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ANNO ACCADEMICO 2018-2019 CORSO DI GIORNALISMO POLITICO Fabio Martini PREMESSA CAPITOLO 1 BREVI CENNI DI STORIA DEL GIORNALISMO POLITICO CAPITOLO 2 L’INFORMAZIONE POLITICA SUI GIORNALI CAPITOLO 3 LA POLITICA IN TELEVISIONE CAPITOLO 4 I SOCIAL CAPITOLO 5 ETICA E DEONTOLOGIA CAPITOLO 6 FAKE NEWS E PROPAGANDA CAPITOLO 7 FATTI, OPINIONI, OPINIONISMO CAPITOLO 8 QUATTRO GIORNALISTI, QUATTRO MODELLI DI GIORNALISMO CAPITOLO 9 VIZI E VIRTU’ DEL MODELLO ITALIANO Premessa In tutta la sfera pubblica – su vecchi e nuovi media – la politica è onnipresente. In tv, se ne inizia a parlare all’alba e si può andare

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ANNO ACCADEMICO 2018-2019

CORSO DI GIORNALISMO POLITICO

Fabio Martini

PREMESSA

CAPITOLO 1 BREVI CENNI DI STORIA DEL GIORNALISMO POLITICO

CAPITOLO 2 L’INFORMAZIONE POLITICA SUI GIORNALI

CAPITOLO 3 LA POLITICA IN TELEVISIONE

CAPITOLO 4 I SOCIAL

CAPITOLO 5 ETICA E DEONTOLOGIA

CAPITOLO 6 FAKE NEWS E PROPAGANDA

CAPITOLO 7 FATTI, OPINIONI, OPINIONISMO

CAPITOLO 8 QUATTRO GIORNALISTI, QUATTRO MODELLI DI GIORNALISMO

CAPITOLO 9 VIZI E VIRTU’ DEL MODELLO ITALIANO

Premessa

In tutta la sfera pubblica – su vecchi e nuovi media – la politica è onnipresente. In tv, se ne inizia a

parlare all’alba e si può andare a dormire, avendo ancora nelle orecchie analisi, interviste e chiacchiere

di politica. Il primo talk show va in onda sul la7, alle 8 del mattino e l’ultimo si conclude all’ una di

notte, Linea Notte sulla Rete Tre. Sui giornali le prime 4-5 pagine sono stabilmente occupate dalla

politica, a parte i giorni nei quali non si impongano eventi di politica internazionale o di cronaca, di

finanza e di economia. Sui siti online l’informazione, e quella politica in particolare, hanno uno spazio

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prevalente. Troppo spazio? In Italia più altrove? Vedremo che è proprio così, ma ne valuteremo le

caratteristiche, l’identità, i virtù, i vizi, le opportunità.

 E d’altre parte non da oggi, ma sin dalle origini, l’informazione politica rappresenta il punto più

delicato e significativo dell’attività giornalistica perché  risponde alle ragioni per le quali la libertà di

stampa  appartiene ai diritti universali dell’uomo: senza informazione libera non c’è la possibilità di

formarsi liberamente un’opinione. E ovviamente l’informazione sulle vicende della politica è

prioritaria nel determinarsi un’opinione.

Nell’affrontare un inquadramento storico-metodologico del giornalismo politico, dobbiamo partire da

una distinzione essenziale. Fondamentale. Nel corso della storia e ancora oggi esistono - e sono sempre

esistiti - media che svolgono dichiaratamente un’azione politica, che esistono in quanto strumenti e

portavoce – più o meno dichiarati - di una parte. Altra cosa, del tutto diversa, è l’informazione politica,

cioè una delle tante possibili declinazioni del sistema informativo. Una delle tante. Così come esiste un

giornalismo sportivo, giudiziario, culturale od economico, esiste un giornalismo politico.

 Si tratta di due filoni apparentemente simili, che ogni tanto si intrecciano, ma in realtà molto diversi.

Camillo Benso di Cavour, Benito Mussolini, Antonio Gramsci - come animatori dei loro giornali -

hanno scritto articoli, utilizzando i loro fogli per svolgere un’azione politica. Cavour ha utilizzato il suo

Risorgimento, Mussolini Il popolo d’Italia e Antonio Gramsci ha utilizzato l’Unità. Ma per loro -  e

tanti altri - l’intento principale non era svolgere un’azione informativa e dunque giornalistica, ma

utilizzare i loro giornali come arma politica, con lo scopo di modificare – o sovvertire – l’assetto

politico.

Il giornalismo politico in senso stretto è un’altra cosa. E’ informazione, racconto, commento della

politica.

CAPITOLO 1 BREVI CENNI DI STORIA DEL GIORNALISMO POLITICO

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La nascita dell’informazione politica nei Paesi europei e negli Stati Uniti

Tra giornalismo e politica il nesso è sempre stato strettissimo. La vicenda storica del

giornalismo, che prende le mosse nel diciassettesimo secolo, affianca da vicino una

fondamentale evoluzione che era in corso sul piano sociale e politico. Il giornalismo

embrionale delle origini era infatti limitato a circoli oligarchici, monarchici e nobiliari e la sua

graduale emancipazione, il suo progressivo allargare gli orizzonti corrisponde ad un

fenomeno storico, di enorme importanza: l’affermarsi di una nuova classe, la borghesia. E

dunque il giornalismo è la prima, naturale espressione della nascita di un’opinione pubblica.

Sempre più diffusa, via via più esigente.

Difficile stabilire una data di inizio del giornalismo politico perché le radici si perdono in una

stagione nella quale anche la documentazione si fa incerta. Di certo a partire dal novembre

1641, nel pieno delle rivoluzioni inglesi, escono con regolarità i primi resoconti dei discorsi

parlamentari. Un evento che oggi può apparire risibile, ma allora non lo era. Si chiamavano

Diurnall, si vendevano in libreria, le informazioni venivano fornite in via ufficiosa dai

membri del Parlamento, erano formati da 8 pagine e rappresentano una pietra miliare nella

storia della libertà di stampa.

Perché la sia pur embrionale informazione di quei fogli sposta i riflettori dai fatti d’arme e di

corte al dibattito tra le parti presenti nel Parlamento inglese. Dopo quella iniziale novità le

rivoluzioni inglesi procederanno con un andamento altalenante e nelle fasi di repressione

affioreranno anche le prime newsletter clandestine, i fogli illegali di contenuto politico, che

contribuiscono a preparare la “gloriosa rivoluzione” del 1688. A quel punto il consolidamento

di un assetto liberale, porterà ad un altro evento storico, un evento spartiacque: il governo

inglese nel 1695 non rinnova il Licensing Act e quindi abolisce di fatto la censura preventiva.

La censura preventiva in quella stagione era, ovunque, una regola. Una mannaia che stroncava

in anticipo ogni possibilità di libera espressione e infatti sarebbe stata una pratica ripresa da

tanti regimi autoritari, fascisti e comunisti nel ventesimo secolo. In America la censura

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preventiva fu all’origine di una insubordinazione che anche in questo caso si può definire

storica: quella che vide protagonista un tipografo, James Franklin, che nel 1721 fece uscire, a

Boston e senza la certificazione preventiva, il New England Courant.

Grazie al battagliero fratello di James, Benjamin Franklin, che inizia a scrivere articoli a 15

anni, questo giornale pubblica articoli con una forte connotazione politica, a cominciare da

una campagna per la vaccinazione di massa contro il vaiolo, un’agitazione anche allora

necessaria per vincere i preconcetti di tanti. E soprattutto è il primo foglio schierato contro la

dominazione inglese. Dando il via ad un giornalismo politico di battaglia.

In Francia, un’ altra delle grandi monarchie europee, l’emancipazione dell’informazione

procede più a rilento: nel 1631 Richelieu concede il permesso di pubblicare la Gazete, un

settimanale di piccole dimensioni (23 centimetri per 14): è un giornale in livrea, un organo

ufficioso del potere, dedicato a notizie provenienti dall’estero. Ma anche in Francia la fronda

parlamentare contro Richelieu e Mazarino crea il clima per un primo disgelo: la pubblicazione

delle mazarinades, opuscoli di tono satirico contro il cardinale. Sino a quando con un

percorso - inizialmente carsico poi più scoperto - si arriva alla Rivoluzione del 1789, che è

preceduta da una straordinaria proliferazione di carta stampata sotto forma di pamphlet, fogli

più o meno periodici. E questo fermento, alimentato oramai da anni dalla cultura illuminista,

prende corpo nell’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

Approvato nell’agosto 1789, l’articolo 11 esprime un concetto straordinariamente innovativo

per i tempi ma che resterà scolpito per secoli, segnando uno di quei momenti magici che

restano fissati per sempre nella storia dell’uomo. E’ scritto: <La libera comunicazione dei

pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo. Ogni cittadino può dunque

parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi

determinati dalla legge>.

Una ventata di libertà che produce la prima, massiccia produzione di giornali squisitamente

politici: in una versione non certo descrittiva ma interventista, tipica del giornale di tendenza.

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Nel novembre 1789 Camille Desmoulins, uno dei protagonisti dell’assalto alla Bastiglia,

inizia le pubblicazioni di Les Revolutions de France e de Brabant. Desmoulins, uomo di

solida cultura classica, lo scrive quasi da solo e in uno dei suoi articoli è ben espresso il suo

programma: <I giornalisti oggi svolgono una funzione pubblica: denunciano, giudicano,

assolvono e condannano>. Un programma che contiene le due missioni del giornalismo

politico: c’è la denuncia – attraverso il racconto dei fatti e dei costumi – ma c’è anche la

condanna, tipica dei fogli di battaglia.

 Ma se quello di Desmoulins è ancora un giornale che prende le mosse da informazioni,

quello che sarebbe diventato uno dei fogli storici della Rivoluzione, ha un’altra impronta.

L’Ami du Peuple, che nasce nel settembre del 1789, ha un’impronta demagogica e

sensazionalistica, il cui scopo principale è fare appello alla mobilitazione contro coloro che

sono indicati come i nemici del popolo.

Ma la Rivoluzione francese, come è noto, vivrà un contrappasso di grande rilievo: la libertà di

espressione così faticosamente conquistata, diventa un’insidia per il nuovo potere e nel 1792,

quando il re oramai è stato deposto, viene messa fuorilegge la stampa realista e gli spazi si

restringono anche per i vecchi giacobini.  Ma, in Francia, come in Gran Bretagna, il primo

“ciclo” si era completato, affermando i due generi del giornalismo politico: quello di battaglia

e quello di carattere maggiormente informativo

L’Italia: le radici e il dna

In Italia, o meglio negli Stati della penisola italiana, il moderno giornalismo nasce nei primi

anni dell’Ottocento grazie all’effetto-contagio provocato dalla Rivoluzione francese. Nel

secolo precedente, nel Settecento, una certa libertà di espressione si era manifestata nei fogli

letterari o di cultura illuminista come il Caffè, mentre la politica era restata totalmente ai

margini.

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Ma la ventata rivoluzionaria francese e la dominazione napoleonica ebbero un effetto

impetuoso: tra il 1798 e il 1814 aprirono decine e decine di periodici, concentrati a Milano,

Roma, Bologna, Firenze, Napoli, Torino, Genova e Venezia. Sono periodici ispirati da una

forte vocazione politica, con una connotazione anti-istituzionale e anti-oligarchica: per la

prima volta le notizie provenienti dall’estero passano in secondo piano. La parentesi

napoleonica si chiude e dopo il congresso di Vienna i margini di libertà si stringono molto, in

alcuni casi si chiudono. Ma da allora resterà per sempre indelebile un modello: in Italia il

giornalismo nasce, prima come espressione del mondo letterario e culturale (Il Caffè) e poi di

quello politico e questo rapporto, questa filiazione resteranno per sempre.

Dunque, i giornali sono – e resteranno a lungo - un’emanazione del mondo letterario-erudito e

del mondo politico. Tanto è vero che Cavour e Mazzini – i principali artefici dell’Unità

italiana – all’origine si servirono dei loro giornali come strumenti di azione politica. La

mazziniana Giovine Italia era stampata a Marsiglia tra il 1832 e il 1834. Nel primo numero

Mazzini, nel suo appello agli Italiani , scrive: <Oggimai la stampa è l’arbitra delle nazioni>.

Un’affermazione eloquente sull’importanza, meglio ancora, sulla centralità dei giornali in

quella fase storica.

E qualche anno più tardi su altro fondamentale giornale nella storia italiana, Il Risorgimento,

nel 1848 il trentottenne Cavour scrive un articolo sul ruolo del giornalismo talmente

intelligente e talmente profetico che andrebbe mandato a memoria da tutti i giornalisti e da

tutti gli aspiranti giornalisti: <La stampa... è mezzo principale di civiltà e di progresso pei

popoli, senz’essa le società…rimarrebbero stazionarie, anzi indietreggerebbero. Ma la stampa

sola è mezzo incompleto, soventi volte fallace. L’opinione pubblica, avendo per unico

reggitore il giornalismo, non camminerà a lungo nella retta via, sarà tratta spesso in errore,

traviata da illusioni, spinta a pericolose esagerazioni. I sentimenti del pubblico si

svolgeranno… non mai in modo perfettamente logico, interamente libero dalle passioni

popolari>.

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La stampa – sostiene Cavour - non sarà mai del tutto attendibile come guida perché <non può

mai essere pienamente informata del vero stato delle cose>. E d’altra parte, argomenta

Cavour, il governo non può supplire, perché una stampa dipendente dall’esecutivo

<impedisce di produrre quel grande e libero  effetto che solo può partorire la stampa

indipendente>.

Cavour, nel momento in cui lo scrive, non lo sa ma questo articolo è destinato a diventare

profetico perché ci dice tre cose fondamentali

1 La stampa è un fondamentale strumento di progresso

2 la stampa non potrà mai essere infallibile in quanto non può conoscere tutti i dati della realtà

che racconta e in quanto permeabile alle passioni popolari

3 guai alla stampa ufficiosa e filo-governativa

Questo è un manifesto del giornalismo, ma Cavour utilizzava Il Risorgimento come giornale

di pedagogia politica e infatti questo uso in qualche modo lo aiutò ad entrare sei mesi più tardi

per la prima volta nel Parlamento subalpino e due anni dopo nel governo, dove inizialmente

assumerà l’incarico di ministro.

Nel biennio 1848-49, anni rivoluzionari in tutta Europa, ci sarà una nuova fioritura di gazzette

e proprio in questa stagione, pur in presenza di tirature limitate, si consolida il dna del sistema

informativo italiano nel suo rapporto con la politica, un rapporto che si perfezionerà nel corso

dell’Ottocento e del Novecento su due crinali.

Primo canale: il giornalismo italiano, agli esordi, si rivolge alle élites, mantenendo nel corso

dei decenni una consuetudine-vicinanza col mondo politico, una vocazione pedagogica, con

una certa resistenza alla cultura della notizia. Per la stampa italiana formare è sempre stato più

importante che informare. Come dimostrano le parole di un grande intellettuale dl Novecento

come Giuseppe Prezzolini, che nel 1909 scrisse una invettiva contro il primato dei fatti: <Le

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grandi vittorie sono dovute alla notizia, si vogliono fatti, fatti, fatti!>. La cultura anglosassone

dei fatti separati dalle opinioni fatica a far breccia, non soltanto tra gli addetti ai lavori, ma

anche tra intellettuali avvertiti come Prezzolini.

Seconda caratteristica del dna è la ridottissima presenza di editori puri, quelli spinti dalla

molla del profitto, quelli per i quali la finalità principale è la remunerazione, il consumo di

notizie. In Italia prevarranno quasi sempre (negli ultimissimi anni molto è cambiato) editori

con interessi in altri rami, per i quali avere la proprietà di un giornale ha rappresentato quasi

sempre uno strumento di pressione per “scambi” di varia natura. Nella seconda metà

dell’Ottocento erano nati molti dei giornali ancora in campo Nel 1876 era uscito, quello che

sarebbe diventato il più diffuso e autorevole giornale italiano, il Corriere della Sera, e il suo

fondatore, Eugenio Torelli Viollier, aveva espresso in questi termini la sua mission editoriale:

<Occultare una notizia perché danneggia i nostri amici politici… è una piccola disonestà che

indispettisce il pubblico>.

Nel 1878, a Roma, nasce a Roma Il Messaggero, un giornale che, pur caratterizzandosi per

l’attenzione alla cronaca cittadina, si renderà protagonista di una importante vicenda politica:

nel 1907 appoggerà esplicitamente il Blocco progressista e anti-clericale guidato da Ernesto

Nathan, che diventerà sindaco. Un giornale indipendente che trascina una coalizione politica.

Nei decenni che seguono l’Unità e fino alla prima guerra mondiale, la qualità del giornalismo

politico è condizionata dalla traballante situazione finanziaria di quasi tutti i giornali, costretti

a chiedere sussidi ai ministeri e alle giunte provinciali, con quello che ne consegue in termini

di indipendenza e di credibilità. La forte politicizzazione dei giornali italiani sarà confermata

da un fenomeno prevalentemente italiano: la forte presenza dalla stampa di partito, che

riprende la tradizione risorgimentale del giornalismo educativo e politico: nel 1892 nasce il

Partito socialista, le sue organizzazioni locali vantano una rete di 37 periodici ma quando nel

1896, esce il primo numero di un quotidiano a tiratura nazionale, l’Avanti!, le vendite

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crescono in modo esponenziale sino a raggiungere le 400mila copie, insidiando così il primato

del Corriere della Sera, nel frattempo diventato il primo giornale italiano.

Durante il ventennio fascista un libero giornalismo politico, per evidenti ragioni, non esisterà.

Anche se durante la stagione autoritaria tutto il sistema informativo – radio, cinema e giornali

– sarà potentemente utilizzato a fini politici. Per aumentare il consenso. Apparentemente una

contraddizione: una dittatura, in linea di massima, dovrebbe essere interessata in modo

limitato dal consenso. Mussolini invece avrà costantemente questo rovello e l’utilizzo a fini

politico-propagandistici dei media farà scuola nei suoi successori democratici alla guida del

Paese. Nel corso della stagione mussoliniana i giornali saranno purgati e censurati da qualsiasi

notizia che avesse un valore politico, ma curiosamente saranno ridotte al minimo tutte le

notizie di cronaca nera, in quanto ansiogene e in contrasto con la visione ottimistica proposta

dal regime.

Nel secondo dopoguerra, col ritorno della democrazia, torna anche il giornalismo politico.

Sono anni nei quali i partiti avevano un grande ruolo e infatti i giornali delle forze politiche

più “militanti”, in particolare Avanti e Unità, non soltanto avranno una larga diffusione ma

avranno anche una notevole qualità giornalistica. Alla fine degli anni Quaranta, quasi metà dei

giornali erano di partito, coprendo circa il 40% della diffusione complessiva.

Dal primo dopoguerra – e fino ad oggi – il giornalismo politico in Italia avrà una storia non

sempre lineare e protagonisti con profili diversi, ma la sua identità è segnata da alcune

caratteristiche molto marcate. E da alcuni generi di giornalismo politico tipicamente italiani.

I diversi “generi” nel secondo dopoguerra in Italia

Negli anni Cinquanta prende piede il cosiddetto pastone, un genere che ha segnato

l’informazione politica per decenni: consisteva – e in parte ancora consiste – nell’impasto di

notizie e commenti. Il pastone era il riassunto della giornata politica, di solito pubblicato nella

pagina 2 dei giornali: vi si intrecciavano dichiarazioni dei politici, notizie e commenti in

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controluce. Con una certa difficoltà a distinguere dove finiva il fatto e dove cominciava il

commento. Un genere che compare ancora oggi su tutti i principali quotidiani. Il secondo

genere tipicamente italiano è il cosiddetto “retroscena”. Nato all’inizio degli anni Novanta

come logo, come testatina che precede il testo dell’articolo, il retroscena intende accendere i

riflettori dietro la scena, alludendo a pensieri e parole che prendono luce per effetto del lavoro

indagatore del giornalista.

Passando dai “generi” alle identità specifiche del giornalismo politico italiano, media e

giornalisti hanno sempre disdegnato l’imparzialità: la neutralità è stata quasi sempre vista

come ingenuità. La regola, sempre un’altra: consigliare, condizionare, partecipare al gioco,

restando sempre collaterali a tutti i poteri: i partiti di maggioranza o i partiti di opposizione,

ma anche il potere economico, quello giudiziario, quello culturale.

Diversa la storia e la missione della Rai. Televisione rimasta monopolista per quasi 40 anni,

dopo l’avvio delle trasmissioni nel 1954, nel caso della Rai la contiguità col potere è

“statutaria”. In quanto azienda pubblica, legata allo Stato da una convenzione che ne fissa la

mission, la Rai è stata gestita dai partiti, in parte anche di opposizione e ha originato un

giornalismo che ha quasi sempre tenuto conto del pluralismo delle voci, con una qualità

professionale alterna, ma con punte significative.

La storia della Rai era iniziato alle 11 del mattino del 3 gennaio 1954 quando una giovane

annunciatrice, Fulvia Colombo, era comparsa – in una luce azzurrognola - sui pochissimi

teleschermi allora presenti nelle case italiane. Dopo una stagione iniziale di informazione

ufficiosa la direzione del telegiornale della sera, che all’inizio degli anni Sessanta era visto da

quasi tutti gli italiani che avevano la tv, fu affidata ad un grande giornalista della carta

stampata, Enzo Biagi. Durò poco, il tempo di portare sui teleschermi temi prima di allora

assolutamente tabù, come la mafia. Un filone di giornalismo politico di qualità che produrrà

trasmissioni memorabili, come Nascita di una dittatura e Notte della Repubblica, entrambe

realizzate da un altro maestro, Sergio Zavoli.

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In linea di massima però l’informazione politica prodotta dalla Rai ha sempre avuto

un’impostazione ufficiale, mentre sui giornali l’approccio è sempre stato più libero, più

completo. Con le caratteristiche segnate dal dna accennate in precedenza. Ma una

caratteristica in più, che ha ben spiegato Piero Ottone, già direttore del Corriere della Sera e

poi collaboratore de la Repubblica. Proprio riferendosi al rapporto tra giornale e politica

tipico de la Repubblica (che è stato il maggior successo editoriale del secondo dopoguerra nel

campo dei quotidiani) e forte della sua duplice “militanza” in entrambi i giornali, Ottone

scrisse nel suo libro Preghiera o bordello: Repubblica è un giornale combattivo, che cerca le

notizie, ma che <non mira alla verità ma a vincere>. Dunque, per far prevalere la “linea” di un

giornale si può glissare, manipolare o ignorare un fatto. Un modello che prende il nome di

“giornale-partito”. E che negli ultimi anni ha fatto molti proseliti. Un giornale gridato è un

modello che può essere realizzato con un sostanziale rispetto della verità dei fatti, come nel

caso de la Repubblica, ma che ha assunto forme più radicali come è accaduto con le

esperienze di giornali come Libero, Indipendente, Il Giornale, La Verità o di impostazione

giustizialista come Il fatto quotidiano, diretto da Marco Travaglio.

Nella storia del giornalismo politico un ruolo di avanguardia, di innovazione e da battistrada è

stato svolto per molti anni dai settimanali. Grazie ad una tradizione che era iniziata durante il

fascismo, con il settimanale Omnibus, diretto da Leo Longanesi e che aveva saputo ritagliarsi

uno spazio di autonomia negli anni della dittatura, dopo la fine della guerra e poi negli anni

Cinquanta, nascono almeno tre settimanali che rispetto al potere politico dimostrano un

approccio decisamente più disincantato, se confrontato con quello dei quotidiani di quegli

anni. Sono l’Europeo, diretto da Arrigo Benedetti, Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio e

l’Espresso, che avrà come primo direttore lo stesso Benedetti, dopo che ebbe lasciato

l’Europeo.

Grazie ad inchieste rimaste nella storia, come la celeberrima pubblicata dall’Espresso su

Roma (“Capitale corrotta=nazione infetta”) e soprattutto grazie allo spirito anticonformistico,

questi settimanali tracceranno un solco nel quale si inserirà il miglior giornalismo politico su

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carta stampata dei decenni successivi: quello improntato sul rigore professionale e sulla

indipendenza da qualsiasi potere.

CAPITOLO 2 L’INFORMAZIONE POLITICA SUI GIORNALI

L’informazione politica sui giornali italiani in linea di massima garantisce il maggiore vantaggio competitivo rispetto agli altri media, non tanto nei contenuti offerti ma per il metodo con il quale le informazioni sono raccolte, vagliate, selezionate e distribuite. Sui giornali la politica occupa uno spazio molto rilevante, decisamente superiore a quello di altri Paesi europei. Vedremo successivamente che

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analoga dilatazione si verifica in televisione per la presenza, in tutte le ore, di talk show che si occupano unicamente o prevalentemente di politica. In questa doppia “tracimazione” – giornali, tv, ma anche social – si delinea un modello italiano: in nessun altro Paese Occidente viene dedicato tanto spazio alla politica.

 Sui quotidiani italiani lo spazio varia da un 20-25% del colonnaggio che mediamente gli assegna il giornale più venduto, Il Corriere della Sera, al 28-32% della Repubblica che occupa uno spazio di opinione progressista, al 30-35% di un giornale di destra come Libero, sino al 45-50% del Fatto quotidiano, più vicino ad una opinione pubblica che ha votato Cinque stelle. Sulla base di una ricerca empirica condotta nel 1992, ultimo anno della cosiddetta Prima Repubblica, il Corriere della Sera dedicava mediamente l’8% del proprio spazio alla politica, 20 anni dopo lo spazio si era raddoppiato, salendo al 17% e oggi come detto, siamo attorno al 30. Per Repubblica analoga escalation: siamo passati dalll’11 al 17% tra 1992 e 2011, mentre oggi siamo 30-35%. Grande spazio, che si esprime attraverso diversi generi giornalistici. Non esiste una codificazione, diciamo così ufficiale, ma l’analisi empirica dei giornali ci consente di individuare sicuramente sei diversi generi. La nota, la nota commentata, il retroscena, l’intervista, il fogliettone, il corsivo. 1 La nota  La nota è un pezzo di cronaca sui fatti di giornata, quelli dei quali un giornale deve dare conto. Col largo consumo di televisione e di social una parte delle notizie che compaiono sui giornali sono vecchie ma ovviamente la disponibilità di qualche ora di lavoro in più consente una maggiore elaborazione, la ricerca di un senso per ogni notizia. La nota di cronaca è un servizio nel quale si raccolgono i fatti e le dichiarazioni relative ad un determinato avvenimento, provando a dargli un senso. Sono articoli nei quali non si trovano – o non si dovrebbero mai trovare - commenti, ma solamente il resoconto di un determinato evento. Di regola è così e per quanto sia il genere giornalistico meno “nobile”, la nota richiede la medesima professionalità e rigore imposti dagli altri generi.

2 La nota commentata

 In tutti i principali quotidiani compare quasi quotidianamente uno spazio “nobile”, ben marcato, identificato, fisso nel quale il giornalista – sempre lo stesso – fa il punto sulla giornata politica del giorno precedente, spesso con un “ponte” sul giorno successivo. Si tratta di uno spazio affidato ad un giornalista sperimentato, di “prima fascia”, spesso un ex direttore. Sul Corriere della sera, la rubrica che si chiama “La nota”, è tenuta da Massimo Franco, scrittore di numerosi e importanti libri di politica; su la Repubblica lo spazio (“Il punto”) è gestito da Stefano Folli, già direttore del

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Corriere della sera e del Sole 24 ore, mente su La Stampa (“Taccuino”) l’autore della nota commentata è Marcello Sorgi, già direttore dello stesso giornale e del Tg1.Tutte queste rubriche, che ribattezziamo “La nota commentata”, sono l’erede del vecchio pastone, degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, nel quale notizie e commenti si intrecciavano. Anche oggi la nota commentata è un mix, anche se vi prevale il commento, sia pure nello spirito di offrire una bussola nel mare sempre tempestoso della politica italiana. Questa rubrica, non a caso, è affidata a giornalisti prestigiosi: la loro esperienza, la loro misura, la loro distanza dagli eventi garantiscono sul carattere il più possibile “oggettivo” dei propri contributi soggettivi.

3 Il retroscenaCon una concorrenza sempre più agguerrita su vecchi e nuova media, il valore aggiunto della informazione politica dei giornali italiani si concentra sul cosiddetto “retroscena”, che è diventato il genere che sta caratterizzando una lunga stagione, iniziata negli anni Novanta del secolo scorso. In precedenza erano sempre esistiti articoli che scavavano anche dietro la scena, un genere coltivato dai grandi settimanali ma anche dai quotidiani come Il Giorno negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, da La Repubblica e non soltanto da questi giornali. Il retroscena come testatina, come logo che appare prima del testo, è un’invenzione di Paolo Mieli, direttore La Stampa, il giornale che all’inizio degli anni Novanta ha cambiato l’approccio all’informazione politica in Italia. Il primo retroscena esce il 2 ottobre 1990: lo firma Filippo Ceccarelli e si occupa della salute di un politico allora sugli scudi, Antonio Gava. Nato con l’idea di accendere i riflettori dietro la scena, il logo “retroscena” allude a pensieri e parole che prendono luce e apprendiamo grazie allo scavo realizzato dal giornalista. Quando è ben fatto e segue il criterio ispiratore e il retroscena informa su fatti e trame effettivamente accaduti, il valore aggiunto è davvero significativo. Oggi tutti i giornali quotidiani pubblicano quotidianamente almeno un retroscena, anche se non sempre sono preceduti dall’apposito logo. Questa attitudine a scavare dietro le quinte, di regola, accresce la qualità dell’informazione, ma negli ultimi anni questo genere è proliferato, perdendo spesso spessore. Il retroscena può diventare il terminale di un fenomeno complesso, non solo italiano, che consiste – per dirla con un grande giornalista come Furio Colombo, - <nell’affidare la notizia a giornalisti “affini” alla fonte>. E oltretutto, se dietro la scena si esercita un filtro disattento, altrettanto casuale è la credibilità e l’attendibilità di diversi virgolettati “top secret”, dei quali non sempre è possibile discernere verità, verosimiglianza.

4 L’intervista

Un tempo – e per molti decenni – le interviste ai leader di partito e anche alle seconde file della politica erano un’ esclusiva dei giornali e infatti rappresentavano di volta in volta un evento. Tra le tante, ha fatto epoca l’intervista rilasciata nel giugno del 1976 dal segretario del Pci Enrico Berlinguer a Corriere della sera, intervistatore era

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Giampaolo Pansa, nella quale il leader comunista ammetteva di sentirsi tranquillo sotto l’ombrello della americanissima Nato. Un’intervista-svolta, perché segnò una ulteriore, clamorosa presa di distanza dai comunisti italiani dai comunisti sovietici, che consideravano la Nato il male assoluto, in quanto alleanza militare nata proprio per contrastare il comunismo.

In televisione, a quei tempi, non si rilasciavano interviste perché non esistevano i contenitori adatti: a parte le Tribune Elettorali e quelle Politiche, sino all’inizio degli anni Ottanta non esistevano talk show nei quali il politico poteva essere intervistato con una certa periodicità. Oggi, per quanto riguarda il genere dell’intervista, i giornali sono rimasti residuali: le interviste sul “tamburo”, sull’attualità stretta sono tutte in tv. E a maggior ragione l’intervista sui giornali è chiamata a rispondere ad alcuni requisiti. Il più importante: un’intervista è interessante se le risposte producono un valore aggiunto rispetto a ciò che già conosciamo in merito ad un dossier, ad una dinamica politica o anche sul personaggio intervistato. Insomma, se le riposte contengano notizie o ci facciano capire di più rispetto a ciò che già sappiamo.

Questo può valere anche per interviste che non riguardino l’attualità e che si riferiscano ad eventi del passato più o meno recente. In questo caso siamo davanti a interviste di “lettura”, che traggono il proprio interesse da aneddoti di carattere storico. Esempio: se si intervista un politico appartenente ad un’altra stagione politica – poniamo l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita o quello del Pci Achille Occhetto, che hanno lasciato la prima linea da decenni – le loro risposte possono essere interessanti e giornalisticamente godibili sia per il raffronto passato-presente, sia per il racconto di episodi fino ad oggi inediti e che magari - per diverse ragioni - “parlano” all’attualità.

Il fogliettone

E’ un genere che non ha cadenza periodica e si occupa di personaggi o eventi di particolare originalità. Il fogliettone viene pubblicato sempre a fondo pagina e, se non è individuato graficamente, lo è dalla titolazione: mai realistica, o strettamente attinente ai fatti, ma invece light, spiritosa, allusiva.

Il corsivo

Non esiste una regola fissa e neppure un carattere tipografico che caratterizzi un genere giornalistico che è dedicato ai commenti graffianti, alle note scritte in punta di penna. Il corsivo, pubblicato di regola nelle pagine interne, è un genere non frequentissimo ma con alcune caratteristiche proprie. E’ breve, è scritto con uno stile meno prosaico dei servizi di cronaca, di solito prende di mira un obiettivo specifico. Un personaggio. Un evento inatteso. Nel passato esistevano due caratteri tipografici che connotavano un articolo di questo tipo: il corsivo e l’elzeviro. Oggi non c’è un

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carattere specifico - c’è chi usa il neretto, chi il corsivo – ma i “graffi” servono a rompere l’uniformità, la seriosità e la drammatizzazione delle pagine dei giornali.

Pregi e limiti

L’informazione politica sui giornali, di regola, è la più competitiva non tanto nei contenuti offerti – perché oramai su questo piano c’è una sostanziale parità con tv e Social - ma nella raccolta delle informazioni, nel modo in cui sono vagliate e alla fine nel modo in cui sono prodotte. Sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso i giornali pubblicavano notizie che erano restate sostanzialmente sconosciute per tutta la giornata precedente, perché la concorrenza della tv era molto relativa e comunque riguardava le notizie conclamate, ufficiali, quelle che si imponevano da sole. E quanto alla Rete, semplicemente non esisteva. Oggi la coesistenza con la Rete e con le tv che lavorano h24, ha moltiplicato la quantità e anche la qualità delle notizie e tutto questo ha cambiato la cifra professionale di chi si occupa di informazione politica. Arrivare in edicola 12, 18, a volte 24 ore dopo un determinato evento ha reso l’informazione politica sui giornali più dettagliata, più curiosa, più sbarazzina. In questo sta il valore aggiunto di un genere come il “retroscena”.

E’ altrettanto vero che decenni oramai il giornalismo politico in Italia registra, alla maniera dei sismografi, ogni variazione minima e dunque giorno per giorno si esercita in modo attento il mestiere, ma questo sguardo così concentrato sull’attualità, non ha consentito di veder arrivare i grandi eventi che cambiano lo scenario. O quando arrivano, ci si dispone in una modalità conformistica. Negli anni che hanno preceduto Tangentopoli nessun giornale si era accorto della pervasività della corruzione politica (in un’implicita complicità col sistema), ma quando i pm hanno scoperchiato la pentola, i media hanno spalleggiato (spesso acriticamente) il nuovo potere: la magistratura. E la stessa miopia ha riguardato il fenomeno-Berlusconi. O, anni dopo, quello dei Cinque Stelle.

E l’altro limite riguarda la veridicità dell’informazione prodotta. Sui giornali italiani, come accennato, lo spazio dedicato alla politica è estesissimo: per tenere alta l’attenzione dei lettori, talora l’informazione politica va sopra le righe. Enfatizzando. Drammatizzando. Nei testi. E nei titoli. Diversi anni fa lo scrittore Piero Citati sintetizzò con queste parole: <Grandi titoli irreali annunciano gli avvenimenti e spesso non hanno alcun rapporto coi fatti né coi resoconti, come un incantevole musica astratta che il direttore ascolta nella sua mente e vuole far ascoltare a tutti gli italiani>.

 

 CAPITOLO 3 LA POLITICA IN TELEVISIONE

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In un libro edito dal Mulino, intitolato Vox populi, realizzato dopo tutte le elezioni Politiche 2018 da “Itanes” e basato su una indagine capillare circa il comportamento e le motivazioni degli elettori risulta che il 44,1 per cento degli italiani ha considerato la televisione la fonte principale di informazione in vista delle elezioni, mentre coloro che si sono informati attraverso le diverse opportunità offerte dalle rete (social, siti web di informazione, giornali online) erano il 34 per cento. La televisione, pur arretrando pesantemente, dal 70,9 del 2013 all’attuale 44,1 per cento resta il punto di riferimento principale per chi vuole informarsi di politica. Vedremo successivamente che i social sono nettamente in ascesa e che tra i più giovani non c’è partita: è il media più praticato. Dunque i social influenzano molto di più di prima ma la tv mantiene un primato e un forte appeal e credibilità su una larga fascia di opinione pubblica, al di sopra di una certa fascia di età. Dal cinema alla tv

Fino al 1954 in Italia non esisteva la televisione e prima di allora l’informazione sulla politica correva sui giornali, sulla radio e sui cinegiornali, tra due proiezioni di uno stesso film: per almeno 60 anni le uniche immagini che arrivavano agli italiani provenivano proprio dal cinema La prima proiezione cinematografica in Italia risale agli ultimissimi anni dell’Ottocento, ma i primi fotogrammi impressi su pellicola e prodotti sono documentari della durata di pochi minuti, curiosamente dedicati proprio ai politici (in senso lato) di fine Ottocento: regnanti, imperatori, papi, oltreché a scorci di alcune città. Il primo importante operatore nella storia del cinema italiano si chiamava Vittorio Calcina e tra le sue "vedute" più celebri va ricordata la ripresa della visita a Monza di re Umberto I e della regina Margherita di Savoia, girata su commissione per conto dei fratelli Lumière..

Ovviamente nulla a che vedere con l’informazione politica, ma qualche anno più tardi, con l’avvento del fascismo, possiamo parlare di propaganda politica attraverso il cinema. Il primo e più abile propagandista per immagini nella storia italiana è proprio Benito Mussolini. Dopo aver preso il potere e dopo aver spento ogni opposizione, il capo del fascismo incoraggiò l’ampliamento di un’impresa che si occupava di brevi documentari cinematografici e suggerì lui stesso il nome: il nuovo istituto si sarebbe dovuto chiamare Luce. E lui stesso le assegnò la principale missione: doveva essere <la pupilla del regime>. Nel 1927 un decreto del duce obbliga tutti gli esercizi cinematografici ad inserire nella programmazione filmati dell’istituto Luce tra uno spettacolo e l’altro. E negli anni Trenta chiunque andasse al cinema – ed erano tanti gli italiani che vi andavano – si imbatteva in un notiziario dell’Istituto Luce che dava conto periodicamente delle principali imprese del Duce: inaugurazioni, discorsi. Il tutto condito ovviamente di commenti roboanti ed elogiativi. Quella non era informazione politica in senso stretto: era propaganda.

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Ma quando cadde il fascismo, nel primo dopoguerra, l’Istituto Luce passò la mano alla Settimana Incom: anche in questo caso, tra una proiezione e l’altra di uno stesso film, veniva trasmesso un notiziario che, senza la cappa censoria, dava conto delle informazioni politiche. E anche se non possiamo ancora parlare di giornalismo politico in senso stretto, fino al 1948 la Settimana Incom produce un notiziario di un certo equilibrio.Perché si possa parlare di un’informazione sulla politica degna di questo nome, dobbiamo aspettare la televisione, che approda in Italia con qualche anno di ritardo rispetto ad altri Paesi avanzati. Il primo regolare programma televisivo era stato messo in onda dalla Germania nazista il 22 marzo 1935, mentre il 10 maggio 1937 dal Regno Unito venne tramessa la prima diretta televisiva della storia: la cerimonia di incoronazione di Giorgio VI da parte della Bbc. E infine, il 30 aprile 1939, in occasione dell'inaugurazione della Fiera Mondiale di New York, la NBC inizia negli USA regolari trasmissioni televisive. Qualche settimana più tardi, il 22 luglio, a Monte Mario, allora alla estrema periferia nord di Roma, entra in funzione un trasmettitore sperimentale televisivo dell’ Eiar (Ente italiano per le audizioni radiofoniche). E finalmente il 3 gennaio alle ore 11 ha inizio il servizio televisivo italiano sul Programma nazionale.Per diversi decenni in Italia ci fu una sola emittente, la Rai con due canali: nel 1961 era nato il secondo programma. All’inizio degli anni Novanta la rivoluzione: dopo una decina di anni di trasmissioni, più o meno pirata, da parte di alcuni tv locali, fu consentito ad emittenti private di trasmettere sull’intero territorio nazionale. Il 13 gennaio 1992, Canale 5, la principale emittente Mediaset, mandò in onda il primo telegiornale in esplicita concorrenza con quello della Rai: lo conduceva – 26 anni fa - un giovane giornalista che si chiamava e si chiama Enrico Mentana. Andò in onda alle 20, in contemporanea col Tg1 della Rai e fece un ascolto record di 7.382.000 spettatori contro i 7.379.000 della Rai. Per avere un concorrente degno di questo nome al tg della Rai erano stati necessari 38 anni. Se ci riferiamo alle informazioni politiche, possiamo dire che per quasi 40 anni decine di milioni di italiani si sono informati soltanto attraverso la Rai (che nel frattempo ha moltiplicato le reti) e proprio grazie a questo lungo regime di monopolio e grazie alla moltiplicazione dell’offerta, oggi la Rai è la prima emittente pubblica d’Europa. I dati sono del 2015 ma sono rimasti sostanzialmente invariati, sia pure con una piccola flessione per la rete italiana. Gli ascolti delle tre reti nazionali Rai rappresentavano allora il 37,5% del totale, contro il 32,1% della Bbc, il 28,6% di France Tv, il 14,7 della Zdf e il 12,1% della Ard, entrambe tedesche. Le differenze tra emittentiSoltanto le principali emittenti producono informazione politica. I telegiornali delle tre reti Rai, quelli delle tre emittenti Mediaset (Rete4, Canale5, Italia1), da La7 e da tre canali satellitari, con informazioni h24: Sky Rainews, Tgcom24. Ogni emittente ha la sua linea editoriale, che ovviamente è suggerita dalla proprietà e tradotta in pratica dai direttori e dai suoi redattori. In Rai esiste una tradizione di pluralismo che deriva dal dna di questa azienda, dalla sua natura pubblica e dall’obbligo di pagare il

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canone. Una recente riforma del governo Renzi, che ha inserito il canone nella bolletta della luce, ha drasticamente diminuito la quota degli evasori che si sono ridotti al 36 al 10 per cento. Le polemiche sulla qualità del pluralismo Rai sono incessanti e l’accusa che ricorre negli anni è sempre la stessa: i partiti di governo occupano uno spazio eccessivo, spadroneggiano per effetto di una lottizzazione selvaggia, cioè di una spartizione non equa degli spazi televisivi a favore delle forze che si alternano alla guida del Paese.Ma come vedremo esiste una lottizzazione buona ed una cattiva. Il significato originario della parola lottizzazione è <suddivisione di un terreno in lotti, in vista della sua utilizzazione edilizia>. Una suddivisione che ovviamente si può svolgere con principii equi o con forzature.Da quasi 30 anni la principale concorrente della Rai è stata Mediaset, con le sue 3 reti: Canale5, Italia1 e Rete4. Il proprietario di Mediaset è Silvio Berlusconi, che quando si lanciò nel business televisivo era ancora un imprenditore, che dalla tv intendeva trarre profitti. Tanto è vero che la missione del primo Tg Mediaset, quello condotto da Mentana, era di fare un telegiornale di cronaca e di pochissima politica. Un modo, si pensava allora, per moltiplicare gli ascolti. Ma nel 1992, qualche mese dopo l’esordio del Tg5, scoppiò lo scandalo di Tangentopoli, col crollo dei partiti della Prima Repubblica. Berlusconi capì che per salvare il suo piccolo impero televisivo doveva entrare in politica in prima persona e a quel punto le sue reti si occuparono eccome di politica. Favorendo indirettamente – certamente non ostacolando – l’ascesa politica di Berlusconi. Ma proprio il carattere duplice di Berlusconi - un po’ politico e un po’ imprenditore, un po’ governante, un po’ oppositore – ha consentito lo sviluppo sulle sue reti di un genere nuovo, spesso corrosivo, quello che sta a metà tra informazione, comicità, inchiesta e che ha nelle Iene e in Striscia la notizia i suoi campioni. Trasmissioni immaginate per fare ascolto e che poi si sono riempite di un contenuto politico.La7 oggi è l’emittente televisiva che offre la maggiore informazione politica. Con un’ offerta varia e tambureggiante. L’osservazione del palinsesto è eloquenteAlle 7 si parte con la rassegna stampa. Alle 7,30 c’è il primo tg. Alle 8.00 inizia Omnibus, primo talk show della giornata. Finito il quale, alle 9,40, inizia il secondo: Coffee breack. Alle 11 parte un nuovo talk, L’aria che tira. Alle 13,30 nuovo Tg e alle 14,15 si ricomincia con Tagadà, fino alle 16,15. In altre parole dalle 8 alle 16,15 una striscia di talk show, che dura quasi ininterrottamente per 7 ore e mezzo.Si ricomincia la sera: a parte mercoledì e sabato sempre di politica si parla.E poi c’è Sky, con molta informazione sui Tg e qualche talk con una netta prevalenza per l’attualità.

Il primo contenitore: i Tg

I contenitori di informazione politica sono tre. Il primo è il telegiornale. Da decenni oramai le principali emittenti hanno “piazzato” il proprio Tg alle 20, orario intermedio tra la cena nelle regioni del Nord (19-20), quella del centro (20-21) e

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quella del sud. Mediamente a quell’ora i telegiornali in onda sono visti da quasi un italiano su 2, pari a circa 10 milioni di telespettatori. Il Tg1 è su uno share medio del 23 per cento, il Tg5 sul 18 e quello della La7 attorno al 7: questo vuole dire che la somma di questi tre Tg equivale a circa 10 milioni totali di telespettatori. Ma tra le 18,30 e le 20,30 vanno in onda altri tre tg e dunque dobbiamo aggiungere anche i telespettatori del Tg3 (circa 2 milioni), quelli del Tg2 (circa 1 milione e 700 mila) e quelli di Studio Aperto (circa 650 mila) e arriviamo ad una quota del 70-75 per cento di telespettatori che in questa fascia oraria vedono almeno un telegiornale, a volte anche più di uno. A tutti questi Tg, dobbiamo aggiungere quelli di Sky e la cifra complessiva aumenta ancora di più.Ecco perché l’informazione trasmessa dai telegiornali è molto importante nella formazione di una opinione pubblica. Nei telegiornali il messaggio e l’informazione politica passano attraverso due canali. Anzitutto attraverso i titoli iniziali dei Tg. In questo caso la scelta da parte della direzione giornalistica sta nella gerarchia delle notizie e nella quantità di commento che c’è nei titoli.

Prendiamo sabato 20 ottobre 2018. Leggiamo i titoli di apertura del Tg1. CONSIGLIO DEI MINISTRI, ACCORDO SULLA PACE FISCALE. CONTE, NESSUNA VOLONTA’ DI USCIRE DALL’EURO. DEFICIT FISCALE: STRALCIATE LA SANATORIA SULLO SCUDO PENALE E SUI BENI ALL’ESTERO NON DICHIARATI. INTANTO MOODY’S DECLASSA L’ITALIA. DI MAIO AL CIRCO MASSIMO: NO AI CONDONI, VOGLIAMO RESTARE NELLA MONETA UNICA. IL PD ALL’ATTACCO: SIETE IRRESPONSABILI.

Se prendiamo in esame gli altri principali Tg della sera (Tg2, Tg3, Tg5, La7), scopriremo che la gerarchia delle notizie è uniforme, mentre le differenze si possono riscontrare sui leader politici segnalati e su quel filo di commento che si può lasciare trasparire da un titolo. Il Tg3 (in quella fase considerato sensibile all’influenza della Lega) inserisce un commento di Salvini e una intervista a Renzi, artefice delle nomine Rai della tornata precedente. Il Tg2 apre con un titolo: “Accordo Lega-Cinque Stelle sul decreto fiscale” che riprende, correttamente, la parola-chiave usata anche dal Tg1: accordo. Il Tg5 (di proprietà Mediaset) inserisce nei titoli anche un commento di Berlusconi. La sottigliezza è un’altra: nei titoli di testa del Tg5 si dà conto anche dei commenti negativi di Confindustria e persino della Cgil. Non si tratta di commenti che abbiano un peso particolare, ma il contributo del tg berlusconiano sta esattamente in questo: nel valorizzare voci negative rispetto al governo giallo-verde, che altri ignorano. Il tg de La7, come sempre, fa precedere i titoli veri e propri da un commentino, nel quale si sostiene che la vicenda della pace fiscale si chiude <sostanzialmente alla pari: 1 a 1>.Per quanto riguarda invece gli eventi esterni, come un convegno, un congresso, un vertice internazionale, i servizi per i tg di solito sono il prodotto di una collaborazione

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a due, tra giornalista e operatore e sono necessariamente brevi: mediamente si va da un minimo di 45-50 secondi ad un massimo di 1 minuto e 30, 1,40. In termini di battute significa che si oscilla tra un minimo di 750 ad un massimo di 1500 di testo scritto. Per capire la differenza: un articolo di giornale mediamente è di 3600 battute ma può arrivare a 4200. Il servizio per un Tg è un mix di testo scritto, di immagini e di sonori. La bravura sta non soltanto nel produrre un buon testo, ma nello scegliere anche le immagini e i sonori migliori. Il testo deve restituire in modo sintetico il fatto e il senso dell’evento. Molto importanti sono due elementi: l’attacco e la chiusa. L’attacco attira l’attenzione, la chiusa resta più impressa. L’efficacia di ogni attimo di tv è misurabile: i tabulati degli ascolti, consultabili l’indomani, registrano minuto per minuto ogni frammento di trasmissione e dunque si può verificare empiricamente, se e quando uno dei telespettatori Auditel abbia cambiato programma. Da questo punto di vista il prodotto televisivo ha una verifica empirica immediata. Importante in un servizio politico è la qualità dei sonori. E cioè la capacita di isolare la dichiarazione di maggior significato, o quella più colorita, che fa più notizia. Sui sonori dei politici, si esercita una particolare sensibilità da parte dei diretti interessati e non sono infrequenti i casi nei quali i portavoce dei politici fanno sapere – o gentilmente impongono – il sonoro preferito ai responsabili dei Tg. Preferiscono un sonoro anziché un altro, perché a loro avviso, uno è particolarmente “espressivo”, o perché si vuole glissare su un altro, nel frattempo ritenuto o divenuto scomodo nel corso della giornata politica. Questo dei sonori “raccomandati” è comunque uno dei casi nei quali la pressione dei politici si esercita in modo mirato ed esplicito. Un’invadenza occulta ma molto grave. I talk show, una storia interessanteI talk show rappresentano un format oramai universale, che in Italia per diverse ragioni ha assunto un carattere di particolare intensità per quanto riguarda l’informazione politica. Sono contenitori nei quali la parola prevale sul contenuto giornalistico e nei quali il compito è quello di approfondire le tematiche all’ordine del giorno. Nella “curvatura” italiana, i talk show accanto alla funzione informativo, hanno finito per assumere negli ultimi anni una funzione politica, contribuendo spesso a demonizzazione di chi si trova momentaneamente al governo. E in ogni caso i talk show hanno assunto un ruolo centrale nella discussione pubblica e la loro escalation merita di essere seguita nei suoi passaggi decisivi. Il capostipite dei talk in Italia era stato il giornalista Aldo Falivena, che nel 1968 mise in onda una trasmissione molto innovativa come Faccia a faccia. Nel rapporto tra tv e personaggi politici, la novità arriva invece da Bontà loro, artefice Maurizio Costanzo. In onda dall’ottobre del 1976, nella puntata del 19 settembre 1977 compare sugli schermi il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e al suo fianco siedono la signora Giovanna Mizzoni, una balia asciutta abruzzese ed Enrico Lucherini, press agent di attori e registi. Una compagnia talmente eterogenea per quei tempi che Costanzo deve fare una premessa spiritosa: «Posso rassicurare i telespettatori che la persona qui seduta è realmente l’onorevole Giulio Andreotti».

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Sono tante le cose che i telespettatori non hanno mai visto né sentito prima di quella sera. Soprattutto la qualità delle domande al capo del governo: «Come i suoi figli hanno vissuto il fatto di chiamarsi Andreotti?», «Lei da chi è stato allattato? Da mamma o da balia?». Il capo del governo arriva a raccontare l’aneddoto di quando, da giovane, dentro un cimitero aveva chiesto alla futura moglie Livia se volesse sposarlo. Alla fine l’esperimento risulta efficace. La rigidità, tipica della complessione fisica di Andreotti, era stata attenuata dalla ironia delle sue risposte e alla fine era prevalsa un’efficace amalgama comunicativa. In termini di popolarità, un punto a favore del presidente del Consiglio, eppure nel corso di quella trasmissione, era accaduto qualcos’altro, come noterà Edoardo Novelli nel suo La democrazia del talk show: la rappresentazione proposta da Bontà loro crea simpatia intorno alla politica, «ma segna anche l’avvio di un processo di degradazione della sua autorevolezza». Per avere accesso alla arena televisiva, il pedaggio è diventato meno esoso: la politica è idealmente scesa dal piedistallo. Sul momento sembra che non sia accaduto nulla, ma sul medio periodo quel riallineamento di status avrà grandi conseguenze. La vera accelerazione nel campo dei talk si realizza su Raitre, la rete che alla fine degli anni Ottanta, per effetto di un accordo politico, finisce nell’area di influenza del principale partito di opposizione, il Pci. Nascono programmi vivaci, che hanno segnato un’epoca: Linea rovente, con Giuliano Ferrara; Telefono giallo, condotto da Corrado Augias con grande garbo da narratore; Chi l’ha visto?, programma destinato a una lunga durata e un costante riscontro di pubblico; Fuori orario di Enrico Ghezzi con una programmazione da cineclub. Parte nel febbraio 1988 anche Un giorno in pretura, che con una abile cucitura riesce a riproporre i passaggi salienti di alcuni processi che si svolgevano in pretura o davanti alla Corte di Assise. Programma innovativo, sia nella costruzione televisiva che nel contenuto informativo, ma con un risvolto non trascurabile, messo in evidenza da due intellettuali non organici. Come Umberto Eco («Questo tipo di gogna vale un ergastolo») e come Enzo Forcella che su la Repubblica scrive: «Un conto è parlare a quattr’occhi con un amico, un conto ben diverso parlare in un comizio. Un processo che si svolge alla presenza del poco pubblico che può contenere un’aula di giustizia non è lo stesso processo che si svolge di fronte alle telecamere». Diverso è il destino di ininterrotte polemiche che attende Samarcanda, una trasmissione che era partita in sordina il 4 aprile 1987, il sabato in seconda serata. Dopo un rodaggio iniziale da talk show tradizionale, alla ripresa autunnale Samarcanda viene affidata a un giornalista allora sconosciuto: Michele Santoro. Il giornalista salernitano, che allora aveva 36 anni, dimostrerà negli anni un grande talento televisivo, capace di produrre eventi mediatici senza precedenti: squarci di verità sino ad allora indicibili, si intrecciano a provocazioni volute. Con ascolti da record. Ma anche un uomo di grande fiuto politico, con un’empatia speciale per gli umori profondi di una parte dell’opinione pubblica. Alla resa dei conti uno dei personaggi più influenti sulla scena pubblica italiana nella stagione compresa tra la fine della Prima Repubblica e l’abbrivio della seconda soprattutto per un motivo. È il principale artefice di una nemesi tutta italiana: dopo che i politici di governo per decenni avevano manipolato i mass media, Santoro è il primo giornalista che usa con

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successo la tv per orientare la gente contro i politici di tutti i governi. Nel primo anno di conduzione (in onda il mercoledì in seconda serata, tra l’autunno del 1987 e la primavera del 1988), Santoro non suscita casi eclatanti, ma il suo stile non sfugge all’occhio di Beniamino Placido, critico televisivo de la Repubblica, giornalista dotato di finezza e spessore culturale, estraneo alle camarille intellettuali e politiche romane. Placido distilla subito osservazioni penetranti, destinate a lasciare il segno. In merito al servizio su alcuni arresti per assenteismo all’ospedale San Gennaro di Napoli, Placido annota un atteggiamento troppo comprensivo verso i presunti colpevoli e arriva a definirlo «qualunquismo di sinistra». Via via che la trasmissione prende quota e ascolti, il critico segnala nella sua rubrica A parer mio una capacità non comune da parte di Santoro: fare informazione di qualità, ma appoggiandosi a una piazza «populistico-vittimista», con una tendenza a «dar sempre ragione a tutti quelli che protestano sempre e dovunque», di essere «come una mamma, facile alla commozione e all’indignazione» e di coltivare un «semplicismo sentimental-protestatario». Vittimismo come attitudine italiana, irresistibile inclinazione all’indignazione e istintiva simpatia per chiunque protesti: le annotazioni di Beniamino Placido sono preziose perché, da subito, enucleano l’«accumulazione primitiva» del leader di Samarcanda e proprio questa sarà la cifra dei talk show nei decenni successivi.Il mood intercettato e rivisitato da Santoro si innesta su una formidabile capacità di usare il mezzo televisivo. Il conduttore sa quel che il pubblico vuole sentirsi dire e sa come dirglielo: per trascinarlo dalla sua parte. Anzitutto inventa l’uso della piazza, che è sicuramente un contrappunto al vuoto lasciato da una politica sempre più inerte, ma è soprattutto un format nel quale la gente è usata come megafono della tesi che si vuole a tutti i costi dimostrare. La tendenziosità di Santoro non sta soltanto nella legittima scelta editoriale dei temi e degli ospiti, ma anche nella sua capacità di orientare il telespettatore durante la trasmissione, grazie ad alcuni espedienti. Il filo narrativo è sempre tenuto in mano dal conduttore; le interruzioni sono spesso mirate; una regia accorta inquadra al momento giusto la smorfia del «buono» in risposta a una battuta sgradita pronunciata poco prima; la «gente» interagisce sempre nel momento più opportuno e l’ordine di intervento degli ospiti risponde sempre a una «scaletta emotiva» che premia il portatore sano della verità di giornata e penalizza il «cattivo», che è spesso trattato come «un intruso», secondo la definizione del filosofo Norberto Bobbio. E così, durante la stagione di Tangentopoli, Rai3 e i talk show (Samarcanda in testa) prendono il comando delle operazioni e trovano una mission comune: i politici, raccontati fino a quel momento dal sistema informativo in forme spesso agiografiche, ora non soltanto vengono descritti in modo analitico nelle loro malefatte, ma sono letteralmente messi alla berlina. Davanti a un pubblico che parteggia, urla, applaude e fischia, si perde il confine tra vero e verosimile, la discussione viene sopraffatta dall’appartenenza, anche perché nessuno (nemmeno al conduttore) interessa capire come stiano esattamente le cose. E alla fin fine – ecco il punto decisivo – la politica si trasforma in narrazione con buoni e cattivi, vincitori e vinti. La politica, in altre parole, è una roba sporca. Uno sguardo che col passare degli anni si indurirà tra i telespettatori: diventerà un tratto quasi antropologico. Un tratto

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alimentato da un’inclinazione istintiva alla protesta e al vittimismo, dalla visione della politica come paradiso perduto: un mood con tratti nichilisti che accompagnerà una parte dell’opinione pubblica per molti anni, fino alla stagione della protesta radicale del Movimento Cinque Stelle.

La programmazione odierna

Il grande successo di pubblico dei primi talk di Santoro tra fine anni Ottanta e primi anni Novanta, determina un autentico boom del genere. Come dimostra una ben documentata da una ricerca realizzata dall’Università Roma Tre sulla presenza nelle principali emittenti televisive dei talk, classificati secondo la diversa offerta in «puri», «impuri» e «ibridi», se nel 1990 le puntate complessive erano state 861, nel 2000 sono quasi raddoppiate (1541), spalmandosi su 18 diversi programmi e nel 2010 risulteranno quasi triplicate. Il “talk” si è consolidato su un format tipicamente italiano, nel quale il contributo giornalistico è spostato quasi unicamente sulle interviste a singoli esponenti politici e molto più spesso su dibattiti a più voci, tra esperti/giornalisti e politici. Negli ultimi anni le principali emittenti – Rai, Mediaset, Sky, La7- hanno nella propria programmazione settimanale più di un talk. La rete che si caratterizza in questo senso è senza dubbio La7.

Il genere più gettonato è l’intervista, sempre ben condotta dagli intervistatori, ma che raramente contiene “la” domanda spiazzante e, su richiesta dei politici, esclude la formula del faccia a faccia tra competitori di pari livello. I big, anche quello che oramai preferiscono i Social, vanno volentieri in tv, perché gli ascolti restano significativi e perché sanno di rischiare relativamente poco: non esiste un solo luogo televisivo nel quale il politico possa nutrire una fisiologica “paura” e nel quale possa essere sottoposto a domande brucianti. Nei talk show, apparecchiati dai più bravi giornalisti televisivi, le discussioni con i leader si svolgono attraverso risposte della durata media di un minuto. Col pubblico che, in alcuni format, applaude qualsiasi risposta. Ma nel suo complesso l’informazione televisiva – tra notiziari 24 ore su 24, maratone su eventi minori, talk, tg – contribuisce all’alfabetizzazione politica di una vasta area di opinione pubblica.

Infotainment

Un genere che non è tipicamente italiano, ma che in Italia già da molti anni riscuote grande successo è l’infotainment. Letteralmente significa informazione-spettacolo (oppure lo spettacolo dell'informazione). E’ un neologismo di ambito televisivo, nato dalla fusione delle parole information ed entertainment. Si riferisce ad una formula di rotocalco televisivo che ha preso sempre più piede negli ultimi due decenni.Una mescolanza di generi per favorire il livello d'attenzione del pubblico sui temi più o meno “seri”. Si realizza inserendo schemi appartenenti al "genere" spettacolo nei programmi d'informazione. Le due trasmissioni che da più anni tengono il campo con ascolti importanti sono Striscia la notizia e Le iene. La prima ha iniziato nel 1989 e

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dunque, andando in onda da 29 anni, rappresenta uno dei più grandi successi della storia della televisione italiana. Hanno contribuito al successo “personaggi” come il Gabibbo, inviati come Valerio Staffelli, rubriche come Occhio allo spreco, Che figura di merda, I nuovi mostri. Le iene sono più recenti, ma relativamente: la prima trasmissione andò in onda nel 1997 e dunque dura da 21 anni. Si caratterizza per approfondimenti sull’attualità con reportage, provocazioni satiriche, trovate efficaci come le interviste doppie. Diversi casi sollevati dalle Iene hanno avuto uno sviluppo oltre lo stretto ambito televisivo, altre – come quello metodo-Vannoni – hanno suscitato parecchie perplessità.Ma nel suo complesso questo genere a metà strada, con un contenuto di informazione sempre variabile, ha ottenuto un rilevante successo di pubblico grazie a due ingredienti. Il primo: la denuncia ogni tanto graffiante ed efficace di casi poco edificanti, producendo talora effetti più efficaci di quella realizzati seguendo i canoni “classici” del giornalismo. La seconda ragione del successo: quel tono costante di sfottò soft delle autorità costituite, che probabilmente ha contribuito in parte a formare quel sostrato populista, che ha favorito la vittoria di forze politiche come la Lega e i Cinque Stelle. E’ giusto inserire nell’informazione politica anche questo genere così sui generis? Sfidando i “puristi” e con tutti i necessari distinguo, si può, perché negli anni le due trasmissioni hanno saputo sviluppare un accumulo di professionalità che ha consentito nelle occasioni più felici di indicare al pubblico situazioni, personaggi, eventi con un piglio che se non è strettamente giornalistico, ha sempre aiutato a capire la realtà circostante.

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CAPITOLO 4 I SOCIAL

Parlare dell’informazione politica via web significa anzitutto partire dal contesto e dalla

grandi coordinate entro le quali questa informazione viene diffusa. Secondo la più recente

ricerca Censis sulla dieta mediatica nel nostro Paese, gli italiani che usano Internet sono

aumentati dal 75,2% al 78,4% (+3,2% rispetto allo scorso anno e +33,1% dal 2007). Quelli

che utilizzano gli smartphone sono saliti dal 69,6% al 73,8% (+4,2% nell'ultimo anno, mentre

ancora nel 2009 li usava solo il 15% della popolazione).

Gli utenti dei social network crescono ancora, dal 67,3% al 72,5% della popolazione.

Aumentano gli utenti di WhatsApp: il 67,5% degli italiani, l'81,6% degli under 30. Più della

metà della popolazione usa i due social network più popolari: Facebook (56%) e YouTube

(51,8%). Notevole è il passo in avanti di Instagram, che arriva al 26,7% di utenza (e al 55,2%

tra i giovani). Mentre Twitter scende al 12,3%.

Secondo dati di una fonte diversa (l’Istat), ancora un terzo degli italiani sarebbero fuori della

Rete, ma tutte le ricerche concordano sul fatto che l’ascesa è ancora in atto e soprattutto tra le

giovani generazioni siamo in regime di monopolio. Allargando il campo a tutto il mondo,

secondo una ricerca effettuata dal portale tedesco Statista.com nel luglio 2018, Facebook è al

primo posto tra i Social network con 2,196 miliardi di utenti attivi al mese. Al secondo posto

Youtube con circa 1,900 miliardi di accessi mensili.

L’ascesa di Internet

La storia della stampa e dell'online comincia con sperimentazioni amatoriali negli Stati Uniti

nei primi anni Novanta del secolo scorso e il primo dato significativo risale a quel periodo:

nel 1992 il Chicago Tribune è il primo giornale ad organizzare una redazione online della

propria edizione cartacea. Nel 1994 viene pubblicata la prima vera testata unicamente online

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il News and Observer nel North Caroline. E’ in questo periodo che un gigante dell’editoria

statunitense, Usa Today entra nel mercato con un investimento pesante: 75 redattori

elettronici e 225 collaboratori esterni. Ma dura poco, perché sin da allora si capisce che stare

sulla rete costa, ma non garantisce introiti sufficienti a coprire un investimento cospicuo.

Primi passi, alcuni avanti e altri indietro: dal punto di vista dell’informazione politica e più in

generale dell’informazione via Internet  la svolta si realizza nell’estate 1998, quando il

procuratore speciale Kenneth Star - che indaga sul caso Clinton-Lewinsky, sull’ipotesi di

rapporti sessuali tra il presidente e una stagista della Casa Bianca - mette in rete le 445 pagine

del suo rapporto, anziché passarlo ai giornali.

Altra data fondamentale l’11 settembre 2001, quando molti americani – collegandosi ad

Internet per seguire il crollo delle Torre gemelle - vi trovavano notizie più dettagliate e più

aggiornate di quelle trasmesse dai grandi netwok televisivi. E soprattutto – questo è il

passaggio decisivo - via Internet furono trasmesse tante testimonianze in diretta, di cittadini

che misero spontaneamente in circolo immagini e storie vissute in prima persona.

Da quel momento fu definitivamente chiaro che i giornali dovevano fare qualcosa per

fronteggiare due novità. La prima: era arrivato il tempo di superare il gap temporale che

intercorreva tra l’esplodere di un fatto eclatante e l’uscita in edicola il giorno dopo. Un gap

che era sempre esistito ma l’esistenza di una diretta tv h24  e la nuova “concorrenza” di

Internet imponeva una drastica svolta.

La seconda: emergeva una voglia di protagonismo da parte dei cittadini, che volevano

partecipare in prima persona alla ricostruzione e in prospettiva anche alla “costruzione” di un

evento. E’ così che nascono le edizioni online di tutti i grandi quotidiani e si apre la strada alla

nascita di siti di informazione indipendenti anche rispetto alle testate tradizionali.

 Dunque, all’inizio i nuovi media si affermano come un processo di democratizzazione della

società dell’informazione attraverso lo sviluppo di reti orizzontali del tutto fuori da ogni

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controllo politico, aprendo così la strada ad una sorta di bricolage domestico del consumo di

informazione. Un fai da te, che consente – a chi lo desidera - di costruirsi un palinsesto

informativo proprio. Ma si capirà presto che assieme alla democratizzazione, la possibilità

cioè di costruirsi i propri canali informativi, se ne aprono altri, meno positivi.

I canali di informazione: quotidiani online

Veniamo all’oggi e alla nostra realtà italiana. I canali attraverso i quali si produce

informazione politica sono tre

1 Le edizioni online dei quotidiani, dunque dei principali - Corriere della Sera, Repubblica,

Stampa, Messaggero, Sole 24 Ore. Fatto quotidiano, Libero, Giornale - ma anche dei giornali

locali

2 I siti di informazione solo web (Huffington Post, Dagospia, Tiscali, Post, Fanpage,

l’Inkiesta, Glistatigenerali)

3 I Social media (Facebook, Twitter, Instagram)

Partiamo dall’informazione politica sui quotidiani online. Ad occuparsene in linea di massima

sono piccole redazioni, dentro le quali lavorano stagisti, contratti a termine e pochi

professionisti, che di solito coordinano il lavoro. Fanno eccezione i primi due quotidiani

nazionali, Corriere della sera e Repubblica, che invece dispongono di vere e proprie

redazioni separate.

Un sito online, nella sua homepage, si occupa principalmente di attualità e dunque il redattore

“politico”, seduto nella sua scrivania, attinge le notizie essenzialmente da tre fonti: anzitutto le

agenzie di stampa (Ansa, Agi, Reuters, ecc), che ancora oggi sono il principale canale di

raccolta e di diffusione delle notizie politiche. I giornalisti delle agenzie seguono tutti i

principali eventi (convegni, consigli dei ministri, missioni) e ne danno conto nel minor tempo

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possibile. Nei giornali e nelle tv, quelle notizie fresche vanno a comporre il palinsesto delle

varie testate, i siti invece le “sparano” subito.

La seconda fonte di una redazione politica online sono i Social, come Facebook e Twitter, che

oramai sono diventati il luogo preferito per le esternazioni da parte dei leader di governo. O

con post o con video, che oramai fanno parte integrante dell’informazione online.

La terza fonte è la Tv: nella lunga striscia di talk show possono capitare politici che fanno

dichiarazioni o che si rendono protagonisti di qualche “numero” e dichiarazione importante.

Dunque, il giornalista politico dei siti è stanziale, non esce mai sul “campo”. Con due

eccezioni: Repubblica e Corriere hanno due piccole tv e in questi casi offrono anche un

servizio video-giornalistico anche sul campo.

Che cosa producono questi siti? Se ci mettiamo dal punto di vista dell’utente, cioè dei prodotti

fruibili, l’offerta di questi siti si può dividere in tre grandi categorie:

1) Anzitutto gli articoli che si possono leggere solamente sull’edizione online, in

quanto sono prodotti da queste redazioni. Riguardano anzitutto l’attualità più stretta, la

striscia di notizie in divenire che è la principale ragion d’essere di queste testate. Ma si

possono leggere anche gli approfondimenti delle breaking news. E vi si possono

leggere rubriche e blog.

2) Poi si trovano gli articoli usciti sull’edizione cartacea e che vengono depositati

sul sito. Un tempo erano fruibili gratuitamente, oggi si tende a far pagare un piccolo

abbonamento.

3) Il terzo prodotto giornalistico sono i video.

In cosa consiste la professionalità dei giornalisti politici online? E’ concentrata soprattutto

nella loro velocità, nell’efficacia del titolo e dei testi. Cominciamo dalla velocità. Alle 10,05

Salvini scrive un post  molto importante su Facebook o posta un video. A quel punto se il sito

del Corriere della Sera ne dà notizia 10 minuti prima degli altri, ovviamente questo porta una

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quantità di contatti in più. Ma la velocità non basta. Molto importante è la qualità della

titolazione. Facciamo una simulazione. Poniamo che il presidente della Bce Mario Draghi alle

11,30 del mattino abbia dichiarato in una conferenza stampa a Francoforte: <Se l’Italia non

cambia la manovra finanziaria, l’Unione europea rischia l’implosione>. Mezzora più tardi il

vicepresidente del consiglio Salvini dice: <Avanti con la manovra, non si tocca una

virgola>.Il giornalista al desk, per fare presto, lascia due titoli separati, uno su Draghi e uno su

Salvini. Un desk più professionale invece fa la sintesi: “Clamoroso scontro Draghi-Salvini”.

La professionalità del giornalista online sta anche nello scrivere nel modo più chiaro e

informato il primo articolo, quello che serve per tenere “botta”, riservandosi di aggiornarlo in

un secondo momento. E potrà aggiornarlo in due modi: rimpolpandolo. O chiedendo al

giornalista che, per il cartaceo, sta seguendo l’evento a Francoforte, di scrivere un pezzo

datato e firmato: si sa che pezzi d’autore hanno una maggiore audience.

Quindi, aggiornare o rimpolpare. Ma c’è un terzo caso, molto praticato: accompagnare il

servizio o i servizi di attualità stretta con pezzi di approfondimento. Per esempio: sui punti

controversi della manovra. Sul perché Draghi si sia esposto. Sul perché Salvini tiene il punto.

Insomma costruire attorno all’evento di quel momento, un pacchetto informativo. Ecco questo

è il vero valore aggiunto che il giornalismo politico dei giornali online può produrre.

Grande audience stanno riscuotendo i video, sia perché osservare è sempre meno faticoso che

leggere. Ma anche perché la forte spettacolarizzazione della politica rende questi video

particolarmente appetibili. I più semplici, quelli di cui dispongono velocemente i siti di tutti i

giornali, sono quelli autoprodotti dai leader, ma anche quelli che riproducono eventi

importanti, dove siano presenti telecamere Rai o di altri network. Altra fonte che consente di

preparare brevi video sono le trasmissioni televisive: gag o scontri che per la loro virulenza od

originalità finiscono per fare notizia.

Ma il mercato più ghiotto delle immagini riguarda i video di eventi minori, nei quali non c’è

la copertura delle telecamere “ufficiali”. Le telecamere Rai, che di solito sono quelle coprono

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la maggior quantità di eventi, ovviamente non possono essere ovunque. E allora la capacità

del giornalista politico sul web è quella di arrivare per primi su video prodotti da singoli

cittadini, da piccoli giornali, da siti autonomi. Anche in questo caso la velocità e la capacità di

selezione fanno la differenza.  E molto importante è disporre di una propria televisione: è il

caso di Repubblica e del Corriere della Sera che non a caso sono i due siti online con

maggiore audience

Nei siti informativi dei quotidiani c’è una tendenza involontaria ma potente all’omologazione.

A dettare la linea è l’attualità stretta e per starci dietro, i titoli e gli articoli non possono che

ricalcarsi. Ma questa non è una regola valida per tutti

Prendiamo il sito del New York Times, uno dei più autorevoli quotidiani del mondo. Nel mese

di ottobre del 2018 aveva pubblicato una inchiesta molto significativa sui beni della famiglia

Trump. Ebbene:

1) Trentasei ore dopo la pubblicazione della inchiesta, il New York Times apriva ancora con la

stessa storia, con lo stesso titolo, con la stessa foto, accompagnata dagli stessi servizi di sintesi

e schede animate (con gli stessi titoli).

2) Unico “aggiornamento”: un pezzo a parte (impaginato in quarta posizione, dopo i tre titoli

“vecchi”) sulla risposta pubblica di Donald Trump.

3) Totale assenza di quelle che noi chiamiamo le “reazioni”, la pioggia di dichiarazioni di

politici pro o contro.

I siti web

 E veniamo al secondo canale informativo i siti di informazione indipendenti, non legati ai

grandi giornali (Fanpage”, Huffington Post, Tiscali, Lettera 43, Dagospia,Il Post,

AffarItaliani Linkiesta, Glistati generali e tanti altri. In questi casi il contenuto giornalistico è

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più intenso. Perché la vera divisione del lavoro è questa: ai siti dei grandi giornali, la

copertura dell’attualità; ai siti di informazione l’approfondimento.

Nella rilevazione del mese di agosto del 2018 tra tutte le testate online, comprese le edizioni

web dei quotidiani cartacei, primo in assoluto si è confermata Repubblica, mentre tra i siti di

informazione è risultato Fanpage, ottavo in assoluto con 1 milione e 378 utenti unici, più di

quanti ne abbiano ottenuti grandi giornali di lunga storia come Stampa, Giornale, Sole 24 ore.

Al diciottesimo posto, sempre della classifica generale, Huffington post (seconda tra i siti solo

online), al trentesimo Tiscali, al trentacinquesimi Dagospia, Affari italiani era al

trentasettesimo, il Post al trentanovesimo, al 44esimo Lettera 43.

Huffington Post, edizione italiana di un network internazionale, propone quotidianamente un

ottimo notiziario politico. Diretta da Lucia Annunziata, già redattrice del Corriere delle Sera

e presidente della Rai, è l’unica testata online che copra alcuni dei principali eventi politici

con redattori presenti sul posto.

Dagospia si caratterizza per la sua rassegna stampa, molto mirata e commentata, per i retroscena sui temi di politica, economia, società e di costume e per il tono spesso scandalistico dei suoi servizi. Ogni tanto pubblica scoop, ma anche notizie infondate. Nel sito grande notorietà circonda la rubrica fotografica Cafonal, nella quale nel passato il fotoreporter romano Umberto Pizzi aveva immortalato generazioni di protagonisti della mondanità romana.

Fanpage è invece il sito di maggior successo. Produce informazione politica, ma anche documentari e inchieste filmate. Grazie ad un approccio spesso aggressivo, questo sito è stato protagonista di servizi molto efficaci.

Più in generale i siti indipendenti hanno la capacità di scoprire – o creare - casi che altri siti, concentrati sull’attualità, non possono valorizzare. Il Post ha valorizzato la pagina Facebook MoVimento 5 Stelle Europa, il canale ufficiale degli europarlamentari del Movimento, che aveva pubblicato il video di un’intervista a Jeroen Dijsselbloem, l’ex presidente dell’Eurogruppo, distorcendone i contenuti fino a inventarsi delle dichiarazioni che nell’intervista originale non esistono.

Caso esemplare e di scuola: il video è circolato moltissimo su Facebook, ottenendo migliaia di condivisioni e mostra le immagini di un’intervista data da Dijsselbloem alla tv statunitense CNBC a metà ottobre.

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Questo il testo pubblicato dal Post, per spiegare il caso:

<Nel video pubblicato dalla pagina MoVimento 5 Stelle Europa, l’audio originale è stato sostituito da una voce fuori campo che cerca di sintetizzarne i contenuti, ma finisce per distorcerli. Nell’intervista originale, Dijsselbloem spiega che l’Italia non può permettersi un aumento dei tassi di interesse sui propri titoli di Stato, conseguenza della scarsa fiducia degli investitori internazionali nei confronti della manovra economica e ad un certo punto Dijsselbloem spiega che questa situazione «ha dei pro e dei contro: uno dei contro è che se ci sono problemi e l’economia implode, questo si ripercuote sull’intera economia. Il pro è che basta che l’Italia lo capisca, che i consumatori lo capiscano, e se tutto va bene si può iniziare un percorso di correzione dall’interno». La voce fuori campo del video pubblicato dal M5S, invece, afferma che Dijsselbloem «invita apertamente i mercati a lanciare un attacco alle finanze italiane, spiegando loro anche come devono fare, e cioè orchestrando un danno ai titoli italiani, facendo così salire gli interessi sul debito all’Italia. […] Dijsselbloem spiega che l’unico modo è dare ordine a Draghi e alla BCE di far salire lo spread, per portare al fallimento le banche italiane, già riempite di titoli di Stato». Ma nell’intervista originale Dijsselbloem non invita in alcun modo i mercati a speculare sull’Italia, e non usa mai parole simili a quelle citate. Non viene mai citato Mario Draghi o un fantomatico piano per fare «salire lo spread».

Politica nei Social

E in terzo luogo c’è anche un’informazione che passa attraverso i Social media (Facebook,

Twitter, Instagram). E’ oramai conosciutissimo un fenomeno chiamato ibridazione: in

sostanza interagire tra diversi media. Alcuni dati. Nella ricerca già citata del Censis sulla dieta

mediatica degli italiani, si dà conto del fatto che <continuano a crescere la tv vista via Internet

(web tv e smart tv possono contare su una utenza del 30,1%, +3,3% in un anno) e la mobile tv

(che è passata dall'1% del 2007 all'attuale 25,9% di spettatori, con un aumento del 3,8%

nell'ultimo anno)>.

E ancora: <L'incremento di utenti dei servizi video digitali è uno dei cambiamenti più

rilevanti del 2018: in un anno gli italiani che guardano i programmi delle piattaforme di tv on

demand sono aumentati dall'11,1% al 17,9%, con punte del 29,1% tra i giovani under 30. La

radio continua a rivelarsi all'avanguardia nei processi di ibridazione del sistema dei media.

Complessivamente, i radioascoltatori sono il 79,3% degli italiani. Se la radio tradizionale

perde 2,9 punti percentuali di utenza (oggi al 56,2%), come l'autoradio (con il 67,7% di

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utenza, -2,5% rispetto allo scorso anno), la flessione è compensata dall'ascolto delle

trasmissioni radiofoniche via internet con il pc (lo fa il 17% degli italiani) e soprattutto

attraverso lo smartphone (con una utenza al 20,7%, +1,6% rispetto allo scorso anno)>.

Tutti questi dati, interessanti in sé, cosa significano? Che l’informazione politica prodotta per

alcuni canali poi viene fruita con tante diverse modalità.

In conclusione: un’ informazione politica di qualità prodotta appositamente per la Rete, come

abbiamo visto, si trova sui giornali online, sui siti di informazione indipendenti, ma c’è un

terzo canale: blog e tweet di giornalisti, che possono offrire informazioni, talora interessanti,

talora da prendere con le molle. Perché? Perché da un giornalista, chiunque legga, si aspetta

notizie, o anche commenti, con un sostrato professionale. E invece spesso l’aspetto soggettivo

prevale su quello oggettivo.

Il blog è una sorta di diario e può offrire link ad articoli segnalati sul web, ma anche

osservazioni e resoconti temporanei di eventi in corso d’opera. Ma per fare informazione

politica di qualità anche da un blog occorre lavorare duro, occupare una nicchia, conquistare e

mantenere una reputazione per la precisione delle notizie, scrivere in modo chiaro. Ma non

sempre è così: blog e tweet dei giornalisti spesso non argomentano, non sono imparziali,

talora sono l’esasperazione della soggettività.

Conclusioni

Sulla Rete non sempre si produce una informazione politica di qualità, sia pure con le

importanti eccezioni che abbiamo esaminato, ma è altrettanto vero che l’informazione che

circola complessivamente sul web influenza una parte crescente di opinione pubblica. Oramai

sul web si formano più opinioni che sui vecchi giornali, eppure la qualità dell’informazione (a

parte alcune nicchie di eccellenza che abbiamo visto) non è ancora di qualità diffusa elevata.

Ma il sistema informativo tradizionale esita ad investire sul web perché tarda a vederne la

redditività.

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Un ultimo problema: si fa notare da diverse parti che i Social siano corresponsabili della forte

polarizzazione dell’opinione pubblica e soprattutto della diffusione di notizie false o esagerate

presso comunità omogenee e cioè siano corresponsabili delle cosiddette bolle ideologiche”, le

eco-chambers, le camere dell’eco. In altre parole, persone che la pensano nello stesso modo,

interagendo e “cantandosela” tra di loro, contribuiscono alla diffusione di credenze e di vere e

proprie fake news. Questo accade e accadrà: ai media professionali, vecchi e nuovi, non può

essere assegnata una funzione salvifica, ma indubbiamente un’informazione politica

professionale e rigorosa è -  o dovrebbe essere – il più potete contraccettivo rispetto alla

diffusione di un pensiero magico, superstizioso e falso. La sfida è aperta.

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CAPITOLO 5 ETICA E DEONTOLOGIA

Nell’attività concreta del giornalista politico si affacciano quotidianamente rilevanti questioni etico-deontologiche, che influiscono sul suo lavoro: da una parte il rapporto con le fonti e con i portavoce dei politici, dall’altra il ruolo degli editori, dei proprietari delle testate e dei direttori. Questioni apparentemente distinte ma in realtà tutti questi soggetti (così diversi) convergono, in quanto incidono sul medesimo, fondamentale problema: la deontologia, la correttezza professionale del sistema informativo e di quello politico in particolare. Per capire di cosa stiamo parlando, partiamo dal concetto ideale di libertà di stampa e della professione giornalistica, di quella che è – o dovrebbe essere – la mission teorica dell’informazione, non soltanto di quella a contenuto politico. Chiedendoci dal punto di vista ideale quale dovrebbe essere il suo compito.

Dal punto di vista di una deontologia elementare, il compito è quello di raccontare nel modo più imparziale e professionale possibile, senza subire interferenze o deformazioni, quel che accade sulla scena politica, provando a restituirne anche il senso in ogni circostanza. E questo obiettivo corrisponde ad alcuni principii di carattere generale che diamo per acquisiti una volta per sempre:

1 Non si può concepire una società democratica senza supporre che i cittadini non ne conoscano le vicende, cittadini che siano informati in modo di poter giudicare chi li governa.

2 Per quanto possa apparire obsoleta, o indebolita, nell’immaginario collettivo resiste l’idea del giornalista watchdog, cane da guardia della libertà e dell’indipendenza, un modello reso proverbiale dalla celeberrima immagine del film l’Ultima minaccia, quella in cui Humphrey Bogart - rispondendo ai ricatti di un politico corrotto - dal telefono fa sentire il rumore delle rotative e dice: <E’ la stampa bellezza!>.

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Bene, cercheremo di capire quali sono i soggetti e le circostanze che interferiscono per deviare dal percorso descritto ovvero le forze e le circostanze che invece favoriscono la realizzazione di un prodotto eticamente corretto.

Le fonti

Per un giornalista politico le fonti, a parte quelle comuni ai colleghi che si occupano d’altro (agenzie di stampa, post sui Social, trasmissioni tv, altri giornali, ricerche di archivio), sono essenzialmente due: i protagonisti (i politici) e i loro portavoce, gli addetti stampa. Con entrambi le fonti sono richieste le pinze e una notevole professionalità per trarne il massimo beneficio e il minimo inquinamento.

Facciamo uno scenario, immaginario ma non troppo: nel governo è in discussione una modifica della normativa sulla prescrizione nei processi, da qualche giorno non si riesce a trovare un punto di mediazione tra i due partiti di governo e a quel punto sappiamo che è stato convocato un vertice tra i due capi-partito e il presidente del Consiglio. Che si svolge a palazzo Chigi, in un luogo inaccessibile agli sguardi e anche ai microfoni. Noi non sappiamo per quale motivo è stato convocato quel vertice, se per la prescrizione o per altre emergenze. Ad un certo punto si sa che l’incontro è finito, senza un comunicato. Il cronista si attiva. Come primo tentativo, se è ben introdotto, prova a sentire i protagonisti diretti. Un contatto diretto col presidente del Consiglio non è semplicissimo, anzi è una prerogativa che pochissimi, quasi nessuno ha.

Se questo tipo di contatto è precluso, o limitato all’essenziale, possiamo continuare con i due capi-partito. Partiamo dal primo contatto e mettiamo che si chiami Luigi Di Maio, cioè il personaggio che in questa vicenda, vuole a tutti i costi abolire la prescrizione dei processi. Ti risponde e ti dice: <Non abbiamo fatto un comunicato ma alla fine della discussione, abbiamo deciso che la riforma si farà. Dobbiamo soltanto verificare la fattibilità pratica di una soluzione>. L’altro vicepremier, che invece è contrario alla riforma, interpellato telefonicamente ti dirà: <Non abbiamo fatto un comunicato perché un’intesa non c’è. La vedo dura….>.

A questo punto il cronista mette assieme le certezze. Prima: non uscirà un comunicato. Seconda: se non è uscito, le distanze sono restate. Ma quanto sono profonde? E su cosa? Magari si sono accorciate? Si passa al secondo giro, quello dei portavoce. Si fa un lavoro di scavo, con un escamotage che di solito funziona sempre: al portavoce di Di Maio, si dirà: <Mi ha detto Salvini che la vede dura….>. Il portavoce di Di Maio, pizzicato sul vivo perché interessato ad un accordo, magari risponderà: <Pensa che durante l’ incontro proprio Salvini ha detto: l’accordo è fatto, ma mi devi lasciare ancora 48 ore per farlo digerire ai miei e al mio elettorato…>.

A questo punto il cronista, che ha un ultimo gettone da spendere, chiamerà il portavoce di Salvini e, bluffando un po’, dirà: <Il tuo ministro mi ha detto che è

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ancora dura, ma lavorandoci, magari tra due giorni si può chiudere…> Se il portavoce di Salvini risponderà che potrebbe essere così, se abbiamo confidenza e fiducia nelle nostre fonti, abbiamo concluso il nostro lavoro e possiamo ribaltare il titolo che invece andrà la sera sui Tg: “Vertice sulla prescrizione, nulla di fatto, riforma in alto mare”. Noi abbiamo capito che il titolo vero è: “Salvini chiede due giorni per chiudere il patto. Riforma ad un passo”.

Ma abbiamo esaminato un percorso ideale, quello di un giornalista che fa un giro completo delle fonti. Prendiamo in esame un percorso diverso. Partendo da una premessa. L’informazione politica oramai funziona con una divisione rigida delle coperture dei servizi. Nei principali Tg e nei principali quotidiani ci sono i redattori addetti alla Lega, ai 5 Stelle, al Pd, a palazzo Chigi. Un incarico fisso, non a rotazione. Bene, quando si tratta di approfondire un tema, tipo quello esaminato prima, il redattore che copre quotidianamente la Lega di regola cosa fa?

Cerca le sue fonti - i politici leghisti e i loro portavoce - e chiederà a loro, dichiarazioni e informazioni. Di solito il redattore che si occupa di un solo leader o di un solo partito, si limita a chiedere soltanto alla sua fonte privilegiata. Ma la fonte di parte, fisiologicamente tenderà a trasmetterti informazione partigiane. In due modi. Dicendoti soltanto una parte di verità e omettendone una parte più o meno rilevante. E non si può escludere affatto che faccia di tutto per metterti fuori strada. Eserciterà in forme più o meno marcate, quello che viene chiamato lo spin, l’effetto. Vendendo per esempio una reazione che non c’è mai stata ma fa comodo alla narrazione di quel partito. Facciamo un altro esempio.

Titolo: “Lo sfogo di Renzi contro Bersani: mi vuole morto”.

Quello sfogo quasi certamente si è svolto in maniera diversa da quella riferita nel titolo. Perché, di solito, nelle segrete stanze ci si esprime in modo più diretto e volgare e dunque se vogliamo per davvero dar conto di quello sfogo, dovremmo riferire per amore di verità esattamente le parole usate. Oppure – è possibile - quello sfogo non c’è mai stato, ma viene fatto trapelare per orientare l’informazione. A questo punto il giornalista con un basso bagaglio professionale, cosa fa? Pur di portare a casa il titolo ad effetto, si prende per buono lo sfogone, raccontato dal portavoce. Sapendo di portare a casa due risultati: avrà accontentato la propria fonte, alla quale dovrà abbeverarsi nei giorni e nei mesi successivi. E al tempo stesso si sarà garantito un articolo pepato e un titolo sparato.

I trucchi degli spin doctor

Ma gli staff-comunicazione che affiancano i leader di governo oramai forniscono poche informazioni sull’attività pubblica dei ministri, perché oramai le energie più cospicue vengono impiegate sull’attività di spin. Ovvero la politica con l’effetto, sarebbe meglio dire col trucco. Dare lo spin, cioè l’effetto alle informazioni, come si

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dà l’effetto alla palla da tennis o del calcio. Questo tipo di attività di distrazione, o di promozione, è esercitata da un ramo professionale ben definito: quello dello spin doctor, che è qualcosa di più e di diverso da un capo-ufficio stampa.

Lo spin si esercita in tante tecniche, che il giornalista politico dovrebbe saper decrittare per evitare che quei trucchi vadano a segno. Il primo tipo di spin consiste nella capacità di distogliere l’attenzione, grazie ad un effetto, da qualcosa che non si vuole fare notare. E per ottenere questo obiettivo, esistono diversi escamotage.

Anzitutto c’è l’azione concreta per conquistare la vetta delle notizie nella prima serata tv. In assenza delle interferenze organizzate dagli spin doctor, solitamente il dibattito politico si concentra in tutti i Paesi su quel che va o non va nell’azione del governo, un dibattito pubblico che alla lunga può nuocere a chi detiene il potere. Per questo motivo lo spin doctor cerca di spostare l’attenzione su “evidenze” da lui create ad arte. Per riuscire ad interferire su quello che uno studioso americano chiama indexing, cioè l’indice, la classifica delle notizie. L’efficacia di questa interferenza dipende dalla capacità di fare notizia, con una dichiarazione, con un annuncio, con qualcosa che scali la gerarchia delle notizie della giornata e che dunque finisca per diventare dominante per il maggior tempo possibile su tutti i canali dell’informazione: nel dibattito sui Social, nei siti online. E soprattutto che apra i telegiornali della sera e, possibilmente, anche i giornali dell’indomani.

A questo riguardo nn tipico escamotage usato dagli spin doctor – e che il giornalistico politico dovrebbe saper individuare - è il cosiddetto firebreacking, l’interruzione del fuoco, un diversivo che si mette in campo per rompere il possibile fuoco avversario. Un caso esemplare si verificò in Gran Bretagna. Nell’agosto 1997 si scoprì una relazione tra il ministro degli Esteri Robin Cook e la sua segretaria e la cosa preannunciava di dare scandalo. Il ministro annunciò che avrebbe lasciato la moglie ma quella promessa non sembrava bastare per oscurare la sconveniente notizia iniziale e a quel punto uno dei guru del governo laburista del tempo, Peter Mandelson, fece sapere ai giornalisti che era pronto a rilasciare un’intervista televisiva, nel corso della quale avrebbe confermato una notizia clamorosa che circolava senza conferme in quelle ore, su una vicenda che riguardava il governatore di Hong Kong. Mandelson fu intervistato e durante l’intervista rincarò la dose, annunciando che il governo stava pensando di rinviare la demolizione del Britannia, lo yacht della Regina. Centrò l’obiettivo-distrazione, perché la casa reale inglese è sempre una carta vincente. La notizia sgradevole precipitò in retrovia.

Un altro espediente dei politici e degli spin doctor da saper decrittare è l’uso sapiente del framing, cioè l’inquadratura linguistica di un determinato problema. E’ un grande successo, saper escogitare una parola capace di essere trascinante, di fare breccia nell’immaginario collettivo. Se un condono lo chiami pace fiscale, predisponi opinione pubblica in un certo modo e questo può essere molto utile. A volte può

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capitare il contrario e cioè che il politico scelga la parola-chiave sbagliata. Facendo un autogol.

Facciamo un esempio tratto da una vicenda celeberrima, quando negli Stati Uniti il presidente Richard Nixon, a seguito di una inchiesta del Washington post, fu accusato di aver organizzato un sistema di spionaggio delle riunioni dei suoi avversari democratici. Nel pieno della bufera e dello scandalo, nel 1972, Nixon si presentò in tv e disse: <I’m not a crook>. Non sono un imbroglione. Ma fu un errore clamoroso impostare la successiva discussione sull’enigma: il presidente degli Stati Uniti è, o no, un imbroglione? In altre parole arretrò la trincea. E fu costretto a dimettersi.

L’attività degli spin doctor, che mette a dura prova i giornalisti politici, è sempre al confine e ogni tanto qualcuno di questi professionisti esagera e ci rimette le penne. Dal 1997, il Labour party, uno dei due gloriosi partiti inglesi, dopo una lunga stagione di opposizione, tornò al governo grazie ad un poderoso staff della comunicazione, fino a quando uno dei registi di questo staff, il celebre Alastair Campbell nel 2003, fu tra i promotori del tentativo di accreditare la notizia che il dittatore iracheno Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa e questo comportava un pericolo imminente. Campbell fu accusato di aver manipolato un dossier nel quale si drammatizzava il pericolo e fu costretto a dimettersi.

Saper leggere queste interferenze organizzate dagli apparati comunicativi dei leader, non è semplice e la valutazione di solito non spetta al cronista che cerca le notizie, ma al capo del Servizio politico, che lavora al desk, in stretto contatto con la Direzione.

Quindi in conclusione di questa parte che riguarda lo spin, il bravo giornalista politico è quello che sa ben collocare e distinguere una vera notizia da una notizia con l’effetto e per questo destinata ad essere effimera, a durare lo spazio di un mattino..

Il ruolo degli editori

Finora abbiamo parlato del rapporto con le fonti e dei principii da rispettare per una corretta deontologia, onde evitare che la mission giornalistica sia influenzata e deviata. Un aspetto molto importante riguarda il ruolo degli editori. Abbiamo già esaminato la questione degli editori puri e degli editori impuri. I primi sono interessati al profitto e dunque a fare dei giornali vendibili, non necessariamente di qualità, ma vendibili. Per i secondi il profitto è un accessorio, non è la principale missione, che invece è quella di trasformare il media in uno strumento di potere, di possibile scambio, allo scopo di favorire il business principale di quell’editore. Vediamo le differenze.

Un editore può influenzare la linea politica e questo è legittimo, nel senso che chi investe i propri soldi non soltanto ha una determinata idea politica, ma per motivi di mercato può ritenere conveniente attingere lettori - ed ascoltatori - in un determinato segmento di opinione. Influenzare la linea politica non dovrebbe significare alterare

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le notizie, ma semmai dare alle informazione una valutazione e una diversa collocazione, a seconda della propria impostazione politico-editoriale. Facciamo un esempio. Un giovane nigeriano viene pestato a sangue da un gruppo di italiani: quella stessa notizia posso metterla in prima pagina o tra le prime notizie di un Tg e magari anche farla accompagnare con un commento. Oppure, se la mia impostazione politico-ideologica è diversa, posso inserirla a pagina 32, a fondo pagina. Attribuire un diverso rilievo ad una stessa notizia fa parte del gioco: perché non è lo spazio quel che rende seri e deontologicamente corretti una testata, un direttore ed un editore, ma semmai il rispetto della notizia. Si può dare una notizia in un piccolo spazio, ovvero dilatandola: quel che conta è non deformarla.Ma a volte la influenza dell’editore sulla fattura del giornale va oltre, incide sulla carne viva dell’informazione, per l’appunto può deformarla. Da questo punto di vista è utile esaminare gli assetti proprietari delle principali testate italiane, televisive e di carta stampata. Invertendo una lunga tradizione italiana, da qualche anno gli editori “puri”, cioè quelli che hanno un interesse prevalente nel campo dell’editoria, oramai sono più di quelli “impuri”.Tra gli editori “puri” comprendiamo Urbano Cairo, che dopo essere stato l’imprenditore più importante dell’editoria da svago, attualmente è proprietario anche del Corriere della sera, il quotidiano più venduto in Italia, e de La7, la televisione che dedica alla politica larga parte della propria informazione. Cairo, nella gestione di due aziende così competitive, lascia ai direttori margini di autonomia, perché ritiene che i direttori delle due testate, con la loro linea editoriale, siano in grado di incrementare i profitti aziendali. Un altro gruppo nelle mani di un editore sostanzialmente puro è quello che fa capo all’ingegner Carlo De Benedetti. Denominato Gedi, l’ex gruppo Espresso controlla la Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX, il settimanale l’Espresso, una catena di giornali locali, Radio Capital. Sempre ad un editore puro – il gruppo Monti - appartiene Qn, il Quotidiano nazionale, che comprende La Nazione, il Resto del Carlino e Il Giorno.Il Fatto quotidiano è di un piccolo editore, mentre era di un grande magnate, Murdoch, l’emittente Sky, che ora è passata a Comcast, che negli Stati Uniti è proprietario dell’emittente televisiva NBC e che mira a sopravvivere in questo mercato lanciando direttamente la sfida al gigante Netflix.Appartengono ad imprenditori con interessi prevalenti in rami diversi, gli editori del Sole 24 Ore (di proprietà di Confindustria), del Messaggero, Gazzettino e Mattino (gruppo Caltagirone), Avvenire (di proprietà della Cei, la conferenza episcopale), Il Giornale e Mediaset (Berlusconi), la Rai (che ha una governance politica).

I direttoriLa penultima variabile che agisce sulla “purezza” delle notizie è rappresentata dai direttori. Nella testata del New York Times si legge un motto: “Tutte le notizie che vale la pena di stampare”. Una espressione nella quale c’è l’enorme margine di discrezionalità della missione giornalistica e che in tutti i media, vecchi e nuovi, si riassume nel deus ex machina: il direttore che tutto decide. Ancora oggi è un monarca

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costituzionale e i margini di discrezionalità restano elevati, anche se l’espansione di media democratici pervasivi e invadenti come i Social rende più difficile che in passato nascondere una notizia o soffocarla nella culla, perché ci sarà sempre un concorrente che la valorizzerà o un gruppo di cittadini che ti chiederà conto: dove è finita quella notizia?

Una delle variabili che determina il livello di autonomia del direttore è la sua autorevolezza e la sua capacità di resistere rispetto ai desiderata degli editori, che essendo i proprietari della testata, hanno la possibilità di interferire sulla linea politica. Da questo punto di vista è interessante notare quel che è accaduto nei due principali quotidiani italiani, a proprietà costante e con direttori variabili.

Per molti anni (prima di essere acquisito da Urbano Cairo) il Corriere della sera è rimasto di proprietà di Rcs, un coacervo di alcune delle principali banche e imprese italiane. Negli ultimi 20 anni ha avuto quattro direttori - Paolo Mieli, Ferruccio De Bortoli, Stefano Folli e Luciano Fontana – ognuno dei quali ha dato un’impronta diversa al giornale. E lo stesso è accaduto a Repubblica, che ha avuto due direttori in 40 anni (Eugenio Scalfari e Ezio Mauro) e un terzo, Mario Calabresi, allo scadere del quarantennio: anche in questo caso tre direzioni molto diverse. Tre linee politiche molto diverse. E dunque anche un approccio diverso alle notizie di ogni giorno.

Il peso dei giornalisti nella deontologia della notizia politica

Proseguendo nella ricerca dei fattori che influenzano eticità e correttezza deontologica dei media, arriviamo all’ultima variante i giornalisti. I margini di autonomia del singolo giornalista derivano dalle condizioni esterne e, come nel caso dei direttori, dalla sua autorevolezza: tanto più è alta, tanto più avrà la capacità di resistere ad influenze e pressioni tese a distorcere la notizia. Ovviamente se un editore sostiene con grande determinazione che sia giusto posizionare la sua testata su una determinata linea politica, poniamo filo-governativa, e il direttore è perfettamente allineato, il giornalista che volesse scavare su una notizia che mette in cattiva luce l’esecutivo, incontrerà l’ostilità dei suoi “superiori”.Ma la regola è un’altra: c’è una terra di mezzo, quella nella quale l’influenza strettamente politica dell’editore non è così marcata e nella quale i margini di autonomia del direttore restano ragionevoli. Questa terra di mezzo è la regola (anche in questa stagione lo è) ed è a questo ambito che occorre guardare per capire quanto possa incidere il “fattore g”, il fattore giornalisti.La prima regola per un giornalista politico è tenere le distanze dall’oggetto del suo racconto: i politici dei quali scrive. Un conto è parlarci, frequentarli per cercare di capirli e di estrarne informazioni, altro conto è diventarne amici. O invitarli a cena nella propria casa. C’è un confine ideale che non bisognerebbe mai valicare, perché una volta superato, si diventa “prigionieri” della controparte. Anche perché nell’attuale divisione del lavoro, in base alla quale i giornalisti si specializzano e

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seguono in prevalenza questo o quel leader politico, il rischio-empatia è sempre incombente. In altre parole, dopo mesi o anni, di costante vicinanza allo stesso personaggio, è quasi inevitabile che scatti una sorta di simpatia-empatia nei confronti delle sue ragioni. E allora, immaginando un ideale codice di comportamento, un giornalista politico rigoroso dovrebbe sempre aver presente il meccanismo tipico dell’analisi freudiana: le azioni che lo psicoanalista attiva per rimbalzare il trasporto che scatta in ogni paziente per il proprio analista. In parole povere, quando il cronista avverte una eccessiva simpatia per il politico, dovrebbe imporsi di trovare notizie di segno opposto, sgradite al politico, in modo da rialzare una “barriera di sicurezza”.Un altro fenomeno importante riguarda il trasferimento dei giornalisti alla politica. Sono tanti negli ultimi decenni ad aver passato il confine. Giovanni Spadolini, che nel 1968 era diventato direttore del Corriere della Sera, successivamente fu segretario del Partito repubblicano e poi presidente del Consiglio; Gianni Letta, già direttore del Tempo, è da decenni il braccio destro di Silvio Berlusconi; Paolo Bonaiuti, già vicedirettore del Messaggero, di Berlusconi è stato il portavoce; e poi, con un percorso diverso, di andata e ritorno, Augusto Minzolini, già inviato della Stampa e direttore del Tg1, poi senatore di Forza Italia, è ora tornato a fare il giornalista al Giornale, di proprietà Mediaset; Lilli Gruber, già giornalista Rai, poi europarlamentare dell’Ulivo, da anni è conduttrice di Otto e mezzo su La7.Sono sempre moltissimi i giornalisti che si candidano per poi esser eletti. Nella scorsa legislatura, alla Camera erano la seconda professione di provenienza e al Senato la terza. Un fenomeno che puntualmente suscita brevi dibattiti ma nessuno scandalo. Non suscita alcuna sorpresa che i giornalisti, al pari dei magistrati, cioè gli arbitri della partita, a match in corso improvvisamente indossino la maglia di una delle squadre in campo. Ma se l’ingresso in squadra di un arbitro è fenomeno ancora compatibile, è semmai il successivo rientro nella professione giornalistica a determinare un fenomeno anomalo. A quel punto, per il pubblico dei lettori o dei telespettatori, diventa difficile far credito di indipendenza e di imparzialità verso chi ha imboccato queste porte girevoli. La conseguenza è la perdita di credibilità e di autorevolezza del giornalista politico. Agli occhi di molti ogni articolo, sia antecedente che successivo al mandato, apparirà come mosso da spirito di parte. A volte è vero, a volte è falso, ma per i giornalisti deve essere valido lo stesso principio che vale per i magistrati: essere indipendenti ma anche apparire tali.

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CAPITOLO 6 LA PROPAGANDA E LE FAKE NEWS

Fake news e propaganda sono le due principali armi usate dalla politica per arrivare direttamente all’opinione pubblica, armi che il giornalismo politico dovrebbe saper riconoscere e saper descrivere per quello che sono e in tempi rapidi. Ma sono armi che usano munizioni spesso invisibili e per questo è opportuno capire come saperle individuare. Per molto tempo i giornalisti non sono stati in grado di riconoscerle e ancora oggi, almeno in parte, è così. E proprio per questo vale la pena approfondire la conoscenza di queste due armi: le fake news e le tecniche della propaganda. Perché? Perché la politica usa (legittimamente, spesso con astuzia, quasi sempre in modo occulto) da una parte le armi della propaganda e al tempo stesso usa le armi improprie delle fake news e della diffamazione. Nella certezza che i media vecchi e nuovi siano costretti a trasmettere questi messaggi. Ecco perché è bene conoscere questi escamotage, questi trucchi: non è possibile fare buon giornalismo politico se non si conoscono le armi più sofisticate usate da chi è oggetto del racconto.

La post-verità

Il 16 novembre del 2016 Oxford Dictionaries annunciò di avere decretato «post-truth» come parola dell’anno e nei giorni successivi i media – vecchi e nuovi – rilanciarono la notizia con enfasi, come se si trattasse di una scoperta scientifica. Il monumentale dizionario storico della lingua inglese aveva motivato la sua decisione, sostenendo che nella formazione dell’opinione pubblica oramai «i fatti oggettivi sono

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meno influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali» e in questo contesto la verità diventa irrilevante. Con le sue istantanee Oxford Dictionaries dà periodicamente conto dell’evoluzione delle parole chiave nelle società contemporanee e anche nell’autunno del 2016 il suo giudizio si era rivelato tempestivo.

Effettivamente nelle due democrazie più antiche del mondo moderno si era imposto un fenomeno molto originale: l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e la vittoria di Donald J. Trump alle presidenziali degli Stati Uniti erano state entrambe ottenute anche grazie alla declamazione di plateali bugie, le cosiddette fake news, denunciate e certificate dalle vittime ma senza che questo avesse prodotto contraccolpi evidenti. Nella primavera del 2016 i fautori della Brexit avevano sostenuto che Londra versava all’Ue 350 milioni di sterline alla settimana e che tutto questo denaro, in caso di leave avrebbe potuto essere reinvestito nel Servizio sanitario nazionale. Una falsa promessa perché era falsa anche la premessa. Ma per tre settimane la scritta aveva campeggiato sui bus rossi a due piani delle città inglesi e la menzogna era diventata credibile.

Anche Donald Trump, da candidato alla presidenza, aveva sparato una raffica di balle. Affermando, tra l’altro, che Barack Obama non era nato negli Stati Uniti e che il padre di un suo sfidante alle primarie repubblicane, Ted Cruz, era amico dell’assassino di John Kennedy. Un moltiplicarsi di invenzioni che aveva indotto i canali televisivi Cnn e Msnbc a inserire, durante le interviste a Trump, delle scritte in sovraimpressione che riportavano l’avvertenza: «L’affermazione è falsa». Come ha scritto Christian Salmon, il teorico dello storytelling: «Mai un uomo politico aveva cancellato a tal punto la frontiera tra vero e falso». Impossibile però misurare empiricamente come e quanto la striscia di menzogne sia stata decisiva nel determinare i due inattesi exploit. Di sicuro entrambe le vittorie sono state ottenute malgrado un uso sistematico di bugie. Un abuso che nel passato avrebbe squalificato i loro promotori e che invece è risultato indifferente, se non addirittura motivante. Il tutto in un contesto sfavorevolissimo, se si pensa che gli americani hanno spesso considerato la menzogna una cosa più grave dei fatti che si volevano nascondere.

In Italia l’espressione post-truth è stata subito tradotta con post-verità ed è entrata nella discussione pubblica, come se descrivesse un fenomeno del tutto nuovo. Ma l’appello alle emozioni e alle convinzioni personali, il tutto condito da abili menzogne, è una pratica antica. Antica come la caccia al consenso. Antica come l’istinto propagandistico, che precede la democrazia e l’espressione ordinata del voto. Saper emozionare e suggestionare, conquistando l’immaginario collettivo, è sempre stata la via maestra di chiunque abbia dovuto convincere una folla. Piccola o grande

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che fosse: dalle agorà greche fino alle grandi piazze dei comizi del Novecento. E per conquistare le masse nel corso della storia le balle si sono sempre impastate alle verità e alle mezze verità. Senza regole fisse. Perché l’arte della comunicazione è eclettica. Attinge allo spirito del tempo. Agli umori e alle ansie sempre cangianti dell’opinione pubblica. All’intuito e alle capacità empatiche dei leader. Parla alla ragione ma più spesso all’inconscio e all’irrazionale. Per sedurre le masse – la vera mission che tutte le unisce – non esistono ricette buone per ogni stagione e per ogni latitudine.

Le tecniche della propaganda politica: auto-elogio e paura

Ma dalla Grande Guerra in poi una grande novità ha però cambiato le regole del gioco: i mass media hanno aiutato a dilatare sempre di più i messaggi propagandistici e l’Italia è stata uno dei primi paesi al mondo a imparare la lezione. E anche a diffonderla. I governanti non l’hanno interpretata seguendo improbabili regole da «buon propagandista», ma percorrendo più o meno istintivamente tre filoni: l’auto-elogio e l’ottimismo, il vilipendio del nemico, l’alimentazione della paura. Tre leve declinate in Italia secondo l’identità e l’umore nazionale. Denigrare il nemico politico è un espediente primitivo e istintivo, un’arma di difesa e di offesa. Un classico. Tanto è vero che in Italia è stato usato da un regime dittatoriale come il fascismo, così come dai leader democratici del dopoguerra. In particolare in occasione della battaglia più importante nella storia della Repubblica: quella del 18 aprile 1948. Ma la criminalizzazione del nemico resterà una costante, anche in stagioni di democrazia consolidata: Silvio Berlusconi sarà descritto come l’origine di tutti i mali dai suoi avversari, ben oltre i suoi conclamati limiti. Con battute talmente sprezzanti che hanno finito per qualificare più l’autore che la vittima, come nel 1994, quando il leader della sinistra post-comunista Massimo D’Alema disse in una trasmissione televisiva che avrebbe voluto vedere Berlusconi costretto «a fare l’elemosina» per strada. Così come, per altri versi, l’assimilazione dei comunisti italiani a quelli cinesi «che bollivano i bambini per concimare i campi», resterà un’iperbole di Berlusconi che – come tante altre – andò ben oltre una fisiologica dissacrazione dei propri nemici politici.

Altrettanto universale è il filone della paura: assecondare le ansie collettive proponendo i governanti come stabilizzatori. Come ansiolitici dell’angoscia collettiva. Una missione che fu perseguita con successo dalla Democrazia cristiana, a più riprese: prima agitando lo spettro di una dittatura comunista in caso di vittoria del Pci. E successivamente, negli anni settanta e ottanta, alimentando la paura di un assedio terroristico da parte degli opposti estremismi. E in epoche successive anche da un «partito di lotta e di governo» come la Lega: l’ostilità all’immigrazione

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clandestina, legittimo programma politico, è stata accompagnata dalla costante evocazione di scenari destabilizzanti. Matteo Salvini, in occasione del suo primo comizio da leader della Lega nel dicembre 2013, condensò così il suo messaggio ansiogeno: «I poverini non sono quelli di Lampedusa che vengono disinfettati: i poverini sono i cittadini di Lampedusa e di Bergamo che poi vengono derubati da chi viene disinfettato».

Molto interessante – e anche produttiva in termini di consensi - la tecnica sperimentata in questi mesi da Matteo Salvini, leader della Lega che è anche vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno. Quando compare in televisione o su Facebook Salvini riesce ad apparire sempre istintivo e spontaneo. Ma una buona parte dei suoi posizionamenti e riposizionamenti politici sono studiati e suggeriti dal computer, con un sistema sofisticato, che consente al leader della Lega di apparire di volta in volta «cattivissimo», «cattivo» e ogni tanto anche un po’ «buono». Ma sempre e comunque in sintonia con gli umori prevalenti nell’opinione pubblica. E tutto grazie a un sistema informatico che ha pochi eguali in Europa. Alla Lega questo sistema lo chiamano scherzosamente «La Bestia». Per la sua cinica «ferocia». Eppure si tratta di una tecnica che non ha nulla di istintivo: è tutto studiato e calibrato. Con una capacità di capire quel che la gente vuole e al tempo stesso di entrare nella loro testa nel modo più subliminale e impercettibile. L’hub, il cuore del sistema-Salvini, è Facebook. A portare il capo della Lega su queste «frequenze» era stato il «filosofo informatico» Luca Merisi, che oramai passa come il dottor Stranamore di Salvini, che nel libro di Matteo Pucciarelli «Anatomia di un populista», ha raccontato: «Ebbi una specie di innamoramento per lui, dovuto alla constatazione della sua enorme capacità di gestire il talk show. Aveva l’ambizione di crescere: altri social media manager gli dicevano di puntare su Twitter, io gli dissi che il popolo stava su Facebook».  

E su questa piattaforma Salvini è diventato l’incontrastato numero uno in Italia. Ha appena superato abbondantemente i 3 milioni di «mi piace» e da lì si irradiano i suoi messaggi più efficaci. Calibrati grazie ad un sistema che analizza - di volta in volta e in modo scientifico - migliaia e migliaia di post e di tweet che ottengono i migliori risultati.E a quel punto vengono preparati messaggi e parole-chiave pronti per essere irradiati da Salvini attraverso Facebook. Si dispiega così una tecnica affinata negli anni e che è cambiata negli ultimi 12 mesi. Studiata da riviste come Vice e soprattutto Wired, ma anche da psicologi specializzati nella «sentiment analysis». Oramai è chiaro che post e video di Salvini sono confezionati per raggiungere tre obiettivi. Il primo: occupare subito lo spazio mediatico, intervenendo per primi sulla notizia del giorno, perché arrivare secondi, sostiene Luca Morisi, «è come uscire su un giornale tre giorni dopo». In questo modo

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si costringono i media tradizionali, gli avversari ma anche gli alleati a rincorrere. Secondo: polarizzare tutta la discussione attorno al bivio: Salvini e anti-Salvini. Terzo: lanciare messaggi forti, estraendo dall’opinione pubblica i «sentimenti negativi» - rabbia, paura e aggressività - in modo da «abbassare la guardia» di chi ascolta.  Perchè secondo uno studio dell’università del Michigan del 2005, le emozioni negative rappresentano un’esca per attirare l’attenzione, anche se poi è il sentiment positivo che porta un elettore dalla parte del propagandista di turno. Tanto è vero che alla fine di ogni post, Salvini puntualmente propone un frammento di “gioia” per chi ascolta. Lo ha fatto anche in un post che ha suscitato molte polemiche, uno molto forte sui magistrati. Dopo la tirata irrituale contro chi non è eletto dal popolo, alla fine Salvini si è congedato con un messaggio rassicurante: «Io penso che milioni di italiani vogliano sicurezza, ordine, regole, disciplina. Un bacione e buon venerdì a tutti». E ha lanciato un bacio verso chi ascoltava, lasciando che invece si dissolvesse il messaggio aggressivo anti-giudici attivato poco prima. Certo, il capo della Lega fa politica con la sua testa, orienta i messaggi anche e soprattutto partendo dal suo intuito, dal suo fiuto e da tutto quel che si muove sullo scacchiere. Ma accanto a lui c’è sempre «La Bestia». 

La politica dell’ottimismo

Ma, tornando alle grandi tecniche comunicative, quella che è stata interpretata con maggiore originalità è la propaganda rassicurante. Nel corso dei decenni passati e ancora oggi, grazie a un’utilizzazione sapiente della radio, dei giornali, del cinema, delle riviste patinate e della tv, i governanti via via hanno offerto una rappresentazione il più possibile edulcorata della realtà politica e sociale, mandando ai cittadini un messaggio ottimistico, edificante, anti-depressivo, con l’idea che il consenso si consolidi anche togliendo oneri e ansia agli elettori. Provando a volgere al bello il loro umore e il loro immaginario. Aiutandoli a credere che la loro sia la migliore delle vite possibili. La vie en rose è una suggestione che è stata perseguita in stagioni diversissime.

L’impronta l’ha data il fascismo. Benito Mussolini fu uno dei primi leader al mondo a usare assieme radio, cinema e giornali: pur di rendere stabile e duraturo il consenso, non si limitò a spegnere tutte le voci libere, ma pilotò anche la censura. Promuovendo una produzione di veline alla stampa, tutte finalizzate a un’opera sistematica di bonifica dalle cattive notizie e di pompaggio degli eventi euforizzanti, a cominciare dal mito del duce. Ottimismo sì, ma accompagnato da alcune astuzie invisibili. Mussolini autorizza qualsiasi enfasi, quando è lui il protagonista, ma consiglia

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maggior prudenza nel trattare alcune buone notizie: esagerarle può diventare un boomerang. Esemplari alcune veline diffuse segretamente durante i cosiddetti anni del consenso e segnate da una cautela nell’alimentare facili entusiasmi. Una prudenza che nei decenni successivi non sempre avrebbe fatto scuola. Successivamente la rovinosa caduta del fascismo precluse il riuso immediato di una retorica tutta centrata sul capo. I leader cattolici che dopo la guerra prendono in mano il Paese, scelgono una strada meno plateale: esibiscono un profilo pubblico di grande austerità – verbale e nei costumi personali – ma dietro le quinte agiscono con pragmatismo e durezza per censurare qualsiasi deviazione verso il pessimismo o verso racconti troppo realistici. Un atteggiamento che finisce per reprimere qualunque traccia «sospetta», ovunque si trovi: in un film neorealista, in una storiella di Carosello, in un filmetto di Totò, in una calzamaglia troppo trasparente. Interventi repressivi che alcuni decenni più tardi fanno sorridere, perché appaiono goffi e anacronistici. E invece sono utili da ripercorrere perché contribuiscono a far capire quanto imponente e incisiva sia stata allora – ma possa essere sempre – l’impronta censoria sulla rappresentazione degli italiani. E sulla loro auto-rappresentazione. Gli artefici cattolici della ricostruzione italiana, dunque, precludono qualsiasi deviazione verso un energico pensiero positivo.

Ecco perché il «sistema», abituato alla narcosi democristiana, dimostra una reazione istintivamente ostile alle omeopatiche dosi di «ottimismo della volontà» espresse dal primo presidente del Consiglio milanese, il segretario socialista Bettino Craxi all’inizio degli anni ottanta. Una reazione ancora più forte accoglie le declamazioni più robuste e plateali di un imprenditore dei media come Silvio Berlusconi, milanese pure lui, che nel gennaio del 1994 si era lanciato sulla scena politica con un discorso televisivo, concluso con queste parole: «Dobbiamo costruire per noi e per i nostri figli un nuovo miracolo italiano». Ma l’unico leader che in tutto il dopoguerra fa del pensiero positivo il filo robusto e prevalente della propria narrazione è stato Matteo Renzi, presidente del Consiglio dal febbraio del 2014 al dicembre 2016, uno dei più duraturi nella storia della Repubblica. L’ex sindaco di Firenze aveva conquistato la leadership del Pd, partito erede della tradizione post-comunista e cattolico-democratica, anche grazie alla parziale rottura con l’immaginario di quelle due culture politiche. Facendo leva su quell’ottimismo della volontà che nella psicologia collettiva nazionale è sempre stato compresso dal vittimismo. Il pensiero positivo di Renzi col passare del tempo diventa ottimismo a tutti i costi, auto-elogio sistematico, presenza assillante sui mass media. Un’ansia da prestazione che sicuramente non aiuta il presidente del Consiglio nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale promossa dal governo e conclusasi con la sconfitta. Ma la vittoria del no alla riforma fa affiorare una clamorosa sfasatura, sfuggita durante le analisi a

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caldo. In prossimità dell’appuntamento referendario il governo aveva proposto agli elettori, oltre alle novità contenute nella riforma istituzionale, una massiccia quantità di provvedimenti, indirizzati verso una platea vastissima di cittadini: assunzioni di massa, riduzione di multe e del canone Rai, sgravi fiscali, bonus, aumento delle pensioni, incrementi retributivi per il settore pubblico.

Alla fine gli italiani in qualche modo gratificati, o comunque interessati dalle misure ammontavano a più di venti milioni. E invece, alla prova del voto, il «pacco-dono» non aveva lasciato il segno. La «pancia» era stata più forte del calcolo empirico. L’antipatia verso il leader più potente dell’empatia attivata dall’alto. Le folate anti-establishment si erano rivelate più poderose del richiamo a una rottamazione della vecchia classe dirigente già dimenticata. È una delle prime manifestazioni in Italia dello spirito della post-verità. Non tanto per la produzione di bugie, tutto sommato rimaste sotto il livello di guardia in quella campagna elettorale. Ma perché gli appelli alle emozioni, ai pregiudizi, alle convinzioni personali rispetto al passato sono stati più convincenti di fatti, certo controversi, ma tangibili.

La controprova arriva in quelle stesse settimane da Roma: la faticosa esperienza dei primi mesi del Movimento Cinque Stelle in Campidoglio alla prima importante prova di governo non demotiva gli elettori nel resto del Paese. In tutte le intenzioni di voto il movimento di Beppe Grillo prosegue la sua ascesa, dimostrando che i Cinque Stelle hanno saputo cogliere meglio di altri lo spirito del tempo, di quel tempo. Intercettando e cavalcando una novità per certi versi epocale: per i seguaci dei populisti non conta la veridicità dei fatti, perché ad essere vero è il messaggio d’insieme, che deriva dalla loro esperienza e dalle loro sensazioni e dunque, per convincerli non serve accumulare fatti e argomentazioni empiriche, almeno fino a quando la visione complessiva dei partiti tradizionali continuerà ad essere percepita come poco pertinente rispetto alla realtà. I Cinque Stelle sanno maneggiare meglio degli altri il media più contemporaneo: il web. Così come Benito Mussolini aveva intuito le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione, suonando l’intera tastiera a disposizione in quegli anni, radio, giornali e cinegiornali; così come la stessa capacità aveva avuto la Dc con la nascente televisione, da parte sua Gianroberto Casaleggio, il regista del movimento, aveva capito prima di tutti che la Rete avrebbe rivoluzionato la politica.

Le fake news prodotte dai vecchi e dai nuovi media

Se ci spostiamo dal campo della propaganda e delle bufale prodotte dal sistema politico affinché il sistema dei media le propali, dobbiamo fare un’iniziale distinzione: i vecchi media – giornali, agenzie, televisioni – hanno molti difetti ma molto difficilmente producono scientemente fake news. A volte surriscaldano i toni, a

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volte caricano una notizia insignificante e altre volte nascondono o camuffano una notizia ma crearle ex novo è un altro paio di maniche. Il problema riguarda invece la Rete, dove negli ultimi anni si sono consumati autentici misfatti che cercheremo di mettere a fuoco.

Partiamo dai vecchi media. Non produrre bufale in modo scientifico e consapevole, non significa che sui giornali e nelle tv non compaiano notizie false. Pubblicate o mandate in onda per sciatteria, per omesso controllo. Facciamo un esempio recente, tratto da un quotidiano, La Stampa, che vanta una buona tradizione di credibilità. Il 29 ottobre esce un articolo con questo incipit:

“Il decreto fiscale spazza via il sostegno dello Stato per perseguitati politici e razziali, oltre che per i pensionati di guerra. Un taglio da 50 milioni al Fondo istituito al ministero dell’Economia, con effetto immediato. E così, a ottant’anni esatti dalle leggi razziali, la maggioranza giallo-verde taglia gli assegni previsti fin dal 1955 per chi aveva subito la persecuzione fascista perché di religione ebraica o per le idee politiche. Assegni di modesta entità, circa 500 euro al mese, destinati a persone nate prima del 1945, dunque sopra i 70 anni. Si tratta di alcune migliaia di cittadini, che rischiano di non vedere già gli assegni di novembre e dicembre”.Nel corso della mattinata del 29 ottobre si scopre che la notizia è infondata. Il governo, nel preparare la Legge di Stabilità e nel resettare i vari fondi, ha scoperto che gli stanziamenti per queste categorie di persone vanno ridimensionati, perché si tratta di stanziamenti che scemano col passare degli anni, con la scomparsa fisica degli assegnatari. E dunque sul testo della legge è previsto un taglio dei fondi, ma non la loro cancellazione. Cosa è accaduto? Una lettura frettolosa o faziosa di quel testo, magari da parte di qualche associazione, è stata fatta filtrare e il giornalista se ne è reso strumento passivo. Importante è la data di pubblicazione: 29 ottobre lunedì. Questo significa che il giornalista ha lavorato la notizia di domenica e ha avuto minori possibilità di riscontri. Sta di fatto che è stata pubblicata una notizia infondata, l’indomani smentita.Altro discorso riguarda invece l’utilizzo politico dei Social. In questo caso gli aspetti da studiare sono due. Il primo riguarda l’utilizzo, studiato a tavolino dai politici, nel corso di campagne elettorali allo scopo di ottenere una forma sofisticata di persuasione occulta; il secondo invece investe la produzione di fake news che sul web è intensissima e pericolosissima. Partiamo dal primo punto. Dopo la campagna delle elezioni presidenziali americane del 2016 la Cnn definì una società chiamata Cambridge Analytica «l’arma segreta» di Trump. La società londinese, leader nel campo dei big data, è stata protagonista di un’impresa mai ottenuta in precedenza: l’elaborazione del «profilo di personalità di tutti i cittadini

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adulti degli Stati Uniti». Impresa che ha consentito di raggiungere con un messaggio mirato e personalizzato non tutti gli elettori, ma sicuramente quelli che servivano per conseguire la vittoria. L’ingegnoso sistema, destinato a diventare un prototipo anche in altri paesi, si giova di una lunga stratificazione di elaborazioni immaginate nel passato per usi diversi, soprattutto pubblicitari. Per decenni i responsabili delle campagna elettorali puntavano a raggiungere fasce di elettori a spanne larghe, inviando messaggi a «gruppi» considerati omogenei. Donne, afroamericani, ispanici. Ma poiché con Internet, in particolare con Facebook, tutti lasciano tracce digitali, elaborandole in sofisticati big data, la Cambridge Analytica è riuscita a individuare i profili di milioni di americani. Alla fine catalogati in 32 tipologie: dai padri ansiosi, agli introversi arrabbiati, fino agli elettori democratici indecisi. Una volta scremati e selezionati, gli elettori più interessanti sono stati raggiunti in vario modo: con porta a porta, attraverso messaggi personalizzati sui social network e sulle tv digitali. E concentrando gli sforzi soltanto su 17 Stati. Ecco spiegate le impressionanti incoerenze di Trump, la sua criticata volubilità, che in realtà corrispondevano a messaggi diversi per tanti profili di elettori. Ed ecco spiegato perché, aver ottenuto quasi tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton, alla fine non ha rappresentato un handicap: gli elettori di Trump erano di meno, ma erano quelli «giusti» per vincere negli Stati in bilico. Dunque, per ogni elettore, una verità diversa: à la carte. Per vincere le elezioni, ogni espediente è buono. Anche quello di utilizzare in modo fraudolento i dati di Facebook, evidentemente ceduti in modo poco trasparente. Questa vicenda ha investito pesantemente i vertici di Facebook, Sheryl Sandberg, ceo di Facebook e il capo Mark Zuckerberg. Una recente inchiesta del New York Times è andata molto a fondo nell’universo Facebook, accertando anzitutto un dato: prima del voto, pur avendo Mark Zuckerberg negato drasticamente che il social network fosse stato vittima e facilitatore inconsapevole di un'operazione dell'intelligence russa per influenzare il risultato elettorale, in realtà i tecnici di Facebook sapevano dell'interferenza del Cremlino. In sostanza Mark Zuckerberg era al corrente dell’attività russa sul social fin dall’inizio del 2016, ma non avrebbe preso nessun provvedimento, lasciando che le fake news influenzassero le elezioni americane. Lo sapeva quanto meno la Sandberg, che accusò Alex Stamos, allora capo della sicurezza del social network, di aver indagato troppo sulle attività russe, e di avere così reso l'azienda giuridicamente vulnerabile. Lo stesso avviene con il caso Cambridge Analytica. Facebook tenta di negare, minimizzare, attirare le colpe sui concorrenti. E quando la dirigenza si accorge che gli scandali stavano danneggiando la reputazione di Facebook, e che le aziende rivali approfittavano

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della crisi per danneggiare il social network, era partita una campagna di influenza con numerosi aspetti equivoci.L’altro elemento distorsore dell’informazione politica riguarda la propalazione delle fake news. Non appena i vertici di Facebook hanno capito che questo fenomeno rischiava di intaccare il proprio business sono corsi ai ripari e recentemente hanno diffuso alcuni dati significativi Da gennaio a settembre sono stati rimossi più di 2 miliardi di fake account, eliminando contenuti offensivi e pericolosi per la sicurezza, falsi account, fake news, spam. Le violazioni individuate da Facebook prima della denuncia da parte degli utenti corrispondono ad una percentuale elevata, superiore al 96%, eccetto i casi di incitamento all’odio 51,6%.

CAPITOLO 7 I FATTI, LE OPINIONI, L’ OPINIONISMO

Oggi parleremo di due argomenti confinanti ma distinti: la necessaria distinzione tra fatti e opinioni e il boom di un fenomeno che definiamo “opinionismo” e che rappresenta la più recente frontiera del giornalismo politico italiano. Prima di entrare nel dettaglio, è opportuno per un momento tornare alle origini di questo corso e definire la missione del giornalismo politico, che consiste nel raccontare e capire i fatti della realtà politica nel modo più rigoroso possibile, al netto delle tante propagande dei politici, che cercano di indirizzare la lettura degli eventi dalla parte che più gli conviene. Però il racconto fattuale della politica non è un’impresa semplice perché nella vicenda politica i fatti non sempre parlano da soli, anzi quasi mai. Se ci si limitasse a registrare l’approvazione di una determinata legge o una dichiarazione, faremmo un compitino e non avremmo aiutato a capire il senso di un evento.

Fatti separati dalle opinioniPartiamo da un concetto base: l’ideale sarebbe avere sempre i fatti distinti dalle opinioni in modo da lasciare al lettore e al telespettatore di farsi una propria idea. Il risultato al quale tende la separazione tra cronaca e commento è l’obiettività della notizia, nel senso dell’imparzialità. Obiettività nel senso di proporre una cronaca degli eventi politici senza partigianeria, pregiudizi, in modo che parlino soltanto i fatti. La distinzione tra cronaca e commento è un cardine del linguaggio giornalistico anglosassone: i giornali inglesi e americani hanno una sezione dedicata agli editoriali e alle rubriche, comprese le Lettere al direttore. Alcuni giornali come New York e Washington Post riaffermano questo principio in appositi codici etici. Una formula,

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che è stata adottata in Europa da giornali come lo spagnolo El Pais o Die Zeit, mentre in Italia c’è la tradizione degli editoriali in prima pagina.Ma la distinzione tra fatti e opinioni è importante sia in sede teorica che pratica, ma spesso propone un confine soltanto convenzionale perché l’informazione è per sua natura materia ambigua e d’altra parte la soggettività del giornalista è parte integrante della notizia. Per capire quanto ci sia di rigido in questa separazione così netta, proviamo a capire anzitutto cosa è un fatto. Se cerchiamo una definizione nel dizionario scopriamo che un fatto è <ciò che è concreto, verificato, contrapposto a ciò che è generico, frutto di sole parole>. Nella vicenda politica, i fatti possono essere di vario tipo: l’approvazione di una legge, un summit, una dichiarazione. Ma dobbiamo riconoscere che fatti di questo tipo non “parlano” da soli. Decidere se un evento sia o no una notizia e, in caso positivo, che rilievo debba avere quella notizia, tutto questo dipende dalla soggettività del giornalista ed è inevitabile che in questa valutazione entrino in gioco fattori come il genere, l’età, le precedenti esperienze del redattore e dunque una notizia contiene sempre un’interpretazione dell’avvenimento. I fatti risentono di una esposizione soggettiva, che contiene sempre un tasso di opinione.Negli Stati Uniti, che è la patria della distinzioni fatti-opinioni, due eventi misero in crisi questa rigida distinzione. La prima volta accadde negli anni Trenta, durante la “Grande depressione”, quando gli americani conobbero la fame, la disoccupazione: allora si sentì il bisogno di una informazione che non si limitasse ad elencare i fatti, ma invece aiutasse a comprenderne il significato. Per la prima volta il giornalismo concepito come una somma asettica di fatti apparve inadeguato. Fu in quegli anni che fu coniato il termine interpretative reporting (capovolto rispetto al noto straight reporting), che potesse comporre in una nuova sintesi le due modalità fino ad allora distinte del racconto giornalistico. In quella importante svolta, nessuno negli Stati Uniti mise in discussione l’imperativo categorico della massima obiettività, ma si affermo l’esigenza di inserire nella cronaca stessa, una lettura, un tentativo di comprendere anche il significato degli eventi. E questa istanza venne riconosciuta nel codice etico dell’American Society of Newspapers Editors, che nel 1933 produsse un documento nel quale si riconosceva l’esigenza di dare più spazio a cronache esplicative ed interpretative. Ma in concreto questa acquisizione non produsse una significativa svolta nella prassi quotidiana.

Una seconda svolta, sempre negli Stati Uniti, si registrò negli anni Cinquanta, nel pieno della “caccia alle streghe” imbastita dal senatore repubblicano Joseph Mc Carthy che in modo ossessivo cercava comunisti in tutti gli ambienti sociali. In quella occasione l’obiettività perseguita come mantra mostrò i suoi limiti, perché i giornalisti – costretti a pubblicare le notizie sulla campagna accusatoria e spesso diffamatoria del senatore senza la minima contestualizzazione, finivano per contribuire alla creazione di notizie dal nulla. Di fake news. Da questo punto di vista si può sostenere che quella del senatore Mc Carthy sia la prima, poderosa campagna di fake news della storia moderna,

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In quella occasione emerse ancora più che nella volta precedente la differenza tra lo straight reporter, che nel nome dell’obiettività, registrava le accuse e l’interpretative reporter, che cercava le motivazioni di un evento, scavando sulle cause, contestualizzandole. In quella occasione la stragrande maggioranza dei giornalisti proseguì nell’approccio tradizionale, nel nome dell’obiettività e questo indusse il prestigioso New Yorker a sostenere che Mc Carthy manipolava i cronisti come fossero Pavlov’s dogs, i cagnolini di Pavlov, con allusione alla teoria dei riflessi condizionati elaborata dal fisiologo russo Ivan Pavlov.

La via italiana

In Italia, non è mai esistita una cultura della separazione dei fatti dalle opinioni. Ed è sempre prevalsa una naturale commistione tra i due approcci. Pochissimi i direttori che hanno perseguito una politica editoriale di divisione netta tra i due ambiti. Quelli che lo hanno fatto con grandi risultati in termini qualitativi sono stati Piero Ottone, direttore del Corriere della sera tra il 1972 e il 1977 e Lamberto Sechi, direttore di Panorama tra il 1965 e il 1979.Ispirandosi all'esperienza della testata americana Time, Sechi ha trasformato Panorama in tabloid, con un linguaggio spigliato e senza nessuna forma di sudditanza rispetto alla politica. Sechi applicò per Panorama lo slogan "I fatti separati dalle opinioni", gli diede una linea che lui definì <kennedyana> ma che era anche molto laica. Gli articoli dovevano essere improntati a un medesimo stile, sobrio ma con la costante ricerca del retroscena e del dettaglio di colore, in modo da differenziarsi dalla prosa molto paludata dei quotidiani dell'epoca. Quel che conta è il dato quantitativo: nel giro di pochi anni Panorama di Sechi divenne il primo settimanale italiano e il suo successo costrinse il principale concorrente, L’Espresso, a passare al formato tabloid. Più complessa, ma altrettanto di successo, la direzione del Corriere della Sera di Piero Ottone, giornalista di scuola anglosassone che anche negli anni successivi, dopo aver lasciato volontariamente il suo incarico (era cambiata la proprietà del giornale) rivendicherà sempre la necessaria separazione tra fatti ed opinioni.La questione non ha mai appassionato i giornalisti italiani, che infatti non hanno mai cavalcato la teoria della stampa come quarto potere. Negli anni Settanta si aprì un dibattito nel corso del quale Eugenio Scalfari, sull’Espresso, contrappose al criterio di obiettività quello di onestà: il giornalista rinuncia a promettere una irraggiungibile obiettività ma in cambio si impegna di riferire onestamente ciò che ha visto e ciò che sa in base alla sua specifica professionalità.

Accuratezza e imparzialitàPer cercare di capire se una separazione dei due ambiti abbia ancora un senso, proviamo a mettere a confronto le tesi più convincenti dei due fronti. Scrisse una

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ventina di anni fa il Wall Street Journal: <Noi crediamo che i fatti siano fatti e che essi sono accertabili attraverso un reporting onesto, di mente aperta e diligente. Noi crediamo perciò che si possa giungere alla verità sovrapponendo fatti a fatti, proprio come nella costruzione di una cattedrale>. Concetto chiave: sovrapporre fatti a fatti per avvicinarsi alla verità.Leggiamo quanto scrisse, su un fronte diverso, Umberto Eco in un saggio intitolato Guida all’interpretazione del linguaggio giornalistico pubblicato nel 1971: <Il mito dell’obiettività con l’immagine correlativa del giornale indipendente camuffa semplicemente la riconosciuta e fatale prospetticità di ogni notizia…. Se metto in prima pagina la notizia di un conflitto a fuoco in Nigeria e in un’altra pagina la vittoria di tappa al Giro d’Italia è chiaro che ho già fatto una scelta politica: ho imposto al pubblico una scala di priorità>. Concetto chiave: la prospetticità della notizia.Veniamo ad una possibile sintesi concettuale. Abbiamo capito che l’obiettività non esiste, perché una conferenza stampa di Matteo Salvini può essere descritta da due giornalisti in modo diverso per effetto del loro bagaglio professionale, della loro sensibilità, della loro cultura e in ogni caso il loro lavoro sarà filtrato in funzione del pubblico al quale è diretto. E allora al giornalismo politico, così come ad ogni altra forma di giornalismo, possiamo chiedere quantomeno di tendere all’obiettività, questa è l’espressione giusta - provando a perseguire il rispetto di due criteri: l’accuratezza e l’imparzialità, che sono altre due parole-chiave.L’accuratezza con cui si riferiscono i fatti è una garanzia per una buona informazione politica. Accuratezza cosa significa? Se Matteo Salvini durante una passeggiata per le vie di Napoli viene aggredito verbalmente da tre persone, che lo apostrofano in modo colorito, è giusto darne conto dettagliatamente ma il criterio della accuratezza ti impone di riferire che durante i 30 minuti trascorsi per strada, il leader della Lega è stato costantemente applaudito. Quale è “la” notizia? Che Salvini è stato contestato in modo aspro ed efficace da tre persone o che il milanese e nordista Salvini ha potuto attraversare le strade della più grande città del Sud d’Italia circondato dagli applausi? Il titolo dei giornali o dei Tg magari sarà sulla contestazione, perché fa più notizia, ma se il mio articolo risponderà al criterio dell’accuratezza, io darò conto con eguale forza del secondo dato, da un certo punto di vista persino più rilevante. La seconda parola chiave è imparzialità: significa che il giornalista ritiene necessario presentare in modo equo entrambe gli aspetti di una questione. Facciamo un altro esempio. Il 23 agosto 2015 si svolgono a Roma i funerali show dei Casamonica, che fanno cadere da un elicottero una grandinata di petali di rose sul carro funebre di uno dei boss della famiglia. Un’aperta violazione delle leggi che per quanto riguarda lo spazio aereo prevedono norme stringenti. Ma davanti a quel caso i media anziché richiamare le responsabilità delle autorità di polizia su quella violazione, fanno scattare l’ennesima caccia al sindaco di Roma, Ignazio Marino, in quel momento all’estero e che per una serie di motivi precedenti, era in disgrazia. I giornalisti,

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abbeverandosi alle fonti ufficiali alternano ricostruzioni improbabili, chiamano in causa i vigili urbani e il Campidoglio, senza tener conto che sui funerali e sullo spazio aereo, il Comune non ha alcuna competenza. E nell’equivoco si inserisce anche il prefetto di Roma Franco Gabrielli, che alterna ironia («Ho sentito Marino fra un’immersione e l’altra…») e avvisi: «Potrei sciogliere il Comune». Dal punto di vista dell’informazione una vicenda poco edificante. Perché nessun giornale o tv spiega chi abbia responsabilità nel caso di violazione dello spazio aereo – la filiera Questura-Prefettura-ministero dei Trasporti – e nessun giornale chiede conto al prefetto di Roma delle sue dichiarazioni così omissive e così invadenti. Nessun media dà conto con il giusto rilievo di quel che dice il sindaco. E invece Marino è il “mostro” e va crocifisso. Il principio dell’imparzialità avrebbe richiesto esattamente quel tipo di integrazioni, ma le responsabilità che facevano capo al ministero dell’Interno, un potere forte, hanno impedito un’informazione imparziale.In conclusione, accuratezza e imparzialità temperano la discrezionalità della mediazione giornalistica senza per questo garantire il principio ideale di una totale obiettività. Ma possiamo concludere che accuratezza ed imparzialità di per se non garantiscono obiettività assoluta ma vi si avvicinano. Così come distinguere fisicamente lo spazio dedicato agli articoli e quello dedicato ai commenti, aiuta il lettore e il telespettatore a farsi un’opinione.

L’opinionismo: il modello anchorman

Dunque, i fatti andrebbero ragionevolmente separati dalle opinioni, ma ad insidiare questo principio teorico (che si invera, pur con tutti i limiti fin qui descritti) c’è il fenomeno che possiamo definire l’opinionismo. E cioè il dilagare di giornalisti che esprimono, in particolare nei talk show, la propria opinione su ogni questione. Se anziché dare la propria lettura degli eventi, si schierano con questo o con quel politico, che credibilità possono avere come soggetti terzi?

Il fenomeno, come sempre, nasce negli Stati Uniti, un Paese, che è la patria del miglior giornalismo politico del mondo. Una figura centrale in quel sistema, ma anche nello star-system, è l’anchorman. E’ stato negli anni Cinquanta che il termine anchor (supporto) è diventato di uso corrente e questo avvenne quando si comprese che il conduttore dei notiziari informativi poteva essere qualcosa di più di semplice lettore di notizie. Tutto era iniziato subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale quando i producer della Cbs convinsero una delle voci più famose della radio americana, Douglas Edwards, a passare alla televisione, promettendogli che avrebbe presto potuto guadagnare una montagna di dollari. Una promessa profetica. Bisognerà attendere il 1963 perché si affacci per la prima volta una figura che preannuncia l’anchorman, anche se serviranno diversi anni prima che si consolidi. Il

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22 novembre del 1963 viene assassinato nelle strade di Dallas, in Texas, il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Quel giorno l’anchor era Walter Cronkite, che da poco aveva preso il posto di Edwards. Per la prima volta nella storia della televisione, per quattro giorni di copertura continua, ma il vero punto di svolta, il momento nel quale il giornalista diventa centrale, è quando Cronkite, dopo aver annunciato la morte del presidente (che non era stata immediata), si tolse gli occhiali e se ne andò. Come fu scritto successivamente dal settimanale Times, Cronkite fu visto come <una figura paterna per un Paese che sembrava cercarne una>. Successivamente i sondaggi dicono che l’anchor risultava <l’uomo di maggior fiducia nel Paese>. Un carisma che si sarebbe accresciuto negli anni e quando Cronkite tornò dal Vietnam, dove gli americani erano impegnati in una guerra sempre più impopolare, disse che quel conflitto non si poteva vincere. Il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson confessò ai suoi collaboratori: <Ho perso Cronkite, ho perso il cuore dell’America>.

Cronkite si ritirò nel 1981 e per sostituirlo, Dan Rather ebbe un’offerta record: due milioni di dollari l’anno. Era solo l’inizio di una escalation: Katie Couric ebbe nei primi anni Duemila un compenso che sfiorava i 15 milioni di dollari, con standard retributivi oramai simili a quelli delle star del cinema. Rather, in una intervista al New York Times nel 2001, ha spiegato quale sia, a suo avviso, l’essenza dell’anchorman americano: <Il telespettatore deve avere la sensazione che l’anchor ne sa abbastanza della vita, che abbia visto abbastanza notizie da meritare fiducia in questo uragano di fatti, chiacchiera, informazione, disinformazione, interviste> e <quando esplodono le grande notizie, non c’è posto per nascondersi>. E ancora: <Mi ci è voluto molto tempo per padroneggiare la natura simbolica del mio lavoro>, <se nel più profondo, non si pensa a se stessi come a depositari di fiducia, non in modo arrogante, bensì in una forma umile, allora io penso che questo passa il video. E’ la vera essenza di essere effettivamente un anchor>.

Cerchiamo di capire quali sono le ragioni per le quali sono così forti la fiducia e l’identificazione degli americani nei loro anchorman preferiti. I fattori che caratterizzano l’azione degli anchor sono due. Il primo: una forte professionalità acquisita sul campo che consente al conduttore una conoscenza dei fatti raccontati e la capacità di dare una oculata gerarchia alle notizie, in definitiva dando un ordine al caos delle notizie. Secondo: una capacità di produrre commenti in sintonia con il pubblico. Il tutto padronaggiando gli avvenimenti nel linguaggio tutto peculiare della televisione.

Opinionismo: il modello italiano

Anche in Italia all’inizio della storia della televisione ci si pose la domanda se in tv fosse meglio puntare su conduttori-redattori, in qualche modo addentro al ciclo delle

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notizie del giorno, o su semplici annunciatori, perfettamente dotati in termini di dizione A partire dal gennaio 1954, i primi Tg nella storia della Rai (che andavano in onda alle 20,30), furono condotti da un redattore ma poi si passò ad un annunciatore e il prescelto, Riccardo Paladini, che condurrà il Tg unico della Rai per cinque anni, divenne un personaggio. Passando ai giorni nostri, in Italia una figura che sia paragonabile all’anchorman americano non esiste, o se esiste, è quantitativamente circoscritta. Gli unici due giornalisti televisivi che somigliano a quella figura sono Enrico Mentana e Bruno Vespa. Il primo è stato direttore del Tg5, già conduttore del talk Matrix, ora è il factotum de La7, per la quale dirige i Tg e soprattutto conduce l’edizione delle 20, che riscuote costantemente un audience nettamente superiore a quella della Rete. Somiglia ad un anchorman perché nel presentare e nel condurre i Tg, aggiunge sempre un elemento di commento che però è una lettura degli eventi politici, evitando quasi sempre un commento troppo soggettivo. Bruno Vespa che da quasi 25 anni conduce Porta a Porta, nel corso del tempo si è guadagnato autorevolezza in virtù di una buona dosa di imparzialità, quantomeno apparente. Nel passato due sono state le figure che hanno avuto una fisionomia all’americana: Enzo Biagi, giornalista di carta stampata che per qualche anno ha condotto una bella trasmissione televisiva, Il fatto, nella quale giudizio, sempre misurati, erano “giustificati” e supportati dalla grandissima professionalità, dall’autorevolezza. E l’altro personaggio che richiama la figura dell’anchorman è stato Michele Santoro, del quale si è accennato in precedenza.

Poi ci sono i principali conduttori di talk show, sulla Rai (Bianca Berlinguer, Lucia Annunziata), su la7 (Lilli Gruber, Floris, Corrado Formigli) su Sky (Maria Latella) che per ragioni diverse non hanno il “peso” dell’anchorman ma che svolgono in modo ineccepibile il proprio ruolo di conduttori dei rispettivi programmi. Ineccepibile nel senso che – a parte Lucia Annunziata, sempre molto trasparente nei suoi gusti e nel suo obiettivo di trascinare le sue interviste in un determinato verso – non lasciano trasparire il proprio orientamento politico.

Altro discorso invece per gli ospiti giornalisti dei talk show. Oramai alcuni giornalisti fanno parte dello star-system, alcuni di loro hanno persino degli agenti che ne curano l’immagine. Una deriva per la verità molto originale perché sino ad oggi gli agenti hanno curato la promozione dei cantanti, degli attori, dei registi, al massimo degli scrittori. Ma i giornalisti dovrebbero essere arbitri, dovrebbero contribuire a leggere la vicenda politica e sociale, non essere promossi in quanto singoli. Mentre un tempo il giornalista rappresentava la propria testata, la Stampa, del Corriere della Sera, la Repubblica e quindi era tenuto a non esporsi più di tanto - per non confondere le proprie opinioni con quelle del giornale che gli pagava lo stipendio - oggi spesso rappresenta se stesso. E per alcuni la costante presenza in tv ne modifica la fisionomia: da giornalisti a personaggi dello spettacolo, in qualche modo condizionati dal proprio ruolo. Spesso dimentichi di quella soglia minima di professionalità tipica del proprio mestiere. Giornalisti come Marco Travaglio, Andrea Scanzi, Vittorio

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Feltri, Alessandro Sallusti, Maurizio Belpietro ripetutamente esprimono senza autocontrollo le proprie simpatie ed antipatie, spesso preferendo il commento alla lettura degli eventi e dei personaggi. In questi casi i concetti di completezza e di imparzialità restano in secondo piano. Nessuno scandalo, naturalmente, ma siamo davanti ad un fenomeno nuovo, che dobbiamo sapere riconoscere: quello del giornalismo-ultras, che mette in primo piano il tifo e lo spettacolo. Siamo davanti ad uno snaturamento della missione tradizionale di chi fa informazione politica. Non c’è nulla di scandaloso ma siamo davanti ad un cambio del dna: informare non è più l’imperativo categorico, che diventa invece esprimere la propria personale opinione. Naturalmente stiamo parlando di una minoranza, ma una minoranza che si espone, che si vede ogni sera in tv, che fa opinione. Lasciando nella retina dei telespettatori o dei lettori di giornali l’immagine di un tifoso anziché di un arbitro imparziale e tutto questo si riverbera sulla credibilità dell’intera categoria. Non è la prima volta che accade nella storia di questo Paese, i giornalisti schierati sono sempre esistiti, così come deriva dagli Stati Uniti il fenomeno dell’”anchor-star”: ma la somma di spettacolarizzazione più tifo rappresenta una deriva da osservare con preoccupazione. Anche se la maggioranza dei giornalisti – sia chiaro – resta ancora oggi ispirata da sani principii deontologici

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CAPITOLO 8 TRE GIORNALISTI, TRE MODELLI DI GIORNALISMO

Per comprendere meglio qualità, pregi e limiti del giornalismo politico, è utile analizzare stile e contenuti di giornalisti, che hanno interpretato tre generi diversi: Augusto Minzolini, lo “squalo”, il principe dei retroscenisti; Filippo Ceccarelli, il cesellatore che ha dipinto i più efficaci affreschi del costume politico degli ultimi 25 anni; Marco Travaglio, che da direttore del Fatto quotidiano, fustiga quasi quotidianamente i costumi della politica domestica. Facciamolo, analizzando la biografia professionale dei tre e altrettanti articoli da loro scritti, articoli in qualche modo simbolici.

Minzolini, il principe dei retroscenistiAugusto Minzolini, romano, 61 anni, prima di diventare direttore del Tg1, su indicazione di Silvio Berlusconi e dunque espressione di un giornalismo dimezzato, come è quello dei telegiornali Rai, era stato il più bravo cronista politico degli anni Ottanta-Novanta. Praticante all’agenzia di stampa Asca, nel 1987 passa al settimanale Panorama e nel 1990 al quotidiano La Stampa, dove ha costruito una carriera da cronista da assalto, da “squalo”, che conquistava le notizie con tutti gli espedienti possibili. Il suo maestro, Guido Quaranta, ha raccontato: <Una volta scoprimmo che

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in una sala di Montecitorio c'era un vertice segreto Dc. Mettemmo dei camici bianchi, entrammo fingendo di essere inservienti che dovevano pulire i mobili. Dopo un po' ci cacciarono urlando...". Nella sede nazionale del Psi, in via del Corso a Roma, scopre che da un bagno si sentivano le riunioni della direzione con Bettino Craxi. A piazza del Gesù, nella sede della Dc, si traveste da fattorino per intercettare una lettera per De Mita. Fioccano smentite, ingiurie, minacce di querela, ma a metà degli anni '90 si inizia a parlare di «minzolinismo», neologismo finito sui vocabolari e inteso come «forma di giornalismo che si basa sulla raccolta di dichiarazioni anche informali di uomini politici» non del tutto verificabili.

Il 22 marzo 1994 un suo articolo, contente alcune dichiarazioni “rubate” dal presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante, creò un caso clamoroso. Mancavano 4 giorni ad elezioni politiche-spartiacque, le prime della Seconda Repubblica, quelle nelle quali si era presentato per la prima volta Silvio Berlusconi e in quelle ore facevano parlare alcune indiscrezioni su un possibile coinvolgimento dei fratelli Dell’Utri, uno dei quali, Marcello, da sempre, era stato braccio destro del “Cavaliere” . In questo contesto esce un articolo (destinato a diventare il più significativo nella carriera di Minzolini) a pagina 3 de La Stampa, con questo titolo:

I SEGRETI VIOLANTE “QUEL CHE SO DI DELL’UTRI”

Articolo che, analizzato nei dettagli, ci dice molto sulla qualità del giornalismo politico degli ultimi 30 anni. L’incipit: <C’è un crocchio di gente nel centro del Transatlantico di Montecitorio e nel bel mezzo di quel capannello c’è Luciano Violante>. Incipit sciatto dal punto di vista della scrittura (<c’è un crocchio di gente>), ma che mette subito al centro il protagonista: il presidente della Commissione Antimafia, l’ex magistrato Luciano Violante, da anni sospettato di essere l’anello di congiunzione tra il suo partito, il Pds - il principale erede del Pci – e la magistratura. Nel crocchio, Violante fa alcune considerazioni border line (<Perché Berlusconi non dichiara che non vuole i voti di Piromalli?>, che è un boss della mafia. Ma il meglio deve ancora venire. Scrive Minzolini: <Sottobraccio al cronista, Violante va verso uno dei corridoi laterali del Transatlantico>. Come dire: ora siamo soltanto in due e il tono può farsi più confidenziale. E infatti è così. Violante si lascia andare a confidenze clamorose. Se la prende con <il giornalismo cialtrone>, che ha fatto uscire le voci sull’inchiesta, perché quelle voci finiscono per aiutare Berlusconi, ma la “ciccia” è ben altra: <La verità è che Dell’Utri è iscritto nel registro degli indagati della Procura di Catania, non di Caltanissetta. E non si tratta di pentiti, questa volta. L’indagine è su un traffico di armi e si basa, a quanto pare, su intercettazioni ambientali>. Rivelazioni clamorose. Che ne sa il presidente di una Commissione parlamentare dei segreti delle Procure, di una indagine in corso? Minzolini, è chiaro, ha “fregato” Violante, ha violato quel patto di “connivenza” che lega giornalisti e politici ogni volta che si parla di questioni riservatissime e delicate. E infatti l’effetto è dirompente. Violante – pur negando di aver fatto quelle confidenze – è costretto a dimettersi. Dopo una lunga trattativa con la direzione de La

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Stampa, Violante otterrà una quasi integrale smentita a due “voci”, ma in pochi dubiteranno sul reale contenuto di quel colloquio “sottobraccio”: un trionfo del miglior retroscenismo italiano.

Gli affreschi di Ceccarelli

Romano, 62 anni, ha cominciato molto giovane la sua attività di giornalista a Panorama, nel 1990 si trasferisce presso la redazione romana de La Stampa, successivamente passa a La Repubblica dove è editorialista. Nei suoi articoli e nei suoi libri, Ceccarelli racconta la politica come fenomeno di costume: il sesso, il cibo, la politica-spettacolo. Ma anche i personaggi attraverso i loro tic. In un articolo uscito il 23 novembre 2018 sul Venerdi di Repubblica e preceduto dal titolo MA LA FICTION E’ NIENTE IN CONFRONTO A QUESTI QUA, Ceccarelli prende spunto dalla recente uscita di un film, Natale a cinque stelle, ispirato dalle gag della politica attuale e scrive: <Le torte mostruose, i brindisi a mo’ di sberleffo, i ravioli del vicepremier postati su Facebook, l’auspicato Maalox per il nemico, il self after-sex, la camicia bianca arrotolata in segno di fattiva volontà>. Chiosa Ceccarelli, citando uno storico dell’antichità: <I Greci antichi chiamavano questo genere di elencazioni katalogos, ma nemmeno nella fantasia più disinibita di Aristofane, il maggiore dei poeti dell’archaia, la commedia attica antica, la più sboccata avrebbe mai immaginato che il Comico assurgesse a Capo politico>. Ancora Ceccarelli: <Altro che Natale a 5 stelle. Dio ci salvi dal giornalismo apocalittico, che pure lui un posticino se lo merita nel chiassoso logorio delle cronache…>, ma dopo avere elencato una sequenza di cadute di gusto all’insegna del kitch (protagonisti tra gli altri Matteo Renzi e Virginia Raggi), Ceccarelli conclude: <Una Grande Scimmia si è dunque impossessata dell’agenda italiana. Il cinema segue, semmai, arranca, si vede attraversare la strada da mille lampi di grottesco. Siamo parecchio oltre la parodia, oltre Fantozzi, oltre il cinepanettone>. Un modello di giornalismo: dopo l’affresco puntuale e critico di tutti i tic e di tutte le “originalità” dell’attuale classe politica, Ceccarelli recupera la vena dei migliori moralisti italiani. Nei suoi articoli sintetizza le principali missioni del giornalismo: racconto dettagliato ma “storicizzato” e colto, commento soggettivo da moralista che però discende dai fatti descritti, potente restituzione del “senso” di quel che si racconta. Un maestro.

Travaglio, il fustigatore

Torinese, 54 anni, prima di diventare nel 2015 direttore del Fatto quotidiano, ha collaborato e anche lavorato come redattore presso diverse testate (Repubblica, Espresso, Messaggero, la Voce, l’Unità). Come direttore scrive quasi quotidianamente editoriali segnati da una vena moralistica e da fustigatore dei

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costumi, con un taglio molto selettivo, che divide in modo netto “buoni” e “cattivi”. E’ una delle star del ring televisivo, ma la sua attività più costante, resta quella di commentatore. Il 6 dicembre ha scritto un editoriale intitolato A PRESCINDEREche inizia così: <Da antichi collezionisti delle gaffes di Danilo Toninelli, l’altro ieri ci era parsa eccezionalmente saggia e prudente la sua promessa di riportare Genova agli antichi splendori <in pochi mesi, al massimo anni>. Dopo aver elencato le buone ragioni di Toninelli, tra le quali <il ponte Morandi non l’ha fatto crollare lui>, arriva al dunque: <Lui sbaglia sempre, a prescindere>, sulla base degli stessi pregiudizi che attribuiscono ai romani di essere tutti <sfaticati>, ai genovesi di essere tutti <tirchi>. E indica il colpevole: la Repubblica, giornale concorrente del Fatto. E conclude: <Poi tutti a chiedersi perché la stampa è in crisi>.Editoriale esemplare. Il Fatto quotidiano è l’ultima manifestazione di quella fattispecie, il giornale-partito, che abbiamo visto manifestarsi in stagioni lontanissime tra loro. Travaglio, oltre ad essere nemico sempre e comunque di Berlusconi e di Renzi, è sostenitore dei magistrati giustizialisti e dei Cinque stelle: quasi ogni giorno pesca le argomentazioni “giuste” per sostenerli o per pungolarli, quando a suo avviso sbagliano, uscendo quello che lui ritiene il seminato. Travaglio è di gran lunga il più bravo polemista italiano, “cattivissimo”, pungente, ma deve pagar dazio alla sua conclamata faziosità. Come dimostra in questo editoriale: nella sua difesa di Toninelli, arriva a etichettare come eccezionalmente prudente la dichiarazione del ministro che indicava una banda di oscillazione nella ricostruzione del ponte tra <pochi mesi> e <anni>. Dunque l’oscillazione tra sei mesi e tre anni è considerata un segno di prudenza. Facile immaginare quale sarebbe stato il commento di Travaglio se quella stessa dichiarazione l’avesse fatta uno come Matteo Renzi.Ma il vero obiettivo dell’editoriale è colpire (una volta ancora) un giornale concorrente, la Repubblica. La sua chiosa finale (<poi tutti a chiedersi perché la stampa in crisi>) è dedicata alla concorrenza, ma si potrebbe obiettare che le polemiche debolmente motivate, aiutano quella crisi. O ne sono un sintomo.

CAPITOLO 9 VIZI E VIRTU DEL MODELLO ITALIANO

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Entrare dentro i segreti dell’informazione politica, come avete compreso, è un pezzo di cultura generale ma anche uno strumento per decrittare la discussione pubblica. Se si è in grado di capire come viene organizzata una notizia politica, come si legge un giornale o un tg, capirete meglio quanto sia genuino il messaggio mediatico e anche quello politico. Oggi i politici cercano di comunicare senza mediazioni, direttamente dai Social al cittadino, ma naturalmente questa vocazione non diventerà mai totalitaria: resterà sempre un’utopia. Ci saranno sempre contenitori che racconteranno la realtà politica e dunque capire come funziona il sistema informativo è decisivo. Partendo da questa premessa, in questa lezione cercheremo di capire vizi e virtù del sistema italiano.

Ogni Paese ha una sua specifica tradizione del sistema informativo, con regole e abitudini diverse. In un fondamentale libro di Hallin e Mancini, Modelli di giornalismo, queste differenze sono analizzate in modo molto preciso. Partendo da una premessa: la stampa prende sempre colore e forma dalle strutture politiche e sociali nelle quali opera. E al tempo stesso i media finiscono per produrre un impatto sulle altre strutture sociali. In quel volume si propongono tre modelli.

1) quello liberale, che ha prevalso in Gran Bretagna, Irlanda, Nord America, caratterizzato in prevalenza dalle logiche di mercato e dei media commerciali.

2) il modello democratico-corporativo che prevale nell’Europa continentale e segnato da una co-presenza di mezzi commerciali, altri legati a gruppi sociali e politici e con una presenza dello Stato che però è giuridicamente limitata.

3) il modello pluralista-polarizzato che prevale nei Paesi mediterranei, come l’Italia e che è segnato da una sovrapposione media-politica, da una debole presenza commerciale e da una forte intervento dello Stato.

L’ estesa presenza su tv, giornali e social

Il primo tratto caratteristico del modello italiano è la sua eccezionale presenza su vecchi e nuovi media. Lo abbiamo notato e lo ripetiamo: tante pagine sui giornali e tanti talk show come in nessun altro Paese del mondo occidentale. Recentemente in Spagna lo spazio per la politica si è ampliato rispetto al passato, ma non siamo ancora ai livelli italiani . Alla pervasività dei media tradizionali, dobbiamo aggiungere quella dei nuovi: ai 20 milioni di navigatori di Facebook in Italia, dobbiamo aggiungere gli altri Social e i siti di informazione online. L’ offerta di informazione, se interessa, è vasta.

Cinquantanove anni fa, nel giugno del 1959, fu pubblicato sulla rivista Tempo presente un saggio che fece epoca. Si intitolava Millecinquecento lettori e lo scrisse Enzo Forcella, uno dei giornalisti italiani più importanti e più colti. Forcella, per divergenze col proprio direttore, si era appena dimesso dal quotidiano nel quale

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lavorava, La Stampa e di slancio scrisse questo autentico gioiello che, con forte spirito anticonformistico, metteva in luce vizi nuovi e antichi del giornalismo politico italiano. Cominciava con un incipit fulminante:

«Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende trecentomila copie… Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politico e quel gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana>.

E a questo punto Forcella fa una descrizione di forte impatto espressivo, con uno stile letterario. Un brano rimasto famoso:

<E’ l’atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono sin dall’infanzia, si offrono a vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si recita soltanto per il proprio piacere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante>.

Questa descrizione resterà per decenni un affresco ironico e realistico del rapporto tra potere politico e giornalismo italiano. Un affresco sempre atttuale. Ma per la parte che ci interessa, valga il dato quantitativo: Forcella indica in 1500 i lettori “veri” per i quali scrive il giornalista politico alla fine degli anni Cinquanta. Un numero allusivo, da non prendere alla lettera: non intendeva 1500 in senso letterale, ma intendeva che i giornali dell’epoca si scrivevano per essere letti principalmente dalla classe dirigente, soltanto da una ristretta élite. Naturalmente il dato numerico era volutamente simbolico ma alludeva anche al fatto che comunque il racconto della politica allora interessava un numero circoscritto di persone. Certo, la politica in senso lato coinvolgeva una quantità enorme di persone, come dimostra la partecipazione alle elezioni politiche: nel 1948 andarono a votare 26 milioni e 600mila italiani, pari al 92,2%, 70 anni dopo, il 4 marzo del 2018, i votanti erano saliti a 32milioni e 800mila, un aumento che scontava un aumento degli abitanti, ma con una flessione della percentuale di affluenza, che era calata al 72,9% degli aventi diritto. Il calo nella partecipazione ha tante ragioni, ma di una cosa possiamo essere certi: gli italiani del 2018 sono infinitamente più informati degli italiani del 1948. I millecinquecento lettori di Forcella non esistono più.

E gli italiani sono assai più informati sicuramente per una complessiva crescita culturale del popolo italiano. Nel dopoguerra gli analfabeti erano ancora tanti, il 13 per cento della popolazione, con una punta del 33 in Calabria – e oggi gli analfabeti sono molto di meno. Ma gli italiani sono molto più informati sulle vicende politiche anche per effetto di una informazione capillare. I principali agenti di questa

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informazione e di questo interesse sono stati per decenni i giornali, che all’apice della propria diffusione, raggiungevano tra il 25 e 30 milioni di lettori, che è cosa diversa dagli acquirenti. Agenti di questa maggiore e più diffusa informazione sono sicuramente i talk show, della cui escalation in termini quantitativi e qualitativi si è già parlato. E sicuramente il combinato disposto di spettacolarizzazione e semplificazione del format televisivo ha aiutato gli ascolti.

In definitiva la pervasività della informazione ha accompagnato un fenomeno epocale: l’alfabetizzazione politica di massa dell’opinione pubblica. Oggi gli italiani sono tra i più informati di politica in senso lato. Il rovescio della medaglia di questa presenza così assidua sta nella dispersività dei contributi, nella rissosità del dibattito pubblico, nella spettacolarizzazione di questa striscia continua, in particolare della informazione televisiva.

Il conformismo

Lo abbiamo già visto: nel dna del sistema informativo c’è una certa dose di

conformismo, di vocazione al gregariato. Di vicinanza ai diversi poteri. Non

necessariamente di poteri al potere: anche di contropoteri. Si può spalleggiare un

partito di governo ma anche uno di opposizione: sempre conformismo è. Da questo

punto di vista un conformismo molto accentuato riguarda la permeabilità del sistema

informativo italiano al potere della magistratura. La vicenda più illuminante ma

anche più dimenticata e rimossa riguarda Enzo Tortora, uno dei personaggi più

popolari della Tv dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Tortora era l’interprete di

una televisione intelligente, garbata, elegante, così lontana dall’attuale, ma

paradossalmente non viene ricordato per questo, ma per un clamoroso errore

giudiziario.

Nel pieno della sua popolarità una mattina, venerdì 27 giugno 1983, Tortora viene

arrestato, di punto in bianco. Viene prelevato nell’albergo nel quale soggiornava e,

con un metodo irrituale, mentre viene fatto accomodare nelle auto della polizia, i

fotografi – preventivamente avvertiti – lo immortalano. Lo inchiodano con le manette

ai polsi. In un momento di debolezza. In un momento che non è dato sapere se

preluda ad una condanna. Si saprà quasi subito che le accuse che giustificano

quell’arresto così spettacolare sono pesanti: associazione camorristica e traffico di

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droga. Accuse che erano state avanzate dai cosiddetti pentiti, in quel caso camorristi,

che più tardi si sarebbero rilevati dei bugiardi, alla caccia di benemerenze per ridurre

le proprie pene.

Tortora, dopo sette mesi di carcere e dopo una condanna in primo grado a dieci anni,

fu assolto. Ma nel frattempo su di lui passò una terribile gogna mediatica, oggi

dimenticata ma che rappresenta a distanza di anni un atto di accusa nei confronti del

sistema mediatico e del suo conformismo. Le veline della Procura di Napoli furono

pubblicate senza il minimo vaglio critico. Il Messaggero sparò in prima pagina un

sedicente scoop, attribuendo a Tortora un’ammissione mai fatta: <Vidi Turatello». Su

La Stampa si fece esclamare ad un assassino come Barra: «Portatelo di fronte a me:

saprò io cosa dirgli». Il Corriere della sera lo descrisse come <incline a

un’affettazione non lontana dall’effeminatezza>. Una famosa e influente giornalita

come Camilla Cederna: <Mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che

parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni. Il

successo ottenuto così, si paga>. La Repubblica: <Lo spaccio operato da Tortora non

consisteva certo in stecchette o bustine, ma in partite di 80 milioni a botta>. Si può

ben dire che senza un atteggiamento servile da parte del mondo dell’informazione

quella sofferenza sarebbe finita prima. Il conformismo e la consociazione

rappresentano un vizio conclamato del modello italiano.

Due generi tipicamente italiani: pastone e retroscena

Lo abbiamo visto diverse volte: nel giornalismo della carta stampata due generi tipicamente italiani sono il cosiddetto pastone e il cosiddetto retroscena. Ci torniamo in sede di conclusioni perché hanno segnato e segnano la cifra più complessiva del sistema informativo italiano. Scrisse Enzo Forcella nel suo saggio sui Millecinquecento lettori: <Il pastone è un genere peculiare al giornalismo italiano. Nasce da un compromesso tra la notizia e il commento. Si riassume la notizia e se ne offre al tempo stesso la interpretazione. Commento e notizia vengono così talmente mescolati da rendere quasi impossibile per il lettore sprovveduto capire dove finisce uno e comincia l’altro>.

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Questo scritto è del 1959, dunque risale a 59 anni fa e il prossimo anno se ne festeggerà il sessantennio. La sua attualità è fuori discussione, la commistione dura. Nel corso degli anni possiamo constatare che il vantaggio della nota commentata sta nella sua chiarezza: se chi lo scrive è autorevole, il lettore ne trae giovamento, se ci vuole portare dalla sua parte, il genere resta ambiguo e sviante.

Ma rispetto al 1959 lo spirito critico e la curiosità degli utenti dei media sono molto aumentate. Anche grazie al proliferare del cosiddetto retroscena. Lo abbiamo più volte definito. In sede conclusiva, occorre rilevare il difetto e il pregio di questo genere. Il difetto è che il proliferare di retroscena ne ha sminuito la credibilità: c’è un manierismo retroscena che ne mina il rigore. Ma al tempo stesso proprio il retroscenismo, cioè il suo uso sistematico, ha cambiato il dna del giornalismo politico italiano, che tra le sue caratteristiche qualificanti annovera anche questa incessante ricerca di una notizia e di un senso, oltre l’ufficialità.

Il giornale-partito

Nel corso della storia sono sempre esistiti media che hanno svolto un’azione deliberatamente politica,

che esistono in quanto portavoce – più o meno dichiarati - di una parte. Nel passato c’erano i giornali di

partito, che come ha confermato anche la professoressa Simona Colarizzi nella sua relazione al

convegno sui cento anni della Associazione Stampa parlamentare, ha avuto un ruolo centrale prima del

fascismo e subito dopo la sua caduta, quasi un surrogato della stampa indipendente. Oggi i giornali di

partito non esistono più, ma in compenso esistono i blog e i siti social dei leader politici e da lì senza

mediazioni, vengono irradiati i messaggi.

Cosa diversa, come abbiamo già visto, è l’informazione politica, cioè una delle possibili declinazioni

del sistema informativo. Una delle tante. Così come esiste un giornalismo, giudiziario, sportivo,

culturale od economico, esiste un giornalismo politico. Che è racconto e commento della politica.

Ma, parlando di vizi e di virtù del sistema informativo italiano, esiste una terza via,

tipicamente nazionale: il cosiddetto giornale-partito. Di cosa si tratta? Di un giornale d’opinione, formalmente indipendente, che si propone come catalizzatore degli interessi dei propri lettori, alla stregua di un partito politico. Il primo giornale-partito, che cioè prende deliberatamente parte alla contesa politica è stato Il Corriere della Sera dei primi 25 anni del secolo scorso.

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L’austero liberalismo conservatore del suo direttore, Luigi Albertini non amava la spregiudicatezza manovriera del presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, il uso politico degli apparati dello Stato soprattutto in periodo elettorale, la sua tendenza ad accondiscendere alle richieste dei socialisti in materia bilancio dello Stato. E nel periodo che precedette l’entrata dell’Italia in quella che sarebbe diventata la prima guerra mondiale, il «Corriere» di Albertini spinse per l’avventura bellica, secondo alcuni fu decisivo nel fare pendere la bilancia a favore del “sì”. In quel modo il “Corriere” divenne il primo vero e proprio giornale-partito, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia <la vera opposizione, in ambito costituzionale, alla «dittatura parlamentare» di Giolitti.

E molto più tardi, a metà degli anni Settanta, fondando la Repubblica, Eugenio Scalfari divenne il leader di una versione riveduta e corretta del giornale-partito: per almeno 40 anni un grande successo editoriale, il più significativo nella storia del secondo dopoguerra, ma anche un modello per il quale, tra informare e vincere, è meglio la seconda opzione. E qui sta il confine tra virtù e vizio: il giornale-partito, per vincere la propria battaglia di turno, contro Berlusconi, Craxi o Salvini, scaverà senza tregua alla caccia di indizi, di notizie e di prove che mettano in cattiva luce il nemico di quel periodo. E questa afflato spesso ci avvicina a fatti altrimenti trascurati e che resterebbero sconosciuti. Ma questa “caccia grossa” può portare ad ingrandire od enfatizzare piccoli dettagli. Ovvero può portare ad oscurare, o rimpicciolire, storie e notizie che vadano in senso contrario.

Conclusioni

Alla fine, dopo aver analizzato le identità specifiche del giornalismo politico italiano, quel

disdegnare l’imparzialità, quel considerare la neutralità quasi sempre come ingenuità. Quella

tendenza e consigliare, condizionare, partecipare al gioco, restando collaterali a tutti i poteri.

Alla fine, recepito questo dna, se dobbiamo arrivare al cuore del sistema, dobbiamo

concludere che la concorrenza sempre più spietata dei nuovi media, sta costringendo i vecchi

media ad una sorta di reset. A volte questo significa inseguimento dei Social, a volte significa

inseguimento della politica, dando spazio e enfatizzando gli show dei politici. senza

prenderne le distanze. Ma complessivamente l’informazione politica ha sviluppato i

sufficienti anticorpi che gli consentono di assolvere dignitosamente alla propria funzione:

raccontare gli eventi politici: quasi mai con imparzialità, ma quasi sempre con sufficiente

accuratezza e quasi sempre con curiosità indagatrice. Consentendo a chi legge, o a chi guarda,

di farsi un’opinione propria e di comprendere il senso di quel che accade. Perché questa alla

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fine resta la principale missione del giornalismo: raccontare le notizie con imparzialità e

restituirne il senso.