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2 /13 LUGLIO MENSILE DI DIVULGAZIONE CULTURALE - WWW.DECARTA.IT Faith la voce dei The Shiver

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Faith, la voce dei The Shiver

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M E N S I L E D I D I V U L G A Z I O N E C U LT U R A L E - W W W. D E C A R TA . I T

Faithla vocedeiThe Shiver

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UNINDUSTRIA VITERBO

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DECARTAScripta volant

Mensile di divulgazione culturaleNumero 2/2013 – Luglio

Distribuzione gratuita

Direttore responsabileMaria Ida Augeri

Direttore editorialeManuel Gabrielli

RedazioneMartina Giannini, Gabriele Ludovici,

Martina Perelli

Redazione web e photo editorSabrina Manfredi

DesignMassimo Giacci

EditoreLavalliere Società Cooperativa

Via Luigi Rossi Danielli, 4501100 VITERBO

Partita Iva [email protected]

Iscrizione al ROCNumero 23546 del 24/05/2013

StampaUnion Printing SpA

Pubblicità348 5629248 - 340 7795232

Foto di copertinaFrancesco Meloni

Chiuso in tipografia il 22/07/2013

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editoriale

Chi ha fatto (o sta facendo) il liceo classico o scientifico, tranne rare eccezioni, avràdovuto comprare un vocabolario di latino. I miei due vocabolari li ho ancora,stanno lì su una mensola e mi guardano polverosamente, soprattutto un Campa-

nini-Carboni, della prima metà del novecento, passato in famiglia di generazione in ge-nerazione. Il secondo arrivò dopo, ricordo benissimo quanto fui contento di ricevere indono da una mia cugina il suo “IL Castiglioni-Mariotti”; fu necessario rilegarlo, ma per-lomeno avevo un vocabolario con qualche pagina in più e qualche acaro in meno. Nono-stante non mi siano mancati gli altri innumerevoli libri comprati per lo stesso scopo delvocabolario, non posso dire di aver avuto un rapporto felice con l’istruzione; devo peròriconoscere a me stesso quanto la curiosità non mi sia mai mancata e quanto spesso mi siaritrovato a sfogliare pagine a caso sorprendendomi, nella mia ignoranza, di quante paroleusate ogni giorno siano derivate dal latino o dal greco. È un po’ una scoperta dell’acquacalda, qualcosa di scontato, ma diventa tutto meno scontato se si considera quante paroleutilizziamo conoscendone solo il significato superficiale. Con questo pensiero, spesso, miritrovo ancora a sfogliare i miei vecchi vocabolari in cerca di etimologie e tra le parole chemi hanno interessato recentemente vorrei dare la precedenza al termine CULTURA. L’hoscelto perché questa rivista si fregia di essere un mezzo di divulgazione culturale, perchéè un termine dal significato mutilato poco chiaro nella sua vasta applicazione e perché allostesso sono facilmente correlabili gli altri termini, ignoranza e conoscenza. Vorrei poi ri-ferirmi a cultura come qualcosa legata all’individuo, al singolo e non alla definizione piùvasta, come termine a sé stante.

La breve storia etimologica di questo termine lo fa risalire, come facilmente intuibiledal nome, all’atto di coltivare, quindi come un contadino si dedica con cura e co-stanza alla coltivazione del proprio terreno, una persona forma la sua cultura nel de-

dicarsi assiduamente e con cura al campo che più preferisce. Le opzioni sono innumerevoli,si può trattare di conoscenze in campo umanistico e scientifico come di capacità manualie prestanza fisica. Come spesso accade, i termini possono racchiudere oltre che più signi-ficati anche più accezioni, a seconda del contesto. In questo caso, oggi purtroppo la culturaè diventata qualcosa legata principalmente al lavoro puramente intellettuale e gli addettia questi lavori sono spesso considerati delle autorità, rispetto alle quali è quasi obbligato-rio sentirsi inferiori. In tal modo si è distinta una cultura di alto livello all’infuori dellaquale non esiste altro. Sono diventate cultura la letteratura, la storia, la scienza in tutti i suoirami, recentemente ma solo in determinati contesti, lo sport. Ma, erroneamente, non vieneconsiderato un uomo di cultura il contadino nella sua conoscenza pratica, oltretutto fi-gura senza la quale probabilmente non esisterebbe il termine stesso.

Oggi cultura è un termine troppo spesso legato a figure spocchiose e ad inutili rigiditàdi costume per le quali se non avrai “coltivato” nella giusta maniera verrai a tua volta de-finito ignorante. Con queste righe vorrei far passare un altro significato: la cultura è ciò checi piace e quindi abbiamo voglia di coltivare, può essere il contenuto di queste pagine,può essere il metodo di semina e raccolta dei pomodori o giocare a calcio, ma non do-vrebbe essere un club elitario. Una persona ignorante non è una persona colpevole di qual-cosa, è una persona che non conosce un determinato argomento e ne conosce tanti altrisolo all’apparenza meno importanti. L’augurio è che tutti possano a loro modo fare cultura,queste pagine a mio parere lo sono, ma questo perché ciò che facciamo ci piace.

Manuel Gabrielli

Tra conoscenzaed ignoranzac’è di mezzo la cultura

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erasmus & co.Uno sguardo verso il futuroMartina Giannini

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campusRacconto di un’esperienzad’estateFrancesca Salatino, Cristiano Tiberi

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ippocampoSe quei muri potesseroparlare…Sabrina Manfredi

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nota beneFaith, la voce dei The ShiverGabriele Ludovici

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iconsCurve pericoloseMartina Perelli

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ippocampoIrrequietezza notturnaManuel Gabrielli

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acido latticoVi spieghiamo la velaGabriele Ludovici

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reportInside. Dentro CaffeinaClaudia Paccosi

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incontriIn itinereMartina Giannini

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Nell’ambito delle relazioni interna-zionali dell’università, sulle qualiho focalizzato il mio interesse,

sono venuta a conoscenza del LifelongLearning Programme (LLP), un pro-gramma d’azione comunitaria nel campodell’apprendimento permanente, che riu-nisce tutte le iniziative di cooperazioneeuropea, nell’ambito dell’istruzione edella formazione dal 2007 al 2013.

Per il periodo 2014 al 2020, saràadottato un nuovo programma europeoper l’educazione, la formazione, i giovanie lo sport per il quale sta per concludersil’iter legislativo.

Il Consiglio dell’Unione europea haapportato alcune modifiche alla propo-sta iniziale della Commissione e il Pro-gramma è ora in discussione presso laCommissione educazione e cultura delParlamento.

Le principali novità introdotte insede parlamentare riguardano:

- il nome del programma che po-trebbe divenire Yes (acronimo diYouth, Education, Sport);

- la necessità di mantenere separaticome sotto-programmi Grundtvig,Leonardo e Youth in Action;

- la richiesta di un maggiore sup-porto al volontariato giovanile e al-l’educazione non-formale;

- una azione maggiormente struttu-rata sui temi dell’educazione allosport.

spazio europeo dell’istruzione superioree rafforzare il contributo fornito dal-l’istruzione superiore e dall’istruzioneprofessionale avanzata al processo d’in-novazione.

Per ultimo troviamo il programmaJean Monnet che appoggia l’insegna-mento, la ricerca e lo studio di temi con-nessi all’integrazione europea. Il risultatoche si vuole ottenere è quello di stimo-lare e appassionare a queste tematiche gliStati. Inoltre il programma si prefigge disostenere l’esistenza di istituzioni euro-pee che operino nei settori dell’istru-zione e della formazione.

Ho approfondito l’argomento Era-smus con la dottoressa FelicettaRipa, che gestisce la mobilità degli

studenti in uscita e con la dottoressa Va-nessa Torri, che si occupa degli studentiche dall’estero vengono a studiare nel no-stro Ateneo e di Erasmus Placement, ov-vero ragazzi che partono per esperienzedi tirocinio presso imprese o centri diformazione e di ricerca all’estero.

Parlando con Felicetta scopro che ilsuo ruolo è quello di curare i rapporti in-terni all’ufficio Erasmus, tenersi in con-tatto con gli Atenei partner, accoglieretecnici stranieri, gestire il percorso dellostudente in mobilità, supportarlo men-tre è all’estero e amministrare la parte fi-nanziaria.

Quando le chiedo come si pongono

L’attuale LLP attualmente si divide in:- 4 programmi settoriali (Comenius,

Erasmus, Leonardo da Vinci,Grundtvig);

- il programma Jean Monnet.

Per quanto riguarda le iniziative set-toriali esistono 4 diverse possibilità.

Comenius si occupa della forma-zione dalla scuola dell’infanzia allescuole superiori. Gli scopi sono: svilup-pare la comprensione delle diversitàlinguistiche e culturali e acquisire le co-noscenze base necessarie per lo sviluppopersonale e sociale dell’individuo nellacomunità.

Leonardo da Vinci si rivolge a tuttele persone coinvolte nell’istruzione e nelcampo della formazione professionale.L’obiettivo è di accrescere l’interesse intali settori e di agevolare la mobilità dellepersone in formazione. Per mobilità siintende anche la possibilità di tirocini escambi per l’inserimento nel mondo dellavoro.

Grundtvig è indirizzato alle esigenzedidattiche e di apprendimento degliadulti, con lo scopo di fornire percorsivolti al miglioramento delle conoscenzee competenze.

Erasmus interessa tutte le personecoinvolte nell’istruzione superiore di tipoformale e nell’istruzione e formazioneprofessionali di terzo livello. Gli obiettivisono sostenere la realizzazione di uno

erasmus & co.

Uno sguardo verso il futuroMartina Giannini | [email protected]

L’università europea dal 2014 al 2020.

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scutibile considerati i percorsi che fannoi mezzi in partenza da Viterbo.

In ultimo mi spiega che, nel periodo2004/2005, l’Università della Tuscia pre-sentò autonomamente e ottenne i finan-ziamenti per il progetto Leonardo daVinci, European Training for TusciaMarketing, che fu seguito da altri treprogetti, i quali hanno permesso di ef-fettuare un tirocinio in Europa più omeno a 120 ragazzi neolaureati. Conquesta esperienza lo studente ha la pos-sibilità di acquisire competenze specifi-che e di comprendere meglio la culturadel Paese in cui si trasferisce, con il sup-porto di corsi di preparazione e di ag-giornamento della lingua, con il fine diagevolare la mobilità di giovani lavora-tori in tutta Europa.

Felicetta e Vanessa sono coloro cheagiscono dietro le quinte, dirigono conefficacia ogni spostamento, anche grazieall'aiuto di collaboratori, tra cui alcuni ti-rocinanti.

Scherzando si definiscono anche“psicologhe”: non deve essere facile ca-pire e rispondere a tutti i quesiti deglistudenti (che, diciamocelo, sono molti!).

gli studenti all’iniziativa Erasmus, unavolta che la loro richiesta è stata accet-tata, vedo comparire sul suo volto unsorriso, quasi una smorfia. Mi spiega cheesistono due tipologie di studente, quellopiù consapevole delle difficoltà che potràincontrare, consapevolezza dettata dallaconoscenza della lingua e delle diffe-renze culturali, e quello che si rivolge alprogetto in maniera meno matura, ma-gari pensando che, anche senza saperemolto la lingua, potrà cavarsela “facen-dosi capire”.

Quando mi rivolgo a Vanessa ap-prendo che il suo incarico è di ac-cogliere gli studenti stranieri e di

fare da punto di contatto tra gli Atenei.Supportare nelle procedure d'iscrizionegli studenti italiani che dovranno partirecon il programma Erasmus Placement,mantenersi in contatto con i ragazzi du-rante il soggiorno all’estero.

Le chiedo quale è la realtà degli stu-denti in entrata, come pensa vedano Vi-terbo. La risposta arriva diretta senzatroppi giri di parole, “Perlopiù i ragazzi siinseriscono, hanno buoni risultati a le-zione e agli esami, apprezzano la città mahanno un duro impatto con la realtà deicollegamenti”, critica niente affatto di-

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Felicetta Ripa

Vanessa Torri

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RACCONTODI UN’ESPERIENZA

D’ESTATEFrancesca Salatino | Cristiano Tiberi

Per quattro giorni i giovani “ausfini” hanno camminato su quella terra,per quattro giorni ne hanno ammirato le bellezze nascoste:

dalla sottile luce del sole che illuminava il bosco e lo rendeva incantatoalla meraviglia di un paesaggio visto al tramonto.

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La Riserva Naturale di Monte Ru-feno, istituita nel 1983, è un’areaprotetta di 3.000 ettari compresi nel

Comune di Acquapendente, al confinedelle terre laziali con Umbria e Toscana.In questi luoghi le piccole realtà da sco-prire sono molte e tra loro diverse, tut-tavia siamo riusciti ad osservarne alcuneche caratterizzano un territorio evolutosinel corso del tempo assieme ai perso-naggi storici che lo hanno vissuto. Inparticolare, nel periodo storico in cui virisiedette il marchese Cahen, il paese diTorre Alfina, sovrastato dal suo impo-nente castello che domina il paesaggiocircostante, acquisì molto valore essendoil castello stesso ristrutturato in stile neo-gotico. Se da un lato il paese ebbe mododi svilupparsi, dall’altro la natura che an-cora oggi lo avvolge venne salvaguardatae gestita affinché rimanesse intatta nellasua bellezza, simbolo appunto di una co-evoluzione uomo-natura.

Le testimonianze di queste vicendestoriche sono oggi visibili camminandoall’interno della Riserva di Monte Ru-feno. La presenza di “tròsce” o pozze, chederivano da eventi di frana e creano sta-gni temporanei, permettono alla tarta-ruga palustre e alla violetta d’acqua di

di notte illuminano la foresta. Ma ciò cheforse maggiormente caratterizza questiambienti è il bosco del Sasseto, oggi Mo-numento Naturale e un tempo area ri-creativa del marchese Cahen.

Camminando lungo i suoi sentieri sipercepisce un’atmosfera magica e si ri-mane spesso fermi a contemplare le cu-riose forme che assumono i fusti deglialberi, quasi come richiamassero figurefantastiche o celate nella memoria diognuno. Nel bosco si cammina in silen-zio, come se l’aria che vi permea e la luceche attraversa le chiome potessero esserespezzate o rovinate dalle voci. Tutto ilterritorio è frequentato da animali diparticolare interesse faunistico e venato-rio. Una sera abbiamo avuto la fortunadi assistere ad una lezione sulle proce-dure di dissezione di un cinghiale tenuteda un professore dell’Università della Tu-scia. Lezione tanto pratica quanto fun-zionale ai fini dell’apprendimento di unacultura anch’essa facente parte del bino-mio uomo-natura. Ulteriore testimo-nianza delle bellezze nascoste nelterritorio di Torre Alfina è stata la pas-seggiata nel bosco limitrofo al Sasseto,che scende a una spiaggia di sassi bianchie sabbia tra cui scorre il fiume Paglia; qui

svolgere i loro cicli biologici. Gli alberidel bosco, soprattutto cerri, aceri e fras-sini, sono indici di un’antica e tradizio-nale gestione di questi luoghi da partedell’uomo: segni di una remota presenzaa volte palpabile, osservando la luce chepassa tra la fitta vegetazione e illumina ilbosco con sfumature a tratti più chiari, atratti più bui.

Il contatto uomo-natura è anche benespresso e testimoniato da ciò che si os-serva passeggiando all’interno dell’OrtoBotanico e del Museo del Fiore: struttureimmerse e ben integrate nella foresta.Tra le molteplici piante presenti, il Ca-sale Giardino ospita rare specie di roseantiche ormai dimenticate, mentre nelMuseo è possibile ricostruire la storia delterritorio e capirne l’antropizzazione, so-prattutto grazie alla ricostruzione distrumenti di lavoro utilizzati un temponelle carbonaie.

Un altro valore aggiunto in questoluogo prezioso è dato dalla pre-senza dell’Osservatorio Astrono-

mico, posto nel punto più elevatoall’interno della Riserva, da cui è possi-bile osservare il sole e capire il meccani-smo di evoluzione di stelle e pianeti che

campus

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ci si è rinfrescati e deliziati con un bagnorigenerante.

Arriva poi, con tristezza da parte ditutti, il momento di andare via. Ognigiorno è stato accompagnato dalla pre-mura del personale del luogo (le espertenaturaliste, i guardia-parco, il personaledel Museo e dell’Osservatorio) che inmodo molto disponibile e gentile cihanno mostrato e descritto, senza trala-sciare nulla, gli aspetti botanici, storici eambientali di questo luogo davverounico e suggestivo.

La presenza dell’uomo nell’ambienteè un fattore imprescindibile che non sipuò ignorare; cosa ben più affascinante ècogliere i segni di questo intimo rap-porto, segni che restano impressi nel ter-ritorio attraverso il quale solo cammi-nandovi e vivendo nel suo piccolo, neldettaglio, si coglie e se ne comprendel’enorme bellezza che cela.

Si ringrazia per la gentilezza e la di-sponibilità: il direttore della Riserva Na-turale di Monte Rufeno, dott. MassimoBedini, per la disponibilità delle infra-strutture; il personale della Riserva:l’operatore Maurizio, il guardia-parco ele due naturaliste Moica e Antonella; ilprofessore Fiore Serrani dell’Universitàdella Tuscia.

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L’Associazione Universitaria Studenti Forestali (AUSF) è un’associazione volontaria, apar-titica, a carattere tecnico culturale che non persegue scopi di lucro, avente sede nell’ex-fa-coltà di Agraria di Viterbo. Fu fondata il 19 luglio 1990 da un gruppo di studenti di agraria, conlo scopo di integrare allo studio universitario esperienze pratiche in campo, di promuovere lacollaborazione tra studenti e professori, attraverso attività extra curriculari e, infine, di aprireuna finestra sul mondo del lavoro, tramite incontri con professionisti.

L’AUSF, in particolare, si propone di promuovere l’aggregazione ed il confronto tra gli stu-denti, svolge, all’interno dell’Università, azioni volte all’informazione e all’aggiornamento deglistudenti, riguardo gli sviluppi del mondo universitario, sviluppa attività di interesse forestaleche investano sia il mondo accademico che quello professionale, amplia le possibilità per glistudenti forestali di acquisire conoscenze ed esperienze promuovendo la realizzazione e lapartecipazione a corsi, seminari, convegni ed eventi simili, rapporti di collaborazione con do-centi universitari ed operatori del settore, rapporti di collaborazione con enti, organismi ed or-ganizzazioni nazionali ed estere.

L’AUSF di Viterbo, svolge attività, in linea con i principi guida, che abbiano sia caratteretecnico-didattico, atte ad approfondire tematiche affrontate a lezione, sia carattere sociale, attea promuovere la collaborazione tra studenti, anche di corsi di laurea e di atenei diversi.

In particolare l’AUSF organizza escursioni sia sul territorio viterbese, invitando professori,sia sul territorio nazionale ed internazionale. Oltre queste iniziative a carattere strettamente tec-nico-pratico, si affiancano attività prettamente accademiche, come l’organizzazione e parte-cipazione a seminari e convegni, all’interno dei quali vengono affrontate tematiche, di caratterescientifico-naturalistico con il supporto di esperti in materia, ad esempio professori, dell’ate-neo di Viterbo o altri atenei, di professionisti ecc., permettendo agli studenti che vi partecipano,non solo i soci AUSF, di approfondire quel particolare tema e di confrontarsi con il mondo ac-cademico. L’AUSF di Viterbo è associata a due grandi associazioni di studenti forestali: AUSFItalia e International Forestry Students Association (IFSA).

L’AUSF Italia è un’associazione universitaria a carattere tecnico culturale senza scopo dilucro, che riunisce tutte le sedi AUSF d’Italia e permette il confronto tra gli studenti di vari partidel Paese, dando loro la possibilità di conoscere nuove realtà forestali e non. Ogni anno daun’AUSF diversa, viene organizzata, l’Assemblea nazionale: 5 giorni in cui i soci di ogni sedesi riuniscono per discutere delle varie situazioni presenti sul proprio territorio e scambiarsiopinioni e idee; inoltre è un’ottima occasione per conoscere nuove persone.

L’IFSA è un’associazione analoga all’Ausf Italia, ma opera a scala più ampia riunisce in-fatti gli studenti forestali di tutto il mondo, consente ad ogni socio di poter viaggiare in Paesistranieri e di conoscere e far conoscere la situazione forestale nel proprio Paese.

AssociazioneUniversitariaStudentiForestali

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La mia città posso dire di conoscerladiscretamente bene, forse non co-noscerò il nome di tutte le vie e di

tutte le piazze, ma credo non ci sia vi-colo del centro storico dove non sia pas-sato almeno una volta. Quindi, spessopreso dallo sconforto, sogno di intra-prendere un viaggio senza fine in giroper il mondo, con quell’irrequietezza dichi pensa di poter ritrovare se stesso al-trove.

Di solito subito dopo tali pensieriprendo ed esco di casa, a piedi e di notte,camminando piano, quando tutto è piùsilenzioso. Varcato il cancello mi ritrovoperò a camminare per le solite strade chegià conosco, che so già dove portano, emi ritornano in mente palazzi, negozi,viali, baracche e quant’altro attende di es-sere visto altrove.

Poi, in preda al mio solito bipolari-smo, mi rimprovero, perché sono bencosciente del fatto che se per tutti questianni avessi camminato per le vie di qual-che set a Cinecittà anziché a Viterbo,probabilmente non mi avrebbe fattotroppa differenza; osservando da sempresolo la facciata degli edifici non possodire di conoscerli e, per quel che mi ri-guarda, dietro ci potrebbe essere un te-laio di legno. A quel punto tra voglia dipartire e rimproveri di coscienza comin-cia un “loop” riguardo l’esistenzialismoche posso anche risparmiarvi.

È però strettamente legato a questoarticolo il fatto che io sia un cammina-tore notturno del centro storico, consciodella sua ignoranza e di conseguenza cu-rioso. Mettendo un passo di fronte all’al-tro entro da Porta della Verità, passo inmezzo, tra le “scuole rosse” e il liceo Ruf-fini, scendo da via dell’Orologio Vecchioe da piazza delle Erbe mi incamminoverso il quartiere di San Pellegrino. Nonvolendo ripercorrere la stessa via duevolte spesso decido di uscire da portaSan Pietro, quindi percorro la via omo-nima per poi essere puntualmente coltodalla già citata curiosità e quindi fer-marmi di fronte ad una porta aperta,dentro l’oscurità più nera. A volte entrodentro, respiro un po’ di aria ammuffitae poi continuo la mia passeggiata.

Il palazzo al quale dà l’accesso questaporta mi ha sempre incuriosito, le suepareti sono molto incurvate, le fine-

stre sono spellate e l’intonaco è cadente,nonostante ciò conserva un’aria impo-nente e spesso mi sono chiesto a cosafosse adibito nel passato.

Solo l’anno scorso scoprii, credo in-sieme a tante altre persone, che dietroquesto palazzo si cela un cortile moltospazioso e un’area verde circostante al-trettanto grande che si estende dietro lemura fino alla chiesa diroccata di SantaMaria delle Fortezze.

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Irrequietezza notturnaContinua il viaggio nel dimenticatoio viterbese.

Manuel Gabrielli | [email protected] - Foto di Massimo Giacci

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Il festival di Caffeina è uno dei pochieventi che ha permesso l’accesso al pub-blico e quindi questo cortile è a moltinoto con il nome di “Cortile dell’Abate”.

Una lastra di peperino recantescritto “Istituto di assistenza perl’infanzia della provincia di Vi-

terbo” ci ricorda che fino al 1977 quelcomplesso fu usato come brefotrofio.Altro indizio ce lo può dare il nome diuna piazzetta vicina, “Largo degli Espo-sti”; infatti così venivano chiamati i neo-nati abbandonati.

Oggi i locali dell’edificio rimasti agi-bili ospitano numerose realtà associativedi varia natura, il resto è lasciato al de-stino, nessuno passando per via San Pie-tro o costeggiando via delle Fortezze siimmaginerebbe che dietro i muri si na-sconde una delle aree verdi più grandi al-l’interno delle mura di Viterbo, e che

quegli stessi muri hanno assistito a tantestorie importanti da conservare, chesiano esse umane legate alle umili con-dizioni di un trovatello, oppure di unacerta rilevanza storica come le decisionidi qualche potente del passato, o ancoral’esito di qualche battaglia.

Di edifici importanti da recuperarene è piena la nostra città e la nazione, èarrivato il momento di investire nella va-lorizzazione del patrimonio e di recupe-rare un po’ di quell’identità nazionale ecittadina persa mentre si rincorrevanosogni di industrializzazione con 50 annidi ritardo.

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La risposta alla meraviglia che su-scita il maestoso edificio che cattu-rerà il vostro sguardo, passando per

porta San Pietro, una delle più antiche diViterbo, è il Palazzo di Donna Olimpia,noto anche come Palazzo dell’Abbate.

E qui il Marco Polo di calviniana me-moria molto ardirebbe, forse, a dipanarfantasie e sogni e ad immaginare l’im-maginabile rimirando gli scorci e gli an-goli singolari, gettando lo sguardo dalleeleganti bifore. E forse darebbe il nomedi Olimpia alla città che scorgerebbe.

Ma lasciamo l’immaginifico invisi-bile ed entriamo nel reale storico perviaggiare nei secoli.

Il Palazzo dell’AbbateIl varco stretto e basso di Porta San

Pietro, che si apre da secoli nella spessacortina delle mura civiche, ci raccontache questa punta meridionale dell’inse-diamento urbano è stata più volte teatrodi aspre battaglie tra le milizie viterbesiinquadrate nell’esercito di Federico IBarbarossa e le truppe pontificie.

A partire dal XIII secolo l’edificio chesovrasta la porta passa in uso alla comu-nità monastica che aveva dato vita al-l’Abbazia di San Martino al Cimino e chequi si rifugiava proprio durante i fre-quenti assalti nemici.

È una costruzione che unisce gli ele-menti architettonici del palazzo pubblicocon quelli dell’edilizia difensiva, evidentenella linea massiccia e dalla possente

grande opera di ristrutturazione, ag-giungendo un nuovo corpo a quellopreesistente e inglobandolo alle muradella città.

Oltre all’evidente ampliamento delcorpo di fabbrica, è possibile notare lesovrapposizioni rinascimentali con lemezze lune disposte a croce, gli stemmidella famiglia Piccolomini e, soprattutto,l’elegante serie di finestre riquadrate conmensole e cornici, di grandezza diffe-rente, che il cardinale fece aprire primadi essere eletto Papa sul lato della via su-burbana.

La “Pimpaccia”Narra la leggenda che, da morta, cor-

resse a bordo della sua nobile carrozza infiamme, trainata da creature degli inferi.Per rimanere nella fervida immagina-zione, questo accadeva per le vie diRoma. Ma Donna Olimpia Maidalchiniebbe i natali a Viterbo nel 1594. Dopo es-sersi ribellata e sfuggita al destino di unavita in convento e dopo una breve vedo-vanza riuscì ad entrare nelle grazie del“vecchio” Pamphilio Pamphili, divenen-done la sposa ed entrando così di dirittonella nobiltà romana.

Ma la scaltra Signora non sempresolea giacere con il nobile marito, spessopreferendo il di lui fratello, il brillante av-vocato di curia, sua grazia Giovanni Bat-tista Pamphili. Nobiluomo che per ledoti di brillantezza e capacità, ma anchegrazie a sapienti intrallazzi di corte e...

merlatura. Il palazzo dalla struttura apianta irregolare è di origine tardo due-centesca. Oggi ne rimane la parte inglo-bata nella porta con le due biforetrilobate del tutto simili a quelle di Pa-lazzo Farnese al colle del Duomo. Comela maggior parte dei palazzi storici,chiese e monumenti dell’epoca, subiscesviluppi successivi e trasformazioni no-tevoli.

Nel 1500 il cardinale Francesco Pic-colomini, futuro papa Pio III, divennecommendatario dell’Abbazia di San Mar-tino entrando di conseguenza in pos-sesso del Palazzo dell’Abbate. Pocotempo dopo diede avvio ai lavori per una

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Se quei muripotessero parlare…Cenni storici sul palazzo di Donna Olimpia Pamphili.Sabrina Manfredi | [email protected] - Foto di Massimo Giacci

“ Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso,ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura.

D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. ”Italo Calvino, Le città invisibili

Lo stemma di Viterbo che sovrasta la portanell’originaria versione con il leone e la picca

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cortili, divenne nel 1644 papa con ilnome di Innocenzo X.

E quando si entrava nelle grazie (enon solo) del Papa si entrava di dirittonella grazie di Roma tutta. E fu così chericchezza, fama e potere giunsero al pa-lazzo di Donna Olimpia. O meglio neipalazzi: i principi e i pontefici del temponon si facevano di certo scrupoli neldonar castelli e possedimenti alle proprieamanti e così Donna Olimpia, dopo es-sere stata fregiata del titolo di principessadi San Martino, entrò di diritto in pos-sesso della dimora nobiliare di San Mar-tino e quindi dell’ex Palazzo dell’Abate,da allora entrambi conosciuti come “Pa-lazzo di Donna Olimpia”.

La “papessa”, così soprannominata altempo, morì di peste a San Martino alCimino nel 1657 lasciando in eredità 2milioni di scudi. Fu sepolta (pecunianon olet) sotto l’imponente navata cen-trale dell’abbazia cistercense.

L’Ospizio degli EspostiNel XVIII secolo il palazzo presso

porta San Pietro fu adibito a brefotrofionell’ambito del riassetto del modelloorganizzativo dell’assistenza all’infanziaabbandonata nei territori dello StatoPontificio. Il decentramento si era resoinfatti necessario per alleggerire il caricosul brefotrofio romano del Santo Spiritoma anche per ridurre la distanza dai luo-ghi di provenienza dei neonati e quindi alimitare l’alta mortalità nel corso dei tra-sferimenti verso gli ospizi di accoglienza.

La nuova destinazione rese necessariun ulteriore allungamento e amplia-mento del fabbricato, arrivando succes-sivamente a chiudere la circonvallazioneinterna per unirsi alle case di via San Pie-tro, secondo un progetto realizzato tra il1891 ed il 1899 dall’architetto viterbeseEnrico Calandrelli, che ripropone nelprospetto del nuovo fabbricato i caratteriarchitettonici dell’adiacente palazzo due-centesco con le bifore e il soprastante ri-camo.

“Marco Polo descrive un ponte, pie-tra per pietra. Ma qual è la pietra chesostiene il ponte? – chiede Kublai

Kan. Il ponte non è sostenuto da questao da quella pietra, – risponde Marco, –ma dalla linea dell’arco che esse formano.Kublai Kan rimase silenzioso, riflet-

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tendo. Poi soggiunse: – Perché mi parlidelle pietre? È solo dell’arco che mi im-porta. Polo risponde: – Senza pietre nonc’è arco.”

È così che attraverso l’arco di PortaSan Pietro ti ritroverai oggi, cittadino oviandante, di fronte a tutte quelle pietre,cadenti e un po’ in rovina, che ancoranobilitano il Palazzo dell’Abbate.

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Queste parole sono di Bernard Moi-tessier, navigatore e scrittore fran-cese noto per aver raccontato nei

libri le sue straordinarie imprese spor-tive, tra cui il giro del mondo senza scalopassando per i tre capi (Buona Speranza,Capo Leeuwin e Capo Horn) promossonel 1968 dal Sunday Times. A dire il verol'impresa non fu portata a termine perdecisione dello stesso Moitessier, che de-cise di non tornare al punto di partenzadopo aver letteralmente girato il mondo:preferì concludere il viaggio senza otte-nere il riconoscimento della vittoria, per-

Bellavia, la cui forte abbronzatura èun segno distintivo per ogni skipper chesi rispetti, è l’ideatore ed uno dei fonda-tori del Club Nautico, che ha aperto ibattenti nell’ottobre del 1969: «All’inizioeravamo una ventina di soci appassionatidi vela, e chiedemmo al Comune il terrenoper fondare il circolo. Col tempo ci siamoallargati, affiliandoci all’associazione ve-lica italiana nei primi anni Settanta e rea-lizzando le prime regate, inizialmentenella classe Flying Dutchman. In seguitoil nostro circolo ha ospitato quindici cam-pionati italiani e nel 1982 anche il mon-diale della classe Vaurien. Attualmentecontinuiamo ad organizzare regate: l’annoscorso ha avuto molto successo il campio-nato con i piccoli cabinati chiamati Fun.Quest’anno invece, nel primo week-end diluglio, si è tenuta la regata regionale diclasse Optimist, in cui gareggiano i ra-gazzi su imbarcazioni apposite. La parte-cipazione è stata elevata, con 120imbarcati, ed abbiamo ricevuto i compli-menti per l’organizzazione sia dalla giu-ria che dai partecipanti».

Il Club Nautico è anche in grado diformare i campioni del futuro, met-tendo a disposizione degli iscritti

un’equipe di istruttori federali ed una«flotta» di imbarcazioni adatte agli skip-per alle prime armi. Facendo un giro nelcircolo, che è stato curato ed ampliatodagli stessi soci, si respira un’atmosferatranquilla. I velisti si preparano metodi-camente sulle rive del lago di Bolsena; al-cuni di loro sono venuti con la famigliaal completo ed hanno organizzato il clas-sico pic-nic domenicale. Parlando conalcuni iscritti del circolo, traspare benpresto la loro passione per questo sport:

ché la sfida era con se stesso.Natalino Bellavia, per tutti noto

come Rino e per essere il presidente delClub Nautico Capodimonte A.S.D., du-rante l’intervista mi ha dato una defini-zione della vela che sembra riprendere ilfilo del discorso di Moitessier: «La vela èuno sport altamente distensivo, completoed adatto ai giovani perché insegna a lot-tare, nello specifico contro le onde ed ilvento. Bisogna impegnare il fisico e lamente e quando si passa alle regate ci siaccorge come sia necessario affidarsi a sestessi per ottenere il massimo».

acido lattico

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Vi spieghiamo la velaIntervista a Rino Bellavia presidente del Club Nautico Capodimonte.

Gabriele Ludovici | [email protected] - Foto di Manuel Gabrielli

La vela è una religione… ha i suoi riti. Se fa bello, fa bello. Se c'è vento, c'è vento.E se non c'è vento, si aspetta, si sorveglia. Hai fame, mangi. Hai sete, bevi. Ti prende sonno, dormi.

È una scuola di pazienza.

Alcune derive pronte per la regata

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tutti mi chiedono come mai non abbiaancora navigato in vita mia, e mi dannoconsigli su quale sarebbe l’imbarcazioneadatta per iniziare. Preferisco non sotto-lineare il fatto che non sono esattamenteun grande nuotatore, altrimenti ai loroocchi apparirei ancor più indegno diaver invaso il feudo velico, e per questo

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ganizzammo qui a Capodimonte il mon-diale per la classe Vaurien (ovvero unaderiva con tre vele, ndr): cinque giorni diregate in cui la Nazionale Italiana eracomposta da dieci equipaggi, di cui io fa-cevo parte. A metà campionato si presentòil presidente mondiale della classe, arri-vato direttamente da Parigi. Dopo averassistito ad una giornata di regate, rimasecon noi anche per la serata e mi confidòche probabilmente le imbarcazioni az-zurre non avrebbero vinto il mondialevista la bravura degli olandesi e degli spa-gnoli, ma che tuttavia per la bellezza delposto, per l’organizzazione e la simpatiadegli italiani poteva affermare che si trat-tasse del miglior campionato mondialemai disputato».

A rendere ancora più prestigioso ilnome del circolo capodimontano è ancheil contributo che ha dato uno dei propriiscritti allo sport italiano. Francesco Ge-ronzi è stato campione italiano nellaclasse Flying Dutchman e sesto classifi-cato nel campionato europeo: si è cimen-tato anche in altre classi con ottimosuccesso ed attualmente contribuisce allavita del Club istruendo le nuove leve.

Insomma, nonostante una leggeracrisi che rispecchia il difficile momentodel Paese, il movimento della vela pro-cede nella direzione giusta: la bellezzadello scenario del lago di Bolsena conti-nuerà a rendere questo circolo qualcosadi speciale, oggetto di ammirazione pergli appassionati di tutto il mondo. L'im-portante è che vengano coinvolti i piùgiovani, per far sì che la “scuola di pa-zienza” di cui parlava Moitessier possaaccogliere nuovi aspiranti skipper e,chissà, lanciare qualche nuovo talento inquesto affascinante sport.

mi limito ad osservare i loro gesti ed iloro preparativi. Purtroppo, come mi fanotare lo stesso Rino, negli ultimi tempialcuni soci non hanno rinnovato l’iscri-zione e ci sono imbarcazioni ferme e di-stanti dalla riva. Sicuramente lamanutenzione di una barca a vela non èuno scherzo, e per qualcuno potrebbe es-sere diventato un impegno non più so-stenibile. Tuttavia, la vita del ClubNautico prosegue senza sosta: «Sono di-versi anni che organizziamo un campio-nato invernale per i cabinati, – affermaBellavia, – dieci regate che si tengono traottobre ed aprile con una sosta tra dicem-bre e gennaio, e questo avverrà anche que-st’anno. D’estate organizziamo la TusciaCup, torneo che include sia derive che ca-binati, ed una regata di beneficienza i cuiproventi finanziano il progetto umanita-rio in Kenya del dottor Giuliano Bacheca,uno dei nostri iscritti».

Rino Bellavia, come già accennato,è un veterano della barca a vela:«Ho scoperto la vela nel 1967, pen-

sando come tutti che si trattasse semplice-mente di una barca con un lenzuolo e chesi muovesse grazie al vento; in realtà è piùsimile all'ala di un aereo, che si muove acausa della portanza aerodinamica. Que-sto sport mi ha entusiasmato subito edopo aver comprato una barca iniziai aduscire in acqua, presso il circolo velico diOrbetello. Le regate poi sono come le ci-liege: una tira l’altra, e la voglia aumentasempre di più!».

Nella sua lunga carriera, anche e so-prattutto nelle vesti di organizzatore, si èpotuto togliere diverse soddisfazioni enon ha dubbi su quale sia stato il ricono-scimento più importante: «Nel 1982 or-

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Federica Sciamanna (26 anni), inarte Faith, rappresenta proprio que-sti due aspetti: non è solo cantante

ed autrice dei testi degli Shiver, band vi-terbese che vanta numerose esibizioni ingiro per l'Europa. Da qualche mese, as-sieme al batterista Francesco Russo(anche lui membro degli Shiver) ha de-ciso di mettere in gioco la propria espe-rienza ed il proprio entusiasmo nellaBackstage Academy, destinata a divenireun grande punto di riferimento per la co-munità musicale di tutta la provincia gra-zie alla peculiare triplice funzione di salaprove, accademia musicale ed organizza-zione di eventi. Andiamo a conoscere me-glio sia lei che questo ambizioso progetto.

Federica, com’è nata la tua passione perla musica?

sono nati ufficialmente gli Shiver, anchese sono cambiati molti componenti delgruppo. Poi abbiamo realizzato la demoShades Changing con tutti pezzi nostri.»

Oltre a cantare sei anche autrice deitesti. Come nasce un testo degli Shiver?«Ognuno ha il proprio modus operandi,io parto dalla musica e poi scrivo il testoin base alle sensazioni che mi dà l’atmo-sfera della composizione. Dipende anchedall’ambiente: inizialmente scrivevo itesti in una saletta chiamata “New Hori-zon”, dentro ad un bosco. Ci ho persinovissuto per un periodo. Poi c’è anche ilmare… sono posti che ti ispirano ed è dalì che si parte.»

C’è stato un momento che ha rappre-sentato la svolta che vi ha portato adesibirvi fuori dai confini nazionali?«Non c’è stata una vera svolta, ma solodeterminati step che ci hanno permessodi suonare in un certo modo. Una mollaè stata la difficoltà di suonare qui, vistoche una band che propone pezzi ineditifatica a trovare spazio. Dopo aver regi-strato Inside, il primo disco, decidemmo

«Ho sempre studiato musica fin da pic-cola, e sono stata influenzata dai viniliche ascoltava mio padre: Pink Floyd, Ge-nesis, Cure… poi a 14 anni ho iniziatoad ascoltare cose più alternative, focaliz-zandomi sulla musica londinese anni ’80e sulla scena dark partendo dai DepecheMode ed i Joy Division. A quel punto hoiniziato a suonare la chitarra acustica delmio bisnonno che avevo in casa, co-stringendo mio padre a comprarne unaelettrica tutta mia! Ho iniziato a fre-quentare il Progetto Giovani ed a suo-nare con le mie amiche, buttandomianche nel canto: in quel periodo hoavuto il primo contatto con i “primor-diali” Shiver. Ho cominciato subito ascrivere, anche se all’inizio facevamo so-prattutto cover. Con l’arrivo di Finch(Francesco Russo, ndr) come batterista

nota bene

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Faith, la voce dei The ShiverDai successi in giro per l’Europa con gli Shiver al progetto Backstageper rilanciare la musica viterbese.Gabriele Ludovici | [email protected]

Il sogno che accomuna gran parte degli artisti è la possibilità di rendere la propria passioneuna vera e propria professione, che permetta di vivere della propria arte.

Volendo pensare ancora più in grande, il massimo sarebbe contribuire a realizzarei progetti degli altri artisti, magari industriandosi per tessere delle reti di contatti

e strutture in grado di supportare chiunque voglia provare ad emergere.

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di fare il nostro primo tour in Gran Bre-tagna e non in Italia. Il problema è chenel nostro paese la mentalità è chiusa enessuno e disposto a darti una mano,mentre all'estero le altre band ad esem-pio sono pronte a collaborare per fartisuonare dalle loro parti.»

Come vedi attualmente la scena musi-cale viterbese?«Secondo me c’è un bel giro di gruppi,spesso sottovalutato: nessuno pensa aquante band ci sono nei comuni viter-besi, c’è una concentrazione attiva e diqualità. Qualcosa si sta smuovendo, que-ste realtà vogliono fuoriuscire dalla salaprove ed andare un po’ fuori. Sono sem-pre di meno coloro che vogliono restarechiusi e diffidenti.»

Parliamo del progetto Backstage Aca-demy, dall’idea di base alle prospettive.«Da svariati anni sia io che Finch inse-gnamo musica e ci siamo resi conto datempo che a Viterbo mancava un movi-mento artistico, un punto di aggrega-zione. Così abbiamo deciso di mettere lanostra esperienza nel mondo della mu-sica a supporto degli altri artisti: adesempio se una band ci contatta perchéha la volontà di fare un tour all'estero ovuole promuovere l’uscita del propriodisco possiamo dargli una mano come sefossimo un’agenzia, ma non lo facciamoper una questione economica. Le saleprove sono la parte fisica della Backstage,che ci permette di automantenerci. For-tunatamente stiamo ottenendo l’atten-zione di artisti di tutti i livelli, è un belfermento: tuttavia Viterbo ha una grossalacuna che sono gli eventi. Ci sono tanteband e pochi posti dove suonare, alcunidei quali sfruttano gli artisti senza nem-meno pagarli: manca un posto dove puoi“andare e suonare”, per far magari tor-nare Viterbo una tappa delle band alter-

native. Noi ci stiamo provando grazie algrande supporto del Glitter Café, doveabbiamo invitato a suonare gruppi comei Vitriol ed i Rhyme. Diamo spazio atutti, è stato e sarà così anche per Caf-feina, di cui abbiamo la direzione arti-stica per il programma musicale: voglia-mo affiancare le band emergenti viter-besi a quelle già affermate fuori dalla no-stra provincia.»

Tornando agli Shiver, cosa c'è nel fu-turo della vostra band?«Un nuovo disco che abbiamo registratotra Natale e Pasqua: e Darkest Hour.Arrangiatore e produttore è stato Vin-cenzo Mario Cristi dei Vanilla Sky, che èstato eccezionale nel trasformare lademo del progetto in tutto ciò che avevo

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musicalmente in testa. Siamo in attesadel mixaggio e per settembre il cd saràdisponibile, poi proveremo a promuo-verlo con un tour italiano. Il nostroobiettivo è comunque quello di suonarefuori dall’Europa, esiste la possibilità diesibirci negli Stati Uniti ed anche neipaesi latinoamericani, in cui abbiamodei contatti per la distribuzione dei no-stri dischi. e Darkest Hour comunquesarà qualcosa di diverso dal gothic metalcui vi abbiamo abituati!»

Non ci resta dunque che attenderel’uscita di questo disco, augurando aFederica, Francesco e tutti coloro chegravitano nell’orbita della Backstage Aca-demy di poter contribuire a rilanciare ilpanorama musicale viterbese.

The Shiver: Michele Colantuoni, Federica “Faith” Sciamanna, Francesco “Finch” Russo, Vincenzo Lodolini

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Ore 17:06, sono in ritardo, camminoa passo sostenuto per via San Lo-renzo, la maglietta è pulita e sti-

rata, la scritta “Caffeina festival” colpiscelo sguardo di ogni passante, ho caldo, ilsole picchia forte oggi, ho dimenticatosolo una cosa, il cartellino, lo appunto alpetto, “Claudia P.”, ecco ora sono perfet-tamente identificabile.

L’appuntamento di noi volontari è apiazza Cappella, presso l’ex pizzeria “IlCiuffo”, ogni giorno alle 17, più o menotutti puntuali; dentro quello stretto lo-cale Alessandra, Ida e Gianpaolo coordi-nano le nostre mosse: “corri a portareuna sedia trasparente a piazza delleErbe”, “devi comprare uno specchio perlo spettacolo di stasera”, “serve gente alParadosso da Annalisa”.

Siamo più di 130 eppure lì dentro cientriamo tutti (anche se a turni), a voltestanchi, a volte affaticati, quasi semprefelici, e dopo aver mangiato stretti l'unoall'altro - più per un problema di spaziche di affetto - un semplice piatto dipasta, corriamo attraverso il quartieregrigio di pietre medioevali e colorato divolti giovani, di libri, di storie, di sorrisi,di magliette rosse che insieme creano unevento, l’evento di Viterbo.

Siamo tutti volontari, motivi diversici hanno condotto a dare una mano, al-cuni avevano amici che li hanno invitatia partecipare, altri faticano per ottenerecrediti universitari, altri ancora voglionoriempire la loro vita di amici o dimenti-care almeno per quei pochi giorni undolore segreto; a fine serata però ognunosi è dimenticato il perché di quella sceltae sembra che l’unica vita possibile siasolo quella che si trascorre a Caffeina.

Divisi in 10 squadre i volontari diCaffeina cambiano ogni giorno location(ce ne sono ben 24) e ancora più spesso

Ognuno dà il massimo affinchél’evento sia perfetto, in orario, affinché iposti bastino per tutti, affinché chi quellasera, dopo la sua presentazione lasciCaffeina, voglia solo tornare il primapossibile, per rivedere il viso di Elena, ilsorriso di Gabriele, ascoltare le parole diRossella e magari mangiare anche unafrittura in compagnia degli organizza-tori.

Quello che si crea negli undici giornidi durata del festival è un’enorme fami-glia, che alla fine fa fatica a smembrarsi,che si commuove alle parole di Andrea eFilippo quando ringraziano ogni singolocomponente, l’ultima sera, radunandotutti in piazza.

Caffeina è molto più bella se vissutadall’interno, è ancora più viva epuò dare ad ognuno qualcosa da

ricordare con gioia e soddisfazione.Il lavoro è certamente per tutti fati-

coso, non è di certo fatto solo di cene conlo scrittore che hai sempre adorato, si de-vono anche trasportare sedie pesanti opresenziare, in piedi, in un luogo dovenon passerà nessuno, ma la vera gioia èquando, anche da quella postazione sco-moda e lontana senti l’evento iniziare, ilpubblico applaudire in piedi all’arrivo diFranca Valeri, o senti da vicino, mentreregoli la fila, le parole che Philippe Da-verio dedica ad ogni persona che si av-vicina per un autografo a fine spettacolo.

Partecipare attivamente a Caffeina èdavvero un’occasione per ognuno: per unragazzo di sedici anni che meravigliosa-mente insiste per poter conoscere Odi-freddi, per una mamma di quaranta anniche trova nuovi figli fra i suoi colleghi dilavoro a cui volere bene e con cui man-giare una pizza a mezzanotte, per qual-cuno che ha perso tutto e trova di nuovola voglia di ricominciare.

compito da svolgere, oggi la squadra Tol-stoj sarà a piazza del Fosso, domani inaccoglienza, oggi Giulia lavorerà allacassa, domani Francesco al backstage delgiardino di Porta Fiorita.

Persino gli appellativi delle squadretraboccano cultura, portano il nome difamosi scrittori del passato, anche se ipiù giovani pronunciano ancora Kùn-dera e non sanno cosa abbia scrittoDumas; orgogliosi di appartenere a quelgruppo presto si informeranno su di loroe magari questa estate si troveranno adappoggiare sotto l’ombrellone L’insoste-nibile leggerezza dell’essere o a trascorrereinteri pomeriggi ipnotizzati dalle avven-ture de I tre moschettieri.

La squadra che organizza, mantienee dà vita a Caffeina è grande, varia eunita da un unico intento: far vivere lacittà e la vita di ognuno, anche se soloper alcuni giorni, fra la cultura, le emo-zioni, i sentimenti, i libri e colorarequelle desolate e splendide vie medioe-vali di una nuova gioia.

report

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Inside.Dentro CaffeinaDiario, memorie, gioie e fatiche di un volontario.Claudia Paccosi

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Caffeina è una festa, una nuova storiache vuoi conoscere, è Massimo Gramel-lini che entra nel quartier generale, dauno sguardo alle carpe giapponesi e in-dossa una camicia uguale alla nostra, èuna lunga chiacchierata a luci spente, aspettacolo concluso, su un palco a Piazzadel Fosso, quando il sonno fa chiudere ituoi occhi, ma i nuovi amici che hai in-contrato li fanno ancora brillare di gioia,è Valerio Massimo Manfredi che tichiede come stai, è un lavoro e un pia-cere, una professionalità tedesca con uncuore italiano, è una corsa verso PortaSan Pietro per spostare una transenna ela soddisfazione di aver dato una mano afar risollevare il mondo dal suo cupo gri-giore quando ti stendi sul letto a nottefonda.

Il festival è gestito da moltissime per-sone, la segreteria, i “grandi capi”, gliautisti, i moderatori, i fotografi, i re-

sponsabili di location, coloro che gesti-scono la logistica e chi corre da una parteall’altra in bici portando pezzi di palco,microfoni e luci.

Caffeina è quindi una stupenda oc-casione di crescita non solo per chiascolta la serata dei cinque finalisti alPremio Strega nello stupendo parco delParadosso o per chi si siede per un po' asentire Fabio Stassi fra i palazzi di piazza

scendo, anche tramite la pagina Face-book della Fondazione Caffeina Culturasi possono proporre suggerimenti per gliospiti del prossimo anno.

Per cambiare questa vita, questa città,questa Italia, non possiamo stare ancoraa lungo seduti ad aspettare, a lamentarcidi ciò fanno e non fanno gli altri, a criti-care, valutare senza conoscere.

Dobbiamo alzarci dalla nostra co-moda poltrona di pelle, spegnere lo

schermo del portatile e uscire, fare, aiu-tare, in qualsiasi forma, cercare di creareciò che vogliamo per noi e non aspettareche ci sia servito quando ormai saremostanchi.

Aprire mente e occhi sulla realtà,raccogliere quel foglio accartoc-ciato che sporca il prato, rivolgere

un sorriso a chi lo chiede con gli occhilucidi e stanchi di essere soli, uscire perle strade, fra la gente, dipingere un qua-dro e posarlo in una via, nascondersidietro una colonna e vedere che effettofa sui passanti, scrivere una poesia e leg-gerla una sera, in una piazza affollata digiovani la cui unica compagnia è uncocktail alcolico.

È giunto il momento di capire che ilnostro paese, ma soprattutto noi, ab-biamo bisogno di svegliarci, di alzarci ebere quella calda tazza di “Caffeina”.

del Fosso, è anche un'occasione per ac-crescere e migliorare chi lavora all'in-terno dell'organizzazione, per percepirequanto sia davvero faticoso e bello co-struire un evento, diffondere sapere e so-prattutto far amare quell’evento, quellacultura, renderla divertente e accessibile,non schermata da un’idea politica o daeccessivo intellettualismo.

Diventare parte del festival, indossarequella maglietta, scattare fotografie sotto

un palco illuminato dalle parole di An-drea De Carlo è possibile, aiutare è pos-sibile.

Tramite il sito www.caffeinacultura.it/fai-volontario/ e la mail [email protected] chiunque può inviare ilsuo curriculum e vivere ciò che ho vis-suto io insieme a Antonio, Francesca,Barbara e tanti altri.

L’edizione di Caffeina 2014 sta già na-

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Il punto è che io non mi sentireigrassa. Non mi ci sentirei perché nonlo sono, eppure devo usare il condi-

zionale. Io non mi ci sentirei ma a giornialterni mi ci sento. È un po’ come perl’abbronzatura: in questa particolare fasestorica in cui per essere piacente deviavere la pelle del colore del cuoio, io sonobianca. Molto bianca, bianchiccia ten-dente al diafano. Lo sono d’invernocome d’estate e girerei fiera (torna il con-dizionale) se non fossero secondi e terzia fare della mia “bianchitudine” un pro-blema. Pronti a dirmi con sguardo in-credulo e impertinenza nella parola che“dovrei proprio prendere un po’ di sole”.Mentre io sono bianca, bianchissima e, atratti, mi sento pingue.

Se sei una donna e ti senti fuoriforma ci sono dei riti particolari che titroverai ad osservare: il conto delle calo-rie, primo malatissimo meccanismo incui saprai dire che quel particolare bi-scotto contiene esattamente il doppio

gliando, perché non dovrebbe esserlo, al-meno non per questioni frivole. Se stai aguardare non rischi l’obesità e nemmenoil sovrappeso. Potresti essere più magrasì, ma se è per questo potresti ancheavere un quoziente intellettivo più alto,essere più abbiente e vivere in una casapiù grande, avere cose più interessanti dadire e magari anche un carattere mi-gliore. Eppure, chissà perché, ad oggi ilpeso è il problema madre. Il più grande,forse l’unico insormontabile e maledet-tamente legato a tutti gli altri. Come adire che magari quella casa più grandenon posso averla, come non posso avereun Q.I. da genio e grandi doti dialettiche,allora ci mangio su, non levatemi anchequello. E lo sfogo, la fonte di piacere si faproblema e ogni tanto mi sento pingue.Ma la disperazione è momentanea, rie-sco a riflettere, torno a ragionare e so cheio grassa non lo sono. Probabilmentenon lo siete neanche voi e dovreste sa-perlo.

Forse è per questo che voglio rac-contarvi una storia: il soggetto èuna tizia bella, ma bella. Una di

quelle che guardi e puoi dire solo che èbella, con gli occhi grandi e la pelle can-dida. Bella sopra ogni etto in più e ognicanone. La tizia in questione si chiamavaBettie Mae Page, nota come Betty Page.Qualcuno ha scritto un libro su di lei, iosono andata ad ascoltarne la presenta-zione ed ho capito che nella donna nor-modotata di bellezza ce n’è. Normodotatasu una donna sembra strano, ma infondo non è così anche per noi? Gli uo-mini stanno lì a misurarsi altro, e noi alleprese coi fianchi e le cosce a chiederci sec’è troppa roba o troppo poca.

Ecco, se Betty avesse di questi timorinon lo so ma Lorenza Fruci, autrice dellibro Betty Page. La vita segreta della re-

delle calorie dell’altro, che mangiare fi-nocchi ti aiuterà moltissimo perché leleggende dicono che, solo nell’attività delmangiarlo, disperderai tutte le calorieche andresti a depositare in quel corpogià pingue, già grasso, già pieno di de-positi. Poi c’è la palestra per le menopigre e vagonate di buoni propositi, sem-pre rimandata ad un lunedì che, unavolta arrivato, diventerà guarda casoquello successivo perché, diciamocelo,ma chi è che ha voglia di darsi alla dietadel finocchio o chiudersi in palestra?

Personalmente mangio schifezze esono pigra. Non amo correre, cammino.Non so fare le flessioni e gli addominalimi atterriscono. Il finocchio è buono, magratinato con su delle belle cucchiaiate dibesciamella.

Sarà per questi ed altri motivi chequei momenti ci sono, quelli dello scon-forto in cui fai del peso un problema piùgrande di quello che è. O semplicementefai del peso un problema e già stai sba-

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Curve pericoloseLa bellezza fuori dagli schemi.Martina Perelli | [email protected]

Betty Page (1923 - 2008) archetipo della pin-up e icona fetish per innumerevoli artisti, fotografi e registi

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gina delle pin-up, qualcosa me l’ha fattascoprire. Negli anni Cinquanta dellebionde eteree alla Marilyn o della classi-che super maggiorate tutte coscia-tuttopetto fa la sua comparsa una giovaneBetty, che aveva un fianco ben presente eun seno non proprio prominente. E la ta-glia della classica ragazza normale conun peso normale con forme normali. In-cantevole nei suoi 165 cm d’altezza,donna nei 58 chilogrammi di peso. Nonvoglio dare cifre, ma in fondo è il modomigliore per rispondere a quella chesembra essere ormai la “sagra del nu-mero” dove se non raggiungi i 170 cm(per essere buoni) la modella non la puoifare e sì, sei magra, ma mai abbastanza.Sopra i 50 chili puoi anche andare al ma-cello. Ecco, in barba ai nostri psicoticianni Zero, Betty faceva la modella, po-sava in abiti succinti e aveva quel sorrisoper cui parlare è superfluo.

Lorenza Fruci ci ricorda una naturalepredisposizione di Betty per l’obiettivodella macchina fotografica, una sorta diempatia difficile da spiegare che fa delsoggetto immortalato quanto di più am-maliante occhio umano abbia mai visto.Ammaliante e naturale al contempo, inun gioco esclusivo tra la macchina e unamodella senza tante pretese. Una che delproprio corpo di donna faceva mostra evessillo senza immaginare che, più dicinquant’anni dopo, qualcuno sarebbestato ancora qui a parlarne. Sperandoche di Betty in giro ce ne siano, magarinascoste dietro la miracolosa dieta delminestrone. Magari lì a pensare che nonsono poi così graziose.

Hanno chiesto all’autrice cosa l’abbiaspinta a parlare proprio della fi-gura di Betty Page e lei ha dato una

risposta che mi ha colpita, ricordandotra i tanti un motivo: il fatto che spesso siritrovi ad incontrare in giro tante Betty,ragazze che la emulano e la imitano nel-l’abbigliamento, nella frangetta sbaraz-zina e nelle movenze, a ricordare quelfascino retrò fatto di una sessualità maivolgare. Ed io mi sono chiesta: ma que-ste ragazze lo sanno che per essere Bettynon hanno bisogno della dieta dima-grante? Che Betty era bella perché ilcorpo splendido era accompagnato daun sorriso luminoso? E che, probabil-

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tiamo, mentre come lei ci autoprocla-miamo libere e intraprendenti, figlie enipoti della generazione che ha rivolu-zionato i costumi sessuali di un’epoca.

Siamo donne ed abbiamo voti mi-gliori dei maschietti, lo dicono i risultatie le statistiche. Spesso siamo dotate digrande praticità e rendiamo al meglioanche sotto stress. Eppure aggrottiamola fronte pensierose davanti a un piattodi carbonara, a chiederci se si può o nonsi può. Se poi ingrasso, se poi non vadobene, se poi gli altri lo vedono. Eppuresempre titubanti e insicure di fronte allamodella di turno, a dimenticarci che c’erauna tizia bella, ma bella, con un voltostrepitoso, non tanto alta, non troppomagra che si chiamava Betty Page.

mente, le diete erano il suo ultimo pen-siero?

Che di Betty Page ce ne sia stata solouna e che non sia facile da ritrovare èchiaro. Sapevo chi fosse ma non le avevomai prestato grande attenzione, dopoaverne sentito parlare ho trovato un chedi tremendamente intrigante nella sua fi-gura. Allora ho cercato vecchi video,guardato le sue foto e le sue pose più sba-razzine e provocanti. Ho ingrandito im-magini fino a sgranarle per carpirnemeglio i sorrisi e gli sguardi ed ho tro-vato così strano il fatto che l’occhio nonmi cadesse quasi mai sulle gambe, sep-pur belle. Raramente sui fianchi e le fat-tezze, seppur armoniosi. Ho osservato lafrangetta cortissima che ancora imi-

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Non ho cercato di essere scandalosao di essere una pioniera. Non ho cercatodi cambiare la società o di anticipare i tempi.Non ho pensato di essere un’emancipata e noncredo di aver fatto qualcosa d’importante.Sono solo stata me stessa. Non conosco altromodo di essere o di vivere.

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Cammino senza una meta precisa,mi sento come quando si è appenaincontrato un amico che non si

vede da tanto. Uno di quelli che non haipiù sentito perché il trantran di tutti igiorni ti ha risucchiato, perché si scel-gono strade diverse. Uno di quelli a cuiogni tanto si pensa e scappa un sorrisorivolto ai tempi passati, ai momenti tra-scorsi insieme, alle risate. I ricordi sonouna bizzarra, ma fondamentale, compo-nente della vita. Quando poi l’incontro èstato del tutto casuale è anche meglio, amolti piace attribuire il merito al destino,altri pensano a quanto il mondo sia pic-colo.

Stasera mi sento così, dopo aver par-tecipato alla presentazione de L’ultimoballo di Charlot di Fabio Stassi. Il mio in-contro con il romanzo è, in qualchemodo, casuale dato che fino a pocotempo fa non ne conoscevo l’esistenza.Ho incontrato quest’opera, per caso, trachiacchiere e consigli di letture fatte traamici, un pomeriggio di fine maggio.

Mi ero ripromessa di comprarla eleggerla… ma, come tutti i buoni propo-siti fatti durante la sessione d’esame, lamia promessa è sfumata. Fino a quandonon l’ho ritrovata, di nuovo casualmente,tra le presentazioni del festival Caffeina.

Io sono una di quelle persone che unpo’ al destino ci crede, più che altrocredo ad un destino creato da noi giornodopo giorno, magari sapendo cogliere igiusti “segnali”. Così ho fatto, ed armatadi quaderno e penna mi sono ritrovatain terza fila a piazza del Fosso.

La presentazione è stata animata daFabio Stassi con aneddoti sulla suavita, i suoi ricordi, i ricordi dei suoi

cari. I suoi racconti, proprio come quellidi Charlot, sono divertenti e allo stessotempo hanno un retrogusto un po’ ma-

Scrivere era per me il modo più conge-niale per esprimermi.»

È noto che lei scrive sul treno. Quantoprende dalle persone e dai panoramiche la circondano?«Il treno, il vagone ferroviario, è un po’ ilmio studio, la mia scrivania. Anche senon prendevo niente, rimaneva come ilcalore dell’umanità pendolare che loabita. La solidarietà che si instaura frachi fa la stessa vita, si alza presto, si in-contra alle sei su un binario, si ricono-sce. In treno sono nate delle amiciziemolto forti e molto profonde. Poi, inquest’ultimo libro, ho anche ritratto trepersonaggi che somigliano molto a tremiei amici con cui viaggio da vent’anni,e li ho fatti incontrare con Charlie Cha-plin, li ho fatti andare da una costa all’al-tra dell’America del Nord, cercando diriprodurre quel clima che a volte si creasul nostro treno.»

linconico. La malinconia è un’altra diquelle componenti della vita di cui non sivorrebbe essere affetti, ma una volta pro-vata non se ne può fare a meno. ScrivevaVictor Hugo “La malinconia è la felicitàdi essere triste”.

Tutte queste sensazioni e riflessionimi hanno spinta ad intervistare FabioStassi, ma sopratutto a scoprire, in pic-cola parte, la realtà di un autore pendo-lare, di un uomo che appartiene a piùterre.

Fabio Stassi e la scrittura. Come ha ca-pito che questa era la sua vocazione?«Non so, un po’ l’ho sempre saputo.Amavo leggere, e poi ho avuto uno zioche è un poeta. Ho letto da qualche parteche la letteratura si trasmette da zio a ni-pote. Ecco, forse è avvenuto così ancheper me. Lui portava in casa libri, sugge-stioni. Io scoprii da parte mia Salgari.

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In itinereIntervista a Fabio Stassi, scrittore viaggiante, viterbese d’adozione.Martina Giannini | [email protected]

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Quanto c’è di Viterbo e della sua terrad’origine nei romanzi?«Sopratutto c’è la Sicilia. Diceva Vitto-rini, “di qualunque cosa io scriva, che siaPersia o India, per me sarà sempre Sici-lia.” Solo che la mia Sicilia è una terra chenon ho abitato se non per poco, ed’estate. Ma è alla Sicilia che appartengo,sono cresciuto nella sua lingua, nella suacultura. Sono impastato di un’idea sici-liana del mondo. Viterbo è arrivata nellamia vita come una piccola migrazioneimprevista. Ma mi ha offerto un altroscenario, molto diverso, un’altra luce.Apparirà in qualche racconto che non hoancora pubblicato, anche se mistificata.»

Spesso nei suoi romanzi veniamo cata-pultati in realtà diverse dalla nostra,l’ambientazione è all’estero. Ha mai vi-sitato quei luoghi o sono descrizionibasate sul frutto della sua fantasia?Cosa l’ha affascinata al punto di sce-glierli?«I luoghi letterari disegnano sempre, perme, una geografia immaginaria. Hoscritto su molti posti prima di vederli, in

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alcuni, la maggior parte, non ci sono maistato. Ma per me sono voci, l’America èun racconto, un insieme di storie che hoascoltato da bambino e che volevo resti-tuire.»

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Fabio Stassi nato a Roma nel 1962 la-vora presso la Biblioteca di Studi Orien-tali della Sapienza. Residente a Viterboe quindi pendolare, da anni ha investitoil tempo del viaggio quotidiano nellascrittura dei suoi romanzi.L’esordio è avvenuto nel 2006, con Fu-misteria, opera con cui ha vinto il “Pre-mio Vittorini prima opera 2007”, l’annosuccessivo viene pubblicato il suo se-condo romanzo intitolato È finito il no-stro carnevale, ristampato poi nel 2012.Nel 2008 esce La rivincita di Capa-blanca, tradotto, come il precedente, inlingua tedesca e successivamente nel2010 Holden, Lolita, Zivago e gli altri.Piccola enciclopedia dei personaggi let-terari (1946-1999).È del 2011 la pubblicazione di due rac-conti, uno in tedesco, nella raccolta DerMann meines lebens e l’altro in italiano,nella collana “S/confini”. Infine, nel2012 è la volta di L’ultimo ballo di Char-lot, che lo ha portato ad essere attual-mente tra i 5 finalisti del “PremioCampiello 2013”.

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