Alias Supplemento del Manifesto 11/06/2011

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SABATO 4 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 22 SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SABATO 11 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 23 SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» TALPALIBRI: GROSSMAN GAZDANOV DE CERTEAU CLAUS CHELSEA FLOWER SHOW POWERS PINCIO PARISE ULTRASUONI: GIL SCOTT-HERON, IL RICORDO LA FINE DELLA PROTEST SONG LA FINE DELLA PROTEST SONG ULTRAVISTA: AL CAIRO RADIODERVISH MUSEO DISNEY SPECIALE CHIPS&SALSA: Milano, via le rovine L’ENTUSIASMO PER GIULIANO PISAPIA NON DEVE FARCI DIMENTICARE LA DISTRUZIONE DELLA CULTURA NELLA CITTÀ AMBROSIANA, DAGLI ANNI OTTANTA A OGGI: LO STORICO DELL’ARTE GIOVANNI AGOSTI STILA UN PRO-MEMORIA TENEBROSO. PER RICOMINCIARE Giovanni Frangi, «Milano Porta Venezia», 2009, tecnica mista su carta

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SABATO 4 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 22SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

SABATO 11 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 23

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

TALPALIBRI: GROSSMAN • GAZDANOV • DE CERTEAU • CLAUS • CHELSEA FLOWER SHOW • POWERS • PINCIO • PARISE • ULTRASUONI: GIL SCOTT-HERON, IL RICORDO • LA FINE DELLA PROTEST SONG LA FINE DELLA PROTEST SONG • ULTRAVISTA: AL CAIRO RADIODERVISH • MUSEO DISNEY SPECIALE CHIPS&SALSA:

Milano, via le rovineL’ENTUSIASMO PER GIULIANO PISAPIA NON DEVE FARCI DIMENTICARE LA DISTRUZIONE DELLA CULTURA NELLA CITTÀ AMBROSIANA, DAGLI ANNI OTTANTA A OGGI: LO STORICO DELL’ARTE GIOVANNI AGOSTI STILA UN PRO-MEMORIA TENEBROSO. PER RICOMINCIARE

Giovanni Frangi,«Milano Porta Venezia», 2009,

tecnica mista su carta

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2) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

di Giovanni Agosti

Di fronte all’esaltante possibilità di voltare pagi-na nella città in cui abito – Milano – non sarà del tutto disuti-le riflettere su forme e modi e tempi del degrado della vitaculturale che ne ha caratterizzato la storia recente. Inevita-bilmente gli esempi saranno tratti dal campo del mio lavo-ro che riguarda soprattutto, ma non solo, la storia dell’arte:sono convinto però che la morale della favola possa essereapplicata anche ad altri settori della cultura.

Spesso gli studenti più avvertiti, quelli dal cervello menodevastato da anni e anni di televisione e dalla rincorsa aipunti e ai crediti universitari, mi chiedono quando e comele cose sono cominciate ad andare male. Provare a raccon-tarlo, coordinando fatti anche lontani, non per lodare il pas-sato, ma per cercare ragioni e responsabilità, in modo dacorreggere, se si può, e ripartire, adesso mi sembra giusto. Inomi dei responsabili della situazione in cui ci troviamo ioli so: spesso ne stilo gli elenchi, meccanicamente: qualcunoè morto e qualcuno è vivo, qualcuno ha agito male consape-volmente e qualcuno no; e c’è anche chi si è ravveduto in

corso d’opera e ha cambiato caval-lo. Le ragioni, si vedrà, sono moltovarie: la brama di arricchirsi a tut-ti i costi, la smania di potere, l’as-senza di senso di responsabilità ci-vile, la mancanza di qualità intrin-seche unita alla vanità o, semplice-mente, il desiderio di dare visibili-tà scientifica alla propria amantedel momento.

Bisogna riandare con la mac-china del tempo negli anni Ottan-ta perché è lì che si trovano le ra-gioni dell’oggi. Erano già scom-

parsi uomini come Franco Russo-li (1923-1977), l’ultimo Soprinten-dente che Milano abbia avuto ingrado di pensare in grande, capa-ce di inventarsi la Grande Breracioè un’espansione della maggio-re pinacoteca cittadina – da Gen-tile da Fabriano a Piero dellaFrancesca, da Giovanni Bellini aCaravaggio – che dilagasse fuoridal palazzo seicentesco che ospi-ta il museo e raggiungesse fascesociali differenti, immergendosicon saggezza nel turbine contem-poraneo (a quasi mezzo secolo didistanza si è ancora allo stessopunto). O donne come Anna Ma-ria Brizio (1902-1982), che erapassata dall’antifascismo alla soli-darietà con gli studenti in rivolta,inseguendo nuove forme di didat-tica, senza derogare al rigore e al-la severità, senza voti politici e 18a tutti, senza souplesse insom-ma: e intanto leggeva, senza glispecchi, gli scritti di Leonardo daVinci o si immergeva nella Mila-no tetanica della Scapigliatura,tra Tranquillo Cremona e CarloDossi. Non poteva più essere unriferimento per tutti Giovanni Te-stori (1923-1993): la reazione vio-lenta, nel 1979, alla mostra di GaeAulenti al Padiglione d’Arte Con-temporanea e l’avvicinamento aComunione e Liberazione, trauna Conversazione con la morte ela scoperta della Maestà della vi-

ta, con decise scelte antiaborti-ste, lo avevano reso inviso – ed èun eufemismo – a quasi tutti i pri-mi attori della scena culturale delmomento. Chi era presente, nel1988, alla prima di In exitu, tra lerampe della Stazione Centrale,dove una marchetta consumavala sua ultima overdose? Una dellescene madri del decennio, quan-do l’eroina imperversava taglian-do le classi sociali e l’AIDS da po-co era chiamato così. Ma il recu-pero della grandezza di Testori,oggi generalmente ammessa, sa-rà fatica del poi, di alcuni di noi.Eppure sarà proprio lui, con gliAngeli dello sterminio, a descrive-re, nel 1992, in maniera immagi-nifica, quanto era successo nellacittà, già così tanto amata, di cuinon riusciva più a scrivere nem-meno il nome: e poco importache ricorresse al ricordo del fina-le di Roma, il film di Fellini del1972, per la scena conclusiva del-l’Apocalisse di Milano, con i mo-tociclisti sulle Triumph, quellevendute da Bepi Koelliker, chesgommano sul sagrato del Duo-mo incendiato. Alberto Arbasino(nato nel 1930) era da anni a Ro-ma e le sue sacrosante osservazio-ni sul Paese senza, tra Illumini-smo del cuore e Romanticismodel cervello, sembravano non rag-giungere chi gestiva l’amministra-zione culturale di Milano.

La resa dell’olivettiano ZorziLa società Olivetti aveva avviato,dal 1977, il restauro del Cenacolonel refettorio di Santa Maria delleGrazie, affidato a Pinin Brambilla(l’impresa terminerà solo nel1999): lì si avvertiva, almeno per lamanualità del lavoro, un filo dicontinuità con il passato. Giorni egiorni sui ponteggi, senza delega-re, rimettendoci la vista, pur di re-stituire un’immagine coerente econsona del capolavoro di Leonar-do da Vinci, quello che nel 1498aveva inaugurato, non solo a Mila-no, la «maniera moderna». Il testi-mone, che presto diventerà un ce-rino acceso, era tenuto da RenzoZorzi (1921-2010), reduce dal-l’Ivrea delle utopie di Adriano Oli-vetti e costretto a scendere a patticon una realtà in mutazione, concommittenti e protagonisti di benaltro calibro; trovandosi a fare dapadrino alla sciagurata mostra sulcollezionismo dei Gonzaga a Man-tova, nel 2002, quando cinquecen-tomila visitatori furono convinti –da una pubblicità martellante edall’esibizione del numero dei do-cumenti consultati – di andare avedere la raccolta delle opere cheerano state dei Gonzaga, tra il giu-bilo degli amministratori locali,mi diceva: «Spero che la Sua gene-razione mi perdonerà; non pote-vo fare altrimenti». Ancora adessomi chiedo che cosa volesse dire.

A Milano, negli anni Ottanta, siera agli ultimi fuochi delle giuntecon i socialisti in sella; i galantuo-mini che fanno passi indietro difronte alle nuove urgenze dellaconclamata deideologizzazione,nella faticosa uscita dagli anni dipiombo, le cui immagini più pro-fonde per la città si ritrovano neifotogrammi, che attraversano leclassi sociali, di Colpire al cuore diGianni Amelio, 1983, tra l’«acqua-rio» di piazza Eleonora Duse e leaule della Statale di Portaluppi.Era venuto invece il momento del-la moda della moda. E sembravache la fatica della ricerca non va-lesse più la pena di affrontarla. Alrigore concettuale e analitico siera rapidamente sovrapposto,con un ritorno di fiamma che inve-stì anche Milano, il gusto per lapittura: era stata un requiem delleaspettative deluse nel 1983 la mo-stra dell’arte cinetica e program-mata, curata da Lea Vergine, in Pa-lazzo Reale. Come a dichiarare, inuna contrapposizione superficia-le, che adesso era la volta della jo-ie de vivre; e non mancarono icantori. A fare data, stando sul pia-no della qualità, l’avvio di Mem-phis, che risale al 1981. Era del re-sto servita a poco l’affermazionedi Mercedes Garberi (1927-2007),la dimenticata direttrice delle rac-colte d’arte del Comune: «A Mila-no la Transavanguardia non pas-

Due «icone» sulla crisidi Milano: sopra,l’Università Statalein «Colpire al cuore»,1983, di Gianni Amelio;in basso,Franco Branciaroli in«In exitu» di GiovanniTestori (che comparesullo sfondo), 1988,Stazione Centrale.Si ringraziano Amelioe l’Associazione Testori

Qual è l’origine del degrado della vita culturale milanese? Gli anni ottanta. E perché? E come?

Un interprete d’eccezione ripercorre le tappe del disastro, con speciale attenzione alla storia dell’arte

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ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (3

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Norma RangeriVICEDIRETTORE

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■ PRIMO «MOVIMENTO» DI UN PROMEMORIA PER MILANO ■

Sinfoniadi una città

serà». Dopo avere riaperto, nel1979, il PAC, era stata lei a volere,nei sottotetti del Palazzo Reale,una presentazione delle ricchissi-me raccolte comunali d’arte con-temporanea: il CIMAC (era ormaigià evidentemente stagione diacronimi), aperto nel 1984 (lochiuderanno nel 1998). Un’infila-ta di piccole stanze e più corridoidove le sculture astratte di Melottio le nature morte di Morandi o inumeri di Fibonacci al neon diMerz si vedevano in una luce chia-ra, sulle allora consuete paretibianche. Tutto gratuito, civile. Sene sarà fatto parola nella pompadell’inaugurazione, qualche mesefa, del Museo del Novecento?

Il Bosch di Mike BongiornoIntanto le formiche diventavanocicale e guai a far parola dell’inver-no, prossimo venturo. Che quellofosse il clima e che i parametri del-la dedizione al lavoro non corri-spondessero più agli standard pre-cedenti, quelli in cui si era natural-mente cresciuti a Milano, io l’hoavvertito quando è comparso ilprimo volume del catalogo dellaPinacoteca di Brera. Faceva partedi una collana, edita dall’Electa, eavviata da Raffaele Mattioli(1895-1973), il direttore della Ban-ca Commerciale Italiana, prodigodi aiuti a chi facesse veramentedella buona cultura («sono le ideeche mancano, non i soldi per rea-lizzarle»: sulla sua bocca stavanobattute così, a quanto riferisconoquelli che lavoravano con lui). Ilraggio delle frequentazioni di Mat-tioli, ben oltre le mura di Milano,stanno a dirlo i nomi dei parteci-panti al libro per i suoi settantacin-que anni, 1970: da Contini a Isella,dalla Barocchi a Longhi, con il ri-tratto di Guttuso nel controfronte-spizio, la messa in pagina di Mar-dersteig e la redazione di Antoni-ni. Era un libro Ricciardi.

Mattioli, abruzzese di nascita, èsepolto all’abbazia di Chiaravalle,uno dei più plurilinguistici monu-menti milanesi, vegliato – in cimaalla scala che conduce dalla chiesaalle celle dei monaci (adesso sonorimasti in cinque) – dalla Madon-na del 1512 di Bernardino Luini (e«chi dice Luini dice Lombardia»),tra i giotteschi in fuga da Firenze ei resti bronzei della romana cappel-la Chigi di Raffaello; lì era riemersoda un muro, nel 1989, un notevoleaffresco quattrocentesco con unCristo davanti a Pilato, probabil-mente di Hans Witz: la televisionene presentava in diretta, da MikeBongiorno, il ritrovamento comese si trattasse di un autografo di Bo-sch cioè di un autore vissuto più dimezzo secolo dopo ma molto piùnoto al grande pubblico. Era unadelle tante testimonianze del catti-vo costume dell’informazione incampo storico-artistico; ultimo esi-to, il mese passato, lo scivolone raf-faellesco sulla copertina dell’«Espresso». Perché per i fatti figura-tivi non sono richieste le medesi-me precisione e competenza che illettore pretende se si tratta disport o di economia?

I musei tra Electa e FinarteProprio Mattioli si era adoperatoperché le raccolte pubbliche mila-nesi, indipendentemente dalla lo-ro proprietà (statale, comunale, ec-clesiastica), fossero provviste di ca-taloghi scientifici, tutti dello stessoformato, pubblicati dallo stessoeditore. Non credo esista qualcosadel genere per il patrimonio artisti-co di nessun’altra città del mondo.La serie era cominciata nel 1973 eda allora – non è ancora terminatama con puntualità procede di an-no in anno; ora è sostenuta dallaBanca Intesa San Paolo – ha censi-to quasi tutti i musei cittadini. Fi-no alla comparsa del primo volu-me del catalogo di Brera, nel 1988

appunto, era costume che lavoridel genere toccassero a uno o piùindividui che per anni si prendeva-no cura della catalogazione loro af-fidata: così era stato per esempiocon il Museo del Duomo o con lapinacoteca del Poldi Pezzoli. Nelcaso di Brera viene varata una nuo-va formula: decine di schedatoriche procedono l’uno indipenden-temente dall’altro, nessuna formadi controllo generale, nessuna bo-nifica a monte delle vicende colle-zionistiche e un curatore di faccia-ta scelto nel personaggio che inquel momento rivestiva, tra televi-sione e mercato, il massimo del-l’autorevolezza: Federico Zeri(1921-1998), a cui spettò in sostan-za solo il controllo della bontà del-le attribuzioni, come se per i qua-dri di Brera si dovessero stilare sti-me o perizie per eventuali venditeo divisioni ereditarie. Nel 1984 erainfatti morto Carlo Volpe e il ruolodi consulente della Finarte per i di-pinti antichi era passato proprio aZeri o a suoi prestanome: si indivi-dua così un singolare legame trapiazzetta Bossi, sede della casad’aste, e via Trentacoste, sede del-l’Electa, che non era più la casa edi-trice di Dario Neri e di Bernard Be-renson, ma non era ancora quelladi Silvio Berlusconi.

I risultati furono immediata-mente evidenti, alla comparsa delprimo volume, dedicato alle scuo-le lombarda e piemontese tra il1300 e il 1535: una periodizzazio-ne di per sé con poco senso sia dalpunto di vista della storia che daquello della storia dell’arte. I venti-cinque autori del libro erano gene-ralmente troppo impegnati in pro-ve di presenzialismo su più scena-ri non solo milanesi per dedicarsicon il dovuto rigore alla prova fati-cosa, e spesso disperante, costitui-ta dalla scheda di catalogo di unmuseo: la carta di identità che de-ve accompagnare un’opera, si spe-

ra, per decenni, all’interno di unrepertorio ragionato e coerente.

Si varava anche, in quell’occasio-ne, l’idea di affidare a giovani veri,al di sotto cioè dei trent’anni, la ste-sura di alcune schede: di per séuna scelta lodevole se accompa-gnata da adeguati impegni pedago-gici. Così non è stato e intorno al-l’Electa di quegli anni si mette apunto la figura dello schedatore:poco retribuito, sempre disponibi-le, di rado competente, bisognosodi farsi notare. Forse qualche «no,grazie» in più, qualche «magariun’altra volta» avrebbe preservatoda quello che è venuto dopo.

Infatti lo schema adottato nelcatalogo di Brera è stato replicatoinnumerevoli volte (non solo a Mi-lano). E l’abbassamento degli stan-dard, all’interno della stessa colla-na, è sotto gli occhi di tutti: dallefotografie alla redazione dei testi,agli indici. In quella Milano lì infat-ti le case editrici cominciavanoprogressivamente a rinunciare airedattori interni. I cataloghi deimusei dovrebbero essere libriscientifici: provare per credere autilizzare i volumi sul Museo Ba-gatti Valsecchi alla ricerca degliscioglimenti delle abbreviazionibibliografiche in coda alle schede.Non ci sono più. Per distrazione?Per sciatteria? Quello che conta èsolo l’involucro esterno: il libro as-somiglia a quelli originari, e tantobasta alla civiltà dell’apparire.

Distruzione del CastellazzoUn paio di istantanee per chiude-re il decennio degli Ottanta. Le sa-le di Brera, con le pareti ancoratutte chiare – non l’arlecchinata dioggi –, ridotte a ospedale: le tavoledipinte distese sui cavalletti comemalati in settori del museo preclu-si al pubblico, dietro transenne dicellophan. La temperatura era al-l’improvviso cresciuta, gli allarminon erano stati tempestivi, la so-printendente, se non ricordo ma-le, era all’estero, mi pare in Ne-pal… Di rigore non fare parola del-l’avvenuto. Per fortuna ci fu an-che chi, per questo e altri malannidi Brera, non ebbe paura di scrive-re che «si vergognava» di fare par-te di quella Soprintendenza. Inter-venne persino una sorta di consi-glio di disciplina del Ministero deiBeni Culturali di fronte a quellaprova di «disfattismo» della funzio-naria coraggiosa. Per qualcuno dinoi Maria Teresa Binaghi, che ave-va conosciuto ben altre conduzio-ni dell’ufficio, ben altre forme disenso dello Stato, diventava inve-ce un riferimento nella città sem-pre più smarrita.

Un’altra immagine invece ri-guarda il settore, che sarebbe di-ventato sempre più importante,della storia del collezionismo. Glistorici dell’arte infatti cominciava-no a riflettere – dopo che FrancisHaskell aveva inaugurato nuoveforme di pensiero per rivolgersi alcampo figurativo, subito intese emesse alla prova dalla sapienzastorica di Paola Barocchi – sulleforme di collezionismo del passa-to. E a Milano ancora sopravvive-vano, e sopravvivono, contesti na-turalmente alti, dalla stratificazio-ne secolare. Fino al 1989 uno diquesti era, alle porte della città, lavilla del Castellazzo, dai sontuosiinterni e dal parco mirabile, cele-brata nei Mémoires di Goldoni enei carteggi di Canova. Tutto inquell’anno è stato smantellato edisperso, salvo l’approdo smarritodi alcune sculture del Bambaia –dei capolavori, per fortuna notifi-cati nel primo Novecento – nelleraccolte civiche di Milano, tramitela mediazione di una casa d’aste.Sui giornali neanche lacrime dicoccodrillo per descrivere l’acca-duto, solo il plauso per l’operatodel Comune. Si era ormai alle so-glie di Tangentopoli; sui muri del-la città gli spray scrivevano «Di Pie-tro facci sognare». Ma non sareb-be cambiato nulla.

1- continua

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4) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

di Nicola Bertasi

Da Milano siamo partiti in tanti ne-gli ultimi anni. Qualche mese fa contavo, fra imiei amici, quanti avevano lasciato la città percercare lavoro, studiare e vivere altrove. Unapiccola diaspora. La metà quasi aveva emigra-to, stufa davvero di una metropoli di un milio-ne e mezzo di abitanti che giocava a fare la pro-vincia culturale del mondo, la città disumana,un grande stage non pagato: razzista, statica,mafiosa, insensibile, volgare e poco diverten-te. Ma non è possibile dicevamo, questa cittàmedaglia d'oro alla resistenza, deve rialzarsi.

Così non avevo abbandonato Milano. Econ me altri, incontrati in tante città europee.Tutti quelli che partivano poi tornavano nellepause di lavoro. Ci incontravamo davanti alRattazzo a scherzare, alla cascina Torchiera,all'Isola a difendere la Stecca degli artigiani, aballare nei circoli Arci che lottavano per nonspegnere la musica nonostante Decorato, da-vanti alla Darsena guardando i topi che man-giavano rifiuti sotto gli occhi increduli dei tu-risti convinti di essere nel pieno centro diuna metropoli europea. Rifiutavamo l'ideache la città potesse continuare a essere tratta-ta come una grande impresa, appannaggiodei cortigiani del re. Si parlava e si danzava,in un odioso silenzio istituzionale pieno dinebbia, de frecc e de scur.

A novembre le primarie hanno scelto Pisa-pia, candidato sindaco di questa città. Versomezzanotte ci siamo ritrovati all'Arci Bellez-za, storico circolo milanese, a sperare di cam-biare Milano (e anche gli sconfitti alle prima-rie hanno sentito la necessità di unire le for-ze, mettendosi a disposizione con l'obiettivocomune di sconfiggere la destra). Le personeche ho incontrato quella sera, sulle note diBella Ciao, volevano ridere finalmente. Nonsopportavano più la vergogna di una giuntache attaccava ogni esperimento di partecipa-zione e di libertà, che negava a una generazio-ne il diritto di lavorare, il diritto di vivere enon di sopravvivere.

Pisapia è stato meraviglioso. Uno straordi-nario catalizzatore di energie. Da novembredell'anno scorso, fino a questo incredibilemaggio milanese non si è fermato un attimo eha liberato Milano dal berlusconismo. Manon l'ha liberata da solo. Questa è oggi la vitto-ria di tutti: di tutte le donne di Olivia Gozzano(le fotografie sono pubblicate oggi), delle asso-ciazioni e delle realtà underground, dei dolcicentri sociali milanesi denigrati da altri comefossero peste, dei ventenni che vogliono cheBerlino sia più vicina, dei volontari dei comita-ti Pisapia, degli immigrati che gridavano il pri-mo marzo non c'è Italia senza di noi ma an-che della borghesia illuminata che finalmenteha fatto pesare la forza della cultura come argi-ne alla prepotenza di un potere estremamentepericoloso. Tuttinsieme.

Queste giornate milanesi di festa sono unpezzo di storia in cammino, una vittoria dellapartecipazione. Chiunque è passato da Mila-no i giorni scorsi è partito con il sorriso sullelabbra. Quel sorriso che i milanesi inseguiva-no da decenni.

Questa città si è svegliata. Adesso ci sono ireferendum. Poi dovrà esserci l'Italia.

Giuliano Pisapia ha liberato Milano

dal berlusconismo. Ma non l'ha

liberata da solo. È la vittoria di tutti:

delle associazioni e delle realtà

underground, dei dolci centri sociali

criminalizzati, dei ventenni

che vogliono che Berlino sia più vicina,

degli immigrati che gridavano

«non c'è Italia senza di noi»,

ma anche della borghesia illuminata...■M

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1-2: la Volata, bici & sorrisiinvadono le strade di Milano(Mattia Velati/Luz Photo);3: pupazzi vicino al palcodella festa (Velati/Luz Photo);4: Giuliano Pisapia(Velati/Luz Photo);5: un volontario dei comitatiPisapia (Nicola Bertasi/Miciap.com);6-7-8-9-10: la piazza in festa resisteal temporale e ringrazia Gigid’Alessio per aver abbandonatola Moratti il giorno precedente(Velati/Luz Photo);11: un tappeto di ombrelli pocoprima che spuntasse il doppioarcobaleno (Bertasi/Miciap.com);12: una nuotata liberatoria a piazza

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ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (5

Fontana (Bertasi/Miciap.com);13: Milano liberata(Alfredo Bosco/Miciap.com);14: tempo di cambiare(Bosco/Miciap.com);15: un bacio (Velati/Luz Photo);16-17: Pisapia è sindaco!(Velati/Luz Photo);18: la festa in piazza del Duomo(Velati/Luz Photo);19: si balla davanti all’università(Bertasi/Miciap.com);20: i fuochi d’artificio sono arrivatidi sorpresa (Velati/Luz Photo);21: arancioni fuori e rossi dentro(Velati/Luz Photo);22: la festa a piazza del Duomo(Velati/Luz Photo)

23: a piazzadel Duomo(Velati/Luz Photo);24: è fatta!(AlfredoBosco/Miciap.com);25: a piazzadel Duomocon il cartellone«Game over»(FilippoCeredi/Miciap.com)

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6) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

■ «IL BENE SIA CON VOI!», NOVE RACCONTI DELLO SCRITTORE UCRAINO ■

Vasilij Grossmaneremita nel ’900

di Enzo Di Mauro

Dei nove racconti in-clusi nel volume Il bene sia convoi! («Biblioteca» Adelphi, tradu-zione di Claudia Zanghetti, pp.253,€ 19,00) solo tre erano già sta-ti pubblicati in italiano, a cura diMario Alessandro Curletto nel1991 per il Melangolo, e precisa-mente «Fosforo», «L’inquilina» e«Mamma». Datato 1962, è proprio«Fosforo» a offrirci le prime, essen-ziali coordinate intorno al suo au-tore che, intanto, predilige sem-pre lo spunto autobiografico, qua-si che il pezzo narrativo debba ave-re di norma il tratto nervoso eacre, in presa diretta e perciò og-gettivato, del reportage. In questocaso si tratta della memoria super-stite e assai minuziosa di una lon-tana e disperante esperienza di la-voro – che potremmo definire for-zato, sebbene il termine sia quiinesatto e ambiguo – nelle minie-re del Donbass. Il chimico VasilijGrossman evoca non tanto se stes-so, il suo dolore e la sua solitudi-ne, quanto il più sfortunato tra isuoi amici di allora, tuttavia il soloche di lui continui a preoccuparsisenza nulla potersi attendere incambio. È la storia di un uomobuono e di una lunga dedizione.Krugljak – così si chiama – è parte,secondo lo scrittore, di una comu-nità di uomini che in potenza po-trebbero salvare il mondo. Sonocoloro i quali, «eremiti del ventesi-mo secolo», più «non vivono nellecelle dei monasteri, nelle grotte,in un eremo in mezzo ai boschi onel deserto. Per questo si ha l’im-pressione che non ce ne siano, nelnostro mondo civilizzato. Ma nonè così. Sono tanti. Più che al tem-po dei martiri cristiani. Le loro cel-le sono mimetizzate, vivono spar-si nelle città del mondo moderno,negli appartamenti in coabitazio-ne, per le strade di Mosca e diKiev, faticano nelle fabbriche, la-vorano nei ministeri, fanno gli im-

bianchini. Portano giacca, soprabito e bustine di astrakan».È questa, se vogliamo, la riflessione che attraversa tutta l’opera di

Grossman, illuminandola, nutrendola e compattandola in direzione diuna morale laica, asciutta, mai esacerbata o esagitata. Questa sua mora-le è il perno della forma e dell’andatura stilistica di cui si diceva all’inizioe che ritroviamo, qui, nel racconto più lungo, quasi un romanzo breve –quello che dà il titolo all’intera raccolta – con quel punto esclamativoche non ha niente di normativoed è semmai il segno di un di piùdi tenerezza e di fraternità. A qua-si trent’anni di distanza da quellodi Osip Mandel’štam, il viaggio inArmenia di Grossman esibiscequella medesima visione geologi-ca, stratificata, di un paesaggio im-mutabile, resistente, di arcaica bel-lezza. Tutto è pietra, polvere d’os-sa, scheletri di montagne e di cat-tedrali, piatto detrito che senza vo-lere tende al cielo, foglie che paio-no di sasso, pecore che paiono an-ch’esse spuntare dalla terra a mac-chiare di movimento l’immobile,l’immoto. Erevan, la capitale, è po-vera in superficie e bellissima nelsottosuolo ricco d’antiche e sacrevestigia di civiltà sepolte, indistrut-tibili però a indicare l’inevitabilitàdella persistenza oltre il tempo. Èanche e innanzitutto un testo poli-tico: «Propugnando il nazionali-smo, i reazionari, i conservatoricercano di eliminare, di sradicareda esso il fondamento umano,umanistico. Affermando la supre-mazia del carattere nazionale, ilnazionalismo reazionario ricono-sce solo quanto c’è di esteriore, digenerico nella vita di un paese, edistrugge la profondità dell’essereumano». Armeni ed ebrei: pietre,dunque, di un unico destino, diuna traccia perenne, di un segnoincancellabile. Nello spazio che se-para superficie e profondità, suo-lo e sottosuolo, cielo e terra – in ta-le movimento oscillatorio – si mi-sura lo strappo tra ciò che si perdee ciò che resta.

Va sottolineato, onde evitarefraintendimenti, che nei romanzie nei racconti di Grossman nonv’è traccia di sentimento messia-nico, né di desiderio o d’attesa di

vita ultraterrena, nessuna formadi pulsione mistica li scuote emai li sfiora l’incantamento o,peggio, la nostalgia verso il mitoregressivo e reazionario della San-ta Madre Russia. La freccia dellasua arte non è mai metafisica,astratta o irrelata dall’oggetto os-servato che è poi, semplificando,l’umana condizione, qui e ora esempre, stretta nella morsa dei si-stemi politici forti e della loro de-generazione. Pure, il nutrimentoe la luce di questa prosa è la spe-ranza, sebbene il tempo e le ope-re di questo scrittore (nato nel1905 in Ucraina, a Berdicev, unadelle capitali ebraiche della vec-chia Europa, e morto a Mosca nel1964) vadano a incastrarsi perfet-tamente e tragicamente con i peg-giori e più tempestosi anni dellavita del Novecento. L’epoca deilupi fu detta, ma anche delle scel-te necessarie e radicali e dell’am-biguità e dell’errore – tanto che lasua medesima attività di scrittore

ne risultò dilacerata, come strap-pata di netto a formalizzare le sta-gioni contigue di un prima e diun dopo, però entrambe sortedal ceppo necessario e risolutivodell’Ottobre, dalla sua gloria e in-sieme dal suo ludibrio.

Egli ne evocò dapprima l’epicaaperta al futuro – consentendovi,partecipandovi con chiara co-scienza – e quindi il suo rovescio,la deriva paranoica, sanguinosadello stalinismo. Le due tensionispesso procedettero appaiate. Maintanto, entrato nell’inferno diTreblinka, al seguito dei liberatoridell’Armata Rossa, Grossman con-segnò alla rivista «Stella rossa» pa-role che rimangono indelebili, ine-quivocabili: «Ecco perché mi in-chino una volta ancora davanti aquelli che, nell’autunno del 1942,nel silenzio del mondo che cele-bra oggi a sua vittoria, hanno fer-mato, sulla riva scoscesa del Vol-ga, l’esercito tedesco alle cui spal-le ribollivano fiumi di sangue in-

nocente – davanti ai vincitori diStalingrado, davanti all’Armatarossa che ha impedito a Himmlerdi mantenere il segreto su Tre-blinka». Fino ad allora Grossmanaveva fatto gruppo con la vasta fa-miglia del realismo socialista chepure egli, nella fase successiva, de-rise alla pari di un cartone anima-to di scadente fattura, di una fola,di una fantasticheria ovviamentebugiarda e sentimentale.

Non si pensi a questo scrittore,tuttavia, come a un laico banale eisterilito dalle tante sconfitte, dal-le troppe delusioni. Si legga, inve-ce, il meraviglioso racconto intito-lato «La Madonna Sistina», del1955, proprio l’anno in cui le auto-rità sovietiche decisero di restitui-re alla pinacoteca di Dresda il ca-polavoro di Raffaello. «Penso – an-nota – che questa Madonna sial’espressione più atea della vita, diquell’umano a cui il divino nonpartecipa. E penso anche cheesprima non solo l’umano, ma

quanto di altro esiste sulla terra,fra gli animali, ovunque gli occhidi una giumenta, di una mucca,di una cagna che allattano ci lasci-no intuire e cogliere l’ombra mira-bile della Madonna». Nulla ellapuò fare per sottrarre il bambinoalla sua sorte, alla sua Croce. Nel-l’offerta sconvolgente e scandalo-sa di quella madre, Grossman ve-de protendersi ad afferrare la vitti-ma le braccia tenebrose dei carne-fici di Treblinka. Quella donna equel figlio egli li ha visti dentroquel recinto spinato, dentro le ba-racche di legno, a dire di un marti-rio e anche dell’indissolubile in-treccio di vita e libertà, emblemadell’umano che vivrà in eterno.Anche alla luce di ciò, persino la vi-ta difficile a cui fu costretto appar-ve allo stesso Grossman comeuna cosa trascurabile. Difatti eglidiventò un invisibile, e i suoi librismisero di uscire in patria e nulladi ciò che aveva fatto e pensatoriuscì più a essergli utile.

La freccia della sua prosa è puntata costantemente sull’umana

condizione, stretta nella morsa dei sistemi politici. Dinanzi

al nazismo e allo stalinismo, ha dato voce a una miriade

di «eremiti» moderni, portatori di una tesissima morale laica

Casa comune per il Narkomfin,Mosca 1930

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ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (7

BERSAGLIF I L O S O F I A

L’interiorità itinerantedi Michel De Certeau

di Marco Pacioni

di Stefano Gallerani

Nato nel 1903 a SanPietroburgo da genitori di origineosseta, Gajto (al secolo Georgi Iva-novich) Gazdanov arrivò a Pariginel 1923, sopravvissuto ai rivolgi-menti della Rivoluzione d’otto-bre, alla prima Guerra Mondialee alla scomparsa dei parenti. Ap-pena ventenne, c’è da credereche vagasse per le vie della capita-le francese simile a uno spettrodallo strano accento, bianco co-me l’Armata tra le cui fila avevacombattuto, niente più che adole-scente, a fianco di democratici,socialisti e rivoluzionari ostili allacorrente bolscevica del PartitoOperaio Socialdemocratico; pre-standosi ai mille mestieri cheriempivano le sue giornate insie-me alle lezioni di storia alla Sorbo-na, Gazdanov divenne prestouno dei più importanti scrittoridell’emigrazione russa, ma per-ché la sua opera venisse pubblica-ta e ufficialmente riconosciuta inpatria avrebbe dovuto aspettarevent’anni dalla morte (avvenutanel 1971), quando disgelo e pere-strojka spezzarono l’ostracismocensorio che ne aveva impeditola diffusione. Fatalmente, Storia ebiografia non sembrano potersiscindere nel suo caso, e però unalettura eccessivamente determini-sta spiega solo parzialmente le ra-gioni del lungo apprendistatoche lo ha reso un autore moltodifficile da decifrare entro i termi-ni angusti di una letteratura na-zionale: come il quasi coetaneoNabokov, la dimensione di esulene connota la trasversalità e icrucci personali, ma a differenzadi quel geniale e bilioso architet-to di strutture concentriche,Gazdanov escogitò, per ricrearetanto la propria identità che la propria lingua, di diventare un altro sen-za arrivare all’estremo di mutare codice e registro sintattici; forse è ec-cesivo affermare, come è stato fatto, che il suo fu un lungo tour de for-ce per diventare uno scrittore francese di lingua russa, tuttavia, senza

sondare i termini di questo pecu-liare sincretismo si faticherebbenon poco a trascrivere la cifra deisuoi libri.

Oggi, poi, presentando la pri-ma edizione italiana di Strade dinotte (traduzione di Claudia Zon-ghetti, Zandonai, pp. 201, €

20,00) – il suo quarto titolo tra inostri scaffali, dopo Contro il de-stino, per Mondadori nel ’52,Una serata da Claire, per Ibis nel’96, e Il fantasma di AlexandreWolf, pubblicato nel 2002 da Vo-land –, il serbo Dragan Velikic faleva su questo duplice dato ripor-tando parole dello stesso Gajto(«ogni uomo possiede due vite,quella che sta vivendo e quellache avrebbe dovuto vivere») e unbreve profilo del suo biografoamericano, lo slavista Lászlo Die-nes: «A Gazdanov fu aliena ogniforma di autocelebrazione. Eglinon si prendeva mai troppo sulserio, contrariamente a quantosuccede alle persone di scarsa in-telligenza. Nonostante parlassedi “attacchi di grafomania”, co-me era solito definire in terminiironici la propria passione per lascrittura, egli era tuttavia piena-mente consapevole del valore del-la sua opera». Una chiave bipola-re che aiuta a comprendere le dif-ficoltà che hanno da sempre ac-compagnato l’affermazione diuno scrittore considerato tra i piùsignificativi della sua generazio-ne, ma anche un biglietto d’in-

gresso a quell’universo reale e psi-chico che Gazdanov ritrasse, sul-la scorta della sua esperienza per-sonale di tassista, proprio in Noc-nye dorogi (1941). La Parigi checosì scopriamo – in un viaggio aubout de la nuit che ricorda davve-ro, in scala, le peregrinazioniamericane di Humbert Humbert– è il rovescio tenebroso e menta-le delle esistenze mancate, aborti-te e dissipate che ne costituisco-no l’intelaiatura: atrabiliare e ap-passionato Orfeo della ville lumie-re, l’io narrante non si limita a rac-cogliere brani e ritrarre vite illu-stri di uomini sconosciuti, perchéa queste intreccia inscindibilmen-te la propria, riflettendone ildramma, le tensioni e la banaleunicità esemplare: «Mi ostinavo anon comprendere passioni e pul-sioni che non provavo in primapersona; dovevo compiere ognivolta uno sforzo enorme, peresempio, per non dare degli eme-riti scemi indegni di pietà e com-patimento a coloro che – spintida un fuoco cieco e incontrastabi-le – dilapidavano le proprie so-stanze fra carte e alcol. Solo per-ché per puro caso, io non regge-vo gli alcolici e al tavolo verde miannoiavo a morte […]Chissà, for-se anche nel caso di altre passio-ni che non concepivo sarebbe ba-stato un mutamento minimo eimpercettibile per comprenderle,per subirne l’effetto devastante ediventare – a mia volta – oggettodella commiserazione altrui».

Forte di questa confessione,che si trova quasi all’inizio delleStrade, il lettore è messo nella

condizione di aprire anche a casoun romanzo che scorre fluido dal-la prima all’ultima pagina, perva-so di pietas e sentimento per lecose minime che sono, delle mag-giori, l’essenza più intima e vera.Molti essendo i personaggi che iltassista/Gazdanov incontra nelsuo turno di lavoro, molte sonoanche le vicende che si annoda-no intorno alla sua – di cui ci ven-gono restituiti, avanti e indietronel tempo, dettagli, indizi e turba-menti. Nel demi-monde di Mont-martre e Montparnasse, dei Gran-ds Boulevards e degli Champs-Élysées (ma anche dei «quartiericupi e pittoreschi della periferia oquelli poveri del centro») si riflet-te tutto un periodo tragico dellavita russa e non solo: principi de-caduti, nobildonne sul lastrico, fi-losofi platonici ed etilici; e poioperai, baristi, prostitute e mini-stri, ciascuno, in un modo o nel-l’altro, giunto all’ultimo stadiodel degrado sociale: «Non mi èmai riuscito di salvare qualcuno –così in chiusura di uno dei capito-li centrali del libro –, di trattener-lo sull’orlo di quel vuoto mortaledi cui avevo percepito la vicinan-za – gelida – così tante volte. Perquesto ogni giorno che mi svegliosalto giù dal letto e comincio a fa-re ginnastica. Ancora oggi, però,quando resto solo e non ho né unlibro che mi difenda, né una don-na con cui parlare, né fogli di car-ta liscia su cui scrivere, sento sem-pre accanto a me, senza bisognodi voltarmi e di muovere un mu-scolo, lo spettro della morte – irre-versibile – altrui».

Una Parigi anni trentafirmata da Brassaï

Se nel secondo Novecento c’èuna figura di intellettuale che hasaputo tenere insieme una gran-de varietà di discipline indirizzatea una coerenza di temi di ricercasviluppata in sintonia con gli inte-ressi di un percorso spirituale,questa figura è Michel De Certeau(1925-1986). Dopo l’entrata nellaCompagnia di Gesù, si orientaverso la ricerca storica e la misti-ca. Ne scaturiscono lavori impor-tanti quali le edizioni della Guidaspirituale (1963) e della Corri-spondenza (1966) del mistico delseicento Surin. Fondamentale,nello stesso periodo, è l’entratanella scuola freudiana di Lacandove rimarrà fino alla chiusura nel1980. Diverse edizioni francesi ele relative traduzioni in italianomostrano un’intensificazione d’in-teresse per i suoi scritti, compresiquelli di sociologia politica e reli-giosa come La presa di parola(Meltemi, 1997), Lo straniero ol’unione nella differenza (Vita ePensiero, 2010) e il monumenta-le studio sulle strategie psicologi-che della vita quotidiana L’inven-zione del quotidiano (EdizioniLavoro, 2010).A sanzionare l’attenzione per DeCerteau vi è ora una raccolta disaggi Sulla mistica (a cura di Dome-nico Bosco, Morcelliana, pp. 270,€ 20,00). Sono testi che gravitanoattorno alla sua opera maggiore,Fabula mistica. La spiritualità reli-giosa fra il XVI e il XVII secolo, ri-stampata di recente (Jaca Book,2008). Scritti rappresentativi del-l’intreccio disciplinare della suaricerca, nei quali si nota la grandecapacità di De Certeau di situarsial di là della confessione cattolica,ma anche dello scientismo arido.L’abilità di innervare i suoi studi diuna sensibilità spirituale rivelataper accenni e mai invadente. Nelsuo ricordo in morte Julia Kristevaha scritto che De Certeau sapevaparlare del mistico «senza neces-sariamente chiamarlo Dio».In questi scritti allestiti per i letto-ri italiani De Certeau presenta lamistica come dialogo con l’Altro,cammino che si conosce soltan-to mentre si percorre. Per De Cer-teau nella mistica «è capitale lanozione di itinerario interiore»,che come tale mette implicita-mente in crisi la stabilità dell’io.In altre parole, la mistica svelache il soggetto e anche l’oggettoe il luogo non sono dati, ma so-no da farsi. L’interiorità itineran-te esprime il paradosso di unasoggettività che deve costante-mente esporsi all’alterità.De Certeau, attraverso l’enfasi sul-l’Altro e sulla differenza, mostra diessere pienamente dentro il fuo-co del dibattito filosofico e cultura-le francese ed europeo dagli annisessanta alla fine degli ottanta.Ma nella sua opera l’originalitànon va cercata nella definizioneteorica di nuove categorie. Il gran-de contributo di De Certeau statutto nell’applicazione di idee filo-sofiche, sociologiche e psicoanali-tiche che producono risultati attra-verso l’esperimento della ricercastoriografica. Sperimentazioneche istituisce contiguità con l’espe-rienza della mistica. Per tale con-nubio tra pratica ed esperienza,un’elaborazione stilistica della suaricerca, fino a una vera e propria

poetica della scrittura, non posso-no essere considerate indifferenti,ma anzi parti integranti di un ap-proccio nel quale conoscenza edisciplina sono inscindibili. DeCerteau è stato anche un grandeprosatore.«Per evitare l’alternativa tra un"essenziale" che finisce per svani-re nel non detto e i fenomeni stra-ni che non si possono isolare sen-za votarli all’insignificanza, biso-gna ritornare a quel che il misticodice della sua esperienza, nel sen-so vissuto dei fatti osservabili».Per questo, scrive De Certeau nelsaggio in cui spiega la scelta deltitolo della sua opera maggiore,nel mistico si impone la fabulacioè il racconto di ciò che è acca-duto, prima di qualsiasi verificaepistemologica. La dimensionefavolistica ci ricorda che se da unlato la mistica appare riluttantealla scienza sperimentale, dall’al-tro lato essa si basa su fatti, even-ti, effetti e affetti cioè su accadi-menti positivi. Il racconto, la con-fessione, il dialogo, il diario, ilframmento poetico così comel’indagine dello studioso devonosaper entrare in questo parados-so. De Certeau rivela una capaci-tà straordinaria di scrittura per unfenomeno, come quello del misti-co, che flirta e al contempo resi-ste al linguaggio. Lo studioso fran-cese riesce a sgranare una seriedi situazioni esemplificative chemodulano l’indicibile quasi dacostringerlo a lasciare tracce. Pro-prio a causa della sua indicibilitàil mistico rende necessario sfida-re il linguaggio, avventurarsi nelpoetico. De Certeau sa inoltrarsiin questa sfida senza venire me-no al compito di una scritturasaggistica che deve anche spiega-re, ricostruire e dunque mantene-re un certo distacco.Al di là dell’abilità di scrittura, for-se l’aspetto più interessante deglistudi di De Certeau è l’attenzionealla permanenza nel mistico delnegativo che nemmeno l’eviden-za degli accadimenti può cancella-re. «Il mistico non identifica l’es-senziale nei "fatti" che hannoinaugurato o costituiscono le tap-pe di una percezione fondamenta-le. Né l’estasi, né le stigmate, néqualcosa di eccezionale sono es-senziali». La mistica non può maidiventare completamente un di-scorso positivo e perciò stessoistituzionalizzarsi. Gli è dunquecostituzionale l’eterodossia sia neiriguardi della confessione di fedesia nei riguardi della filosofia edella scienza. A riparo dall’Altro, leortodossie religiosa e scientificanon possono neutralizzare com-pletamente la mistica nei loro lin-guaggi e per questo, come notaDe Certeau, la scienza e la confes-sione religiosa pongono il misticoai margini alternando controllo econtatto con esso. L’oscillare traammissibile e inammissibile per-mette di situare la mistica soltan-to in un luogo che non le appartie-ne. Quello mistico è un processosemiotico che rinvia di segno insegno e non si arresta mai in unsignificato definitivo. De Certeauha avuto tra gli altri il grande meri-to di mostrare che la mistica nonha soltanto a che fare con la per-cezione dell’infinito, ma anchecon l’infinitarsi del senso.

GAZDANOV■ «STRADE DI NOTTE» DEL RUSSO ESULE A PARIGI GAJTO GAZDANOV, 1903-’71 ■

Pietas di un taxista notturno

Principi decaduti,

nobildonne

sul lastrico,

platonici etilici;

e poi operai,

baristi, prostitute,

ministri...

Sono i figuranti,

russi e non,

che popolano

la Parigi di notte

in questo romanzo.

Cancellato in patria

e riscoperto

nella Perestrojka,

Gazdanov

fu uno scrittore

«buono», e apolide

linguistico

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di Andrea Di Salvo

Ancora prima di imboccare icancelli del Chelsea Flower Show, il giardi-no a forma di slitta, guscio o gondola rosache dir si voglia – sospeso in cielo dal brac-cio di una delle gru che solitamente servo-no a tirar su palazzi – ci avverte che la to-pografia dei giardini attorno e dentro lanostra bulimica società evolve risponden-do veloce e utilizzando ogni residuale di-mensione. L’Irish Sky Garden, questa mac-china-giardino volante ispirata al Risto-rante nel cielo di Avatar, proietta una sem-preanelata visione dall’alto su un arcipela-go di piante disseminato di 25 microsta-gni. Dopo gli spazi recuperati dei tetti-giar-dino, quelli verticali delle pareti vegetali ogli interstiziali del Terzo paesaggio, il biso-gno e l’estetica del verde si propongononegli spazi sospesi della prospettiva aerea,paradossalmente significando forse nellamappatura del reticolo a sommatoria ri-combinante dei microgiardini di ciascu-no, la consapevolezza del loro complessi-vo valore di riserva ecologica (di un’ecolo-gia anche della mente) per il pianeta urba-nizzato. Al di là delle fantasmagorie di col-lezioni e novità di piante presentate nelGrande padiglione centrale, dove rifugiar-si quando la londinese pioggia di maggiosi fa scroscio, molti degli interventi creati-vi visti nella settimana dal 24 al 28 nei giar-dini a tema o in quelli Show nella mostradi orticoltura più rinomata del mondo, di-segnano appunto soluzioni prototipaliper prefigurare la via di uno sviluppo dellerisorse durevole e sostenibile, incorporan-do attenzione e sensibilità ambientali nel-la dimensione estetica. Ricostituzione dihabitat di biodiversità, autosufficienza

energetica, ma anche utilizzo di spazi-giardino per produrre ciboovunque, sia pure in ambito verticale urbano come nel sistema inte-grato di approvvigionamento idrico-energetico del giardino B&Q.Riuso straniante nel segno e riciclo scultoreo di materiali di recupe-ro nel New Wild Garden, di Nigel Dunnett (dal tetto verde di un con-tainer dismesso l’acqua piovana è convogliata nel gioco di una seriedi vasche fino a uno spazio scandito da ondulati muretti a secco coninserti di materiali d’uso quotidiano a farne rifugio per la entomofau-na che frequenta i fiori del giardino; rivisitazione attualizzata di quel-

lo naturalistico vittoriano).Scenografie aperte sui due lati (22 me-

tri x 10), i 17 Show gardens sono il cuoredell’esposizione. Giardini spettacolari,senza tema imposto se non quello indot-to – talvolta con mano pesante – dal man-dato degli sponsor. Grandi società di inve-stimento, banche, giornali come The Dai-ly Telegraph e, da quest’anno, The Times,Uffici del turismo, produttori di champa-gne, piuttosto che di sistemi energetici na-turali, Fondazioni come quella per la Ri-cerca sul Cancro (che nel «suo» giardinoaffronta, con Robert Myers, il tema del so-pravvivere, astratto in un impervio pae-saggio costiero). Sistema di sponsorizza-zioni che la dice lunga sulla penetrazionenella società (per ora anglosassone) dellaconsapevolezza che, visto il complesso si-stema di valori incorporato dal giardino,ripaga investire in costosi progetti tempo-ranei e spettacolari.

In ogni caso, come confessa CleveWest, che ha disegnato il giardino del Dai-ly Telegraph, vincitore della principale trale quattro categorie presenti nella mostra,«dopotutto, Chelsea è … teatro». E la suamessa in scena è un giardino di rovine do-ve affronta struttura formale (le colonnedi cemento tarsiato di terracotta di SergioBottagisio e Agnès Decoux) e imperma-nente intervento di ricolonizzazione di uneclettico mix di piante pioniere e vegeta-zione strutturata. Mentre l’elegante inter-vento minimalista di Luciano Giubbileiamministra sul tema del mutuo operaredi natura e uomo i contributi del padiglio-ne sensoriale animato al vento di KengoKuma e le sculture organico geologiche diPeter Randall-Page.

Metagiardino ideale, con il suo corolla-rio di suggestioni, il Chelsea Flower Showè luogo di disseminazione di idee per tut-ti, stimolo ad ampliare lo spettro della spe-rimentazione di varietà e combinazionidi piante; a integrare in una visione com-positiva del giardino elementi focali e«sculture» da esterno (fino a cascate e in-stallazioni sonore di luce e acqua); a molti-plicare i contesti e gli usi della nostra coa-bitazione con il verde con l’affermarsi diveri e propri – ripensati – pervasivi giardi-ni «da interno».

Con una gestualità concentrata e decisa, Carlfriedrich Claus

si è mosso tra Pollock, Mathieu, Klee e Wols in cerca di segni

«alchemici» che dicessero tutto il suo ascetismo universalista

L’avvio è una macchina-giardino volante ispirata ad «Avatar»:

il che la dice lunga sulla ricerca di varietà e combinazioni

di piante e sistemi, di cui lo «Show» è una delle grandi vetrine

di Davide Racca

Un video muto ripren-de un uomo dietro una lastra di ve-tro su cui, con entrambe le mani, si-multaneamente, scrive e traccia se-gni. Con una gestualità indecifrabi-le, concentrata e decisa, si compo-ne una trama che infittisce entram-bi i lati della superficie trasparente.L’uomo, che quasi scompare dietroi suoi segni, è Carlfriedrich Claus.

Poeta, disegnatore, incisore, ri-cercatore del suono, filosofo e sag-gista, Claus nasce ad Annaberg nel1930, e muore nel 1998 a Chemni-tz, dove lavora solitario, non lonta-no dalla sua città natale, e dove,l’anno successivo alla sua morte,viene fondata la Fondazione Carl-friedrich Claus-Archiv. Proprio gra-zie alla collaborazione della Fonda-zione, l’Akademie der Künste diBerlino ha reso omaggio a un arti-sta che dal ’91 ne viene eletto mem-bro per le arti plastiche, in quantofigura-koiné di due mondi – est-ovest – fino ad allora nemici.

La mostra, che sarà ripresenta-ta, sebbene in versione ridotta, alKunsthaus Zug nel prossimo inver-no, e in primavera 2012 a Dresda,si intitola Carlfriedrich Claus Ge-schrieben in Nachtmeer. Il nome,«scritto nel mare notturno», è il tito-lo di un piccolo disegno del ’60(perlopiú i disegni di Claus sono dipiccolo formato), dove una fittissi-ma trama di inchiostri nero e blucampiscono una superficie mag-matica e omogenea.

Nella prima sala si coagula l’atti-vità degli anni cinquanta, dove, infotografie, poesie sperimentali, dia-ri di scrittura automatica, Claus co-mincia a enucleare temi e principiche ispireranno l’opera di età ma-tura. Argomenti e autori di riferi-mento resteranno per lui la Kabba-lah, la mistica di Paracelsus, l’an-troposofia di Rudolf Steiner, l’ope-ra di Ernst Bloch (con cui intratter-rà una fitta corrispondenza episto-

lare). Essi incroceranno, sul pianoformale, l’astratto macrocosmo diPollock, la gestualità di Mathieu, lacolta grafica di Klee, il microcosmoinforme di Wols. Tutto questo vie-

ne elaborato da Claus sul piano della materialità della lingua,del grafema, all’interno di un Produktzionsprozeß, che, comedichiarò l’artista nel ’76, conduce «dal cosciente al non-anco-ra cosciente». Nel ’61 Claus scopre le potenzialità della cartatrasparente, la cui opacità permette una prospettiva nuova dilavoro, un’azione di doppia scrittura su entrambe le superficidel foglio. Grafemi e piccole campiture di colore, da un lato,intercettano quelle del lato opposto provocando stratificazio-ni e velature. Così, nel ’63, realizza un ciclo di Spachblätter(fogli di parole), dal titolo Geschichtsphilosophisches Kombi-nat, dove inchiostri, perlopiù su carte opalescenti visibili suambo i lati, disegnano opere-oggetto. Forme sfuggenti e cao-tici flussi di citazioni da Thomas Müntzer, Lenin, Gioacchinoda Fiore, tra gli altri, sviluppano temi difficili da enucleare,ma tesi verso un’utopica liberazione collettiva.

Gli anni sessanta non saranno facili per l’asceta Claus. Leautorità della Ddr gli censurano corrispondenze e opere, giu-dicate «antisocialiste» e «antiumaniste». Ma la sua ricercaumana e artistica continua, in direzione contraria all’apatia,alla rassegnazione, al nichilismo. Scopre nel frattempo l’inci-sione, di cui fa proprio il linguag-gio dell’acquaforte per il successi-vo ciclo intitolato Aurora. La tecni-ca dell’acquaforte, nella combina-zione di metallo e solventi acidi,esercita su di lui un potente fasci-no «alchemico» che, tutt’uno coltema del cambiamento universa-le, radicalizza la vocazione univer-salista e umanista di Claus, riassu-mibile nella citazione da Marx, ca-ra all’artista: «Naturaliesierungdes Menschen» e «Humanisierungder Natur» («naturalizzazione del-l’uomo» e «umanizzazione dellanatura»).

Nell’ultima stanza, a chiusuradella mostra, un Lautprozeß, unaregistrazione sonora del 1995, mo-stra un ulteriore campo di ricercadi Claus. Il suono-parola-rumore,che si diffonde nello spazio vuotocome un sottofondo cosmico e pri-mordiale, richiama alla mente il la-voro grafico-pittorico visto in pre-cedenza, esercitando un effetto «si-nestetico» complessivo, in cui la lin-gua, nella sua duplice essenza di se-gno e rumore, riconduce tutto aun’unica azione radicale: l’opera diCarlfriedrich Claus.

Qui sopra,Carlfriedrich Claus,«Durchbruch durchacedia», 1973; sotto,l’Irish Sky Garden

■ UNA VISITA AL LONDINESE CHELSEA FLOWER SHOW ■

Esercizi, con sponsor,per metagiardino ideale

■ OMAGGIO A BERLINO PER L’ARTISTA DI ANNABERG (1930-’98) ■

Claus, grafemi di un asceta Ddr

8) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

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POWERS

di Luca Briasco

Nella prima decadedel terzo millennio, e tanto più do-po l’11 settembre, la letteratura sta-tunitense sembra aver perso in lar-ga misura quella funzione di labo-ratorio del nuovo che pure avevaricoperto, in modo pressoché co-stante, a partire dagli anni sessan-ta. Il romanzo, in particolare, sce-glie sempre più la via di un triplo,possibile ripiegamento: verso ilpassato, attraverso il recupero deimoduli del romanzo storico, utiliz-zato più come macchina finziona-le che come specchio distorto delpresente; verso il futuro, tramiteuna pervicace moda post-apocalit-tica che sembra aver contagiatotanto la narrativa d’autore quantoquella più commerciale e seriale;verso l’unità base dell’istituzionefamigliare, evocata come fonte diogni distorsione e insieme di ognipossibile riscatto. Non sarebbe dif-ficile affiancare nomi precisi perogni tendenza: non ultimi, la JulieOrringer di Invisible Bridge per ilromanzo storico, il Cormac McCar-thy de La strada per il romanzo po-stapocalittico e il Franzen di Liber-tà per la saga famigliare. A questocomplessivo ripiegamento dentromoduli rassicuranti e dotati di unproprio preciso «corredo geneti-co» corrisponde una marcata vo-lontà di andare incontro al lettore,di rispondere alle sue aspettative edi riannodare un patto implicitoche la grande letteratura sperimen-tale, dai maestri del postmodernocome Pynchon e DeLillo fino aipiù temerari innovatori di fine mil-lennio, William Vollmann e DavidFoster Wallace, aveva deliberata-

mente disatteso, chiedendo al pro-prio pubblico di abbandonareogni passività e di accettare la sfi-da di un testo tutto da scoprire einventare durante il processo di let-tura. E soprattutto, costringendoquello stesso pubblico a confron-tarsi con i grandi temi su cui si gio-cherà il futuro della specie: dal do-minio di un’informazione esplosae incontrollata all’emergenza am-bientale (come partita da giocare enon come premessa assente di undisastro sempre già accaduto), dal-la crescente invasività della scien-za ai conflitti su scala globale.

Nella sua ormai lunga carriera,scandita da dieci romanzi nell’ar-co di venticinque anni, RichardPowers ha tenuto alta la bandieradi una letteratura concepita comeperenne scommessa con il lettore;non si è limitato a enunciare i gran-di temi che ossessionano la nostracontemporaneità, e che il roman-zo sembrava aver rinunciato ad af-frontare, chiudendosi in una posi-zione gregaria e di retroguardia;non si è mai accontentato diun’esposizione di stampo didasca-lico e in fondo tradizionale, affi-dando ai soli contenuti l’agganciocon la complessità del presente.Ha invece deciso di portare i con-

flitti all’interno dei suoi libri, incar-nandoli letteralmente nelle com-plesse strutture che popolano lasua narrativa, perennemente gio-cata su un delicato equilibrio tramicronarrazione e storia ufficiale,tra pensiero scientifico e finzioneletteraria, tra memoria autobiogra-fica e racconto d’invenzione. Unatraiettoria, quella di Powers, che èculminata, almeno sul piano del-l’attenzione critica, nel conferi-mento del National Book Awardper il suo penultimo romanzo, Ilfabbricante di eco, ma che avevagià conosciuto una serie di capito-li esaltanti: dalla riversione del mi-to di Pigmalione nel mondo dellereti neurali, in Galatea 2.2, al ritrat-to insieme critico e affascinato delcapitalismo americano attraversola storia di una simil-Procter &Gamble, in Sporco denaro, fino aquello che rimane probabilmente

a tutt’oggi il suo capolavoro e unodei romanzi più importanti degliultimi dieci anni: Il tempo di unacanzone, dominato dalla passionedi Powers per la musica e al con-tempo memorabile ritratto di unpaese attraversato dalla piaga delrazzismo, che si estende senza so-luzioni di continuità dagli annitrenta a oggi.

Ora, con Generosity (Mondado-ri «Sis», pp. 366, € 20,00), Powersaggiunge un altro tassello preziosoalla sua traiettoria creativa, con-centrandosi nuovamente su temiportanti della società e dell’imma-ginario contemporanei. «Generosi-ty» è in realtà il soprannome cheRussell Stone, scalcinato professo-re di nonfiction creativa in uno deitanti college di Chicago, attribui-sce a Thassa Amzwar, sua studen-tessa proveniente dall’Algeria, dacui è fuggita per salvarsi dagli orro-

ri della Guerra Civile; soprannomegiustificato dall’incredibile genero-sità con cui la ragazza si dona aglialtri, dalla felicità assoluta, conta-giosa, spiazzante con cui guarda ilmondo. Ben presto, Thassa divie-ne il centro e il punto di riferimen-to della sua classe di scrittura, e dilì la sua fama involontaria dilaga,andando a intaccare in profonditàle strutture di un paese che, comedice lo stesso Powers, si è ormaieducato all’infelicità e al pessimi-smo della ragione, rinunciando auno dei principi inscritti nella suastessa Dichiarazione di Indipen-denza. Per questa via, Thassa si ri-troverà nelle mani di uno scienzia-to che, dopo una serie di esami, èconvinto di aver isolato in lei lacombinazione genetica della felici-tà, e si trasforma, ora divertita, oraesasperata, in un personaggio datalk show, mentre il suo professo-re e la psicologa del college tenta-no in ogni modo di tutelarla, salvoinnamorarsi uno dell’altra e unirele proprie solitudini.

Fin qui la trama: se Powers si limitasse a svi-lupparla in modo lineare, soffermandosi maga-ri sulla gigantesca macchina massmediaticache cresce attorno a Generosity, il romanzo en-trerebbe a far parte di quelle riflessioni venatedi sarcasmo sulle degenerazioni della societàdello spettacolo che costituiscono il piatto fortedi umoristi come Saunders e Sedaris, o di icono-clasti come Palahniuk. Ma non è questo il casodi Generosity. A Powers non interessa la satira,ma il dilemma che sta alla base del libro: l’inter-rogativo se davvero la felicità possa essere frut-to di una predisposizione genetica – e se quin-di, paradossalmente, il suo valore dirompentesia perfettamente programmabile e prevedibile–, non rappresenta che il punto di partenza peruna riflessione che non può non toccare in pro-fondità il rapporto tra scienza e consesso civile,come anche la possibilità che – ben lungi dalpresentarsi in un numero chiuso ed essere, infondo, la ripetizione di archetipi sempre identi-ci – le storie che ci raccontiamo contengano an-cora uno scarto, un’anima che sfugge a ogni lo-gica, un luogo di spiazzamento e di gioia assolu-ta. In questo perenne interrogarsi, nel continuo

sconfinamento tra racconto puroe divagazione saggistica, confron-to di personaggi e raffinate intru-sioni autoriali, sta la prima ragio-ne del fascino di Powers e dei suoiromanzi. Seguendo il flusso narra-tivo, capita continuamente di im-battersi in frasi come questa: «Arri-vato alla linea del traguardo, il ro-manziere inciampa rovinosamen-te. Anziché inchiodare Pollyannaal tavolo anatomico, capitola. Mi-gliorate pure, dice. Il miglioramen-to non significherà nulla, sulle lun-ghe distanze. Il rimodellamentodella natura umana sarà approssi-mativo e pieno di difetti come i ri-modellatori. Non ci sentiremo maimigliorati. Saremo sempre banditida qualche altro Eden. Il commer-cio dell’infelicità rimarrà un’indu-stria fiorente. Quando la narrativadiventerà reale, alla realtà serviràun ceppo narrativo più resisten-te». In questi passaggi, di concet-tuosità quasi barocca, ma mai gra-tuiti, Powers, più ancora che enun-ciare una tesi, mostra a piene lette-re quello che è il principale obietti-vo della sua scrittura: costringereil lettore a leggere, fermarsi, rileg-gere ancora alla ricerca di un sen-so ultimo che forse è impossibilecogliere; rinunciare alla garanziadi un patto narrativo già sottoscrit-to per avventurarsi in un viaggiosenza certezze, nel cuore di dilem-mi che la letteratura (almeno, quel-la americana) si è lasciata troppocomodamente alle spalle.

Gentile direzione,il 28 maggio scorso è apparso sul-le pagine di «Alias» un articolo afirma di Antonio Mazzotta che ri-porta alcune sconcertanti afferma-zioni, in nessun modo rispondential vero, in merito ad alcune opereesposte nella mostra «LorenzoLotto» in corso alle Scuderie delQuirinale. Mi vedo quindi costret-ta, mio malgrado, ma per amoredi verità, a chiedere al vostro gior-nale una rettifica in base alla leg-ge 416 sull’editoria.Mazzotta scrive: «Sorge il dubbio,soprattutto guardando alla pala diAsolo, che non ci fosse alcun biso-gno di demolire le vecchie e omo-genee ricostruzioni delle esteselacune nella parte bassa, per poirifarle peggio». Errato: la Pala diAsolo è stata, letteralmente, spolve-rata da Antonio Bigolin: si è infattiritenuto opportuno mantenere ilrestauro della Pinin Brambilla ditrent’anni fa. Non si sono neppurtoccate le vernici. Scrive poi Mazzot-ta sulla Pala di San Bernardino:«Per come la conoscevo, mi parestesse benissimo. Ma anch’essaevidentemente è finita nella fami-gerata “rescue list” dei restauri:l’intervento superfluo ha fatto sìche alcuni dettagli come l’angeloin primo piano risultino come sfuo-cati, e in generale la pittura cheprima stava insieme e contenevale forme, si sia leggermente sfalda-ta». Errata anche questa affermazio-ne: nessun intervento ha interessa-to la pala di San Bernardino, comeben illustrato dalla soprintendenzadi Brera durante il convegno che siè svolto di recente a Roma a Palaz-zo delle Esposizioni. E ancora ilvostro articolista Mazzotta: «La pa-la dei Carmini di Venezia, anch’es-sa toccata. Eccome. La ricordo be-ne prima del restauro: in nessunistante di osservazione mi era pas-sato per l’anticamera del cervelloche questa grande tela avesse biso-gno di essere ‘rinfrescata’». Errato:la pala dei Carmini non è stata toc-cata in alcun modo.

Barbara Notaro Dietrich(capo ufficio stampa Azienda Spe-

ciale Palaexpo)

Pala di Asolo – in mostra il cartelli-no dichiara: ‘Il restauro è stato rea-lizzato grazie a/ BNL (logo) grup-po BNP Paribas’. Se ci può esserestato un errore in merito alla crono-logia delle ricostruzioni, è statocausato dalla mancanza nel catalo-go di informazioni a riguardo. Ilrecensore ribadisce la sua persona-le opinione sulla non imprescindi-bilità dell’intervento. Il concetto di‘spolverare’ è ovviamente relativo.Pala di San Bernardino – in mo-stra il cartellino dichiara: ‘Il restau-ro è stato possibile grazie al contri-buto della Fondazione Credito Ber-gamasco’; in catalogo (a p. 114),sotto la voce Restauri, se ne regi-stra uno del 2010-2011. Si è ritenu-to opportuno constatare che l’ope-ra non fosse precedentemente inpericolo, e registrare le proprieimpressioni riguardo all’entità del-l’intervento sull’unico dato disponi-bile: quello visivo.Pala dei Carmini – in mostra il car-tellino dichiara: ‘Il restauro è statorealizzato grazie a BNL (logo) grup-po BNP Paribas’; in catalogo (a p.124), sotto la voce Restauri, se neregistra uno del 2011 ‘con il contri-buto di Save Venice’.

Antonio Mazzotta

LETTEREA D « A L I A S »

LORENZO LOTTOALLE SCUDERIE:CASO RESTAURI

Scampata alla Guerra civile del suo Paese, Thassa Amzwar

irrompe in un college di Chicago con spiazzante e contagiosa

generosità: frutto di «combinazione genetica»? Parte da qui

la ricognizione saggistica di Powers, che usa le trame narrative

per costringere il lettore in un permanente dilemma sociale

Una fotografiadi Diana Scheunemann, da «D. S.»,

Damiani 2005

■ «GENEROSITY» DELL’AMERICANO RICHARD POWERS ■

La felicità-chocdi un’algerina

ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (9

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10) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

■ «HOTEL A ZERO STELLE» DI TOMMASO PINCIO ■

Una stanza d’albergoper pronunciare io

BERSAGLIN O V E C E N T O I T A L I A N O

Parise, una letturadarwinista del mondo

di Raffaele Manica

di Daniele Giglioli

Di uno scrittore ci pia-ce o non ci piace la sua lingua. An-zi, se vogliamo essere precisi, nonpotendo la lingua essere alcunchédi individuale, diciamo che ci pia-ce il suo stile, ovvero l’uso che fadella lingua di tutti, dalla tradizio-ne letteraria al parlato più spiccio.A volte uno stile si lascia descriverefacilmente – quanto più è irto, disolito, tanto meglio è radiografabi-le. Altre volte è più dura, e il più dif-ficile da rendicontare è proprioquello che Enrico Testa ha chiama-to una volta lo «stile semplice», de-finizione che almeno in questocontesto non può che risultare iro-nica. Ma poniamo che ci si riesca,e tuttavia si continui a sentire chemanca qualcosa, un qualcosa chec’è, che è lì, che non è ineffabile enon merita di essere banalizzatosotto l’etichetta della «poesia», delsegreto, del mistero… In mancan-za di meglio chiamiamolo il tono.Cosa sia il tono nel discorso oralelo sappiamo tutti. Diversamenteva per lo scritto, che a rigore non èintonato da nessuno e deve cavar-sela, per far risaltare la valenza (iro-nica, patetica, divertita, sdegna-ta…) dei suoi enunciati unicamen-te attraverso le risorse della parolae della frase. Non a caso d’altrondela teoria letteraria del Novecento,su tante altre cose fin troppo prodi-ga di ragguagli, è quanto mai pove-ra di indicazioni sul punto, con laluminosa eccezione di Bachtin,per il quale l’intonazione, collocan-dosi esattamente sulla linea di con-fine tra il verbale e il non verbale, ildetto e il non detto, è nello scrittonon meno che nell’orale deposita-

ria e responsabile ultima del sensodi qualsiasi enunciazione. Non ca-piamo chi parla se non intendia-mo il suo tono. Non conosciamodavvero uno scrittore se non riu-sciamo a individuare nei suoi testi,al di là o meglio attraverso le solu-zioni formali cui ricorre, un’intona-zione comune che è una presa diposizione esistenziale, assiologicae ideologica nei confronti della lin-gua da cui preleva e di quelli delmondo di cui parla. Con il corolla-rio, prudente ma nel complesso af-fidabile, che quanto più uno scrit-tore ha un tono riconoscibile, tan-to più è un vero scrittore, qualcunocioè che ha forzato la lingua di tutti– senza necessariamente usarle vio-lenza esplicita – a produrre effettidi senso, di emozione e di cognizio-ne che fino a quel momento le era-no rimasti ignoti. E per non riman-dare ancora l’entrata in argomentodirò che ciò che rende peculiare lascrittura di Tommaso Pincio è pro-prio la sua unità di tono, inconfon-dibile e perfettamente registrata.

Lo si vede bene in questo ultimoHotel a zero stelle Inferni e paradi-si di uno scrittore senza fissa dimo-ra, Laterza «Contromano», pp. 229,€ 12,00). In apparenza si tratta diuna raccolta di saggi, tenuti insie-me da una cornice quadripartita.Pincio, che viaggia molto e amapiù di ogni altra cosa le camered’albergo, immagina di essersi co-struito un hotel tutto suo in cui sog-giornano scrittori che gli sono caricome, nell’ordine, Parise, Greene,Kerouac, Fitzgerald, Simenon, Fo-ster Wallace, Dick, Landolfi, Melvil-le, Pasolini, García Márquez,Orwell, ma da cui transitano ancheWarhol e Boetti e Burroughs e tantialtri. L’albergo è a quattro piani,ognuno corrispondente a un diver-so regno dantesco: la selva oscura

(ambiguità, menzogna, smarrimen-ti), l’inferno («lo spettro orrorificodel fallimento»), il purgatorio (la re-altà non più sentita solo come car-cere ma come possibilità in diveni-re) e il paradiso (la necessità di farefronte al non senso e alla morte).Saggi divaganti e spesso eccentrici,così che non è raro che nella stan-za di uno scrittore si parli per lamaggior parte del tempo di tutt’al-tro, intelaiati per di più sopra uncontinuo ricorso al registro auto-biografico, grazie al quale i lettoridi Pincio troveranno vicende giànarrate in altri libri, e che costitui-sce, si direbbe, ben più della corni-ce a tratti un po’ meccanica, la ve-ra ossatura morfologica del testo.

Non è così. Tra struttura e temac’è perfetta rispondenza, e il tono èla musica che ne risulta. Pincio ese-gue qui come altrove una dramma-turgia senza scampo: la dialetticatra fallimento e sopravvivenza –non salvezza, che è una cosa diver-sa. La sua voce, perfettamente rico-noscibile fin dal primo romanzo, èla voce di qualcuno che è sopravvis-suto, che è sfuggito per un pelo aldisastro, e che a quel disastro nonpuò fare a meno di tornare ancorae ancora, per confermare a se stes-so di esserne fuori, per continuarea scamparla. Una voce che non siinarca, non sale mai di volume,cauta nelle metafore, snodata nellasintassi, lenta nel ritmo ma insie-me avvertibilmente desiderosa diarrivare al punto. Con un distaccodalla materia di cui parla – la sua vi-ta, gli autori che gli fanno da alterego, le storie che ricorda o che in-venta –, che non è ironia né supe-riorità né smagamento buddistacirca l’infinita vanità del tutto, mapiuttosto una presa d’atto radicaledella sua contingenza. È qui ma po-teva non esserci. Non c’è da vantar-

si né da vergognarsene, perché vergogna e van-teria lo riporterebbero indietro alla selva oscuradel desiderio in cui si era smarrito, e nella me-moria non cessa di smarrirsi. Meglio volare bas-so. Per paura? Forse, anche. Non certo comun-que per bon ton, semmai per fedeltà e gratitudi-ne. Non sempre il vecchio marinaio ha occhiscintillanti e mani di scheletro, o parla per sen-tenze come il replicante di Blade Runner. La vo-ce di Pincio assomiglia piuttosto a quella del dot-

tor Spock in Star Trek: incuriositadalle emozioni, solidale per quan-to può esserlo un vulcaniano coiterrestri, ma inevitabilmente alie-na, un po’ remota, sempre in legge-ro fuori sincro.

È una finzione, naturalmente, ilpunto di arrivo di un lavoro sul lin-guaggio che verrebbe da definirecome una sorta di paradossale clas-sicismo postmoderno: tanto piùparadossale quanto più è stravoltae dolorante la galleria di ritratti – discrittori e suoi – che ha scelto di il-lustrarci. La distanza del tono noncancella la mortalità del vissuto, eanzi del vivente, se includiamo co-me è giusto nel novero dei destinianche i lettori. Non lo salva, non glioffre una casa. Gli riserva una stan-za d’albergo: per sempre, per lui so-lo, da occupare o abbandonarequando crede.

Quando pubblica Il padrone, nel1965 (ora riproposto da Adelphi,«Fabula», pp. 268, € 19,00), Goffre-do Parise ha alle spalle un esordiovisionario e folgorante (Il ragazzomorto e le comete), un successodi pubblico (Il prete bello), altriromanzi e molte pagine consegna-te alle stampe, che ne hanno pre-sto disegnato la fisionomia d’auto-re. E tutti i suoi tratti si accentuanoadesso con quel tipico misto ditenerezza e ferocia, di immensapietà e di intrattenibile spietatezzache, quale ne sia l’oggetto mo-mentaneo, è il suo connotato piùtipico (e, variamente bilanciandosie proporzionandosi nel dosaggio,arriverà fino agli esiti ultimi dellasua vita interrotta prima dei ses-santa anni, fino ai Sillabari e alpostumo Odore del sangue; matipico anche dello scrittore di viag-gio e di fatti umani e civili, cheseppe raccontare col tocco di unafarfalla).Abbiamo col Padrone il massimodella percezione fisica del mondo– Parise è sempre scrittore fisico –riportata a un’elaborazione menta-le, al modo inquietante e grotte-sco della tradizione kafkiana, comi-co incluso: fino a spremerne il sen-so, che non si lascia né coglierené raccogliere e da ciò trova la suaforza. Per esempio, Il padrone haun doppio ingresso e due uscieri:l’uomo-scimmia e l’uomo di una«muta concentrazione vegetativa».Darwin letto su sollecitazione diGadda a inizio anni sessanta è, sicrede, non solo l’ispiratore dellavicenda del romanzo come lottaper la vita dal tratto spietato, ma èla sollecitazione a leggere il mon-do attraverso la sua evidenza: solodalla percezione dell’evidenza pos-sono emergere i tratti misteriosidelle cose, misteriosi perfino nellaloro statistica prevedibilità. E perquesto è da considerare una lettu-ra di Darwin compiuta tenendoaccanto al suo libro i libri di Freud,come in un gioco di specchi e diinnumerevoli rimandi dalla fisicitàevidente alla fisicità interiore (aciò aggiungendo le consuete trac-ce argomentanti la sessualità, daParise risolte nel Padrone ora coninterrogatori brutali di tipo mora-viano, ora con considerazioni bio-chimiche: odori, secrezioni, con-tratte tattilità).Il darwinismo si protrarrà varia-mente. Le figure che stanno sullascena del Padrone sono per pro-getto ritratte da Parise non nellamancanza di vitalità, ma in quantosorrette da una vitalità male indiriz-zata: in ciò consone allo svolgi-mento del romanzo, tali figure so-no l’indice della sua riuscita. Mada che parte battesse il cuore diParise e dove si orientasse il suofiuto lo dice il ritratto della forzavitale del suo maestro. Quattroanni dopo Il padrone, Parise dedi-cherà a Giovanni Comisso unapagina fremente. E il ritratto dellaparte animale di Comisso dirà: «Ilcorpo di Giovanni Comisso in pie-na salute era quello di un contadi-no mediatore di sementi con nucaampia e tempie rasate, un anima-le lustro, caldo e potente, una ver-dura grassa come i cavoli, le verzee l’insalata che sbocciano e fiori-scono negli orti confinanti con lemura dei cimiteri, dove la terra èmolto feconda per la vicinanza del

concime umano». Ovvero: la lettu-ra darwinista del mondo si com-pletava cogliendone il tratto divitalità ben presente e ben indiriz-zata.Ma se le figure del Padrone hannotutte l’impronta dell’origine anima-le, esse risultano ferite dalla natu-ra umana con cui si dibattono(quasi quanto il contrario: un’uma-nità offesa dal rigurgito animale),assumendo tratti lombrosiani chescivolano in un determinismo at-torcigliato, sperduto dentro pae-saggi occasionalmente fantascien-tifici, che si sottraggono al tempoe dipingono uno stato dell’anima.Si veda il padrone Max, malinconi-co e arrogante fino al capriccio eall’arbitrio, e perciò funambolooscillante sopra un abisso di para-dossale verità, che dalla sua tanainteriore, porgendo la mano-zam-pa, rivolge con voce di roditoreconsiderazioni di involuta e oppor-tunistica morale al bestiario popdi volpi ricci donnole che lo circon-da, uno zoo bloccato dall’istinto diconservazione (quanti crimini sipossono compiere in nome dellamorale; quanto disprezzo si puòlasciar credere di rivolgere al dena-ro, se lo si ha in abbondanza co-me i genitori di Max: Uraza, la don-na dalla criniera al vento, e il dot-tor Saturno suo marito, che osser-va come fosse vero: «i soldi sonocacca. Hai capito? Ricordalo. Te lodico io che lo so»). Di fronte a pa-dron Max, il giovane che dalla pro-vincia arriva pieno di misere spe-ranze in città diventa interlocutoreideale per sottomissione e cedevo-lezza, proprio nel momento in cuicrede di porsi esemplarmente difronte al mondo che gli sfugge:quanto ironico il calco shakespea-riano che Parise gli assegna («Maè maggior dignità andarsene, mo-strando in questo modo scioccaindifferenza che non porterà a nul-la di buono, o resistere standoseduto?»), facendone un Amletofuori contesto, di esagerate e fru-strate sottigliezze, e un Candidoche vive nel migliore dei mondipossibili, un piccolo introflessomaestro del fraintendimento chesoccombe al maestro Max al qua-le si è consegnato: la scena sado-masochistica lo esige («non verròpunito mai perché io stesso misono inflitto, da solo, un vasto mar-gine di possibili punizioni»).Un Parise che ride per umor nero,per travasi di bile, nell’interpreta-zione di un incubo dove si radunail peggio del tempo – una cecitàintonata a commedia – e che dis-solve le ragioni di ogni potere finoalle ultime fibre. A chi ricordi unfilm del primo Olmi, Il posto(1961) – più ancora che la cosid-detta letteratura industriale –, Ilpadrone sa mostrarsi come il rove-scio cupo, di inquieta esattezza,degli anni del boom al crepuscolo,alla vigilia della notte, quando so-no ancora vive le illusorie lumine-scenze della prima società dei con-sumi, condensate nel manifestodai colori mutevoli escogitato dalpittore Orazio per la ditta del pa-drone. Passato quasi mezzo seco-lo, mentre si smarriscono i riferi-menti e le allusioni che diederocorpo alla sua figura, Max è anco-ra lì. Lo si direbbe un classico cheirrompe variamente nel correredei nostri giorni.

L’hotel è a quattro

piani: selva oscura,

inferno, purgatorio,

paradiso, abitati,

insieme a Pincio,

da scrittori e artisti

prediletti. Il gioco

mette in scena,

in definitiva,

la ricerca «di tono»

di un narratore

perennemente

dislocato,

e sopravvissuto a sé

Alighiero Boetti, «Tutto»,ricamo, 1988-1989

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ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (11

In grandeun’immaginedi Gil Scott-Herone nel riquadrola raccolta« The Revolution Willnot Be Televised»

di Luca Gricinella

Nel 2003 la Bbc ha trasmesso perla prima volta uno dei documentari essenziali,appassionati, chiari e diretti realizzati da DonLetts (1956): The Revolution Will not Be Televi-sed - A Film about Gil Scott-Heron. Il titolo con-corda in pieno con gli attributi che definisconolo stile registico-narrativo del filmmaker londi-nese di origine giamaicana amico dei Clash.Un ritratto dedicato a un colosso come GilScott-Heron (1949 - 2011) che dura appena ses-santa minuti ma in cui ogni passaggio è pre-gno di storia e vita vissuta. Si parte dalle originiblues del poeta, scrittore e musicista afroameri-cano, si passa in fretta agli anni fondamentalidel Black Arts Movement, di Malcolm X, Mar-tin Luther King e delle loro morti, si transitaper Harlem sul finire degli anni ’60 tra attivi-smo, idee rivoluzionarie, spoken word, soul,funk e jazz. Si parla inoltre di apartheid, degliUsa di Reagan, di cocaina e carcere per arriva-re verso il finale all’esplosione del rap antagoni-sta e cosciente. L’aspetto straordinario emer-gente è che ogni tappa del racconto è scanditada almeno una canzone epocale scritta da que-sto artista appena scomparso che ha incarnatoal meglio una fusione tanto rara quanto equili-brata e naturale tra arte e impegno.

Interpellato da Don Letts, Abiodun Oyewole(1948), membro fondatore dei Last Poets, par-lando degli esordi di Gil Scott-Heron ne dà unadefinizione efficace e suggestiva: «È stato il col-legamento fra Trane (John Coltrane, ndr) e Mal-colm X: la sua opera rappresentava entrambi».Pochi fotogrammi dopo, Greg Tate (1957), scrit-tore e giornalista esperto di cultura afroameri-cana, rilancia: «Voleva assolutamente tradurrele idee e le forme letterarie e politiche del tem-po in una forma culturale di massa, in qualco-sa che aveva la possibilità di venir suonato perradio». Tra immagini di repertorio e intervisteoriginali, nel documentario figura anche il pro-tagonista: voce profonda e da fumatore incalli-to, fisico provato, Gil si racconta con un sorrisosempre a disposizione ma spesso amaro. Que-gli anni non erano certo fortunati per l’artistaafroamericano, lontano dalla popolarità e pocodopo il termine delle riprese finito in carcereper guai legati alla dipendenza dalla cocaina.

Otto anni dopo l’uscita di questo omaggio fir-mato Don Letts, Gil Scott-Heron lo scorso 27maggio se n’è andato, poco meno di un anno emezzo dopo l’uscita per l’etichetta Xl di I’mNew Here, album arrivato a sorpresa nei negozi(e nei digital store) tredici anni dopo il prece-dente e che gli ha concesso una nuova ribaltacon tanto di tour europeo. L’ultima. Un albumche lo ritrae in copertina concentrato a fumareuna delle sue sigarette. Un album ben accoltodalla critica che, a maggior ragione oggi, dopogli anni in silenzio e in disparte, non si è astenu-ta dal rimarcare il suo ruolo di anticipatore delrap, caso mai qualche nuovo adepto dell’hiphop non ne fosse al corrente. Eppure Gil Scott-Heron prendeva le distanze da questa investitu-ra. Di certo si è trattato di una paternità involon-taria a differenza dei suoi amici Last Poets, altrigenitori eletti del genere: Abiodun Oyewole, Ja-lal Mansur Nuriddin e Umar Bin Hassan hannoprodotto musica ancora più prossima al rap enon ne hanno certo preso le distanze, anzi.

Nelson George, scrittore, filmmaker e criticoesperto di cultura afroamericana classe 1957,ha curato le note di copertina di tutti gli albumdi Gil Scott-Heron pubblicati dalla Arista. Sen-za citare il rap, così ha scritto di lui sul web al-l’indomani della morte: «Il romanziere, poeta,performer e filosofo Gil Scott-Heron è scom-

parso. Già a metà degli anni ’70 nelle sue can-zoni parlava di apartheid, incidenti nucleari eimperialismo Usa, sostenuto dagli arrangia-menti di Brian Jackson e The Midnight Band.Io e i miei compagni di college lo considerava-mo il nostro Bob Dylan. Un artista inquieto eprofondo». Un ritratto commemorativo brevema di certo meno sommario rispetto a quel la-pidario «The Godfather of Rap» che ha un suoperché fin quando a tirarlo fuori sono rappercome Mos Def e Chuck D (entrambi presentinel documentario di Don Letts) mentre stonase ripetuto per sentito dire da una schiera diMc non proprio politicamente consapevoli.Fatto sta che l’hip hop ha voluto e vuole GilScott-Heron come padre putativo, specie perla sua dote di leggere la realtà e trasformarla inpoesia ritmata, immediata e tagliente. Un geni-tore campionato a più riprese da Kanye West -anche nell’ultimo acclamato album My Beauti-ful Dark Twisted Fantasy (2010) - e sui cui fram-menti musicali hanno rappato tra gli altri Com-mon, 2Pac, Mos Def, Atmosphere, JungleBrothers, Boogie Down Productions, TheCoup, Brother Ali ma anche i marsigliesi Iamper non guardare sempre e solo dentro i confi-ni degli Usa.

Nel 1994 nel suo album Spirits, uscito dopododici anni di inattività discografica, c’è Messa-ge to the Messengers, un appello alla coscienza,alla responsabilità e allo studio (della musica edella lingua) rivolto perlopiù proprio ai rapper.O ancora meglio un brano in cui l’esperienzadi un rappresentante acuto di una generazioneche ha preso parte a un pezzo di storia moder-na fondamentale è messa a disposizione diuna nuova generazione che tanto lo acclama. Elo fa dagli esordi perché alcuni brani preceden-ti di questo artista simbolo dell’afroamericani-smo suonavano nelle prime jam hip hop, quan-do i rappresentanti di questa cultura sentivanouna vicinanza naturale con la sua arte. Ma èemblematico che il sito ufficiale di Spike Lee ri-porti un articolo di Barry Michael Cooper, scrit-tore, filmmaker e sceneggiatore tra gli altri diun film importante come New Jack City (1991),in cui si legge: «Quando Gil Scott-Heron ha rifiutato il titolo di ‘Godfatherof Rap’, aveva le sue buone ragioni. Il denaro non era il suo padrone. Co-me un genuino griot postmoderno ha abbracciato la povertà. Non nelsenso che era povero - non lo era - o che non gli piaceva il denaro (sonosicuro che gli piacesse). Gil Scott-Heron non amava il denaro e per que-sto il denaro non era il suo padrone. Un vero Mc, un vero Maestro di Ceri-monia deve essere proprio questo (…) Una persona che guida la bandsenza diventare schiavo del ritmo. O del denaro». Insomma, si trattava diun artista che tanto ha incarnato i valori degli anni ’70 fino a soccomberequando i tempi sono cambiati. Gli undici album pubblicati tra il 1970 e il1980 e i quattro (appena) pubblicati tra il 1981 e questo 2011 la diconolunga. Non è un caso che l’uscita di un brano su Reagan e tutto quantosignificava per l’epoca l’elezione a presidente di questo attorucolo avvie-ne proprio nel 1981 su Reflections: B Movie e segna l’inizio della fine:«Quanto accaduto è che negli ultimi venti anni l’America è passata daproduttrice a consumatrice», recita un testo lucido e premonitore. Gli an-ni ’80 hanno cambiato tutto, compresa la sorte di Scott-Heron. L’ultimosaluto spetta a Darius James (1954), autore di Blaxploitation (edizione ita-liana a cura di a-change, 1995-2002) e Negrophobia (1993). Facendo il ver-so a Whitey on the Moon, brano contenuto nell’esordio discografico diGil Scott-Heron, Small Talk at 125th and Lenox (1970), il giornalista escrittore afroamericano ha scritto: «Gil Scott is dead and whitey's still onthe moon!».

Insomma una delle voci più autorevoli dei senza voce è morto, chissàquanti guai stanno ancora passando le sue sorelle e i suoi fratelli ma i «vi-si pallidi» se ne infischiano e continuano a investire in imprese sulla fal-sariga dello sbarco sulla luna.

Le musiche e le versificazioni

di Scott-Heron, l’autore di «The Revolution

Will not Be Televised» sono state

determinanti in ambito afro-americano.

Nei suoi pezzi, le idee letterarie e politiche

degli anni Settanta si intrecciavano

a suoni che le rendevano accessibili

a tutti. In questo, anche «I’m New Here»,

l’ultimo disco, si è rivelato molto attuale

■ RICORDI ■ È STATO TRA I GRANDI ANTICIPATORI DELL’HIP HOP ■

Gil, l’arte della parola

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■ PAGINE ■ UN LIBRO RIPERCORRE LA LUNGA STORIA DELL’AGIT POP ■

Il gusto esplosivodella protest songdi Guido Mariani

«Tutte le mie canzoni sono canzoni di protesta. Tutte quello che faccio èprotestare». Così uno svogliato Bob Dylan, stufo di essere celebrato come la voce diuna generazione, amava rispondere provocatoriamente ai reporter nel 1966 ai tempidella sua tanto criticata svolta musicale elettrica. L’immagine del giovane cantore del-le battaglie civili lo aveva consumato, il pubblico gli chiedeva di essere più profeta cheintrattenitore e ai concerti lo fischiava ogni volta che preferiva la chitarra elettrica aquella folk. Le canzoni sono strane armi con cui combattere le battaglie, spesso nonsono destinate a cambiare le cose e rischiano di condannare un interprete a diventareun uomo politico prima che un artista. Ma le canzoni di protesta o quelle più generica-

mente ad argomento politico e so-ciale possono servire a dare vocealle speranze e a richiamare l’at-tenzione su tragedie e battaglie di-menticate. Dorian Lynskey è ungiornalista inglese che ha pubblica-to di recente il libro 33 Revolutionsper Minute («33 rivoluzioni al mi-nuto», Faber & Faber), una ricca einformata storia della canzone diprotesta.

Se trentatre sono i giri che unlong playing in vinile compie in unminuto, Lynskey, critico musicaledi Guardian, The Word e Q, scegliequesto numero simbolico per sele-zionare altrettanti brani e ripercor-rere una storia della musica d’im-pegno negli ultimi ottant’anni ana-lizzando storie, contesti, miti e leg-gende di chi, anche per una solavolta, ha tentato di cambiare ilmondo con la musica. Il viaggio co-

mincia da un brano bellissimo estruggente che ancora oggi fa veni-re i brividi, Strange Fruit di BillieHoliday. Eseguita per la prima vol-ta in un nightclub di New York nel1939, la canzone aveva una melo-dia malinconica che poteva ricor-dare una dolente ballata dedicataa un amore finito, ma il testo in re-altà parlava di tutt’altro: «Gli alberidel sud danno uno strano frutto/sangue sulle foglie e sangue sulleradici/corpi neri dondolano nellabrezza del sud/strano frutto appe-so agli alberi di pioppo./Una sce-na pastorale nel valoroso sud/gliocchi gonfi e la bocca distorta/pro-fumo di magnolie dolce e fresco/epoi l’odore improvviso di carnebruciata».

Gli strani frutti erano i neri lin-ciati dai razzisti e impiccati agli al-beri in uno spettacolo che dovevaessere da monito per la popolazio-ne segregata del sud degli StatiUniti. L’autore del pezzo, che la ri-vista Time ha definito la canzonepiù importante del XX secolo, eraun bianco che si chiamava AbelMeeropol, un ebreo americano diorigine russa e di militanza comu-nista che negli anni ’50 adotterà ifigli di Julius e Ethel Rosenberg,

Un incontro

con il saggista

Dorian Lynskey

spiega futuro

e passato

della canzone

politica. Come

le voci storiche

di ieri, siano state

oggi sostituite

dai social network,

nuovi centri

di potenziale

antagonismo.

In sostanza,

nessuno ha più

bisogno

di un artista

che canti

e esprima le nostre

preoccupazioni.

Nel 1963 o nel 1977

questo non era

ipotizzabile

12) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

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giustiziati per spionaggio. È diffici-le immaginare il coraggio di unagiovanissima nera come la Holi-day a cantare un testo di questo ti-po nei club frequentati da bianchi.

Ma cos’è e come nasce una can-zone di protesta? «Nel libro - spie-ga Dorian Lynskey - la definiscouna canzone che si rivolge a un te-ma politico in modo tale da offrireil punto di vista della parte più de-bole, dell’underdog. Se fosse uncontenitore sarebbe molto grandee pieno di buchi. Ho tenuto voluta-mente la definizione più ampiapossibile poiché volevo parlare ditutti i modi in cui gli autori si con-frontano con la politica, senza es-sere intrappolato in definizionitroppo strette. Io in genere cercodi non usare la formula ‘protestsinger’. Pensiamo ad esempio aun pezzo di cui parlo nel libro,Two Tribes dei Frankie Goes ToHollywood. Holly Johnson, il can-tante della band, non fu mai unprotest singer. Il termine calza so-lo per artisti come Pete Seeger». Èproprio Pete Seeger, patriarca delfolk Usa, a essere una figura cardi-ne nella storia della canzone politi-ca. Fu lui a rendere immortale unvecchio inno battista nel tempo di-ventato canzone dei lavoratori,quella We Shall Overcome che sitrasformò nella colonna sonoradelle marce per i diritti civili e cheancora oggi fa da sfondo a tantemanifestazioni di protesta.

L’impegno può tuttavia assume-re molti volti e anche molti stilimusicali. Per Lynskey la storia del-la canzone impegnata ha molte va-rianti: «Volevo scrivere di canzoniche considero genuinamente buo-ne, e non solo di quelle che hannoun giusto significato. Desideravoperò scegliere pure alcuni esempi

inusuali appartenenti a stili musi-cali sottovalutati. È il caso di CarlBean (che negli anni ’70 portò alsuccesso l’inno disco-dance anti-omofobia I Was Born this Way),ma anche di una formazione co-me i Prodigy. Certamente ci sonodelle canzoni e delle personalitàassolutamente imprescindibili:We Shall Overcome, Bob Dylan, iClash. Ogni scrittore ha però la fa-coltà, anzi il dovere, di compiereuna scelta personale».

Cambiano però le epoche, gli in-terpreti, i linguaggi e i gusti delpubblico, la stagione d’oro dellacanzone di protesta è definitiva-mente conclusa? «Questa è la que-stione che sollevo al termine del li-bro. Chiaramente vengono com-poste anche oggi centinaia di can-zoni impegnate, ma nessuna di es-se sembra essere in grado di gua-dagnarsi sufficiente impatto cultu-rale e così vengono dimenticate infretta. L’epoca in cui le canzoni diprotesta erano prese sul serio e ce-lebrate, in cui la politica venivaconsiderata parte integrante dellamusica pop è senza dubbio chiu-sa, ma certi temi continuano a ri-guardare i musicisti. Solo quest’an-no possiamo citare esempi estre-mamente diversi come il singolodi Lady Gaga Born this Way o l’al-bum di PJ Harvey Let EnglandShake. Penso che il brano Writtenon the Forehead di PJ Harvey sia aoggi la protest song migliore del-l’anno. L’età dell’oro è finita, ma laforma prosegue, ed è giusto che ac-cada così, perché gli artisti si con-fronteranno sempre con temi poli-tici in un modo o nell’altro».

Le rivolte di questi mesi del Ma-ghreb stanno facendo emergereuna serie di giovani artisti, soprat-tutto rapper, che vogliono accom-

pagnare con la loro musica i movi-menti di massa, un po’ come neglianni ’60 e ’70 i cantautori cercava-no di dar voce all’angoscia dei gio-vani americani e europei. Sembraquindi che i momenti di crisi sia-no un fattore fondamentale perispirare gli artisti, dando ragione aldetto che la cattiva politica generagrande arte.

«Sicuramente - spiega Lynskey- un senso di rischio politico nutreil bisogno per le canzoni di prote-sta. Se sei in marcia per i diritti civi-li nell’Alabama del 1963 o devi ob-bedire alla cartolina di precettodell’esercito a Berkley nel 1968, sefuggi dalle molotov e dai proiettilinella Giamaica del 1976 o sei un di-soccupato della Londra del 1977,se ti batti contro la minaccia dellaguerra nucleare nel 1984, allora de-sideri che questi temi siano trattatinella musica che ascolti. Se vivitranquillamente, come è accadutoin molti paesi occidentali dal 1989al 2008, allora non hai certamentelo stesso anelito. Le canzoni di pro-testa fioriscono quando il pubbli-co le richiede e questo di normaaccade quando qualcosa nella so-cietà non funziona più». Un pre-giudizio che il libro smentisce è il

fatto che le canzoni di protesta fac-ciano riferimento solo a determi-nati generi. Non c’è solo il folk e ilrock, c’è anche la dance, il rap, latechno, il pop. Intrattenimento eimpegno possono andare manonella mano? «Ogni genere è percerti aspetti intrattenimento. Nonmi piace distinguere tra pop erock. Non c’è alcuna ragione percui un artista dovrebbe evitare dicombinare impegno e divertimen-to. La sfida è proprio questa, farloin un modo che sia agile ed ecci-tante tanto da conquistare il pub-blico. È questo il motivo per cui ilmio libro parte da una canzone co-me Strange Fruit per esplorare lediverse reazioni che i nightclub eb-bero di fronte a una canzone di ar-gomento così potente e serio. Ilconflitto tra i due mondi può esse-re importante e stimolante, e cosìla penso io. Potrebbe però esseresolo un cattivo accostamento chestempera sia il messaggio che l’in-trattenimento».

L’impegno non sempre è unascelta facile. Il cantautore cilenoVictor Jara pagò con la vita le sueidee politiche di sinistra celebratein canzoni come Plegaria a un la-brador, Te recuerdo Amanda e Ma-nifiesto («Là, dove tutto si com-pie/e dove tutto comincia/unacanzone che sia stata coraggiosa/sarà per sempre nuova»).

Nel settembre 1971 a pochi gior-ni dal golpe di Augusto Pinochetvenne arrestato, internato nellostadio di Santiago che era stato tra-sformato in campo di concentra-mento, venne poi torturato e ucci-so. Il regime proibì la diffusionedelle sue canzoni e distrusse i suoidischi e tutte le incisioni della sua

musica. Per altri artisti la colpa diessersi impegnati è stata pagatacon isolamenti, fraintendimenti,boicottaggi o ironie. Dylan ha pas-sato gran parte della sua carriera afuggire lo stereotipo cucitogli ad-dosso nei primi anni ’60. Il bossdell’etichetta Motown, Berry Gor-dy, descrisse la canzone di MarvinGaye sulla guerra del VietnamWhat's Going on come «la cosapeggiore che abbia mai ascoltato».

L’amaro sarcasmo patriottico diBruce Springsteen in Born in theUsa fu trasformato in un proclamanazionalista. Nel 1987 il cantauto-re inglese Billy Bragg si impegnòalla guida di un collettivo di artistiche scelse il nome di Red Wedge(il cuneo rosso) e di cui facevanoparte anche Paul Weller, i Mad-ness, gli Smiths e Jimmy Somervil-le. Il loro scopo era sostenere il par-tito laburista e impedire a Marga-ret Thatcher di ottenere un terzomandato consecutivo come pri-mo ministro. La Lady di ferro trion-fò alle elezioni, il movimento sisciolse e Bragg l’anno dopo diedealle stampe una delle sue canzonipiù celebri Waiting for the GreatLeap forward: «Mi chiede che sen-so abbia/mischiare pop e politica/rispondo con imbarazzo e con lemie solite scuse (…) Un passoavanti, due indietro/ perché la po-litica mi dà il benservito?».

«A mio parere - dice Lynskey -l’impegno da anni non aiuta più lacarriera degli artisti. Negli anni’60, lanciò artisti come Dylan eCountry Joe Mc Donald perché leloro canzoni parlavano di quelloche pensavano tante persone. Nelcaso di Public Enemy o dei RageAgainst The Machine si tratta diartisti così dirompenti e carismati-ci che la loro musica avrebbe avu-to successo indipendentementedal messaggio. Alla fine ha rappre-sentato più che altro un handicap.Non sarebbe stato forse assai piùsemplice la vita degli U2 se Bononon avesse mai parlato di politica?Oggi, quando sei conosciuto comeun musicista politico attiri tantissi-me critiche e le aspettative diventa-no altissime per ogni cosa che fai».

Ma esistono anche dei veri epropri flop nelle canzoni impegna-te? «Earth song di Michael Jack-son è magniloquente, incoerentee sostanzialmente ridicola. Bosniadei Cranberries è imperdonabil-mente grossolana e paternalista.Una canzone di protesta fallimen-tare è quella che è così brutta dasminuire il tema di cui parla».

Anche l’ipocrisia è in agguato,Lynskey nel suo libro ricorda co-me Fela Kuti, straordinario musici-sta africano, «parlasse come l’atti-vista nero Huey Newton, vivessecome Hugh Hefner e avesse un re-gno privato degno di un capo vil-laggio» oppure di come l’impegnodi John Lennon fosse spesso ap-prossimativo. Giudicare però la vi-ta degli artisti a partire dalla musi-ca è, per lo scrittore, un grave erro-re: «Si pensa comunemente che seun artista ha un messaggio politi-co allora deve comportarsi senzapeccato. Non è così, a parte un pa-io di errori di presentazione comeil video di Imagine (in cui Lennoncanta ’imagine no possessions' se-duto su un pianoforte a coda inuna lussuosa casa di campagna),non penso che le vite private di Fe-la o dello stesso Lennon abbianoin alcun modo sminuito il loromessaggio. Mi piacciono le con-traddizioni e non mi interessanole persone esemplari. Va però rico-nosciuto che alcuni musicisti e atti-

visti quali Pete Seeger, Chuck D,Billy Bragg o Tom Morello si sonosempre tenuti su alti standard e sisono dedicati apertamente e com-pletamente all’attivismo. Non pen-so che nessuno di questi sia maistato spinto dal desiderio di esserefamoso, come potevano magari es-serlo Lennon e Fela Kuti. Ma que-sto non li rende superiori, li rendesolo diversi. Il punto del mio lavo-ro è quello di mostrare al lettoreche ci sono diversi modi in cui imusicisti si impegnano nella politi-ca e non di esprimere giudizi».

I linguaggi cambiano e oggi cisono i social media, è più difficileo più facile per gli artisti comunica-re il proprio messaggio? «Non pen-so sia più difficile, anzi è più facile.Riescono infatti ad avere un acces-so al loro pubblico non mediatodalla radio o dalla tv. Quello che ècambiato è il bisogno del pubblicodi fare questo. Facebook, Twitter,YouTube, i blog sono tutti modi diesprimersi, sfogarsi e relazionarsicon persone che la pensano comete. A questo punto potresti nonavere più bisogno di un artista cheesprime le tue preoccupazioni alposto tuo. Questo non avvenivanel 1963 o nel 1977».

La speranza è che le canzoni diprotesta possano cambiare il mon-do. Per Lynskey alcune canzoni cisono quasi riuscite: «We ShallOvercome fu enormemente impor-tante per il movimento dei lavora-tori e per i diritti civili e il suo ruolofu riconosciuto da Martin LutherKing e Lyndon Johnson. Più tardila canzone degli Special Aka del1984 Nelson Mandela giocò un ruo-lo importante nel tenere viva l’at-tenzione sulla prigionia di Mande-la e riuscì a incrementare le pres-sioni internazionali per la sua libe-razione». Alcune battaglie forse sipossono davvero vincere solo conuna voce e uno strumento musica-le. Nel gennaio del 2009 il vecchiomenestrello Pete Seeger che con ilsuo banjo aveva scandito le marceper i diritti civili si è esibito aWashington all’insediamento delprimo presidente afro-americanodella storia. Anche in quest’occa-sione si è comportato da ribelle,cantando (accompagnato da Bru-ce Springsteen) uno dei classicidella canzone folk This Land IsYour Land di Woody Guthrie inuna versione integrale, spesso cen-surata, che ha versi di pura im-pronta socialista: «C’era un gran-de muro e hanno tentato di fer-marmi/una scritta diceva proprie-tà privata/ma dall’altra parte nonc’era scritto nulla/questa terra èstata fatta per voi e per me». Nelmaggio del 2009 Bruce Springste-en, esibendosi in concerto per fe-steggiare il novantesimo comple-anno di Seeger, disse: «Pete, sei so-pravvissuto ai bastardi!»; la vita deldecano dei protest singer è duratacosì tanto da avergli permesso diassistere alla fine di tutti i drammicontro cui aveva cantato: la segre-gazione, il Vietnam, la guerra fred-da, la dottrina Bush. Brani comeOnly a Pawn in Their Game di BobDylan, Feel like I'm Fixing to Die diCountry Joe McDonald, oppure lapiù recente Sunday Bloody Sun-day degli U2 oggi si ascoltano co-me testimonianze di vecchi dram-mi e di guerre concluse. Per ognibattaglia che finisce ne nasce peròsempre una nuova e se il vero sco-po delle canzoni di protesta è quel-lo di essere la voce di una causa, laloro rivincita è quella di durare nel-la memoria collettiva più a lungodei loro nemici.

Al centro il libro di Lynskey;a sinistra, dall’alto in basso:

Billy Bragg, il critico musicale DorianLynskey, Billy Holiday, Woody

Guthrie e due copertine.In grande, Bob Dylan

e Pete Seeger (a destra).Qui accanto Seeger

e Springsteen al concertoa Washington per l'insediamento

di Obama. Sopra Lennone Yoko Ono, accanto

PJ Harvey. Qui sotto Victor Jara

ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (13

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Port-RoyalLa band genovese è forse la miglio-re espressione della scena elettroni-ca italiana.CLES (TN) SABATO 11 GIUGNO (MALGABOIARA-BOIART FESTIVAL)MILANO DOMENICA 12 GIUGNO(IDROSCALO-MI AMI FESTIVAL)

AlborosieIl reggaeman italiano, molto amatoanche in Giamaica, è on stage.PISA VENERDI' 17 GIUGNO (PARCOLA CITTADELLA)BOLOGNA SABATO 18 GIUGNO (ARENAPARCO NORD-UPPER PARK REGGAEFESTIVAL)

Vinicio CaposselaUn po’ bohemiene e un po’ cantau-tore, di nuovo in tour per presenta-re il nuovo disco.ISCHIA (NA) SABATO 18 GIUGNO(CASTELLO ARAGONESE)

Assalti FrontaliLa band hip hop romana di nuovoon the road per presentare il nuo-vo album Profondo rosso.TRENTO DOMENICA 12 GIUGNO(CS BRUNO)ROMA VENERDI' 17 GIUGNO (CS ACROBAXPROJECT)

MANDELLO DEL LARIO (LC) SABATO18 GIUGNO (SONICA FESTIVAL)

Mi-Ami FestivalL'edizione 2011 del festival del-l'Idroscalo ospita per oggi Babalot,Banjo or Freakout, Be Forest, Bro-keOne, Casino Royale, Al Castella-na, Charleston, Death in Plains,Emis Killa, Forty Winks, Ghemon,Ettore Giuradei, Dj Gruff, Il Cielo diBaghdad, Iori's Eyes, L'Ariele, LnRipley, Macrobiotics, Majakovich,Marco Parente, Scuola Furano,Smart Cops, Welcome Back Sailorse Zabrisky, mentre domani tocche-rà a Bartok, Cesare Basile, Cani,Bob Corn, Di Martino,Green Like

July, Il Buio, Jacqueries, ManzOni,Marie Antoinette, New Candys,Non Voglio che Clara, Plastic MadeSofa, Port-Royal, R's, Sakee Sed,Verdena, Videodreams e YoungWrists.MILANO SABATO 11 E DOMENICA12 GIUGNO (IDROSCALO)

Electrode FestivalLo storico centro sociale capitolinopropone una die giorni interamen-te dedicata alle sonorità elettroni-che e dance. Moltissimi gl ospiti tracui spicca Martina Topley Bird sen-za dimenticare Knobs, Logotech,Madcap, Fire at Work, Hacker,Jester Phunk, Low Frequency Club,Miss Loony e altri.ROMA SABATO 11 GIUGNO (CS FORTEPRENESTINO)

Electrovenice FestivalDopo il rock dell'Heineken Jammin'Festival il parco San Giuliano ospitaquesta rassegna di un giorno dedi-cata alla musica dance. Gli ospitidella kermesse sono Fatboy Slim,Deadmau5, Afrojack, Goose e Re-set!MESTRE (VE) SABATO 18 GIUGNO (PARCOSAN GIULIANO)

Roma incontra il mondoAl via il festival estivo sulle spondedel laghetto di Villa Ada. Si aprecon il reggae di Mad Professor conospiti Earl 16 e Zion Train.ROMA SABATO 18 GIUGNO (LAGHETTODI VILLA ADA)

Festate«Passaggio a Nord...» Due giorni difestival di culture e musiche delmondo nella città del Canton Tici-no. Sul palco si alternano SolisString Quartet, The Best of Noa eLuka Rudeboy e Raba dj set (il 17),Skerryvore, Namgar e The NationalFanfare of Kadebostany (il 18).CHIASSO (CH) VENERDI' 17 E SABATO18 GIUGNO (PIAZZA MUNICIPIO)

Crystal StiltsDa New York, la rinascita delloshoegaze.BRESCIA SABATO 11 GIUGNO (VINILE 45)

Mystery JetsTour italiano per la band pop in-glese.TORINO MERCOLEDI' 15 GIUGNO (SPAZIO211)ROMA GIOVEDI' 16 GIUGNO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

MARINA DI RAVENNA (RA)VENERDI'17 GIUGNO (HANA-BI)

ANCONA SABATO 18 GIUGNO (PIAZZADEL PLEBISCITO-SPILLA FESTIVAL)

Dustin O' HalloranIl leader dei Dévics in versionesolista, apprezzato compositoreneoclassico.PALERMO GIOVEDI' 16 GIUGNO (GIARDINIDELLO SPASIMO)

I Blame CocoAl secolo Coco Sumner, ossia lafiglia di Sting... Synth pop anni Ot-tanta.FIRENZE LUNEDI' 13 GIUGNO (PICCOLOTEATRO)ROMA MARTEDI' 14 GIUGNO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

AshLa indie rock band nordirlandeseè in tour in Italia.ROMA GIOVEDI' 16 GIUGNO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)CESENA (FC) VENERDI' 17 GIUGNO(GEORGE BEST)

MONZA (MB) SABATO 18 GIUGNO(STADIO DEL RUGBY-TROUBLEFESTIVAL)

Mick HarveyLa band del sodale di Nick Cavenei Bad Seeds.CAGLIARI SABATO 11 GIUGNO(QUARTIERE CASTELLO-KME)

Banjo or FreakoutIn Italia la band inglese.MILANO SABATO 11 GIUGNO(IDROSCALO-MI AMI FESTIVAL)MARINA DI RAVENNA (RA) MARTEDI'14 GIUGNO (HANA-BI)

P.O.D.Il ritorno della formazione nu me-tal statunitense.PINARELLA DI CERVIA (RA) SABATO11 GIUGNO (ROCK PLANET)

Buzzov'enDal vivo la sludge metal band sta-tunitense. A Segrate con The Oce-an, Intronaut, Red Fang e Eartship.SEGRATE (MI) LUNEDI' 13 GIUGNO(MAGNOLIA)BOLOGNA MARTEDI' 14 GIUGNO(BLOGOS)

30 Seconds to MarsLa emo band statunitense dal vi-vo.RHO (MI) VENERDI' 17 GIUGNO (ARENACONCERTI FIERA MILANO)ROMA SABATO 18 GIUGNO (IPPODROMODELLE CAPANNELLE-ROCK IN ROMA)

VerdenaPrende il via il tour estivo dellarock band bergamasca per presen-tare l'acclamato nuovo doppio cdWow.CUNEO SABATO 11 GIUGNO (NUVOLARILIBERA TRIBU')MILANO DOMENICA 12 GIUGNO(IDROSCALO-MI AMI FESTIVAL)

Marlene KuntzIn tour la band piemontese perpresentare il nuovo disco, Ricoverivirtuali e sexy solitudini.PADOVA DOMENICA 12 GIUGNO(PALAZZO MORONI)

TroublefestivalQuarta edizione per la rassegna diTroublezine. Due palchi sul PunkStage toccherà a Gambe di Burro,The Leeches e Tough, mentre sulRock Stage sono attesi Ash, Gre-nouille, Chaos Surfari e Lavlavalo-ve.MONZA (MB) SABATO 18 GIUGNO(STADIO DEL RUGBY)

Rock in IdRhoEvento per gli amanti del rock indi-pendente e alternativo. Sullo stes-so palco sono attesi Foo Fighters,Iggy & The Stooges, Social Distor-tion, The Hives, Band of Horses,Flogging Molly, Ministri e Outback.RHO (MI) MERCOLEDI' 15 GIUGNO (ARENACONCERTI FIERA MILANO)

Sherwood FestivalIl consolidato festival rock patavi-no si apre con i concerti dei Mini-stri e di Daniele Silvestri.PADOVA VENERDI' 17 E SABATO 18GIUGNO (PARCHEGGIO NORD STADIOEUGANEO)

Heinken Jammin' FestivalUno degli appuntamenti musicalipiù attesi di inizio estate torna conun cast internazionale e italiano dialto livello. L’ultima serata, dopola scorpacciata dei giorni preceden-ti con Coldplay, Verdena, Elbow eInterpol, tra gli altri, prevede il tut-to esaurito con l’attesissimo con-certo di Vasco Rossi preceduto dailive act di All Time Low e PrettyReckless.MESTRE (VE) DA GIOVEDI' 9 A SABATO11 GIUGNO (PARCO SAN GIULIANO)

KmeLa quinta edizione del Karel MusicExpo nel capoluogo sardo si è arti-colata su due palchi per tre giorni.A chiudere la kermesse sarannoAlessio Bertallot dj set, DorianGray, Getsemani, Mick Harvey,

Punkillonis e Roberto Angelini.CAGLIARI SABATO 11 GIUGNO(QUARTIERE CASTELLO)

Upper Park ReggaeCon in testa la musica giamaicana.La rassegna ha in programma ilive, tra i tanti, di Alborosie, Anan-si, Boo Boo Vibrations, Brusco,Derrick Morgan, Gioman, JimmyCliff, Killacat, Roots in the Sky, Ru-de Family e Yaga Yaga Sound Sy-stem.BOLOGNA SABATO 18 GIUGNO (ARENAPARCO NORD)

La Fabbrica del CantoIl festival ospita fino al 21 giugnouna serie di concerti di ensemblecoristici con il clou il 12 giugno alteatro Dal Verme.MILANO DA SABATO 11 A SABATO18 GIUGNO (VARIE SEDI)

Udin&JazzLa rassegna si avvia alla ventunesi-ma edizione e si apre a S. Giorgiodi Nogaro con l’Andrea Massaria4tet. Il 18 a Udine sono in cartello-ne il sestetto Arbe Garbe & Euge-ne Chadbourne The Jazz Prova.SAN GIORGIO DI NOGARO (UD)GIOVEDI' 16 GIUGNO (VILLA DORA)UDINE SABATO 18 GIUGNO (PARCODEL CORMOR)

Jazz Seacily FestivalL’estesa rassegna, organizzata dalBrass Group, prevede il recital pia-nistico di Dustin O’Halloran e iltrio di Marco Mazzamuto.PALERMO GIOVEDI' 16 E VENERDI'17 GIUGNO (SEDE BRASS GROUP)

ArtusijazzLa rassegna, che è diretta da Fla-vio Boltro e si colloca all’internodella complessa Festa artusiana,propone un recital di piano solo diStefano Bollani.FORLIMPOPOLI (FC) SABATO 18 GIUGNO

ON THE ROAD

14) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

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ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (15

AA. VV.THE ROUGH GUIDE TO AFRICAN GUITAR LEGENDS (World Music

Network/Egea)

7È il loro mestiere incuriosire ascoltatori e viag-giatori, non solo musicali ma anche fisici,della prima ora. Quando le compilazioni della

Rough Guide arrivano poi a interessare anche chi già nemastica dei suoni in oggetto, significa che il lavoro dicernita e composizione è giunto a buon fine. Come inquesto caso. Chitarre africane, in buona parte dal WestAfrica che hanno i nomi di A. Farka Touré, Tinariwen, D.Tounkara, K. Manfila e altri. E un disco di rumba congole-se nella scia del grande Franco, firmato da Syran Mbenza& Ensemble Rumba. A bordo, si parte. (g.di.)

AA. VV.THE ROUGH GUIDE TO BELLYDANCE (World Music Network/Egea)

7Bellydance. Rough Guide ancora sugli scudi,come di consueto quando si tratta di narrarestorie sonore. E quindi, una uscita che consta

di due dischetti. Il primo di sedici tracce che fanno ilpunto sui diversi stili di approccio a «la danse du ventre».Ritmi dal Mediterraneo per un esotismo mai caduto neldimenticatoio. Il disco numero due è invece un dvd dicirca ottanta minuti dove Virginia - maestra indiscussa alivello mondiale - istruisce chi volesse sulla danza delventre. Con dovizia di particolari e attitudine all’insegna-mento. Semplicemente fantastica. (g.di.)

CAT'S EYESCAT'S EYES (Cooperative Music)

7Un nuovo duo si affaccia nel panorama indiebritannico. La coppia in questione, che rispon-de al nome di Cat's Eyes, è quella composta

da Faris Badwan degli Horrors e dal soprano Rachel Zeffi-ra. Un progetto che trova terreno fertile nelle atmosferesognanti e delicate del pop dalle reminiscenze chiara-mente Sixties e in un tentativo di rivisitazione, in chiavemoderna, di sonorità colte vicine alla musica classica,genere da dove arriva la vocalist. Tra archi analogici earchitetture digitali il disco scorre piacevolemente via,veloce veloce (dieci brani per meno di trenta minuti)tanto da voler ricominciare da capo. (b.mo.)

DARIO CECCHINIJAZZASONIC (My Favorite/Emi)

7C'è un'aria molto «vintage» in questo proget-to di Dario Cecchini, e non potrebbe esserealtrimenti. Chi conosce il sassofonista barito-

no toscano (in questo lavoro impegnato anche al sopra-no, flauto e clarinetto basso) sa che con i suoi Funk Offegli impartisce belle lezioni di groove, al contempo gio-cando con i ricordi delle marchin' band. Qui, in formazio-ne ristretta, il ricordo va a Horace Silver, ai Messengerspiù funk, a Bobby Timmons, e sin dall'iniziale Dave theBrave, giocata sull'alternanza di due tempi. Eccellenti gliinterventi della tromba di Fabio Morgera, e le tastiere«rétro» di Michele Papadia. (g.fe.)

MICHAEL CHAPMANFULLY QUALIFIED SURVIVOR (Light In The Attic/Goodfellas)

7Re-issue di quelle pesanti, che vale la penaraccontare. Di fianco ai nomi di Bert Jansch,John Martyn quello di Chapman ha il suo

posto naturale. Per intenderci, capitava nei Settanta diincontrarlo in tour in Europa assieme a John Mayall.L’uomo di Leeds, icona folk-rock dai contenuti psych eblues, ha probabilmente avuto in questo album il suoacme. Delle sedute di registrazioni faceva parte all’epocaanche Mick Ronson (poi chitarrista di Bowie). Altro daaggiungere? Booklet di trentadue pagine e una perlapreziosa per la vostra discoteca. (g.di.)

HAUSCHKASALON DES AMATEURS (130701-Fat Cat/Audioglobe)

7Con Salon des amateurs Volker Bertelmann,il compositore e musicista tedesco che si celadietro al nome Hauschka, si conferma come

uno dei massimi esponenti della emergente scena neo-classica. Un disco di pregevole fattura che si presentacome un ulteriore passo in avanti rispetto al genere, unalbum che gioca con gran gusto su temi dalla strutturaclassicheggiante aggiungendo spore vaganti di elettroni-ca e ritmiche che potrebbero far pensare a una dancerallentata e colta, e in Subconscious si diverte anche aflirtare con il tango... Sapienza da vendere. (b.mo.)

HAZMAT MODINECICADA (Jaro/Egea)

8«Rispecchiamo la città (New York) e la naturaessenzialmente migrante e bastarda dellacultura americana» dice il leader dell'ottetto

Wade Schuman, armonicista e vocalist straordinario:rispetto al precedente Bahamut, dove si assisteva a uncocktail di blues, swing, klezmer, country, soul, gypsy erocksteady, in questo Cicada gli Hazmat Modine vannoancora più in là, verso un world-jazz-pop che coinvolgequali ospiti Gangbe Brass Band dal Benin, Huun-Huur-Tu tra Russia e Mongolia, nonché il Kronos Quartet e lacantante Natalie Merchant. Tre cover e dieci original inun tripudio di suoni ancor più lanciati a rimarcare leinfluenze degli anni Venti-Trenta e quelle dei Cinquanta-Sessanta. (g.mic.)

PUMAHALF NELSON COURTSHIP (Rune Grammofon/Goodfellas)

7Scandinavi, giovani e decisamente figli delsuono di marca Rune Grammofon. Le vicinan-ze con i Supersilent di Arve Henriksen sono

davvero molte. L'aggiunta di suoni electro e una minoreortodossia ad agganciare il rumorismo nordico sonoinvece gli elementi di differenza. Nove le tracce scrittedal trio. Sugli scudi rimane la melanconia granitica diKnitstep, la lancinante e quasi mistica Hackioji SilkBlues, nonché la title-track, davvero una sorta di manife-sto intenzionale della band. Da ascoltare con attenzione.Nota a margine, da non lasciarsi sfuggire i tre musicistiMoen, Westerhus e Nilssen, già a vario titolo in più for-mazioni (N.P. Molvaer, Bushaman's Revenge, Monolithic,Jaga Jazzist). (g.di.)

RANCORE & DJ MYKEELETTRICO (La Grande Onda)

7Le rime di Rancore sulle basi di Dj Myke -supportato dagli strumenti di Svedonio -,capitolo secondo. Pochi mesi dopo Acustico

ecco Elettrico. Rancore continua a rappare tutto d’unfiato ma stavolta su basi con più groove, piene di accele-razioni trascinanti. Le produzioni musicali electro sonopiene di rock e il rap di Rancore ci viaggia sopra connaturalezza. Se l’mc dimostra dunque di sapersi benadattare a generi differenti, il produttore conferma la suacapacità di spaziare da uno stile all’altro. Elettrico segnal’incontro tra due menti aperte ed eclettiche concentratesulla creazione musicale e non sulla smania di dimostra-re quanto sono originali. Tutta salute per l’hip hop italia-no. (l.gr.)

BORIS SAVOLDELLIBIOCOSMOPOLITAN (Mooninjune)

7In origine c'era stato Insanalogy, un disco,seguito da numerosi concerti, per il quale lacritica internazionale aveva speso parole im-

portanti: «Una voce che provoca gioia», «un talento uni-co», «la magia di una caleidoscopica vocalità», e via citan-do. Adesso arriva Biocosmopolitan, e c'è da scommette-re che l'effetto rilancio sarà immediato: Boris Savoldelliha mestiere, idee e naturalezza, nel proporre la sua spe-ziatissima atmosfera di jazz, funk e accenni rock, stratifi-cando sillaba su sillaba la sua voce particolarissima, emolto piacevole, peraltro, con l'ausilio di un looper. Indiversi brani ospiti importanti: la tromba fatata di PaoloFresu, il basso pulsante di Jimmy Haslip degli Yellowjac-kets. (g.fe.)

PAUL SIMONSO BEAUTIFUL OR SO WHAT (Concorde/Universal)

8Sarà ma questi settantenni d'assalto dannopunti a più giovani colleghi. Paul Simon siripresenta, prodotto da Phil Ramone, ovvero

una coppia che si rinsalda dopo i fasti di Still Cazy afterall these Years del 1975, e pubblica dieci pezzi ispirati efreschi dalla lucidità di scrittura impressionante. GettinReady for Christmas mette in chiaro subito cosa dobbia-mo aspettarci, tutto tranne un gioioso giorno di nataleche il protagonista passa a ricordare il nipote richiamatoper la terza volta in Iraq. Venti di guerra anche nell'afro-beat di Rewrite, soffia l'incubo americano del Vietnam,mentre un homeless e i suoi pensieri sotto il ponte diBrooklyn fanno da sfondo alla sottile e malinconica Que-stions for the Angels. Magnifico e intimista, con musicistidel calibro di Gil Goldtgein, l'armonicista blues SonnyTerry, So Beautiful or so what è un disco che riconciliacon la buona musica. (s.cr.)

FILIPPO TIRINCANTIOTHERWISE (Eleven)

7Otherwise è l’album d’esordio del cantante echitarrista Filippo Tirincanti, che ha, nel suobackground, un tour mondiale con Sananda

Maitreya, alias Terence Trent D’Arby, e diversi anni negliStati Uniti. Il disco, con testi in inglese e gli arrangiamen-ti dello stimato pianista jazz Luca Mannutza, contienedodici brani, tra cui la cover di Get up Stand up di BobMarley. La voce profonda e calda di Tirincanti è accompa-gnata dalla tromba di Fabrizio Bosso, dalle chitarre diEgidio Marchitelli e Roberto Cecchetto, dal basso di Fran-cesco Puglisi e dalla batteria di Lorenzo Tucci. MicheleSantoro ha curato gli arrangiamenti degli archi. Il tuttoper un cd dalle sonorità jazz, blues e soul. Piacevole,come un buon bicchiere di vino rosso «grand cru». Sicu-ramente un disco «d’annata». (g.lu.)

BILL WELLS & AIDAN MOFFATEVERYTHING’S GETTING OLDER (Chemikal Underground/Audioglobe)

7L’ex Arab Strap Aidan Moffat e il compositoree leader dell’ottetto che prende il suo nome,Bill Wells, di nuovo insieme dopo una fugace

collaborazione ai tempi di Monday at the Hug & Pint,disco degli Arab Strap del 2003. Il tutto, in realtà, è natoproprio ai tempi di quelle registrazioni, ma solo ora vedeluce e forma concreta. I due musicisti scozzesi rilascianododici tracce con il piano di Wells che si muove tra classi-cismo e derive jazzistiche, arrangiamenti ora spartani orapiù ricercati, e la inconfondibile voce di Moffat che can-ta, ma sarebbe meglio dire parla, melodie nel suo stilesghembo e «ubriaco». Intrigante. (b.mo.)

Alessandro Michelucci

Negli ultimi anni l'editoria musicale sem-bra particolarmente interessata a feno-meni che un tempo avrebbe rifiutatoconsiderandoli marginali e insignificanti.In altre parole, le proposte musicali de-stinate a un seguito di nicchia non spa-ventano più le case editrici, ma dannoloro la possibilità di trattare temi insolitied emergere in un mercato sempre piùaffollato. Lo dimostrano due libri appar-si recentemente, che comunque nonsono gli unici. L’heavy metal, considera-to da molti l'espressione più asfittica delrock, è riuscito a reinventarsi coagulan-dosi in vari sottogeneri, dal doom alblack metal. È appunto su quest'ultimoche si concentra Lords of Chaos (Tsuna-mi), l'edizione italiana dell'omonimaopera firmata da Michael Moynihan eDidrik Søderlind. Il volume si concentrasulla scena black metal norvegese. Unascena che i due autori conoscono bene:Søderlind, lui stesso norvegese, comegiornalista, mentre Moynihan, america-no, per la lunga attività che ha svoltonegli ambienti black metal prima diprenderne le distanze. Molto (forse an-che troppo) lo spazio riservato alle inter-viste, dove musicisti e poliziotti, fan esacerdoti compongono un quadro riccoe articolato del tema in questione. Neemerge un ambiente umano dove lamusica è spesso frammista a forme d'in-stabilità mentale pericolose. Satanismo,culto del suicidio e razzismo si intreccia-no dando luogo a miscele esplosive.Davanti a questo appare ancora più evi-dente la validità del libro, che rifugge daqualsiasi compiacimento estetico o ideo-logico, tanto è vero che molti dei musici-sti intervistati l'hanno criticato duramen-

te e hanno esortato i fan a boicottarlo.Toni altrettanto ostili, anche su Face-book, sono stati riservati al film omoni-mo che il regista giapponese Sion Sonoha tratto dal libro.

MOLTO PIÙ VARIO e stimolante, invece, èl'ambiente musicale che Antonello Cre-sti analizza in Lucifer over London. Indust«rial, folk apolittico e controculture radicali inInghilterra (Aereostella). Cresti, attivoanche come musicista, è uno dei nuovitalenti dell'editoria musicale nostrana,insieme ad Antonio Oleari, Riccardo Stor-ti, Donato Zoppo e altri. Da vari anni loscrittore fiorentino è impegnato in un'at-tenta analisi del mondo britannico, doveil fenomeno musicale viene inserito nelrelativo contesto socioculturale. A que-sta logica era ispirato anche il suo libroprecedente, Fairest Isle. L'epopea del-l'electric folk britannico, (Aereostella),un'opera non convenzionale che merita

la massima attenzione. Anche in «Luci-fer over London» Cresti padroneggia irisvolti sociali e politici di un'epoca chenon ha vissuto. Il libro dilata e aggiornail campo d'indagine di England's HiddenReverse: Coil-Current 93-Nurse with Wound(SAF Publishing), dove David Keenanproponeva un'analisi limitata ai tre grup-pi suddetti. Il taglio adottato dall'italianolegittima l'aggiunta di altri gruppi (Deathin June, Psychic TV, Sol Invictus e Throb-bing Gristle), tasselli di un mosaico chetocca i campi più disparati: dalla politicaalla filosofia, dall'esoterismo alla politi-ca. Ancora una volta Cresti si dimostracapace di ricomporre le controcultureradicali dell'underground inglese senzaassumere le intonazioni nostalgiche delfricchettone. Se la sua ammirazione perla materia trattata è palese, lo scrittoreriesce comunque a mantenere il distac-co necessario per non scivolare nell'agio-grafia.

CONNAN MOCKASINFOREVER DOLPHIN LOVE (Discograph/Self)

7Spesso nel recensire musica si usa il termi-ne «originale». Noi non ne siamo certo im-muni, ma riconosciamo che molte volte sia

usato con troppa facilità se non addirittura a sproposi-to. Ora, non vorremmo cadere in questo errore parlan-do della musica di Connan Mockasin, musicista, can-tante, autore e anche pittore neozelandese trasferitosida qualche anno in Inghilterra, usando proprio queltermine, ma, onestamente, non è che ce ne venganomolti altri. Il suo stile ha in sé temi pop e aperturecare alla psichedelia, indubbiamente, ma sviluppati inmodi tutt’altro che convenzionali. Chitarre piene diphaser e una voce lieve e fragile sono i tratti maggior-mente distintivi di Mockasin e questo suo quinto, inte-ressantissimo, lavoro in studio vede in aggiunta anchesette brani registrati dal vivo. Per chi ha voglia di usci-re dalla routine. (b.mo.)

OQUESTRADATASCABEAT, O SONHO PORTUGUES (Jaro/Egea)

8Intelligente gioco verbale tra nome del grup-po (orchestra da strada) e titolo dell'album(ritmo da osteria), per il quintetto della

vocalist Miranda, che enuncia origini, genere, contestosociale. Oltre questo, si tratta di vero capolavoro chesegna un punto fermo nell'evolversi del suono/sognoportoghese dal fado urbano a nuove musiche; il gustoè un po' cantautorale, con il recupero di un'educatapop song, di matrici vernacolari e citazioni rétro, persi-no vagamente lounge, in quell'essere jazzato da vec-chio swing, senza certo nulla togliere alla cultura lusita-na. (g.mic.)

POOR MAN STYLELONTANO (Self)

7Secondo disco, e centro pieno per questoreggae-ragga band del giro torinese con leidee chiare e molte cose da dire, librate su

una base ritmica tanto elastica quanto potente. Que-sta volta il gruppo per l'immagine di copertina s'è affi-dato al muralista cileno Eduardo «Momo» Carrasco, inItalia dal '74: saldatura netta e significativa tra duediverse generazioni antifasciste, mentre per musiche etesti si è guardato più a una dimensione collettiva dielaborazione. Due i vertici del nuovo lavoro: Crisi,splendida «controstoria» dei misfatti finanziari chefabbricano milioni di nuovi poveri, e Un giorno di fuo-co, gran bell'esercizio di memoria partigiana. (g.fe.)

stefano crippagianluca dianaguido festineseluca gricinella

gabrielle lucantonioguido michelone

brian morden

L E G E N D A

ULTRASUONATI❙ ❙ B O O K N O T E ❙ ❙

Norvegia vs InghilterraL’apocalisse del folkche arriva dal freddo

LOS FABULOCOS & KID RAMOSDOS (Delta Groove Music/Egea)

7Eccoli dopo due anni di assenza che torna-no i cavalieri del suono Cali-Mex. Accompa-gnati ufficialmente dal sodale di mille avven-

ture Kid Ramos. Meglio dell’ultima volta, con un suonopiù maturo e meno saltellante. Si ravvisa una determi-natezza nelle scelte più netta, elemento che miglioranettamente l'esito del tutto. Dodici incisioni ritmiche efestaiole, sia quando sono cantate in inglese (Eve-rything Will Turn Out Allright) che in spagnolo (Loschucos suaves, Una pura y dos con sal). Rilevante an-che il suono elettrico quando diviene francamenteblues (My Brother’s Keeper). Ci piacciono. (g.di.)

ANDREA MARUTTI/FAUSTO BALBODETRIMENTAL DIALOGUE (Fratto9 Under the Sky)

7La coraggiosa etichetta di Pavia negli ultimitempi ha incrementato le uscite, a dispettodel fatto che i cd si vendono poco: un segno

di fiducia nello «zoccolo duro» degli ascoltatori chenon si accontentano di scaricare la musica che sarebbeun peccato non cogliere, perché la produzione è a livel-lo delle migliori uscite internazionali. Come questoduo di elettronica tra Marutti e Balbo, attivo da un lu-stro. Registrazioni a quattro mani, elaborazioni tra il2007 e il 2009, poi una lunga session di mixaggio subanco analogico, che garantisce spessore e armonicialla musica. Vengono in mente le avventurose puntatedei primi «corrieri cosmici» tedeschi degli anni Settan-ta, ad ascoltare Detrimental Dialogue, ma anche, atratti, la livida imperturbabilità della ricerca dell'ultimoventennio svincolata dalla battuta fissa. C'è respiro eintelligenza, in queste note «sintetiche». (g.fe.)

HELEN MERRILLTHE NEARNESS OF YOU (Phoenix/Egea)

8Come Carmen McRae anche Helen Merrill -che portò nel jazz anni Cinquanta una singo-lare attitudine a usare la voce quasi fosse

uno strumento - , ha «sofferto» la presenza di due gi-ganti come Ella Fitzerald e Sarah Vaughan sulla stradadella popolarità di massa. Dizione perfetta, spostamen-ti di accento e interpretazioni, la sua «filosofia» delcanto era già racchiusa in questi due splendidi albumriuniti in un solo box nella ristampa Phoenix The Near-ness of You e You've Got a Date with Blues incisi tra il1952 e il 1953. L'artista newyorkese è stata splendidaanche nella maturità, andrebbe rispescato un disco del1994, Brownie, omaggio a Clifford Brown. (s.cr.)

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■ EGITTO ■ UN CONCERTO DALL’ALTRA PARTE DEL MARE ■

Cairo di notte,rinascita sonora

di RadioDervish

La musica di Piazza Tahrir è sommersa dal rumore del trafficocaotico della metropoli egiziana. Eppure proprio le canzoni trasmesseattraverso internet e nei locali underground del Cairo hanno fatto dacollante amplificando gli slogan della rivoluzione araba. Non si trattadelle canzoni delle pop star, spesso compromesse con il regime di Mu-barak, ma della voce di giovani cantautori e rappers che hanno pagatocon l’arresto, e in alcuni casi conla vita, il loro farsi icone del pro-fondo cambiamento che sta coin-volgendo la società egiziana.

Una sensazione che ci ha ac-compagnato costantemente du-rante le varie tappe del nostroviaggio al Cairo è stata la consape-volezza di trovarsi davanti ad uncapitolo importante della storiadel mondo arabo. Sorprendentela percezione del capovolgimentodelle considerazioni che fino a po-co tempo fa costituivano il riferi-mento di analisi della realtà ara-ba, illustrate nello scritto di SamirKassir (giornalista libanese assas-sinato a Beirut nel 2005) L’infelici-tà araba nel quale lo scrittore ri-trae una popolazione oramai im-prigionata nella passività fatalistae rassegnata al proprio infelice de-stino incapace di cambiamento.Ma è lo stesso Kassir che sostienenel suo libro che gli arabi: «Eredidi una grande civiltà che guarda-va al futuro. gli arabi possono riap-propriarsi del proprio destino. Apatto di liberarsi della cultura delvittimismo. Di fare i conti conquella modernità che molti conti-nuano a vivere come minaccia».

Evidentemente i ragazzi dellarivoluzione dei gelsomini hannosaputo liberarsi dalla cultura delvittimismo e si sono serviti deglistrumenti della modernità, face-book e twitter in testa, per diffon-dere la loro primavera.

E così da qualche mese a que-sta parte sembra quasi che la dire-zione geografica della storia si siainvertita e che il suo motore si siaspostato nella costa sud del medi-terraneo che ora appare così dina-mica di fronte ad un attonito occi-dente che si mostra sempre piùarroccato e fermo in un privilegiofatto di un benessere che oramaisi ha il terrore di perdere e che sitraduce nel rafforzamento di iden-tità egoistiche incapaci di aprirsiall’altro. Una stasi provocata an-che da decenni di mito individua-lista e consumista introiettato daalmeno due generazioni.

E al Cairo i segni della rivoluzio-ne sono tanti, dal fatto che piazzaTahrir è sempre presidiata dagruppi di persone che improvvisa-no discussioni politiche, danze ecanti fino alla presenza per le stra-de di squadre di giovani studentiattivisti che in mezzo al traffico simettono a ridipingere gli sparti-traffico e la segnaletica accompa-gnandola alla scrittura di sloganpro rivoluzione. Questo fenome-no del rimettersi in gioco in pri-ma persona e di prendersi curadella cosa pubblica è il cambia-mento più visibile della psicolo-gia collettiva che fin dai primi mo-menti ha visto, nei momenti dimaggiore anarchia della transizio-ne, gli uomini dei quartieri richia-

mati dagli appelli lanciati dai mi-nareti, autorganizzarsi per la dife-sa e il controllo del quartiere, ora-mai senza polizia, e nella pulituradelle strade. Infatti proprio la poli-zia, direttamente controllata dalvecchio regime, aveva fatto uscirei criminali comuni dalle carceri esi era dileguata.

Per lunghi giorni l’esercito erastato fermo a guardare l’evolversidella situazione prima di schierar-si dalla parte del popolo e quindi iventicinque milioni di cairoti so-no stati lasciati a se stessi ed allaloro personale iniziativa. Nel frat-tempo ogni giorno bruciava unpalazzo del potere non ad opera

dei manifestanti bensì di chi ave-va interesse a far sparire docu-menti e prove delle malefatte delvecchio regime.

Allineati sull’aiuola di piazzaTahrir ci sono dei cartelli con del-le vignette che spiegano le rivendi-cazioni dei manifestanti ed in par-ticolare ci colpisce uno dove unamezzaluna ed una croce sonoquasi abbracciate a simbolizzarela volontà di non cadere nellatrappola degli scontri interreligio-si fomentati da una controrivolu-zione strisciante. Il sorriso e l’en-tusiasmo dei giovani che sembra-no essere consapevoli di essere di-ventati un po’ delle star perché

vengono seguiti con grande sim-patia dal resto del mondo sembrainfondere una tenerezza che qua-si fa dimenticare l’alto costo in ter-mini di vite umane pagato in que-sta piazza. Comitive di ragazzisembrano a tratti discutere in ca-pannelli e improvvisamente gio-care rincorrendosi, e come se permolti di loro non ci fosse alternati-va se non rimanere qui a sperareed aspettare fintanto che questapiazza continuerà ad essere il cen-tro di un mondo in profonda tra-sformazione.

Quando ci dirigiamo verso ilcuore della piazza, diventata ora-mai un laboratorio politico unico

al mondo, molti giovani ci vengo-no incontro, vogliono parlare, co-municare con noi e conoscere laragione della nostra visita. Nelfrattempo molti venditori ambu-lanti ci propongono simpaticissi-mi “Gadget della rivoluzione”.C’è molta gente che canta, che tra-smette musica, gruppi di personeche discutono ad alta voce e checi invitano a far parte delle loro di-scussione sulla rivoluzione e sulfuturo della stessa.

Quando lasciamo piazzaTahrir a notte inoltrata abbiamol’impressione di essere stati in unluogo inusuale: fuori dal solito ste-reotipo del mondo arabo.

Sarebbe molto interessante sequesto germoglio di rinascimen-to arabo riuscisse ad uscire dal-l’ambito mediorientale e prendes-se una connotazione mediterra-nea coinvolgendo insieme le po-polazioni del sud e del nord Euro-pa. Non dimentichiamo che infondo l’umanesimo e il conse-guente rinascimento europeo fu-rono fortemente influenzati dauna migrazione di intellettualiorientali alla corte di Firenze do-po la caduta di Costantinopoli. Lecose nuove in effetti si generanodall’ibridazione tra elementi di-versi e apparentemente distanti.

La musica in generale ha biso-gno di luoghi nei quali risuonaree le nostre composizioni si sonosempre nutrite di luoghi reali edimmaginari fin dalla loro fase ini-ziale colorandosi con paesaggi

SEGUE A PAG 18

BRONSONDI NICOLAS WINDING REFN; CON TOM

HARDY, KELLY ADAMS. GB 2008

0Basato su una storia vera.Michael Gordon Petersonè un cittadino britannico

nato nel 1952, oggi considerato «ilpiù violento criminale in prigione delpaese». Nel 1974, a 22 anni, per far-si un nome tenta di rapinare un uffi-cio postale con un fucile a cannemozze. Arrestato e condannato asette anni di carcere, è ossessionatodall’idea di diventare famoso ed as-sume il «nome d’arte» di CharlesBronson, come l’attore americanofamoso per i suoi ruoli di giustizieresolitario. Bronson dal 2000 scontal’ergastolo.

COUNTRY STRONGDI SHANA FESTE; CON GWYNETH PALTROW,

TIM MCGRAW. USA 2010

0Melodramma musicale.Beau Hutton (Garrett He-dlund), un cantautore stel-

la nascente della musica country, siinnamora di Kelly (Gwyneth Pal-trow), una ex-star del settore piutto-sto alcolizzata, fino ad essere arresta-ta per guida in stato di ubriachezza,in attesa del suo rilancio. La loro rela-zione s’intreccia con quella del mari-to (Tim McGraw) e manager di Kellye della reginetta di bellezza Chiles(Leighton Meester) altra aspirantecantante country. Prodotto da TobeyNcGuire.

LE DONNE DEL 6˚ PIANODI PHILIPPE LE GUAY; CON FABRICE LUCHINI,

SANDRINE KIMBERLAIN. FRANCIA 2010

0Parigi, anni 60. Jean-LouisJoubert (Luchini), agentedi cambio rigoroso e rigido

padre di famiglia scopre che un alle-gro gruppo di cameriere spagnolevive al sesto piano del suo palazzoborghese. Maria, la giovane camerie-ra che lavora a casa sua, gli fa scopri-re quell’universo esuberante cosìlontano dall’austerità del suo mon-do. Jean-Louis si lascia andare e perla prima volta assapora con emozio-ne i piaceri più semplici. Nel castCarmen Maura, Concha Galàn, LolaDueñas, l’argentina Natalia Verbeke.Era fuori concorso a Berlino.

SEGUE A PAG 18

Invitata a suonare alla Cairo Opera House, la band

italo-palestinese racconta sensazioni, incontri e storie

di un mondo arabo in trasformazione. Sostando a parlare

coi gruppi di giovani che discutono, cantano e ballano

in Piazza Tahrir, laboratorio politico unico al mondo.

LETALE

INSOSTENIBILE

RIVOLTANTE

SOPORIFERO

CLASSICO

BELLO

COSI’ COSI’

CULT

MAGICO

Tre immagini del concertotenuto dai Radiodervishnel «Cairo Opera House»

16) ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011

Page 17: Alias Supplemento del Manifesto 11/06/2011

SETTIMO BIOGRAFILM FESTIVAL

di Mariuccia Ciotta

La matita e il pixel, una li-nea rossa salda l'avanguardia di-sneyana al presente, da MickeyMouse a Toy Story, dal primo Stu-dios di Hyperion Avenue alla Pixardi John Lasseter. Non sarà solo unomaggio a Walt Disney l'eventodel Biografilm festival (Bologna10-20 giugno) ma la testimonianzadi una memoria al lavoro.

L'evoluzione di uno esperimen-to «animato» che prosegue nel tem-po, secondo le direttive immaginifi-che del poeta dell'incanto. Visioneespansa com'era Fantasia che pre-cipitò dall'immateriale nella «cittàdel futuro», prima Disneyland poiEpcot, progetto di urbanistica futu-ribile (Walt morì prima di realizzar-lo) e oltre.

Da qualche anno chi dice Di-sney non evoca più solo il marchiodi Burbank ma quel sottile graffioche emerge nel luccicare argentatodell'auditorium di Frank Ghery aLos Angeles, la firma famosa im-pressa sulla superficie a vela del Di-sney Hall. Il merito è tutto di DianeDisney Miller, figlia di Walt, chegiovedì 16 giugno sarà ospite del fe-stival diretto da Andrea Romeo, eche già le riservò un tributo nel2006. Questa volta però l'ideatricedella W. D. Family Foundation sa-rà presente per invitare a un viag-gio nella zona di frontiera del won-derland, invito rivolto ai tanti cheancora non sanno chi c'è dietro ilmito. E sarà proprio il documenta-rio di Jean-Pierre Isbouts Walt:TheMan Behind the Myth (visto alleGiornate del cinema muto 2001)ad aprire la due giorni in compa-gnia dell' «attivista» che con la suaanti-major di famiglia ha riscoper-to i tesori di un grande artista delNovecento. Non solo l'uomo, con-tro tutte le rivelazioni diffamanti incircolazione, ma l'inventore genia-le, battistrada della terza dimensio-ne e del «fantasound», ingegneredi mondi.

La biografia vivente di Walt hasede nel W.D. Family Museum, sor-to a San Francisco nella zona delPresidio con vista sul Golden Gatebridge e sarà proprio il museo,inaugurato il 1˚ ottobre 2009, alcentro della visita di Diane DisneyMiller, guida speciale lungo le no-ve stanze cariche di tesori in un in-treccio tra vita e opere. Nella seratadi giovedì, che si chiuderà conBiancaneve e i sette nani (ore 21, sa-la Mastroianni), dopo la consegnadel premio Lancia Celebration ofLives per la creazione del museo,Diane farà conoscere in questa pri-ma europea l'opera dedicata al pa-dre, e racconterà la genesi dellospazio espositivo, visualizzato in

un breve filmato. Il Museo, che affianca le tante iniziative della Fondazio-ne, è il frutto di un lavoro lungo dieci anni (in collaborazione J.B. Kauf-man, autore di preziosi volumi sul Disney delle origini, molti scritti in tan-dem con lo storico Russell Merrit della Berkeley University), e ancora workin progress. Diane ha svuotato gli archivi e i cassetti di famiglia e allineatosugli scaffali fotografie e cimeli – una fila di Oscar dorati – documenti di la-

voro, lettere autografe (tra cuiquelle scambiate con il suppor-ter e ispiratore Charlie Chaplin),modellini in miniature e un vago-ne del famoso treno in scala ri-dotta realizzati dallo stesso Walt.Agli oggetti personali si affianca-no rari bozzetti dei cartoon, i fo-gli sgualciti dei primi schizzi di

Mickey Mouse, eletti a «Monna Li-sa» del museo... E a proposito delTopo, una doppia sorpresa, la pre-senza al Biografilm di un'altra rap-presentante dell'illustre genia, Le-slie Iwerks, nipote di Ub, il numerouno degli animatori dello Studios,collaboratore della prima ora diWalt, la mano geniale che diede vi-ta al personaggio simbolo.

Leslie mostrerà (giovedì 16, ore19) il suo The Hand Behind theMouse: the Ub Iwerks Story ('99), unfilm zeppo di materiali d'epoca, in-terviste, immagini del grande dise-gnatore in una carrellata fantasma-gorica che ne delinea il profilo, insintonia perfetta con la verità stori-ca, Walt creò Mickey, Ub lo animò.Regista di documentari d'inchiestasociali, Leslie Iwerks ha continuatola sua indagine sulle mutazioni deidisegni animati, e dall'inchiostro diUb è arrivata alle figure digitali, al-

l'ultima conquista dell'universo vir-tuale con l'opera dedicata a ThePixar Story (2007), orchestrata sulleitv motiv dell'unico creativo rico-nosciuto (anche da Diane) comeerede di Walt Disney, John Lasse-ter: «L'arte sfida la tecnologia e latecnologia ispira l'arte». Venerdì 16giugno (ore 17), il film sarà com-mentato dall'autrice, che figurainoltre tra i relatori del convegnoL'evoluzione dell'immagine (17 giu-gno, ore 19,30 spazio Feltrinelli) af-follato di importanti rappresentan-ti della cultura digitale, tra cui Ka-ren Paik, autrice del volume ineditoTo Infinity and Beyond! The Story of Pixar Anima-tion Studios, excursus sulla factory di Emeryville.Alla presentazione del libro, seguirà la proiezio-ne di una serie di cortometraggi nel programma«25 anni di creatività digitale – Pixar Shorts».

Nel paesaggio disneyano non poteva manca-re il nome di un pilastro dello Studios, Ron Mil-ler, prima produttore dal 1961 al 1980 (la serie tvZorro, Professore a tutto gas, Fbi operazione gat-to...), poi capo della company (1980-'83), cheideò e produsse anche film di grande innovazio-ne stilistica, primo fra tutti Tron ('82), impressio-nante anticipazione della realtà virtuale e di cuia distanza è stato riconosciuto il valore con il se-quel Tron Legacy (2010). Ron, marito di Diane,con la quale condivide il gusto del bello e del

buono (producono nella Napa Val-ley il vino Silverado, e dunque par-teciperanno nella mattina del 16 auna jam-session del festival sulletagliatelle al ragù) introdurrà nellanotte di giovedì (ore 23,30) il suocapolavoro cibernetico concepitoda Moebius.

Infine, al di là dei legami sangueil Bff ha convocato due protagoni-sti dello Studio dalle grandi orec-chie, Robert B. e Richard M. Sher-man, autori delle colonne sonoredei classici Mary Poppins, Il librodella giungla, La spada nella roc-cia, Aristogatti, Re leone... Il loro ri-tratto è consegnato al docu-filmThe Boys: The Sherman Brothers'sStory (17 giugno, ore 19), storia deifratelli Richard (testi) e Bob (musi-ca), autori di canzoni di successo,come dei George e Ira Gershwinmoderni, melodiosi accompagna-tori dell'appuntamento con la leg-genda Disney.

Biografilm Festival 2011 (10-20 giugno), alla Manifattura e al Lumière diBologna, gare e retrospettive, sconfina in provincia (Pieve di Cento, Miner-bio e San Giovanni in Persiceto). 40 euro l’abbonamento per un densoprogramma (proiezioni, libri, incontri, mostre, concerti, eventi...) da studia-re sul sito. «Back to the future» - la storia dei grandi è anche ricognizionemolecolare - è il tragitto originale della gang Romeo che ci porta stavolta

al «nodo 1985-1986», alle scaturigini di«mondo globalizzato, rivoluzione digitale ecoscienza ecologica», in un oggi così polve-roso e gassoso, Yemen, Siria e Libia a par-te. Oltre Disney, focus Elsa Schiapparelli,Salgari, Hemingway, McLuhan e FreddieMercury. Retrospettive John Hughes, i«nostri anni 80» e gli «amici miei» (Tognaz-zi, Gassman, Celi, Salce...). In gara i super«biofilm». Consigli? Blank City, Poe, Banskie Araki; Bollani & Rava; Tutino &Castellina;Walter Chiari, Crepax, Basquiat, Alessane,Pee Wee, Hudson, Gainsbourg, Joan Ri-vers, Vandana Shiva, Bill Hicks, Squillace...

A Bologna, 10-20 giugno, omaggio al Michelangelodel cartoon. Presenti la figlia Diane, il produttore RonMiller, i fratelli Sherman e Leslie Iwerks, nipote di Ub

USA: CRIMINI IN CALODETENUTI IN AUMENTOI dati li ha forniti l'Fbi a metà mag-gio, raccontando come il criminenon paghi più negli Usa, o almenomolto meno di una volta. Il nume-ro di rapine, omicidi, furti in casa odi automobili è sceso a precipizionegli ultimi decenni. Numeri e per-centuali si sono attestati al livellodi 40 anni fa, quando, anche soloper ragioni demografiche, eranodecisamente più bassi. Ma la buo-na notizia ha provocato un piccoloterremoto nel mondo dei sociologie criminologi. Tutti convinti che intempi così bui, soprattutto quan-do, tra il 2007 e il 2009, è scoppia-ta la Grande recessione, sarebbesuccesso esattamente il contrario.Persino nelle città, come NewYork, dove negli ultimi mesi c'èstato un aumento dei reati, nulla èparagonabile ai terribili anni '80 o'90. Se gli omicidi ad esempio nel2010 sono saliti ripetto ai 12 mesiprecedenti, il loro numero, 536, època cosa rispetto ai 2245 di 10anni prima. Se si guarda all'interopaese il trend è netto. Il numerodelle rapine è sceso dell'8%, quel-lo dei furti d'auto del 17%. Nonc'è un legame di causa e effettoinsomma tra crisi economica ecrimine, e del resto da questo pun-to di vista un precedente c'era giàstato. Anche durante la GrandeDepressione degli anni '30, quan-do la disoccupazione toccava cifreda capogiro, col 25% di gente alladisperata ricerca di lavoro, c'erastato un calo della criminalità.Ma forse, prima di concludere chegli americani sono diventati tuttipiù buoni, o quantomeno rispetto-si della legge o sposare la tesi diJames Wilson (autore di un sag-gio come Thinking about crime)che sul Wall Street Journal ipotiz-za nientemeno che un mutamen-to culturale profondo, bisognabuttare un occhio al sistema car-cerario. Dove sono rinchiusi oltredue milioni di persone. 751 dete-nuti ogni 100mila abitanti, unrecord mondiale, visto che persi-no in Russia, paese non certocosì tollerante, sono solo 627,mentre in Giappone e Germanianon arrivano ai 100 (63 nel pri-mo caso, 88 nel secondo). Pernon parlare di San Marino, dovec'è un solo detenuto.In America infatti finire in cella èpiù facile che altrove, e le penesono decisamente più lunghe. E ilrisultato, nonostante le tante prigio-ni, magari private, costruite negliultimi anni, è uno spaventoso so-vraffollamento. Tanto che, due set-timane fa, la Corte suprema è inter-venuta ordinando alla California(la causa riguardava per l'appuntoil Golden State) di ridurre nel girodi due anni la sua popolazionecarceraria liberandosi di ben 46mi-la detenuti. E se è vero che un mo-do per obbedire ai dettati dellaCorte sarà quello di spostarli, dallaprigioni statali a quelle delle con-tee, finalmente è cominciata unadiscussione seria sulle misure alter-native. Più per necessità, purtrop-po, che per convinzione. Perchéanche senza aspettare nuove sen-tenze, ciò che preoccupa, non icriminologi ma i governatori dimolti Stati sono i costi, stimati addi-rittura a 24mila dollari l'anno perogni carcerato.

■ BFF BOLOGNA ■ DISNEY FAMILY PROJECT ■

La fantasia al potere,dalla matita al pixel

Walt e Lillian Disneysul ponte del Rex(ca.1930);il logo del DisneyMuseum e alcuniTopolinial suo interno

ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (17

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SEGUE DA PAG 16

KILLER BEAN FOREVERDI JEFF LEW; ANIMAZIONE. USA 2009

0L’azione si svolge a Bean-town, una giungla urbana,con tanto di merce rubata e

bande organizzate: sono milioni dichicchi di caffè tra cui gli «uomini» delboss Cappuccino. A un certo puntocompare sulla scena Killer Bean a cuidà la caccia il detective Cromwell.Un’animazione tarantiniana per JeffLew, esperto in effetti visivi qui al suoesordio.

LONDON BOULEVARDDI WILLIAM MONAHAN; CON COLIN FARRELL,

KEIRA KNIGHTLEY. USA GB 2010

0Un criminale di South Lon-don uscito di prigione cercadi cambiare vita lavorando

come assistente e factotum per unacelebre attrice. I due si innamorano,ma la malavita non lo abbandona.L’intreccio si sposta a Los Angeles e ilromanticismo si trasforma ben prestoin noir. Il regista qui al suo esordio èsceneggiatore e romanziere, ha vintol’Oscar per la sceneggiatura di TheDeparted di Scorsese, la fotografia èdi Chris Menges (direttore della foto-grafia di Mission, Michael Collins eregista di vari film tra cui Un mondo aparte).

6 GIORNI SULLA TERRADI VARO VENTURI; CON MASSIMO POGGIO,

LAURA GLAVAN. ITALIA 2011

0Un team di ricercatori affron-ta l’inquietante fenomenodelle alien abductions (rapi-

menti alieni). Davide Piso è uno scien-ziato esperto di Ufo e arriva alla conclu-sione che da migliaia di anni gli extra-terrestri rapiscono gli umani e si nutro-no dei loro cervelli. Secondo Piso glialieni vivono tra noi e tramite l’ipnosiriesce a comunicare con loro. Horror efantascienza vengono messi a confron-to. Varo Venturi ha esordito con l’inte-ressante Nazareno. Pier Giorgio Belloc-chio e Francesco Venditti nel cast

X-MEN - L'INIZIODI MATTHEW VAUGHN; CON JAMES MCAVOY,

KEVIN BACON. USA 2011

0X-Men: First Class rappresen-ta l’inizio epico per la sagadegli X-Men e rivela la storia

degli eventi più importanti della sagastessa. Prima che il mondo conosces-se l'esistenza dei mutanti e che Char-les Xavier e Erik Lensherr prendesseroi nomi di Professor X e Magneto, dueragazzi scoprono i loro poteri per laprima volta. I due, che diventerannonemici giurati, lavorano insieme conaltri mutanti per fermare l'Armaged-don. Ma in questo percorso, tra di loronasce un contrasto, che scatena l'eter-na guerra tra la Confraternita di Ma-gneto e gli X-Men del Professor X.

CIRKUS COLUMBIADI DANIS TANOVIC; CON MIKI MANOJLOVIC,

BORIS LER. BOSNIA FRANCIA 2010

7Divko Buntic che durante ilcomunismo se n’era andatoin Germania torna dopo

vent’anni, ricco e spietato, soprattuttonei confronti della moglie che non loaveva seguito. Si fa ridare dal sindacola casa dove lei abita con il figlio chenon ma mai più rivisto e ostenta lagiovane fidanzata. Ma soprattutto sipreoccupa del suo gatto scomparso.Intanto, parallelamente al machismoche scorre nel villaggio si preparanoventi di guerra. Commedia nera maromantica, del regista di No man’sland. (s.s.)

THE HOUSEMAIDDI IM SANG-SOO; CON DO-YEON JEON,

JUNG-JAE LEE. COREA DEL SUD 2010

7Remake del capolavoro diKim Ki-young (’60), basatosu un classico ma riletto in

chiave contemporanea. Il personaggiochiave della storia, la «serva», appare

in un’ottica completamente capovolta.Da femme fatale, qui è una ragazzafragile, schiacciata dal potere dellaricchissima famiglia per cui lavora nel-le cui dinamiche il regista suggerisceun’immagine dei rapporti sociali nellaCorea di oggi. E lo fa nel suo stile, conun cinema ricercato, composto dageometrie estreme e complesse. (c.s.)

NAUTADI GUIDO PAPPADÀ, CON DAVID COCO, LUCA

WARD. ITALIA 2011

6Un antropologo riceve ina-spettati finanziamenti peruna ricerca su un evento

che si manifesta quando si raggiungela perfetta armonia tra essere umanoe natura. La traversata verso l’isoladella Tunisia dove è stato avvertito ilfenomeno avviene su una barca di uncapitano amico, una biologa, un som-mozzatore. La perfetta armonia saràraggiunta tra di loro anche senza even-ti naturali. Begli effetti visivi di cui ilregista, al suo esordio, è specializzato,meno riuscita la costruzione dell’intrec-cio. (s.s.)

LA POLVERE DEL TEMPODI THEO ANGHELOPULOS; CON MICHEL

PICCOLI, IRÈNE JACOB. GRECIA FRANCIA ITALIA

2009

8La polvere del secolo ci arri-va con tutto il suo carico distoria tra barriere, muri, esi-

li, guerre, scarse le speranze per il futu-ro. Le generazioni che hanno speratodi cambiare il mondo, di dare l’assaltoal cielo, sperano solo di «tornare acasa», i loro figli sono troppo impegna-ti per esprimere calore, i giovanissimisenza futuro provano un’insopprimibi-le pulsione di morte. Eppure l’umani-tà, insopprimibile, scorre tra le genera-zioni con la sua energia, tra leggendariscenari. (s.s.)

IL RAGAZZO CON LABICICLETTADI JEAN-PIERRE DARDENNE, LUC DARDENNE;

CON CÉCILE DE FRANCE, THOMAS DORET.

BELGIO 2011

7Amarissimo film dei Darden-ne, ancora più violento deiloro precedenti per un dop-

pio apparente lieto fine. La vicenda sisviluppa dentro e fuori un istituto do-ve è accolto il dodicenne Cyril perchéil padre non vuole occuparsi di lui. Masecondo le regole dei paesi nordiciuna brava signora decide di prendersicura di lui in affido nei fine settimana.La bici non è oggetto secondario, po-trebbe essere la salvezza.(s.s.)

THE THREE OF LIFEDI TERENCE MALICK; CON CON BRAD PITT,

SEAN PENN. USA 2011

9Cosmologia texana, caleido-scopio cosmico-domestico,«corpo doppio» scientifico-

poetico di oltre due ore, monologointeriore per sequenze senza punteg-giatura, non privo di striature autobio-grafiche, slabbramenti da expandedcinema (frutto del lavoro di un grandepoeta degli effetti speciali visivi, Dou-glas Trumball) e fraseggi undergrounddegni di Brakhage. La ritmica, che siavvale di ben 5 montatori e di 34 bra-ni musicali rende L’albero della vitaun’epopea visuale affascinante e libe-ra, capace di continui controbalzi ba-rocchi. Terence Malick (al quinto filmdopo Rabbia giovane, I giorni del cie-lo, Il nuovo mondo, La sottile linearossa) è un filosofo alle prese con lastoria degli Usa che ha scelto il cine-ma come metodo per liberare il pen-siero, scioglierlo, dargli coraggio. (r.s.)

IL FESTIVAL

TAORMINA FILM FESTTEATRO ANTICO, 11 - 18 GIUGNO

Taormina Film Fest 2011 diretto da Debo-rah Young, apre l'11 giugno con una ante-prima in 3D, Kung fu Panda 2 prodottodalla DreamWorks Animation, alla presenzadel comico Jack Black che dà voce al pandaprotagonista Po (Fabio Volo lo doppierànella versione italiana). I Taormina ArteAward saranno assegnati a Monica Bellucci,a Oliver Stone che presenterà la sua versio-ne di Alexander Revisited: The Final Unra-ted Cut, e al produttore Tarak Ben Ammar.Altri premi andranno al regista palestineseElia Souleiman, al produttore Jeffrey Katzen-berg cofondatore con Spielberg della Dre-amworks Animation. Tra i film in programma Cinéma Vérité con Tim Robbins eDiane Lane di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, Killing Bono e L’ultimo deitemplari, fanta-horror storico interpretato da Nicolas Cage. Il Maghreb è al centrodell’attenzione del festival con una rassegna di cinema nordafricano. Il film di chiu-sura sarà La voce di Rosa, di Nello Correale con Donatella Finocchiaro. (s.s.)

LA MALATTIADELLA MORTEROMA, CASA DELLE CULTURE (VIA SAN CRISOGONO

45) 14 - 19 GIUGNO (12, 15 EURO)

Ispirato ai Testi segreti di Marguerite Du-ras La malattia della morte di solito rap-presentato come monologo ha per la pri-ma volta con due protagonisti, un uomo(Pino Calabrese) e una donna (LetiziaLetza). Di fronte al pubblico, due perso-naggi rinchiusi in una stanza, fissati in unasorta di fermo-immagine. La loro fragilitàè messa a nudo e influenzata dai flussidel mare, quell'oceano Atlantico tantoamato dalla Duras che viene esaltato intutta la sua energia grazie alle immagini inproiezione. Forte è l'attrazione sessuale che lega i protagonisti, così come il lorolegame intellettuale. Lui racconta alla donna incubi inconfessabili e sogni sopiti.Lei osserva, ascolta, attende ponendosi a metà strada tra lo spettatore e l'aman-te-interlocutore. Adattamento e regia di Natachà Daunizeau. Info: [email protected], http://www.casadelleculture.net

ANTONIO REZZAFLAVIA MASTRELLAPARIGI, THEATRE DES ABBESSES, 11 GIUGNO

Cantieri d’Europa al Theatre de la Ville diParigi, in collaborazione con l’Istituto ita-liano di cultura propone una serie di spet-tacoli, letture e incontri di artisti italiani:Ascanio Celestini con La fila indiana il 9e 10 giugno, un omaggio a Franco Quadril’11 giugno, Mario Martone con Le Ope-rette morali, letture di Saverio La Ruina eDaniele Timpano. «7 - 14 - 21 -28» lospettacolo di Rezza e Mastrella che persottrazione, ci porta a un passo dalla spa-rizione, costruzione di ideogrammi mobi-li, è stata definita una «danza macabra»ma forse il termine non è esatto se pensiamo alla vivacità prorompente e sfre-nata di Rezza con la messa in scena in cui gli oggetti, le opere costruite da Fla-via Mastrella non sono secondarie alla costruzione del senso dello spettacolo,anzi convergono nel far emergere gli ideogrammi, inaspettatamente comprensi-bili, del fallimento delle nostre società. (s.s.)

filippo brunamontiantonellocatacchio

mariuccia ciottagiulia d’a. vallan

marco giustiroberto silvestrisilvana silvestri

TUTTI PER UNODI ROMAIN GOUPIL; CON ALICE BUTAUD, CLEMENCE

CHARPENTIER. FRANCIA 2010

Ci sono cose che solo i bambini vedono e chegli artisti intercettano nei loro sguardi, la visio-ne però resta misteriosa, non decifrabile, ecosì Tutti per uno si accompagna all'infanziadi Truffaut e dell'ultimo Kaurismaki. RomainGoupil, classe '51, militante sessantottino(Mourir à trente ans, '82) scarta la narrazionedocumentaristica e sceglie un fermo-immagi-ne epocale, bambini in via d'espulsione con lemani in alto davanti al plotone armato diSarkozy. Les mains en l'air, il titolo originalescolpisce l'icona dei nostri giorni, monumentoin movimento per dire di ogni piccola vittimadi guerra, sul fronte o a Parigi, dove Milana (Linda Doudaeva), bimba cecena nascostain uno scantinato buio, difesa dai compagni di classe che temono l'espulsione dell'ami-chetta. La tensione tra innocenza e realtà dei sans papier è una bomba emozionale,Goupil disegna percorsi sotterranei dietro il «complotto» infantile, li fa eroi inconsapevo-li, avanguardie di altre rivolte che dilagheranno oltre la Francia. (m.c.)

SINTONIEIL FILM

IL TEATRO 1

IL TEATRO 2

Un libro italiano su Jerry GoldsmithIn Italia manca ancora il coraggiodi pubblicare studi sui maggioricompositori di musica applicataal cinema. Solo alcuni hanno be-neficiato di una monografia a lo-ro dedicata e mancano studi serisui numerosi maestri italiani ostranieri del passato o del presen-te. A quando un libro su FiorenzoCarpi, Piero Umiliani o Piero Pic-cioni? Su Riz Ortolani o su LuisBacalov? E quando verrà tradottoil libro di Vincent Perrot sul france-se Georges Delerue? Gli editoriconsiderano spesso questo tipodi libri poco lucrativi, destinatisolo ad una ristretta nicchia diappassionati. «To the happy few».Malgrado tutto si sogna e si sperache nasca una collana specializza-ta che possa ripercorre le lorovite, composizioni per il cinema,scelte estetiche, collaborazioni, involumi monografici in analogiacon le diverse collane esistentisui registi. Forse per questo moti-vo, il libro dell’uruguaiano, laurea-to in musicologia presso l’Univer-sità di Pavia, Mauricio Dupuis,intitolato Jerry Goldsmith e la mu-sica del cinema americano (178pagine,16 euro) è stato pubblica-to a conto d’autore. Lo si può or-dinare sul portale ilmiolibro.it maanche su quello di La Feltrinelli.ito in tutte le librerie La Feltrinelli.Malgrado la sua edizione confi-denziale, si tratta del primo testopubblicato in lingua italiana (e almondo) sull’immenso Jerry Gold-smith, uno fra i più importanticompositori americani di musicaper il cinema (200 colonne sono-re, tra le quali quelle indimentica-bili del Pianeta delle scimmie diFranklin J.Schaffner, Chinatown diRoman Polanski, Il presagio diRichard Donner, Alien di RidleyScott o Gremlins di Joe Dante). Illibro, esaustivo e molto documen-tato, è suddiviso in quattro parti :1. Una vita nel sistema produttivocinematografico (il contesto pro-duttivo e la carriera), 2. il proces-so creativo (le orchestrazioni e ilrapporto con il regista), 3. Attra-verso i generi cinematografici, 4.Nella saga di Star Trek (le partitu-re rifiutate, un catalogo delle ope-re, una discografia e una videogra-fia). Goldsmith viene trattato atutto tondo in un testo che ci per-mette di capire anche il funziona-mento della macchina hollywoo-diana, dove un compositore fa-moso e affermato può essere so-stituito a lavoro iniziato da unquasi esordiente Stewart Cope-land (il batterista dei Police, cheadesso lavora regolarmente per ilcinema. Se si mette da parte lagrandiosa colonna sonora di Rum-ble Fish di F.F.Coppola, realizzatapochi anni prima, la sua carrieraera allora appena iniziata) suWall Stret di Oliver Stone. Da leg-gere assolutamente perché pre-zioso nella sua completezza. Sisegnala anche l’interessante sag-gio scritto dal professore di «sto-ria e critica del cinema» e regista,Francesco Crispino, Alle origini diGomorra-Salvatore Piscicelli traNuovo cinema e Neotelevisione(Liguori Editore, 19.90 •uro), sulregista Piscicelli che nel 1985 rea-lizzò Blues metropolitano, dove lamusica partenopea aveva un ruo-lo fondamentale, era parte inte-grante della trama.

di Gabrielle Lucantonio

ENNIO & CO.SEGUE DA PAG 16

a volte visitati e, spesso, mai visti dicui si trova traccia anche nei nostritesti e nei nostri titoli: Gaza, Erevan,Belgrado, Beirut, Il Cairo hanno fat-to da tappe ideali di un itinerario im-maginifico nel quale si specchia lanostra poetica.

E c’è tutto un mondo che si aprementre percorriamo le vie del Cai-ro. I viaggi della mente si perdononel paese del Nilo cadenzati dallaradio del Cairo (Saut Al Arab mina’lQahirah), la più ascoltata in tuttomedioriente fino agli anni novantae che trasmetteva la musica del Cai-ro (Il Cairo Blues) cantato da OmKaltum, Halim,Farid Al Atrash, Ab-dul Wahab, i quali erano anche i di-vi del grande cinema egiziano,un’industria che fino agli anni ot-tanta competeva con quella hol-lywoodiana. Sembra di respirare an-cora quell’aria, dopo che pertrent’anni la cappa asfittica causatadal regime di Mubarak ha reso am-piamente decadente il paese, e divedere quelle immagini di un mon-do che ha accompagnato la prece-dente primavera del mondo arabola quale scandiva il nome di Nassercome una nuova speranza . Imma-gini in bianco e nero si mescolanovertiginosamente con quelle dei ra-gazzi di piazza Tahrir che hanno fat-to il giro del mondo attraverso ilweb e le tv satellitari.

Tra poco le nostre canzoni risuo-neranno nel Cairo Opera House, iltempio musicale più prestigioso del-l’ Egitto. Arriviamo nel primo pome-riggio per il sound check in questabellissima struttura che ci colpiscesubito per il livello tecnico ben supe-riore alla media mediorientale e perla ricchezza di programmazioneche prosegue normalmente con di-versi spettacoli: appuntamenti cul-turali, mostre e concerti ogni giornodella settimana nonostante la crisi ela situazione di stallo post-rivoluzio-ne nel paese.

Poco prima dell’inizio del nostroconcerto c’è molta confusione al-l’esterno del teatro che ci confortasulle aspettative dell’ affluenza. Ap-pena entrati ci sorprende l’acco-glienza molto familiare, sembraquella di una data italiana in pienaregola. Pare che tutta la folta comu-nità di italiani qui al Cairo si sia mo-bilitata per venire. Ci stupisce an-che l’affluenza di molti spettatori ca-iroti: veniamo a sapere poi che mol-ti di loro conoscono già la musicadei Radiodervish.

Iniziamo con City lights, un lun-go e caloroso applauso accompa-gna le ultime note della nostra can-zone. Realizziamo dopo lo smarri-mento iniziale che siamo veramen-te suonando al teatro dell’operaHouse del Cairo. Prima il saluto alpubblico in arabo poi la presenta-zione del gruppo accompagnata dafrasi affettuose di benvenuto in ita-liano che provengono dalla platea.

La serata diventa un invito al viag-gio lungo le rotte della nostra emo-zione. Gradualmente gli applausi cidicono che gli spettatori ci stannoseguendo e alla fine la sensazione èche abbiamo compiuto un pezzo distrada insieme, forse per questo do-po il concerto ci salutiamo come sefossimo dei vecchi compagni diviaggio. Dopo l’esibizione arriva an-che il momento dell’incontro con ilpubblico, molti italiani residenti alCairo ma anche molti ragazzi egizia-ni. Percepiamo dall’entusiasmo deiloro giovani volti lo spirito che hamosso i passi della loro tenera rivo-luzione dei gelsomini. Ce ne parla-no, vogliono comunicare il loro or-goglio, la loro felicità per aver cam-biato la loro storia. Dai loro discorsitraspare il profondo desiderio di co-noscere altri mondi, altre culture ealtre musiche. Forse un nuovo me-diterraneo sta nascendo.

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ALIAS N. 23 - 11 GIUGNO 2011 (19

Page 20: Alias Supplemento del Manifesto 11/06/2011

Se dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, nel caso dell’exploit di Pisapia -senza nulla togliere alla moglie Cinzia Sasso- il conto andrebbe aggiornato al rialzo. Nel backstage della sua missione impossibile ha lavorato una squadra informale di volontarie, con vissuti diversi ma tenuti insieme dalla voglia di cambiare Milano. Nelle foto di Olivia Gozzano, quattro storie esemplari. Carmela, in città da quarant’anni, è l’irresistibile titolare della tintoria di fronte al quartier generale del sindaco, cui non ha fatto mancare gli ultimi ritocchi all’abito prima di comizi e trasmissioni tv. «Sono una provocatrice nata» racconta «lo conosco da anni e mi permetto di scherzare con lui. Mi capita di sistemargli la camicia prima che vada in tv, o di spazzolargli la giacca trascinandolo in tintoria. Scherzando gli chiedo perché abbia deciso di sposarsi se poi gira con la camicia stropicciata. Risponde sempre con un sorriso». Nessuno meglio di Carmela, per «ragioni d’uffi cio», può giudicare il look del nuovo sindaco. «Sobrio ed elegante. Gli avvocati hanno tutti la stessa divisa: giacca blu, pantaloni abbinati. Abiti curati ma non lussuosi.» Di origine campana, Carmela racconta Milano con

l’orgoglio di chi ce l’ha fatta, lavorando sodo. La città le piace ancora, e a Pisapia chiede solo di continuare ad ascoltare i cittadini. «Temo si sia preso una bella croce, ma di lui mi fi do». Isa, invece, gestisce al Corvetto una delle ultime osterie «vecchia Milano», El Casotell, dove Pisapia si è rifugiato per un bicchiere di vino e un po’ di fresco sotto il pergolato. Il controllo sociale, in fondo, passa anche attraverso dialogo e partecipazione, e Isa conferma una tradizione molto milanese. «Sono nata e cresciuta in osteria, la gente mi piace e penso di capirla al primo sguardo. E’ bello sentir parlare dei problemi e condividerli, con ironia. Un esempio? In agosto facciamo una settimana di ferie. Ci capita di lasciare le chiavi del giardino ad un gruppo di anziani: chi resta qui ha bisogno di un posto dove stare». Nello staff informale del sindaco, Isa entra a pieno titolo alla voce «rimedio ai pasti saltati». «Il Giuliano, qui, la schiscietta la trova sempre. Sul cibo è molto tradizionale: tagliatelle fatte in casa, bistecca, roba semplice, come lui. Ci piace perché si fa capire anche da noi che non abbiamo una laurea. A dispetto della proverbiale serietà, posso giurare di averlo visto ridere di gusto: è davvero una persona di spirito. Gli dicevo sempre che non sarebbe mai arrivato al livello del suo papà, che a Milano era una istituzione. Mi sono sbagliata, per fortuna». Caterina vive tra i cantieri aperti dell’Isola, durante la campagna ha trasformato il mercato rionale in un personalissimo speaker’s corner: per diffondere i volantini in tutta la città ha chiesto una mano agli ambulanti maghrebini. Vive con una pensione di invalidità e nutre molte speranze per il nipote sedicenne, disabile. «Il sindaco non ci ha promesso la luna. Ci ha ascoltato e ha detto che si impegnerà. Per non sentirsi soli basta poco. Voglio pensare che il vento è cambiato davvero. Ho meditato a lungo di raggiungere mia fi glia a Barcellona, ma adesso voglio restare qui, a Milano». Un pensiero che deve aver attraversato anche Valentina. Aveva lasciato la politica. È tornata ad impegnarsi curando gli eventi che hanno reso speciale la scalata a Palazzo Marino: i concerti alla Stazione Centrale e in Piazza Duomo, e il tam-tam pro Pisapia sui social network. «Ero per strada dopo la festa per la vittoria, e ho ascoltato i commenti di altri ragazzi. Anche se ogni tanto incespica, si mangia le parole –dicevano-, si vede che è una persona per bene. Ha colpito soprattutto questo.» Il 6 Aprile Valentina ha compiuto trent’anni. Nel pieno della campagna, Pisapia ha trovato il tempo per una telefonata d’auguri. L’agenda del sindaco deve essere piena di appuntamenti come questo.

Paolo Maggioni

Tutte le donne del sindaco

foto Olivia Gozzano