. Prima di per-dere coscienza, era riuscito a spingersi sotto i rami di un grosso albero, che ne avevano riparato il volto. La sua mente, stordita dal veleno e assopita dal gelo, stava raggiungendo luoghi mai esplorati. Il silenzio era stato sostituito dalla me-lodia dei ricordi e l’oscurità da uno scintillante turbinio di lu-ci e colori.

«Paolo, perché sei a terra?» Dal caos onirico era emersa una figura poco distante, dif-

ficile da distinguere perché immersa in una luce fortissima, ma quella voce… Paolo era confuso.

«Non mi riconosci?» lo incalzò una voce di donna. «Io non… non riesco a vederti» le disse Paolo. «Paolo, alzati in piedi» disse la donna con autorità. «Ma… chi sei?» chiese Paolo intimorito. «Sono tua madre.» Non è possibile, pensò Paolo. Doveva trattarsi di un so-

gno. Era bellissimo, ma si trattava di un sogno. Quel poco di lucidità riaccese la sua mente offuscata e lo scosse profon-damente. Mentre le luci si affievolivano, quella voce prese forma e Paolo riconobbe il sorriso di sua madre. Lottò per non risvegliarsi dal coma.

«Svegliati» disse quella voce. «Dove sono?» «Sei in pericolo.» Per un istante ci fu solo la luce e più nessun suono. Con-

fusi, i pensieri di Paolo vagarono nella stanza dei ricordi e un dolore, da lungo tempo assopito, riemerse forte come una

lama e lo trafisse. Improvvisamente era tutto chiaro. Il dolore lo riportò faccia a faccia con sua madre e Paolo ebbe l’impressione di sentirla respirare. Occhi negli occhi, si spec-chiarono nel pozzo dei ricordi.

«Perché l’hai fatto?» domandò Paolo. «Ho sbagliato, ma ora mi è stata concessa una nuova pos-

sibilità. Ascolta bene Paolo: tutto ciò che è stato può cambia-re! Non dimenticarlo.»

Paolo cercò una spiegazione in quelle strane parole, ma le immagini dei ricordi continuavano a sovrapporsi al volto sor-ridente della madre; quella stessa madre che anni prima, in un folle gesto, si era tolta la vita.

«Mamma io… come posso aiutarti?» Il silenzio avvolse quella domanda. La richiesta di Paolo

era stata istintiva, spontanea, ma ora cominciava a chiedersi che senso avesse. In fondo si trattava solo di un sogno. Men-tre la razionalità cercava una via di fuga, gli occhi di sua ma-dre brillarono e per la prima volta Paolo ebbe la netta sensa-zione di poterla toccare.

«Paolo, trova la Freccia di Luce» le parole uscirono dalla bocca di sua madre in un filo di voce.

«La freccia… ma che significa?!» Intorno, tutto iniziò a girare. Le immagini si affievolirono

e le ultime parole di sua madre gli giunsero confuse, quasi impercettibili. «Lo scoprirai presto.»

«Aspetta!» provò ad urlare Paolo, ma la sua voce era co-me svanita, inghiottita dall’oscurità, un’oscurità che pian piano stava lasciando il posto a mille piccole luci.

La mente si diresse verso nuove mete e davanti agli occhi di Paolo apparve il volto di Julie. C’era una strana atmosfera e l’aria sapeva di zolfo, quello dei fuochi d’artificio per i fe-steggiamenti del 4 luglio.

«Piacere di conoscerti. Mi chiamo Paolo Ferrari» disse la voce. Come uno spettatore, Paolo osservò la scena incuriosi-to. Ricordava bene quel sorriso. Julie lo aveva lasciato senza fiato. Qualche volta, da ragazzo, aveva provato ad immagina-

re la sua ragazza ideale, ma non si era mai avvicinato a quella visione. «Sono Julie, finalmente ci conosciamo!» Erano ba-state quelle poche parole per chiarire, una volta per tutte, che la sua donna ideale era lì, senza nessuno sforzo d’immaginazione. La sua pelle scura, calda come il suo sorri-so. I lineamenti, dipinti sulle morbide guance e infine quegli occhi: due grandi occhi neri che lo rapirono. Per anni aveva evitato ogni coinvolgimento, nascondendo i sentimenti den-tro sé, ma Julie lo aveva conquistato, violando tutte le sue di-fese, con un sorriso e una stretta di mano.

Non posso permettermi di fallire, pensò Julie mentre sfrecciava col fuoristrada lungo la statale. Occorreva poco meno di un’ora per tornare alla base e una volta lì, non a-vrebbe avuto più alibi. Cosa fare? Era divisa tra l’idea di pen-sare e quella di rilassare i nervi.

«Sei qui nel ruolo di osservatore. Nient’altro» aveva con-fessato Roger quella mattina. Julie non l’aveva presa molto bene. «Cosa vorresti dire, che sono in gita con la scuola? O pensi che a Princeton io abbia solo letto dei libri? So bene che fuori da un laboratorio si corrono dei rischi. Lo accetto e sono qui per aiutarvi» aveva risposto a Roger. Lui si era limi-tato a sorridere sotto i baffi.

Una stella cadente solcò il cielo e compiendo un’ampia curva fra le stelle fisse, illuminò lo sguardo assorto di Julie. Tracciando un’intensa scia luminosa, la meteora esplose, di-videndosi in due parti. Ciascuna proseguì la sua corsa, crean-do altre due piccole code di luce. Quello spettacolo rincuorò lo spirito di Julie.

Al distretto militare di Jakutsk, Leo e Mark erano come pietrificati dalla presenza delle guardie sovietiche. Al contra-

rio, Roger mostrava tutta la sua esperienza, con un autocon-trollo che non lasciava trasparire nulla. Era preoccupato per Paolo, ma non poteva cedere al panico. Conversando con i compagni, che si limitavano solo ad annuire, Roger inganna-va il tempo fumando un sigaro.

«Mr. Hyman, il comandante la sta aspettando.» Una guardia lo scortò per i corridoi, facendolo accomoda-

re in una piccola stanza senza finestre. Appena dentro, Roger riconobbe il volto dell’uomo che sapeva essere a capo della base sovietica. Nascondendo la sorpresa, cercò immediata-mente di muovere la discussione su argomenti più frivoli.

«Comandante Popov, lieto di conoscerla. Mi auguro che lo spettacolo di questa sera sia all’altezza di quello che ho sentito. Pare che la compagnia teatrale abbia un étoile di al-tissimo livello» esordì Roger in russo.

«Signor Hyman, mi auguro che saprà fornirmi degli ottimi motivi per non trattenerla qui stasera. Lei e i suoi uomini ave-te commesso una grave infrazione» rispose il comandate con un ottimo inglese. Molti dei militari che si trovavano in Sibe-ria erano lì per ragioni punitive. Il comandante Ivan Popov era in servizio alla base per ben altri motivi: era l’unico a co-noscenza dei segreti in essa custoditi. Il suo inglese eviden-ziava un’ottima preparazione, tipica di un agente del KGB, oggi noto come FSB.

«Comandante, spero che non si riferisca alle nostre ricer-che? Lei sa bene che i miei uomini agiscono solo nell’interesse della collettività» ribatté Roger.

«Far brillare delle cariche esplosive in prossimità della base militare non coincide con gli interessi della collettività e francamente… non credo affatto che i suoi affari possano giovare al paese.»

«Caro Popov, il mio lavoro è creare business e da questo far nascere nuovi posti di lavoro. Credo che tutto ciò sia di interesse reciproco» affermò Roger.

«Ciò che ha fatto viola gli accordi presi col governo, per-tanto sono costretto a trattenerla» incalzò Popov.

«Lei fuma comandante?» chiese Roger. «No e se pensa di corrompermi con un sigaro, caro Hy-

man, è decisamente fuori strada. Tratterrò lei e i suoi uomini finché non avremo chiarito la sua posizione sull’accaduto. Come giustifica l’uso dell’esplosivo nella zona non consenti-ta?»

Roger non rispose. «Portate i suoi uomini!» ordinò Popov. Poco dopo, anche Leo e Mark entrarono nella stanza. Lo

spazio era davvero poco e dovettero restare in piedi. Popov affrontò i loro sguardi, per carpire ciò che non riusciva a co-gliere da Roger.

«D’accordo,» intervenne Roger «sarò sincero.» «Bene! Vada avanti» gli disse il comandante. «Da settimane eseguiamo ricerche nella zona che confina

con la sua base, ma senza alcun risultato. I miei superiori hanno minacciato di annullare la missione e di licenziare me e i miei uomini per inefficienza. Io ho provato a spiegargli che a questa latitudine i lavori di ricerca procedono molto lentamente per via del clima e delle ore di luce, ma non han-no voluto sentire ragioni. Mi hanno concesso solo un’ultima settimana» spiegò Roger con un’espressione da attore melo-drammatico.

«Sono spiacente per voi, ma questo cosa c’entra con l’accaduto di questa sera?» chiese il comandante.

«Stamani abbiamo individuato una possibile vena aurifera che entra nella zona proibita.»

Un lampo accese gli occhi di Popov che subito si ricom-pose per non far trasparire un eccessivo interesse. Roger sa-peva bene, avendo studiato la sua scheda, che il comandante era un uomo avido di denaro; così decise di rincarare la dose. «In realtà… si tratta di una grossa vena aurifera, ad una pro-fondità tale da richiedere un massiccio impiego di esplosivo. Comandante, il mio problema è che questa vena inizia esat-tamente dove ci è stato proibito di scavare. Per avere una concessione dal suo governo devo prima convincere la mia

compagnia e per farlo ho bisogno di prove» concluse Roger facendo decantare lentamente le sue parole.

Dopo alcuni attimi di silenzio, Popov chiese ai suoi uomi-ni di lasciare la stanza e di portare con se anche Leo e Mark. Non appena rimasero da soli, si rivolse ad Hyman dicendo: «Le ha trovate le prove che cercava?»

«Ci può scommettere!» rispose Roger, tirando fuori dal taschino della giacca una grossa pepita d’oro grezzo. Si era fatto recapitare la pietra dal Sudafrica poco prima di lasciare l’Inghilterra. Giocò la sua carta senza esitare.

«Credo che troveremo un accordo» concluse Popov, men-tre i suoi occhi riflettevano già quella luce dorata.

Il capitano Mikail Kasiski si aggirava nella base come una tigre in gabbia. Aveva parlato con sua moglie e si era prepa-rato al peggio. L’accordo prevedeva che sua moglie e i due figli lo avrebbero raggiunto all’ospedale poco dopo la mez-zanotte. Mikail si era raccomandato di non portare cose su-perflue e di nascondere i bagagli ad occhi indiscreti. Ora non rimaneva che predisporre le cariche e allontanare le guardie con una scusa. Il bunker si trovava sull’ala nord della base, vicino ai centri di calcolo necessari per lo sviluppo.

Per progettare il chip erano stati impiegati dei nuovi super computer, con microprocessori in grado di lavorare a fre-quenze ben più elevate degli standard. Tuttavia, ogni sistema di elaborazione non può sottrarsi alle leggi della termodina-mica: parte dell’energia necessaria per i miliardi di transistor deve essere convertita in calore. Gli scienziati la chiamano entropia. Si tratta del caos, un’inefficienza che poteva essere ridotta sfruttando il freddo polare. Raffreddati dalle tempera-ture polari e spinti alla massima velocità, i microprocessori erano in grado di elaborare rapidamente enormi quantità di dati. Tutto ciò aveva consentito ai ricercatori lo sviluppo di un chip dalle incredibili prestazioni.

Anni di lavoro, su reti neurali e nanotecnologie, avevano prodotto un chip in grado di sostituire un interprete linguisti-co. Come un perfetto traduttore simultaneo, il chip era in grado di apprendere due lingue con un processo di addestra-mento della rete neurale. Una parte del chip operava il rico-noscimento vocale, un’altra la traduzione e infine, il modula-tore vocale integrato, riproduceva la frase nella lingua desi-derata. Ovviamente, il chip eseguiva anche l’operazione in-versa, consentendo un dialogo completo nelle due lingue. Ne sarebbe scaturito un congegno, grande più o meno quanto un palmare. Tutto il mondo avrebbe conservato le proprie radici linguistiche e col tempo, nessuna lingua, per quanto scono-sciuta, avrebbe più rappresentato un ostacolo.

Mentre camminava per la base, Mikail rifletteva su questi concetti. Da giovane il suo sogno era stato quello di insegna-re lingue in una scuola, ma il regime sovietico e gli anni di povertà, avevano condotto lui e la famiglia su una strada ben diversa. Nessuno dei militari, all’interno della base, era a co-noscenza del progetto. I ricercatori erano tenuti in isolamen-to, con la promessa di poter riabbracciare le loro famiglie so-lo al termine del lavoro. Era stato realizzato un solo prototi-po, la cui sperimentazione aveva dato ottimi risultati. Mikail non sapeva chi avesse informato Hyman del chip e in fondo non ci teneva a saperlo. Approfittando del cambio della guar-dia, si diresse verso l’ala nord della base. Dovette procedere con estrema cautela e far leva su tutta la sua esperienza per non destare sospetti, sviando le attenzioni delle guardie. Una volta in prossimità del bunker si diresse nell’ufficio della sorveglianza.

«Salve compagno, non ti farò perdere molto tempo» disse Mikail dirigendosi al computer.

«Che fai?» chiese la guardia con sorpresa. «Non vorrai anche tu far arrabbiare il comandante Popov?

Ho sentito dire che non ama i problemi, specie quando si ri-petono» disse Mikail.

«Quali problemi?» chiese la guardia preoccupata.

«Non lo sai? Oggi è saltato il sistema perimetrale per un problema tecnico. Pare che una delle guardie non si sia ac-corta dell’anomalia nel sistema di sorveglianza. Con il tempo la cosa è degenerata, provocando un bel danno all’impianto» spiegò Mikail.

«Cavoli, se dovesse succedere a me sarei nei guai» con-fessò la guardia. «Puoi fare qualcosa?»

«Pensi che mi diverta a girare per la base? Certo che pos-so aiutarti! Ora non farmi perdere altro tempo» sbottò Mikail. «Se non trovo il problema in tempo siamo fregati, quindi o mi aiuti o mi lasci in pace.»

«Come posso aiutarti?» chiese la guardia con un’espressione che mostrava apertamente i suoi timori.

«Fatti un giro sul perimetro esterno e dai un’occhiata alle telecamere. Se noti qualcosa di strano, ti appunti i dati di tar-ga del sensore» spiegò Mikail.

«Che intendi per qualcosa di strano?» domandò la guar-dia, sbirciando il display del termometro esterno che in quel momento riportava -29°C.

«Qualunque cosa. Dovrai avvicinarti alle camere e osser-varle da vicino. Se noti del fumo o il fruscio di una scarica elettrica, hai trovato il problema. Allora prendi nota del sen-sore e corri a riferirmelo.»

«Va bene, ma prima devo bere un sorso di vodka. Hai se-te?» gli offrì la guardia.

«No, ti ringrazio. Bevi anche alla mia salute, ne avrai cer-tamente bisogno lì fuori» rispose Mikail con un tono da ca-merata che rincuorò la guardia e la spinse a buttar giù un bel sorso di vodka direttamente dalla bottiglia.

Appena rimasto solo, Mikail poté agire indisturbato. Mise fuori servizio il sistema d’allarme interno e si recò sul corri-doio del bunker. Piazzò le cariche fuori dalle due porte d’accesso e si affrettò ad entrare nella camera che custodiva il chip. Il personale del centro di ricerca era andato via e per accedere al laboratorio interno era necessaria una tessera ma-gnetica che veniva custodita dalla sorveglianza.

Per non pregiudicare la posizione della guardia, già coin-volta indirettamente, Mikail si era procurato una tessera ma-gnetica universale. Venivano usate come passe-partout dalla manutenzione per casi eccezionali. Si era procurato quella tessera settimane prima, ma gli era costata cara. Avendo di-chiarato che la sua tessera personale era andata distrutta in un incidente, era stato sospeso dal servizio per due settimane e cosa ben più grave, aveva detto addio per sempre alla promo-zione.

Entrato nel laboratorio, Mikail fece attenzione a non toc-care nulla. Indossava dei guanti presi nel locale delle pulizie, così non avrebbe lasciato impronte.

Il chip era poco meno di un francobollo e si trovava all’interno di un contenitore in vetro, sigillato e sotto vuoto. Senza troppi problemi aprì il contenitore con l’intento di af-ferrarlo, ma si rese conto che il chip era troppo sottile e fragi-le per maneggiarlo con le dita.

Si procurò una pinzetta e una scatola di plastica, conte-nente della spugna antistatica. Prelevò il prezioso chip e lo depose sulla spugna con estrema cura. Chiuse la scatola e la sigillò con del nastro adesivo. Nascosta la scatola nei panta-loni, Mikail uscì dalla stanza e si apprestò a piazzare la terza carica. Ora non gli rimaneva che ingoiare le sue pillole e far saltare l’esplosivo, ma proprio in quel momento avvertì un rumore di passi: era la guardia che stava rientrando.

Si diresse nella stanza di controllo e per non destare so-spetti si piazzò davanti al server. Il monitor era in standby e Mikail fece appena in tempo a ripristinarlo.

«Ho le ossa congelate» si lagnò la guardia. «Trovato niente?» chiese Mikail senza voltarsi. «Solo un freddo boia.» «Sei fortunato, ma per non correre dei rischi inutili ho de-

ciso di fare un controllo anch’io. Esco di fuori» disse Mikail. «Fai pure, ma sbrigati. Fra poco non sarà più tanto saluta-

re. Il termometro segna già -31°C» disse la guardia, sbircian-do di nuovo il termometro, che in quel momento aggiornò

l’indicazione a -32°C.

Julie era appena arrivata in prossimità della base e una pallida luna le rischiarò la visuale. Non ricordava esattamente il luogo dove si erano nascosti durante il giorno. Aveva por-tato con sé la radio e si era caricata sulle spalle lo zaino, con tutto il necessario per un primo intervento di soccorso. Sen-tendo la neve morbida scricchiolare sotto gli scarponi, Julie capì che la sua vera missione era appena iniziata. Quel co-raggio, che non pensava d’avere, l’aveva spinta oltre il sen-tiero, lungo una pagina della sua vita non ancora esplorata.

Julie avanzava lentamente, coi suoi grandi occhi spalanca-ti a raccogliere tutta la luce della luna. Mesi prima non a-vrebbe sognato un’avventura simile, ma il cuore le batteva forte e ora, ogni minimo rumore, era come un campanello suonato nella notte. Provò ad intonare un canto gospel, uno dei suoi preferiti. Cantò con un filo di voce, solo per darsi co-raggio. Fin da bambina aveva amato il gospel, frequentando la chiesa di quartiere ed esercitandosi col coro. Amava quel calore, la musica, il senso di stare insieme e tutta l’energia che riusciva a trasmettere la voce.

Pensò di accendere una torcia, ma la luce avrebbe potuto essere vista anche da lontano. La base era a meno di cento metri da lei e quindi decise di procedere senza. Si fece corag-gio e accese la radio per comunicare.

«Paolo, sono Julie, mi senti?» Un piccolo ermellino gli si parò davanti, aveva un’aria

buffa e incuriosita. «Paolo, riesci a sentirmi? Rispondi per favore, sono vici-

no alla base. Paolo, sono Julie» ma le parole vibrarono nell’etere senza risposta.

Saltellando, l’ermellino continuò a seguirla e Julie tentò di avvicinarlo, ma il suo gesto lo spaventò, facendolo sparire dietro un cespuglio.

«Paolo, rispondi!» ripeté ancora. Julie non aveva alcuna certezza che Paolo fosse ancora lì;

si era convinta di riuscire a trovarlo, ma razionalmente nulla le impediva di pensare che fosse riuscito ad andarsene. Si voltò, come se qualcuno la stesse osservando e non vide nul-la, nient’altro che abeti e cespugli. Avanzò ancora e costeg-giando il bosco raggiunse il versante che fronteggiava la ba-se. Non riusciva più ad individuare il punto esatto dove si e-rano nascosti con Roger, ma capì che bene o male era da quelle parti.

«Paolo, dove sei? Mi senti?» ripeté ancora, ma senza ri-sposta.

Ancora quella strana sensazione di essere osservata e guardandosi attorno ancora nulla. Guardò in direzione della base col timore di essere individuata e, proprio in quel mo-mento, si rese conto che una luce era comparsa sul muro pe-rimetrale.

Si gettò a terrà e strisciò nella neve fresca. Raggiunse un punto in cui il bosco le avrebbe dato riparo. Il cuore le batte-va come un tamburo.

«Mi avranno sentito?» disse fra se. Si concentrò sui deboli suoni provenienti dalla base. «Sono troppo lontana» concluse per darsi coraggio. «Paolo rispondi per favore. Mi senti? Sono Julie» aveva

afferrato la radio istintivamente e le sue parole le erano uscite di bocca quasi incontrollate.

«…bzzz …bzzz» la radio emise due toni di rumore, solo un fruscio ma in rapida sequenza. Julie sentì il suo cuore fermarsi e poi ripartire. Respirò lentamente ed elaborò l’accaduto. Voltandosi in direzione del bosco, a pochi centi-metri dal suo viso, trovò l’ermellino che la osservava incurio-sito.

Dopo la sorpresa, Julie domandò al piccolo essere: «Ehi, l’hai sentito anche tu?»

L’ermellino iniziò a saltellare in modo buffo e Julie, dopo essersi schiarita la voce, tentò di nuovo: «Paolo, mi senti? Ri-

spondi, sono Julie!» «…bzzz …bzzz» la radio emise di nuovo quel suono. La speranza riaccese il suo entusiasmo. Guardò in dire-

zione della base e notò che la luce era scomparsa, aspettò an-cora alcuni secondi, si fece coraggio e tornò in piedi. L’ermellino fuggì di nuovo nel sottobosco.

«Fifone!» commentò Julie, vedendolo fuggire. Poi, alzan-do lo sguardo, vide qualcosa muoversi fra i rami. Qualunque cosa fosse, non era molto distante da lei e neppure di piccola taglia.

«Paolo sei tu?» domandò con un filo di voce. Dal bosco non arrivò alcuna risposta e non si avvertì al-

cun movimento. Julie era pietrificata e non riusciva a muove-re un solo passo, né in avanti né indietro. Ricordò che nello zaino doveva esserci anche una pistola, quindi lo poggiò len-tamente a terra e senza togliere lo sguardo dal bosco, comin-ciò a rovistare all’interno. Trovò una piccola scatola di legno, la aprì e all’interno c’era quello che stava cercando. Estrasse la pistola e si sentì impacciata con quel freddo pezzo di me-tallo fra le mani. Non aveva mai sparato. Si fece coraggio e, tirato lo zaino sulle spalle, prese ad avanzare nella neve.

Roger lasciò l’ufficio di Popov e strizzò l’occhio ai suoi compagni. Il comandante lo seguì e ordinò alle guardie di la-sciar andare i prigionieri. Leo e Mark non conoscevano bene il russo, quindi fissarono Roger con aria interrogativa.

«Forse faremo in tempo. Tra non molto inizierà lo spetta-colo» disse Roger.

Furono riaccompagnati in albergo dai militari e una volta entrati, si diressero di gran carriera al parcheggio. L’auto non c’era più. Roger tentò invano di contattare Julie al telefono cellulare. Non c’era più tempo. Il piano era stato organizzato nei minimi particolari, tenendo conto anche del personale di turno in ospedale, ma ora tutto rischiava inevitabilmente di

saltare. «Prendiamo l’attrezzatura polare! Raggiungeremo Julie e

Paolo» disse Roger con tono secco. «Non aspettavo altro!» commentò Leo. «Vado a procurarmi un’auto a noleggio» disse Mark. «Prendete qualcosa da mangiare. Tutta questa faccenda mi

sta mettendo fame.»

- 3 -

Il vento sibilava, costante e lento fra i rami degli alberi, gelido e spietato sulla pelle. Paolo respirava a fatica, lenta-mente e cercando di far entrare più aria possibile nei polmo-ni. Prima di perdere conoscenza era riuscito ad afferrare la radio, che stretta nella destra, era diventata un corpo unico con la sua mano. Le droghe ingerite gli avevano indotto un coma temporaneo, ma a causa del freddo polare, lo stato d’incoscienza si era prolungato. Disteso a terra, si sforzava di riprendere il controllo, ma il suo corpo era rigido. I muscoli, allenati alla fatica, sembravano insensibili agli stimoli del cervello. Tutti i sensi erano come assopiti.

Non appena il poco sangue, che a fatica riusciva ad afflui-re al cervello, gli concesse un barlume di lucidità, Paolo capì che era in pericolo, in grave pericolo. Non riusciva neppure ad aprire gli occhi e la totale mancanza di stimoli sensoriali stava minando la sua psiche. Si sforzò di ricordare cosa fosse accaduto e scavò nella memoria. Era esperto, addestrato al pericolo, questo riusciva a ricordarlo, ma dov’era finito?

Un brusio, come un flebile rumore, lo riportò alla realtà. Si trattava di un suono ovattato, seguito da una voce; una vo-ce familiare. Ma chi? Qualunque cosa fosse, lo scosse dal torpore e riportò indietro le lancette del suo orologio. Così, con una fitta di dolore, Paolo ebbe appena la forza di aprire gli occhi.

Tutto intorno era buio e solo una luce argentea, quasi in-consistente, stava pian piano illuminando la scena. Sul can-dore della sua memoria, inceppata e confusa, si specchiò la luce della luna, che finalmente lo illuminò. La neve! Era po-co, ma quella nuova consapevolezza lo confortò e gli permise

di recuperare un barlume di speranza. Dal silenzio circostante, emerse nuovamente quel suono.

Paolo non riuscì a decifrarlo, ma ne percepì la provenienza: era vicino, molto vicino, forse… sotto la neve. Poi qualcosa vibrò nella sua mano e finalmente capì che, stretta nel pugno, c’era ancora la sua radio. Con le ultime forze, Paolo riuscì ad imprimere alle dita la spinta necessaria per premere due volte il pulsante.

Il tempo che seguì fu scandito dal lento battere del suo cuore. Lo sentiva pulsare in gola, colpo dopo colpo, attimo dopo attimo, in un’attesa che sembrò infinita.

«Paolo, sono Julie. Mi senti?» la frase pronunciata alla ra-dio, arrivò in modo appena comprensibile. Paolo pensò di sognare e per alcuni istanti esitò, ma il nome di Julie aveva riacceso le sue speranze. Pigiò il pulsante della radio, ancora due volte, infine perse conoscenza.

Il piano iniziale di Roger era semplice: far sparire il capi-tano Kasiski dall’ospedale militare, che si trovava accanto al teatro dell’opera. Roger e compagni avrebbero assistito allo spettacolo, sviando ogni sospetto. Ma ormai non c’era tempo.

«Pronto, parlo con la signora Kasiski?» Roger aveva rag-giunto al telefono la moglie di Mikail.

«Sì. Con chi parlo?» la voce mostrava un’ansia mal cela-ta, visto che lei, suo marito e i due figli, stavano per abban-donare definitivamente la casa e quella vita cui, malgrado tut-to, erano ormai abituati.

«Signora, sono Hyman.» «Ma non pensavo… insomma, non mi aspettavo oggi la

sua telefonata» rispose la donna. «Ho preso accordi con suo marito. Partiamo questa sera»

Roger cercò di comunicare la massima tranquillità, per non preoccupare la donna.

«C’è qualcosa che non va?» la donna era in ansia e teme-

va per suo marito. «Non deve preoccuparsi. La chiamo perché c’è stato un

cambio di programma: fra pochi minuti verremo a prendere lei e i suoi figli.»

«Dov’è Mikail?» «Come lei saprà, tra poco verrà trasportato in ospedale.

Tuttavia, è nostra intenzione intercettarlo prima che arrivi. Per non correre rischi abbiamo pensato di anticipare la par-tenza» spiegò Roger.

«Mi sta dicendo che ci sono dei problemi?» chiese la donna con la voce incerta.

«Le sto dicendo che faremo il possibile, affinché lei, i suoi figli e suo marito, possiate lasciare questo paese e rifarvi una vita» rispose secco Roger.

Seguirono alcuni istanti di silenzio. «Vi aspettiamo» disse la donna e riagganciò. Mark aveva appena avvisato Jack all’aeroporto. Il jet per-

sonale di Roger era pronto per il decollo e Jack era il pilota della squadra. Leo stava tentando di contattare Julie, ma inu-tilmente. Dopo svariati tentativi perse la pazienza e disse preoccupato: «Cosa facciamo Roger?»

«Julie sa cavarsela. Dobbiamo solo sperare che Paolo sia con lei» rispose Roger.

«Altrimenti?» Roger non rispose.

Mikail era pronto. Stava cercando dentro sé il coraggio per portare a termine la missione e per iniziare una nuova vi-ta. La guardia lo stava osservando con curiosità e Mikail capì che non poteva più aspettare. Gli occhi di quel suo compagno d’armi, ignari di quanto stava per accadere, lo fecero vacilla-re. Capì che il suo coraggio era appeso a un filo, un filo sotti-le che ogni minuto in più rischiava di spezzare. Si cacciò una mano in tasca, afferrò le due pastiglie ricevute da Paolo e

concluse che era giunto il momento. «Compagno, bevi con me?» chiese Mikail, con una mano

in tasca e l’altra sul collo della bottiglia. «Volentieri» rispose l’altro infreddolito. Mikail si versò la sua razione e ne versò altrettanto nel

bicchiere della guardia. I due afferrarono i rispettivi bicchieri e Mikail, con un movimento studiato, urtò col gomito la bot-tiglia, facendola cadere.

«Cavolo! Scusami tanto. Sono uno sbadato.» Mentre l’altro distoglieva lo sguardo per osservare la vo-

dka sul pavimento, Mikail si cacciò in bocca le due pastiglie. «Capitano, mi devi una bottiglia.» «Te ne comprerò una di ottima qualità» disse Mikail al-

zando il bicchiere per brindare. «Ci conto» disse l’altro sollevando il bicchiere. Mikail ingoiò le pillole con la vodka, poi prese un gran

respiro e si avviò deciso alla porta. «Capitano, un momento!» disse la guardia, gelando il

sangue nelle sue vene. Mikail si voltò lentamente e la guardia aggiunse: «Senza questa… non vai da nessuna parte» lan-ciandogli una grossa torcia. «Fuori è buio.»

Mikail l’afferrò al volo e ancora turbato, si limitò ad an-nuire, rispondendo sottovoce: «Grazie.»

Uscì dalla stanza e non appena girato l’angolo prese il de-tonatore. Rammentò le parole di Paolo e si rese conto di aver dimenticato d’imbrattarsi gli abiti. Tirò fuori la scatola di fu-liggine e si sporcò il viso. Versò il resto sulle spalle, la giacca e i pantaloni. Soddisfatto, raggiunse il corridoio d’accesso al laboratorio e camminò a lunghe falcate, fino al punto desi-gnato per l’esplosione. Appena in posizione, avvertì un crampo lancinante allo stomaco, talmente forte da fargli ca-dere il detonatore. Nel cadere il meccanismo di innesco si at-tivò, facendo brillare le tre cariche esplosive con un tremendo boato. Colto di sorpresa, Mikail fu spinto contro la parete e cadde in ginocchio. Le pillole stavano agendo rapidamente e il detonatore a terra lo avrebbe incastrato. L’allarme aveva

preso a suonare e le luci si erano tinte di un rosso lampeg-giante. Il sistema di difesa, a protezione del laboratorio, ne aveva sigillato l’accesso con una porta blindata. L’impianto antincendio si era attivato, riversando acqua sul corridoio. Con le ultime forze rimaste, Mikail strisciò fino alla porta d’accesso, afferrò il detonatore e se lo infilò in tasca. Ebbe solo il tempo di sentire una voce, quella della guardia che pronunciava il suo nome, poi tutto svanì.

Julie era immobile. Zaino in spalla, pistola nella mano de-stra, radio nella sinistra e cuore in gola. Einstein le aveva in-segnato che il tempo è relativo, ma in quel momento sembra-va davvero essersi fermato. Qualcosa nel sottobosco richiamò la sua attenzione; un movimento, un’ombra e tutti i suoi sensi furono amplificati dalla paura. Prese fiato lentamente, col-mando d’aria i suoi polmoni e di coraggio il suo spirito. E nel silenzio urlò: «Paolo, sono Julie!»

Quelle parole uscirono come un tuono, scaricando tutta la tensione accumulata e una foglia, dopo essersi staccata dal ramo, ondeggiò piano davanti a Julie.

Poi, nel silenzio, il sottobosco si animò e, davanti agli oc-chi increduli di Julie, due figure eleganti emersero dall’oscurità. Due renne, forse una madre col figlio, a meno di trenta metri da lei, la stavano osservando. Gli animali, spaventati dall’urlo, erano pronti alla fuga.

Julie non poté fare a meno di notare la loro straordinaria bellezza e il portamento fiero. Aveva tirato un bel sospiro di sollievo, ma era ancora tremendamente in ansia. Stava per guardare altrove, ma il quadro che le si era dipinto negli oc-chi era suggestivo. Così restò ancora un istante a fissare la scena. La giovane renna attirò la sua attenzione. Chinandosi sotto i rami di una betulla, l’animale annusò qualcosa. Julie decise di avvicinarsi e la renna adulta avvertì la sua presenza, indietreggiando. Era a pochi passi dalla giovane renna, quan-

do questa, accortasi finalmente della sua presenza, fece un balzo di lato. La renna fuggì via, lasciando libera la visuale. Sotto i rami della betulla, coperto di neve fino al collo e quasi irriconoscibile, c’era Paolo.

«Pa… Paolo» balbettò Julie. Posò a terra la pistola, gettò via lo zaino e si lanciò nella neve, chinandosi a guardare il volto di Paolo da vicino. Aveva il timore che fosse solo un’illusione, ma la sua paura crebbe quando notò che non c’era vapore. Dalle narici e dalla bocca di Paolo non usciva aria.

«Accidenti, rispondimi!» disse Julie scuotendolo con for-za. Gli ripulì il viso dalla neve e ripeté: «Paolo!» La neve stava ghiacciando e quindi si affrettò a toglierla dalla schiena. Liberò il braccio che stringeva la radio e infine le gambe, completamente innevate. «Hai voglia di scherzare vero? Pao-lo, Muoviti!» Julie continuava ad insistere, ma la paura stava diventando panico. Cercò di sentire il battito del cuore, pog-giando dolcemente due dita sul collo, ma non riuscì a sentir-lo. Si avvicinò per praticare la respirazione bocca a bocca e al contatto con le labbra di Paolo sentì un brivido. Il calore delle sue labbra gli diedero una scossa e Paolo ebbe un sussulto, sbuffando vapore nell’aria gelida. Julie spostò le labbra sul collo e finalmente riuscì a sentire il lento battere del cuore. Era ancora vivo!

Julie si affrettò a tirare fuori dallo zaino una coperta. Do-po averlo riparato, rovistò nello zaino, in cerca del suo tele-fono cellulare, ma dopo alcuni tentativi si rese conto di aver-lo lasciato in auto. «Accidenti, di nuovo! Non è possibile!» era furiosa.

Tornò ad aiutare Paolo e decise di girarlo, in modo da av-volgerlo completamente nella coperta. Con uno sforzo riuscì a metterlo in posizione supina. Notò che gli abiti lo avevano protetto, impedendo alla neve di penetrare a contatto con la pelle. Si mise a cavalcioni su di lui e cercando di non gravare col suo peso, Julie iniziò a massaggiargli il torace, dapprima dolcemente e poi in modo sempre più energico.

«Dai testone, rispondimi!» lo incitò, ma Paolo non voleva saperne di reagire. «Non puoi abbandonarmi. Non così, io… svegliati!»

In quel preciso momento un tonfo, quasi come un masso che si infrange su una roccia, sordo e innaturale, provenne dalla base sovietica. Julie si voltò e al tonfo fece seguito il suono stridulo dell’allarme. Vide le luci perimetrali accen-dersi e improvvisamente gli tornò alla mente il piano. La fu-ga era prevista per quella notte. Non le restava molto tempo. Continuò a massaggiare Paolo e chinandosi su di lui, fino a pochi centimetri dal viso, gli disse: «Paolo, ti prego non la-sciarmi.»

Dei secondi che seguirono, Julie perse il ricordo. Il mondo gira, questo è vero, ma la felicità è spesso ferma, nascosta dietro le piccole cose. È dietro un sorriso o uno scambio di battute. È dietro un sogno. Per inseguirla, per afferrarla, bi-sogna scendere dalla giostra.

«Se… sei bella, ma… un po’ pesante» le disse Paolo con un filo di voce.

A bocca aperta, Julie non disse una parola. «Pe… perché piangi?» Julie se ne rese conto in quel momento: le lacrime scen-

devano copiose dal viso fino al mento, cadendo su Paolo. L’emozione era grande, tanto che Julie non riuscì a risponde-re. In fondo non servivano parole, le lacrime stavano già di-cendo tutto.

Roger suonò il campanello dei Kasiski. La donna che aprì aveva un volto gentile. Lui sorrise e le indicò l’auto in moto: «Signora, vuole seguirci?»

La donna fece un cenno ai suoi figli. Due maschi, uno di dodici anni e l’altro di cinque. I loro volti erano onesti e schietti. Comprendevano il pericolo. Caricarono in auto le valigie e si sistemarono, pronti per partire. Leo strizzò

l’occhio al più piccolo dei due, che lo ripagò con la lingua. La madre se ne accorse e gli disse qualcosa in russo che lo fece ricomporre.

«Un momento!» esclamò Roger. «Che succede?» disse Mark. «Signora Kasiski, ho bisogno di una delle uniformi di suo

marito e di due sacchi di sale. Ne avete in casa?» «Cos’hai in mente?» chiese Leo. «Un piano per la fuga» rispose Roger. «Seguitemi» disse la donna. Caricarono in fretta due grossi sacchi nel bagagliaio

dell’auto. L’uniforme di Mikail era della taglia di Roger, che la indossò e finalmente, l’auto partì in direzione della base.

Leo continuava incessantemente a chiamare Julie e non avendo notizie, diventava sempre più nervoso. Ad un tratto, il telefono satellitare di Roger squillò.

«Forse è lei!» disse Leo. «Pronto Roger, sono Eric» disse la voce al telefono. «Sono felice di sentire la tua voce, come vanno le cose al-

la missione?» disse Roger. Leo, sconfortato, affondò sul sedile. «Non bene. Abbiamo terminato i medicinali e presto non

avremo più carburante per i gruppi elettrogeni. L’ospedale è in seria difficoltà. Mi domandavo quando avremmo potuto contare sul tuo supporto» disse Eric.

«In questo momento sono molto impegnato, ma sto lavo-rando anche per trovare i fondi di cui hai bisogno» rispose Roger.

«Grazie Roger, se non ci fossi tu…» lo adulò Eric. «Ok, ma ora devo lasciarti. A presto, vecchio mio» disse

Roger prima di chiudere. «Era padre Eric?» domandò Mark. «Sì. Hanno bisogno di nuovi fondi» spiegò Roger. «Ho paura che stavolta resteranno a secco. Andremo via

di qui appena recuperati i dispersi, con o senza il microchip» osservò Mark.

«Hai ragione. Con o senza il chip» ripeté Roger. Era as-sorto nei suoi mille pensieri. Eric Floyd era un suo vecchio amico, un amico d’infanzia. Erano stati compagni di scuola e di giochi fin dall’età di sei anni. Molti dei suoi ricordi erano legati ad Eric: le lunghe passeggiate per sentieri di montagna, le molte giornate al sole e le innumerevoli ore a chiacchiera-re, condividendo le loro avventure. L’origine della loro ami-cizia risaliva alle loro famiglie, da sempre in ottimi rapporti. Il padre di Roger aveva ereditato una splendida tenuta di campagna, nei pressi di Londra e la famiglia Floyd ne posse-deva una che confinava con loro. Da bambini, Roger ed Eric, erano due monelli incalliti e le rispettive madri facevano as-sai fatica a tenerli a bada; entrambi figli unici, pieni di entu-siasmo, fantasia e grandi risorse. Il patrimonio che avrebbero ereditato, poneva i due rampolli in una posizione difficile. I genitori pretendevano molto da loro, dunque tutta la loro ado-lescenza era stata accuratamente pianificata e meticolosa-mente intrecciata con gli affari di famiglia. Sia Roger che E-ric avrebbero rivestito un ruolo di spicco della società inglese e nei meccanismi dell’economia. Qualcosa però era andato storto. Il padre di Eric si era cacciato in un brutto guaio: per avidità di denaro, aveva architettato un’immane truffa ai danni della corona inglese. Una truffa che gli era costata cara.

Non ci era voluto molto ai servizi segreti per arrivare fino a lui. Avevano fatto irruzione nella tenuta di campagna dei Floyd e quel giorno anche Roger era lì.

Ancora oggi, a molti anni d’allora, gli era difficile dimen-ticare il volto di Eric quando suo padre, stretto fra due guar-die, venne arrestato. Avevano sedici anni. Pochi anni dopo, Eric prese una decisione: entrò in monastero e divenne un frate missionario. Sua madre, distrutta dal dolore, non si era più ripresa dall’accaduto e i suoi parenti gli avevano voltato le spalle. Eric non era più una giovane promessa della società e il suo rapporto con Roger non sarebbe stato più lo stesso.

«Roger! Mi ascolti?» Leo ruppe il filo dei pensieri di Ro-ger, riportandolo al presente.

«Scusami Leo, ero assorto.» «Ci spieghi il piano?» «Certamente. Ho intenzione di fermare l’ambulanza, in un

tratto di strada dove, per via degli alberi, non potrà aggirare l’ostacolo. Farò finta d’essere un ufficiale e dirò che sono in visita alla base con la famiglia. Tu e Mark dovrete nascon-dervi» espose Roger.

Leo e Mark annuirono. «Simulerò un malore alla guida e la signora Kasiski mi

aiuterà a convincere il personale medico» proseguì Roger, indicando la donna che non riusciva a seguire la spiegazione in inglese. Roger comprese la sua difficoltà e tradusse il pia-no. Anche la donna annuì. «Con l’ambulanza ferma, Leo e Mark dovranno far scendere Mikail e rimpiazzarlo con i sac-chi di sale. Per distrarre il portantino, occorrerà forare i pneumatici al mezzo di soccorso» concluse Roger e subito dopo tradusse nuovamente per la signora Kasiski. «Signora, la sua parte richiede un po’ di teatralità. Dovrà fargli credere che sono un grande amico del comandante Popov. Dirà che ci stiamo recando alla base per accompagnarlo a teatro» conclu-se, aspettando una reazione della donna.

Lei lanciò uno sguardo ai figli e annuì. Poi, con molta calma, spiegò ai suoi ragazzi che il padre non correva alcun pericolo.

Da una valigetta, Leo tirò fuori il falco e iniziò a ad as-semblarlo sulle ginocchia. La terza canna di cui era dotato era un propulsore ad aria compressa. Sfruttando uno speciale propellente, il falco risultava silenzioso, ma la sua pericolosi-tà era simile a una pistola di grosso calibro. Leo caricò il fu-cile, inserendo dei cuscinetti in acciaio come proiettili ed ar-meggiando sotto gli sguardi incuriositi dei due ragazzini.

«Qui» disse Roger indicando la cartina. «Credo che sia il punto migliore. L’ambulanza dovrà rallentare.»

Julie si fece forza e cercò un modo per sollevare Paolo, ma l’idea di trascinarlo per quasi cinquecento metri era poco incoraggiante. Aveva bisogno di cure mediche e Julie doveva comunicare al più presto con la squadra. Lo aiutò a sollevar-si, facendolo sedere con la schiena contro il tronco dell’albero, poi estrasse dallo zaino una piccola bottiglia. Era una bevanda per l’ipotermia. Con un meccanismo di riscal-damento chimico, il preparato avrebbe restituito un po’ di ca-lore a Paolo. Julie verificò la temperatura e notò che scottava. Un calore eccessivo sarebbe stato pericoloso, quindi prese della neve fresca e la miscelò con la bevanda. Era un concen-trato a base di fruttosio e sali minerali, che avrebbe fornito energia in modo graduale, consentendo al metabolismo di Paolo di riprendersi dallo choc termico.

«Ora sto… meglio; molto m… meglio» le disse Paolo do-po aver bevuto.

«Il solito spaccone» commentò Julie sollevata. «Non sei per niente in forma. Bevi!»

Paolo sorseggiò la bevanda e poi disse: «Ho ancora il… il mio fascino.»

«Sì, quello di uno stoccafisso» scherzò Julie. «Ti preferivo sullo stomaco.» «E io ti preferivo in hotel. A quest’ora, anziché fare il

ghiacciolo, avrei fatto un bagno caldo» proseguì Julie, felice di vedere che pian piano si stava riprendendo.

«Ti approfitti del mio stato, ma presto la pagherai» disse Paolo sforzandosi di sorridere.

Il cielo era un campo stellato e Paolo alzò gli occhi ad ammirarlo. Anche Julie si voltò e dopo averlo osservato, dis-se: «Sai, per Galileo... l’universo era come un libro; un e-norme libro aperto, scritto in un linguaggio che non com-prendiamo.»

«Come il cuore di una donna» osservò Paolo. Julie arrossì e continuò a guardare le stelle. Intanto, l’allarme della base continuava a suonare. «Devo andare in cerca d’aiuto» disse Julie.

«Vai pure, sono in buona compagnia» rispose Paolo, indi-cando un piccolo essere che, curiosamente, se ne stava su due zampe ad osservare la scena.

«Ancora tu?» chiese Julie all’ermellino. Lui parve capire, fu preso da un raptus di euforia ed iniziò

a saltellare, in un modo buffo. Paolo e Julie risero e si guar-darono negli occhi. Lui avvertì una scintilla nel petto. Lei sentì la mente leggera e un senso di vuoto allo stomaco. Pao-lo era immobilizzato dalla coperta, Julie dalla paura. Per po-chi istanti i loro spiriti si sollevarono e come fiamme, volteg-giarono nell’aria gelida, ma la sirena dell’ambulanza, in usci-ta dalla base, li riportò a terra come due fiocchi di neve.

«Hai fiducia in me?» chiese Julie. «Puoi scommetterci!» «Tra pochi minuti sarò qui. Non scappare.» Paolo sorrise e Julie recuperò da terra la pistola. Un ulti-

mo sguardo e s’incamminò, dirigendosi verso l’auto. Procedeva a grandi passi, ma la neve e il freddo le impe-

divano i movimenti, quindi fece una gran fatica a raggiungere in fretta l’auto. Appena dentro, individuò il telefono satellita-re. Compose il numero e lanciò la chiamata. Il telefono squil-lò, ma nessuno le rispose.

Cosa stava succedendo? Forse Roger era ancora in mano ai sovietici e magari l’FSB aveva scoperto il loro piano. Julie era confusa e troppo nervosa per restare in auto, quindi scese e iniziò a camminare. Controllando il telefono, trovò alcune chiamate perse. Risalivano a poco meno di un’ora. La cosa non la rincuorò affatto. Lanciò una seconda chiamata, ma niente, nessuna risposta. Decise di pazientare, ma solo per due minuti e con gli occhi fissi sulle lancette. Allo scadere del tempo prese un bel respiro e compose di nuovo il numero.

«Su le mani!» ordinò una voce alle sue spalle. Julie restò immobile. «Su le mani o sparo!»