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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PAVIA – FACOLTÀ DI ECONOMIA

ANNO ACCADEMICO 2009-2010

DISPENSA PER IL CORSO DI MACROECONOMIA (A-K) E (L-Z)

IINTRODUZIONENTRODUZIONE ALLOALLO STUDIOSTUDIO DELLADELLA M MACROECONOMIAACROECONOMIA::SCUOLESCUOLE DIDI PENSIEROPENSIERO EE METODOLOGIEMETODOLOGIE DIDI ANALISIANALISI

a cura di Andrea Fumagalli

INDICE

1. INTRODUZIONE2. L’APPROCCIO DOMINANTE: LA TEORIA DELL’EQUILIBRIO

ECONOMICO GENERALE.3. L’APPROCCIO ETERODOSSO: L’ECONOMIA POLITICA COME

SCIENZA CHE DESCRIVE IL SISTEMA CAPITALISTA DI PRODUZIONE (ECONOMIA MONETARIA DI PRODUZIONE)

4. L’ORIGINE DEL VALORE: IL DIBATTITO SULLA TEORIA DEL VALORE.

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1. .INTRODUZIONE

“Con la frantumazione della filosofia morale in quattro branche distinte e autonome (la teologia naturale, l’etica, la giurisprudenza e l’economia politica), preconizzata da Francis Hutchenson e resa canonica dal suo ben più celebre allievo, Adam Smith, prende avvio la strana storia di un’affascinante scommessa intellettuale: la ricerca del senso e del fine del lavoro umano alla luce di una rinnovata ragion pura (la “razionalità economica”), indipendente dalle suggestioni evocate dall’antica condanna biblica, e di una pressante ragion pratica (“l’analisi sociale”) imposta dall’insorgere del capitalismo come modo di produzione storicamente determinato”.

Così, con le efficaci parole di Francesco Campanella1, si può enunciare la nascita dell’economia politica come disciplina umanistica e sociale a sé stante. Parliamo di disciplina umanistica e sociale, perché l’oggetto di studio è l’analisi dell’evoluzione dei rapporti economici tra gli esseri umani. E in quanto disciplina umanistica, l’analisi economica ha sempre presentato punti di vista e metodologie d’analisi diverse e spesso contrapposte.

Scopo di questa breve dispensa è fornire alcune basi analitiche per meglio comprendere le diverse impostazioni teoriche esistenti, una diversità che troppo spesso viene negata in nome di una uniformità dominante di pensiero sulla base di una presunta scientificità che per definizione (essendo l’economia politica una scienza umana) non è data2.

Più in particolare, analizzeremo i due principali approcci allo studio dell’economia politica, fra loro alternativi e non compatibili, che hanno caratterizzato il dibattito economico contemporaneo, a partire alla nascita dell’Economia Politica con Adam Smith.

Partiremo dall’approccio definito dell’Equilibrio Economico Generale (EEG) o individualistico3, che a partire dai primi decenni è divenuto 1 F. Campanella, “Lavoro”, in G. Lunghini (a cura di), Dizionario di Economia Politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1982, vol. I, pag. 93. Francesco Campanella, prematuramente scomparso per una grave malattia, è stato docente di Economia del Lavoro presso questa facoltà.2 La maggior parte dei manuali economici oggigiorno tendono a presentare un unico modello macroeconomico, con possibili diversi risultati a seconda delle ipotesi introdotte. In tal modo, apparentemente si dà conto di diverse scuole di pensiero (sulla base, appunto, delle diverse ipotesi) ; di fatto, la presentazione di un unico schema teorico (seppur con varianti) presuppone un unico modo di rappresentazione e funzionamento del sistema economico, negando possibili schemi alternativi. E’ questo anche il caso del manuale utilizzato in questo corso: O.Blanchard, Macroeconomia, Il Mulino, Bologna, 2009.3 In queste note faccio riferimento anche alle dispense redatte da Alberto Giacomin, docente di Economia Politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia: cfr.

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dominante e controlla il meccanismo di cooptazione nella ricerca e nelle università, soprattutto anglosassoni.

A tale approccio si contrappone quello che fa riferimento all’idea di economia politica come scienza sociale non riducibile ad un analisi individualistica, detto anche “approccio eterodosso o storico”, che ha le sue radici nel pensiero classico del XIX secolo, all’origine della stessa scienza economica.

2. L’APPROCCIO DOMINANTE: LA TEORIA DELL’EQUILIBRIO ECONOMICO GENERALE (ECONOMIA DI SCAMBIO).

Per comprendere meglio la logica e la metodologia d’analisi di una scuola di pensiero è necessario evidenziare le ipotesi fondamentali che ne stanno all’origine: i cd. “fundamentals”. Si tratta di ipotesi di base che spesso non vengono ricordati e che vale la pena approfondire perché da esse deriva il tipo di visione del processo economico che si studia.

Nel campo della scienza economica, i fundamentals consentono, in

primo luogo, di delineare la teoria del comportamento umano e/o sociale che sta alla base dell’analisi teorica e, in secondo luogo, di definire gli strumenti analitici, ovvero la metodologia, utilizzati per argomentare il ragionamento analitico.

Nella caso della teoria individualistica (EEG), tali fundamentals possono essere riassunti come segue:

1) La teoria individualista dell’EEG ricostruisce il funzionamento dell’economia come risultato di una miriade di decisioni individuali, decisioni che ogni soggetto prende in modo indipendente e seguendo le proprie autonome finalità. Essa ritiene che la società sia composta da individui i quali, pur svolgendo funzioni economiche diverse (esistono, imprenditori, lavoratori, consumatori, risparmiatori, e via dicendo), hanno tutti accesso al mercato su un piano di parità. Il processo economico che viene decritto no né altro che la risultante (tramite semplice sommatoria) dei comportamenti individuali. Esso rappresenta la descrizione di una società “atomistica”.

2) Comportamento razionale. La teoria individualista dell’EEG suppone che ogni individuo si comporti in modo razionale e cioè cercando di massimizzare il proprio benessere nel rispetto del proprio vincolo di spesa (il consumatore ricerca la massima utilità, l'imprenditore il

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massimo profitto, e così via). Il contenuto specifico delle scelte individuali può variare a seconda delle preferenze individuali, ma il principio generale della razionalità resta valido.

3) La scienza economica studia quindi l’attività economica di un individuo razionale. Si postula che l’agire economico - quello dettato alla razionalità dell’homo oeconomicus - abbia come finalità principe l’ottenimento della massima utilità individuale (teoria del comportamento utilitaristico), in un contesto di mutua indifferenza (cioè in un contesto in cui non vengono presi in considerazione gli effetti sugli atri individui del proprio comportamento utilitaristico4. Tale fundamental – uno dei più importanti anche nella moderna teoria economica – si declina in modi diversi a seconda della diversa funzione economica svolta: per il consumatore si tratta della massimizzazione della propria funzione di utilità derivante dall’esigere diritti di proprietà sui beni di consumo; per il produttore si tratta della massimizzazione del profitto, per lo Stato si tratta della massimizzazione della funzione di benessere sociale, ecc.). In tutti i casi, tuttavia, si realizza tramite l’attività di scambio. E’ lo scambio economico, le sue modalità e i risultati che comporta a costituire la ragione della scienza economica.

4) Lo scambio economico viene analizzato come scambio tra individui, che, in condizioni di pari opportunità, liberamente decidono il passaggio di diritti di proprietà privata. Le merci oggetto di scambio devono essere perciò rivali (il loro consumo da parte di un individuo implica l'impossibilità per un altro individuo di consumarlo allo stesso tempo) e quindi escludibili (una volta che il bene è stato acquistato, non è possibile la fruizione da parte di un altro individuo). Tutta l’attività economica si riduce a attività di scambio, ovvero di allocazione dei beni esistenti. Poiché il luogo dello scambio economico è il mercato, la teoria dell’EEG descrive il funzionamento di un’economia di mercato.

4 In inglese, si utilizza l’attributo selfish, il cui significato implica il perseguimento di un comportamento del tutto auto-referenziale. La traduzione italiana sarebbe egoista, ma tale termine nella nostra lingua dà adito a un giudizio di valore negativo, giudizio che invece non è presene nel termine inglese. Da qui la necessità di tradurre selfish con il termine “utilitaristico” o “auto-referenziale”. La diffusione nel pensiero economico dell’utilitarismo come filosofia radicale e teoria del comportamento umano, a vantaggio dell’uomo “borghese” in opposizione alle tradizioni cattoliche e aristocratiche, è essenzialmente dovuto a J.Stuart Mill (tramite la rivista Westminster Review, fondata nel 1823), il cui padre, J.Mill, era stato segretario di. J. Bentham (1748-1832), filosofo inglese radicale, padre della corrente filosofica dell’utilitarismo, nonché ideatore del modello carcerario del Panoptikon, preso come modello e figura del potere nella società contemporanea dal filosofo francese M. Foucault (cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993).

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5) Validità generale delle teoria economica. Poiché la teoria economica è basata sull’assunto del comportamento razionale di tutti i soggetti, i risultati che essa raggiunge possiedono validità generale, e possono applicarsi alle situazioni storiche, ambientali e istituzionali più svariate (in altri termini non esistono teorie economiche diverse per l'economia feudale o per l'economia capitalistica di mercato, ma una sola ed unica teoria).

6) Il processo economico è rappresentabile come processo lineare. Poiché le regole del mercato sono uguali per tutti e i soggetti contrattano nel mercato in condizioni di parità, l’attività economica non è una lotta fra uomini o fra classi sociali contrapposte, bensì una lotta fra uomo e natura. In questa lotta incessante, l'uomo cerca di soddisfare al meglio le proprie esigenze, e la natura inesorabile oppone la scarsità delle risorse disponibili. L’attività economica è descritta come un processo lineare, che parte dalle risorse naturali, le converte in beni intermedi, poi in beni finali (o beni di consumo), i quali vengono infine distrutti per soddisfare i bisogni del consumatore. Tale linearità del processo economico consente di poter ridurre l’analisi del processo economico ad un modello di equazioni simultanee, al cui interno può esistere un tempo logico ma non un tempo storico. La storia non conta.

7) Centralità del concetto di equilibrio. L’attività di scambio consente sempre il raggiungimento di una posizione di equilibrio, definita dal livello di prezzo che consente l’uguaglianza tra domanda e offerta (prezzo di equilibrio). La finalità ultima della teoria dell’EEG è o studio delle caratteristiche di tale posizione di equilibrio, rima a livello individuale (piano microeconomico), poi a livello di settore merceologico (piano mesoeconomico o equilibrio parziale), quindi a livello generale e sociale (piano macroeconomico).

8) Stabilità ed equità. Il sistema economico, essendo costituito da un insieme di soggetti che hanno accesso al mercato su un piano di parità, possiede (purché il mercato funzioni in regime di libera concorrenza e perfetta e completa informazione) requisiti di stabilità e di equità. In altri termini, i mercati sono perfettamente in grado di funzionare da soli, senza alcun intervento regolatore esterno. Dalle contrattazioni di mercato (attività di scambio) ogni partecipante trae una remunerazione che, essendo corrispondente al suo contributo produttivo, è anche equa (il lavoratore è pagato secondo la sua produttività marginale, e via dicendo). E’ quindi da escludere che il mercato dia luogo a fenomeni di sfruttamento da parte di alcuni soggetti a danno di altri. Al contrario, una economia di mercato è una economia aperta, nella quale tutti hanno le

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medesime possibilità di lavorare e di guadagnare e ognuno raggiunge la posizione che merita.

9) Sovranità del consumatore. La teoria individualista dell’EEG si sforza di mostrare che il mercato, purché di concorrenza perfetta, è in grado di effettuare una utilizzazione ottima delle risorse, nel senso che le contrattazioni di mercato conducono ad utilizzare le risorse scarse disponibili in modo da realizzare la massima soddisfazione per i consu-matori. Nel mercato di concorrenza perfetta vige la sovranità del consumatore perché sono le sue scelte a determinare le decisioni degli imprenditori riguardo ai tipi e alle quantità dei beni da produrre.

10) Neutralità della moneta. Gli scambi che avvengono in un mercato di concorrenza perfetta conducono ad un insieme di prezzi relativi che realizza l'equilibrio soggettivo di ogni soggetto (e cioè la massimizzazione dell'utilità o del profitto individuale) e al tempo stesso l'equilibrio oggettivo del mercato (e cioè l'eguaglianza fra domanda e offerta). La circolazione monetaria, mentre ha la funzione di rendere più agevoli gli scambi e di evitare gli inconvenienti del baratto, non modifica le quantità prodotte o i prezzi relativi. Se la moneta modifica l'equilibrio del mercato, ciò significa che il sistema monetario viene gestito in modo scorretto dalle autorità monetarie. L’insieme dei prezzi relativi può quindi essere analizzato anche supponendo che l'economia funzioni senza moneta, mentre la quantità di moneta esistente determina soltanto il livello dei prezzi monetari.

11) Neutralità della tecnologia. L’attività di produzione può essere analizzata studiando l’attività di scambio che si determina sui mercati dei fattori produttivi, dal momento che le condizioni tecniche vengono supposte esogene e date. I fattori produttivi considerati sono quelli naturali, ovvero a terra e il lavoro, il cui livello è soggetto a scarsità.

12) Definizione di scienza economica. Il problema economico si riduce quindi allo studio delle condizioni di allocazione ottimale individuale (tra fini alternativi) di risorse naturali scarse date a priori. Questa famosa definizione di economia politica, che risale a L.Robbins5 (1898-1984) e che oggi è diventata la “definizione” per eccellenza della scienza economica contiene in nuce, di fatto, i principali fundamentals dell’approccio dell’EEG. E’ di fatto una definizione che già presuppone l’orientamento metodologico e analitico della scienza economica: è dunque una definizione “di parte”. Ogni termine utilizzato, infatti, è

5 Cfr. L. Robbins, Natura e importanza della scienza economica, Torino, Utet, 1953 (orig. 1932).

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l’esito di una scelta di metodo e di un’opzione teorica. Il termine allocazione implica che il processo economico è riducibile solo ad attività di scambio: è lo scambio – ovvero, il consumo – che prevale sulla produzione, sull’investimento, sul finanziamento. Siamo in presenza di un economia di scambio. Gli attributi ottimale e individuale indicano che lo scambio è l’esito di scelte razionali massimizzanti (teoria utilitaristica) fatte a livello esclusivamente individuale, senza tener conto dei possibili effetti collaterali (mutua indifferenza). La locuzione risorse naturali date ci ricorda che tutti i beni che stanno alla base del benessere individuale derivano da risorse date in natura, la cui quantità è indipendente all’agire discrezionale dell’uomo. Di conseguenza, poiché la terrà (e la natura) è finita, si tratta di risorse per definizione scarse.

L’approccio dell’EEG - come abbiamo ricordato – fonda la propria essenza sul primato dell’individuo e sulla possibilità che possa essere verificato una teoria oggettiva del comportamento individuale. Si tratta di un tema - di natura filosofica – che ha sempre innervato il pensiero umano e che trova nella seconda metà del XIX secolo nuovo slancio in seguito alla diffusione, da un lato, nel campo epistemologico del paradigma dell’individualismo metodologico6 e, dall’altro, nel campo filosofico del paradigma dell’utilitarismo7.

In realtà, teorie economiche basate sul principio dell'individualismo metodologico sono state elaborate lungo tutta la storia del pensiero economico. Si possono ricordare i nomi di F. Galiani (1728-1787) in Italia, di J.B. Say (1767-1832) e di A. Cournot (1801-1877) in Francia, per taluni aspetti, di A. Smith (1723-1790) e di D. Ricardo (1772-1823) e di W.N. Senior (1790-1864) in Gran Bretagna. Questa tendenza interpretativa raggiunse il suo apogeo nel cinquantennio che va dal 1870 al 1918. In quell'epoca la scuola individualista, oggi più nota col nome di scuola neoclassica, divenne la scuola dominante in tutto il mondo: C. Menger (1840.1921) ed E. Boehm-Bawerk (1851-1914) in Austria, G. Cassel (1866-1945) e, in parte, K. Wicksell (1851-1926), in Svezia, W.S. Jevons (1835-

6 Per individualismo metodologico, cfr. A Vercelli, “Il complesso di Euclide nella filosofia della scienza e nella metodologia economica”, in AA.VV., La Scienza Impropria, Milano, 1984. Per Individualismo metodologico si intende una corrente di pensiero secondo la quale ogni azione è riconducibile ad un’azione individuale. I fenomeni della società e le istituzioni vanno pertanto analizzati come insieme di azioni individuali. L’individualismo metodologico rappresenta una delle correnti di pensiero che si oppongono alle scuole strutturalistiche e storicistiche le quali pongono più l’accento sui condizionamenti istituzionali e storico-sociali che sull’interazione e trova le sue origini nell’economia politica e nella filosofia.7 Cfr. nota 4.

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1882), A. Marshall (1842-1924) e A.C. Pigou (1877-1959) in Gran Bretagna, M. Pantaleoni (1857-1924), V. Pareto (1848-1923) e L. Einaudi (1874-1961) in Italia, J.B. Clark (1847-1938) e I. Fisher (1867-1947) negli Stati Uniti ne furono i rappresentanti più eminenti.

Al giorno d'oggi, l'analisi individualista dell’EEG ha ripreso nuovo vi-gore con le scuole dei nuovi classici e in parte con la scuola dei neokeynesiani (questi ultimi si dichiarano seguaci del pensiero di J.M. Keynes, ma insistono nel costruire la teoria macroeconomica partendo da fondamenti rigorosamente microeconomici).

Nel corso del secondo dopoguerra ebbe la preminenza accademica l’approccio definito della sintesi neoclassica di Keynes (J. Hicks, 1904-1989, P.A. Samuelson, nato nel 1915, e F. Modigliani, 1918-2003 ne furono i principali interpreti), teso a costruire un sistema di equilibrio economico generale (il modello IS-LM a prezzi costanti, di breve periodo, e il modello AS-AD a prezzi flessibili, di medio e lungo periodo) in grado di giustificare l’esistenza di un possibile equilibrio di sottoccupazione. La sintesi neoclassica di Keynes ha rappresentato il pensiero economico dominante nel periodo di egemonia del paradigma socio-economico fordista8, nel quale l’intervento keynesiano di welfare favoriva il processo di accumulazione fondato sulla produzione e lo scambio di beni privati.

Con la crisi del fordismo, nella prima metà degli anni Settanta, ritornano in auge le teorie dell’EEG più schierate a favore del libero mercato e contrarie al ruolo di intervento discrezionale dello Stato. E’ a partire dagli anni ’80 sino ad oggi che l’approccio individualista ha ripreso il suo pieno vigore grazie alle scuole monetariste (il cui capostipite è stato M. Friedman, 1912-2006 con gli epigoni della cd. “Scuola di Chicago”) e delle aspettative razionale (i cui maggiori esponenti sono R. Lucas, nato nel 1937 e T. Sargent, nato nel 1943, che si sforzano di dimostrare come sia possibile raggiungere un equilibrio ottimale grazie alle sole forze del libero scambio di mercato.

8 Con il termine fordismo si usa indicare il modo di regolazione sociale che ha caratterizzato il periodo del secondo dopoguerra del XX secolo nei paesi a capitalismo avanzato (1945-75). Esso si fonda, dal lato della produzione, su una peculiare forma di organizzazione di fabbrica e del lavoro basata principalmente sull'utilizzo della tecnologia della catena di montaggio (al fine di incrementare la produttività (taylorismo) e, dal lato della distribuzione, sul compromesso sociale (ma spesso conflittuale) tra capitale e lavoroper la distribuzione dei guadagni di produttività. Cfr. A. Fumagalli, “Testo su Fordismo e sua crisi: dal Fordismo all’accumulazione flessibile: un veloce excursus storico” in http://economia.unipv.it/pagp/pagine_personali/afuma/didattica/sem_ capitalismo_cognitivo/capitalismo_cognitivo.htm.

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L’attuale crisi economico-finanziaria, dopo anni di politiche di deregulation in nome del ibero e ottimale funzionamento degli scambi di mercato, ha messo in crisi le posizioni iù liberiste a vantaggio di quelle di derivazione più keynesiana. Tuttavia, i fundamentals della teoria dell’EEG, pur rielaborati in presenza di mercati non concorrenziali e in condizioni di informazione incompleta e asimmetrica, non sono stati sottoposti a una critica profonda. Ciò di cui si discute è piuttosto la necessità di introdurre regole più o meno istituzionali.

3. L’APPROCCIO ETERODOSSO: L’ECONOMIA POLITICA COME SCIENZA CHE DESCRIVE IL SISTEMA CAPITALISTICO DI PRODUZIONE (ECONOMIA MONETARIA DI PRODUZIONE)

L’impostazione alternativa (e originaria) della macroeconomia si trova presso gli economisti classici (Adam Smith, 1723-1790, David Ricardo 1772-1823, Thomas R. Malthus, 1766-1834), nel pensiero di Marx (1818-1883), e in una serie di autori successivi, da Knut Wicksell (1851-1926), a Joseph Schumpeter (1883-1950) a John Maynard Keynes (1883-1946).

Tutti costoro hanno in comune l'idea che la macroeconomia debba studiare non già il comportamento del singolo individuo, ma quello dei gruppi che compongono la società e ne determinano la struttura. Per comprendere il funzionamento del sistema economico, dobbiamo chiederci quali sono le condizioni necessarie affinché la sua struttura si perpetui nel tempo, senza degenerare ed estinguersi. Una volta accertate queste condizioni di riproduzione, possiamo dedurne il comportamento che devono tenere i singoli (lavoratori, consumatori, imprese), affinché la struttura considerata continui ad esistere.

L’approccio eterodosso presenta una visione della scienza economica che è diametralmente opposta e inconciliabile con l’approccio individua-listica dell’EEG. I principali punti sono i seguenti:

1) Secondo l’approccio eterodosso, la società è formata da gruppi distinti e contrapposti, ciascuno dei quali occupa una posizione diversa e svolge ruoli distinti. Il processo economico è costituito da diverse funzioni economiche, ciascuna delle quali presuppone un ruolo sociale ben definito: la fase del finanziamento (che consente l’avvio della produzione) viene svolta dal sistema creditizio e dai rentier, quella della produzione è ad appannaggio della classe degli imprenditori, l’attività di consumo è prevalentemente svolta dalle classi lavoratrici. Nella visione degli economisti classici, i proprietari terrieri si contrappongono agli im-

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prenditori-capitalisti, i quali possiedono i mezzi di produzione e sono in grado di gestire un'attività produttiva, nonché ai lavoratori, i quali altro non possono fare che vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Nella macroeconomia moderna, la classe dei proprietari terrieri scompare e i gruppi di operatori presi in considerazione sono banche, imprese e lavoratori. In questa teoria, l'analisi del comportamento dei gruppi sociali prende il posto dell'analisi individuale: soltanto dopo aver stabilito i confini tra le classi e gli obiettivi e le regole di azione di ciascuna classe è possibile ricostruire il funzionamento dell'intero processo economico. Tale strutturazione sociale è l’esito dell’evoluzione storica. Occorre quindi sempre prendere in considerazione il momento storico e le caratteristiche geografico-spaziali.

2) Il comportamento è determinato dall'appartenenza sociale (di classe). In questa visione, il comportamento di ciascuna classe è tale da realizzare la riproduzione del sistema. Gli imprenditori, che hanno la disponibilità delle risorse produttive, non sono mossi dalla finalità di soddisfare le proprie esigenze personali, bensì dalla finalità di accumulare ricchezza. Il lavoratore, invece, pensa ad assicurare la propria sopravvivenza vendendo il proprio lavoro. Non esiste un comportamento comune a tutti i soggetti: al contrario le scelte di ogni soggetto sono condizionate dalla sua appartenenza di classe. Proprio perché il comportamento degli individui è fortemente influenzato dalla struttura sociale di appartenenza, il tipo di razionalità postulato non è quella massimizzante, bensì procedurale. Sono le procedure, ovvero le abitudini consolidate nel tempo e nello spazio (le routines), a delineare la razionalità economica dei soggetti. Non vi è quindi nessun calcolo di massimizzazione, più o meno vincolato, che spiega l’agire economico. Ciò significa che non è possibile ipotizzare una regola comportamentale valida per tutti e quindi oggettiva: sono le dinamiche soggettive e psicologiche a determinare i comportamenti e come tale, essi non sono modellizzabili secondo la logica formale.

3) L’evoluzione storica definisce i limiti della teoria economica. La storia dell'umanità ha conosciuto diverse strutture economiche, dall'economia schiavistica all'economia feudale, all’economia capitalistica di mercato, all'economia socialista. Ognuna di queste forme storiche esige una teoria economica diversa: non esiste quindi una teoria che sia in grado di spiegare il funzionamento di tutti i sistemi economici e che possieda validità universale.

4) Il contesto economico attuale nei paesi occidentali, a seguito della rivoluzione industriale inglese e della rivoluzione francese di fine secolo

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XVIII, è caratterizzato dalla preminenza del sistema capitalistico di produzione. Ciò significa che la teoria economica ha come ragione d’essere lo studio e l’analisi del capitalismo. Il sistema capitalistico si svolge sulla base di un processo economico costituito da alcune fasi sequenziali e unidirezionali: finanziamento, accumulazione (produzione), realizzazione (consumo). Gli imprenditori, come si è detto, sono mossi dall’intento di accrescere la propria ricchezza. Poiché essi gestiscono le attività produttive, questa diventa anche la finalità dell'intero processo economico. L’imprenditore acquista lavoro allo scopo di ottenere un prodotto, venderlo e realizzare un profitto. Lo scopo della produzione è la realizzazione del profitto, non già il benessere dei consumatori. Il con-sumo ha la sola funzione di tenere in vita il lavoratore, che per il capitalista è una risorsa produttiva come le altre. L’attività economica si configura come un processo circolare: dalla produzione di merci, al consumo (che serve alla riproduzione dei lavoratori), al conseguimento di profitti, all'acquisto di nuove risorse, produzione di nuove merci, e così via in un ciclo continuo, in grado di sviluppare attività di accumulazione.

5) Instabilità e precarietà. La conflittualità tra le classi, l’incertezza del futuro e la concorrenza fra le imprese determina fluttuazioni ricorrenti dell'attività economica (ondate di prosperità seguite da fasi di depressione, fallimenti e disoccupazione).

6) Mancanza di un criterio di efficienza. Poiché la società è caratterizzata dal conflitto distributivo tra i diversi gruppi di operatori, non è possibile individuare un interesse generale della collettività. Di conseguenza, non è possibile stabilire un criterio di efficienza di carattere generale9.

7) Ruolo essenziale della moneta. La teoria eterodossa parte dalla constatazione che l'economia moderna è un'economia monetaria. Ciò comporta che tutti gli scambi vengono regolati in moneta e pone immediatamente il problema di stabilire come la moneta venga creata e introdotta nel sistema economico. Nelle economie moderne la moneta

9 La discussione sull’esistenza di un criterio di efficienza sociale che derivi alle scelte individuali dei singoli agenti economici si è concluso negli anni Cinquanta del secolo scorso con l’enunciazione del teorema dell’impossibilità di K. Arrow (nato nel 1921). Cfr. K. Arrow, Social Choice and Individual Values, John Wiley & Sons, Inc., New York, 1951, liberamente scaricabile da http://cowles.econ.yale.edu/P/cm/m12/index.htm; ed. Italiana: "Scelte sociali e valori individuali", Etas, Milano, 2003. Secondo tale teorema, in un contesto di mutua indifferenza in presenza di scelte razionali individuali, non è possibile configurare una scelta sociale tale da soddisfare le scelte individuali. Nel 1970, applicando lo stesso principio di Arrow, l’economista indiano A. Sen (nato nel 1933) ha mostrato l'impossibilità matematica del liberismo paretiano: cfr. A. Sen. "The Impossibility of a Paretian Liberal", Journal of Political Economy, n. 78, 1970, pp 152-157.

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viene creata dal sistema bancario e messa a disposizione degli operatori attraverso la concessione di crediti. Poiché soltanto chi dispone di moneta può accedere al mercato, le decisioni con cui le banche concedono credito ad alcuni soggetti e non ad altri e la misura in cui il credito viene concesso diventano decisive per la configurazione finale del sistema economico. La creazione di moneta contribuisce quindi a determinare le quantità prodotte e la distribuzione del reddito nazionale. Di conseguenza, la moneta non può essere neutrale.

Teorie economiche basate sul conflitto tra i gruppi sociali risalgono assai indietro nel tempo. Si può ricordare il pensiero di T. Hobbes (1588-1679), di B. Mandeville (1670-1733), la teoria economica di J.C. Sismondi (1773-1842), di T.R. Malthus (1766-1834) e, in particolare, di K. Marx (1818-1883). In corrispondenza con il successo della teoria individualista dopo il 1870, la teoria eterodossa perde progressivamente vigore e resta patrimonio quasi esclusivo dei continuatori del pensiero di Marx, fra i quali vanno ricordati K. Kautsky (1854-1938), R.Luxemburg (1870-1919), M. Tugan Baranovsky (1865-1919), R. Hilferding (1877-1941). Nel corso del Novecento tuttavia, accanto alla scuola dominante, emerge un gruppo di studiosi estranei al marxismo, i quali respingono l’approccio individualistico della scuola neoclassica e riscoprono l’importanza dei concetti di gruppo sociale e di conflitto per l’analisi economica. I nomi più eminenti di questo gruppo sono quelli di K. Wicksell (1851-1926), di J.A. Schumpeter (1883-1950), di M. Kalecki (1899-1970) e, soprattutto, di J.M. Keynes (1883-1946).

Di fatto, l’approccio eterodosso, per il quale l’economia politica è lo studio del sistema economico capitalistico, alias economia monetaria di produzione, si fonda sul filone di pensiero che unisce i nomi di Marx, Schumpeter e Keynes10.

4. L’ORIGINE DEL VALORE: IL DIBATTITO SULLA TEORIA DEL VALORE.

E’ con l’avvento del sistema capitalistico di produzione che si pone la necessità di formulare una teoria del valore in grado di spiegare il processo di accumulazione. E’ infatti con il capitalismo che nasce l’esigenza di analizzare il rapporto tra il valore dei fattori produttivi e il valore dell’output finale. Ed è ancora con il capitalismo che, di conseguenza, il tempo (sia logico - un prima e un dopo - che storico - un ieri e un oggi -) entra a tutti gli effetti nel processo di accumulazione e generazione di valore. Il 10 Si noti che questi tre autori hanno in comune l’anno 1883, anno di morte di Marx e anno di nascita di Schumpeter e Keynes.

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(plus)valore capitalistico, ovvero la capacità di accumulazione, si genera in fatti nel tempo, frutto di un movimento dinamico, soggetto a irreversibilità (path-dependency), difficilmente in condizioni lineari, più spesso sulla base di discontinuità e crisi.

E’ con l’avvento del sistema capitalistico di produzione che prende autonomia e si struttura come disciplina sociale a sé l’economia politica. La nascita dell’economia politica, non a caso, verte su due problemi nuovi, che l’evoluzione storica di fine settecento, con i poderosi eventi della Rivoluzione Industriale prima e della Rivoluzione Francese poi, ha posto all’attenzione umana in modo nuovo: l’origine del valore economico e il senso e il fine del lavoro umano11. Di fatto, l’economia politica, da Smith sino alla prima metà del XIX secolo, prima dello stravolgimento metodologico indotto dall’individualismo metodologico e di contenuto indotto dal diffondersi delle teorie dell’equilibrio economico generale, si è strutturata sul duplice binario dell’individuazione di una “teoria del valore” e di una “teoria del lavoro”. Tali due teorie sono confluite e hanno dato origine alla “teoria del valore-lavoro”.

Con il tramonto dell’economia classica e il diffondersi dell’economia neo-classica, in un contesto storico che vede il trionfo del sistema capitalistico e l’inizio della sua espansione nei diversi continenti tramite il colonialismo, il fine dell’economia politica si indirizza verso altri lidi, al cui interno la teoria del valore si inserisce nella discussione più generale (metastorica e metaspaziale) delle condizioni di esistenza di una condizione di equilibrio ottimale, in grado di soddisfare le preferenze individuali sulla base dell’utilità assegnata alle merci di scambio. Dalla teoria del valore-lavoro si passa così alla teoria del valore-utilità.

Come scrivono Lunghini e Ranchetti:

“Per ‘teoria del valore’ si possono intendere due cose distinte: la determinazione quantitativa dei rapporti secondo cui le merci vengono scambiate sul mercato, cioè dei loro prezzi relativi; oppure la ricerca dell’origine del valore delle merci, dunque l’indagine circa il fondamento stesso, l’oggetto e il metodo del discorso economico” 12.

11 Con la rivoluzione francese si impone il principio secondo il quale il lavoro è attività libera e, in quanto tale, obbligatoriamente soggetta a remunerazione. Di conseguenza sono bandite, almeno dal punto di vista giuridico, tutti i rapporti di lavoro che comportano la riduzione a schiavitù degli esseri umani. Con la rivoluzione francese e con il capitalismo nasce quindi il mercato del lavoro, dove si scambia disponibilità di tempo con salario. Il fatto che la prestazione lavorativa diventi libera non significa che venga meno, tuttavia, la costrizione al lavoro per procacciarsi reddito, come ben esemplificato dalla scritta sull’entrata del campo di concentramento di Auschwitz: “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi).12 Cfr. G.Lunghini, F.Ranchetti, “Valore, Teorie del valore”, in

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Con riferimento all’origine del valore alle merci, esistono dunque due possibili spiegazioni fra loro antitetiche: esse possono essere definite l’una ‘oggettiva’, l’altra ‘soggettiva’13.

La prima riconduce il valore delle merci al lavoro che direttamente o indirettamente è stato impiegato per produrle (teoria del valore-lavoro): essa sarebbe oggettiva in quanto il lavoro impiegato per produrre una merce dipende dalle tecniche di produzione adottate, supposte in ogni momento date e note. L’“oggettività” di tale approccio non è comunque assoluta, in quanto richiede che siano verificate due condizioni: una definizione condivisa del processo lavorativo e del rapporto che intercorre tra prestazione lavorativa e le tecniche di produzione e, in secondo luogo, l’esistenza di una unità di misura della prestazione lavorativa14.

La seconda spiegazione del valore parte invece dall’apprezzamento, da parte dei singoli soggetti, dell’attitudine dei beni economici a soddisfare i bisogni (teoria del valore-utilità). Il valore di una merce dipende così dal grado di utilità che viene soggettivamente associata dai singoli individui. A livello sistemico, ciò si traduce nel definire una curva di domanda aggregata (come semplice sommatoria delle domande individuali) a cui si contrappone in modo logicamente seguente un’offerta. Il valore della merce è quindi quello che garantisce l’equilibrio tra domanda e offerta e si traduce nel prezzo di equilibrio, la cui esistenza viene garantita dalla cd. “legge della domanda e dell’offerta”. Se nel mercato la quantità domandata eccedesse la quantità offerta, il prezzo del bene aumenterebbe finché viene ristabilito l’equilibrio (se fosse invece la quantità offerta a eccedere la quantità domandata, si avrebbe una diminuzione del prezzo). La spiegazione del valore a livello individuale (utilità) si trasforma quindi a livello aggregato (sistema economico) nella determinazione del prezzo come indice di scarsità. Ne consegue che la supposta “soggettività” della spiegazione del valore di una merce (giustificata dall’utilità individuale) in realtà diventa “oggettiva neutralità”: quella imposta dalle condizioni di equilibrio del mercato sulla base delle condizioni della domanda e dell’offerta aggregata.

http://cfs.unipv.it/scritti .htm#lunghini, Centro di Filosofia Sociale, Università di Pavia, 1998.13 Cfr. G.Lunghini, F.Ranchetti, ibidem, p. 1. 14 In termini economici, tale unità di misura del lavoro si traduce in un indicatore della produttività del lavoro. Anche Lunghini e Ranchetti mettono in dubbio la presunta “oggettività” della teoria del valore. Infatti scrivono: “La teoria del valore lavoro, in quanto fa dipendere il valore delle merci dalle tecniche di produzione, rinvia alla questione delle macchine: se esse siano neutrali, se di esse si faccia un uso capitalistico, o se esse abbiano addirittura una forma capitalistica. Soltanto nel primo caso una teoria del valore lavoro sarebbe oggettiva in senso stretto”: Cfr. G.Lunghini, F.Ranchetti, ibidem, p. 2.

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La teoria del valore-utilità intende spiegare i prezzi  delle merci a partire da quanto appare sul mercato; la teoria del valore lavoro, di converso, a partire da quanto avviene nella sfera della produzione. Si tratta quindi di due visioni alternative e non conciliabili del processo economico.

I sostenitori dell’approccio in termini di EEG sostengono che la vera e unica teoria del valore sia quella che spiega il valore di una merce in funzione della sua scarsità o abbondanza.

Gli economisti eterodossi, che fanno riferimento all’approccio storico in termini di Economia monetaria di produzione, ritengono invece che la teoria del valore-lavoro sia più adeguata per comprendere il processo capitalistico di produzione, mentre la teoria del valore-utilità sia consona ad una visione pre-capitalistica del processo di produzione. In termini marxiani, - come sottolineano Lunghini e Ranchetti – si potrebbe affermare che:

“La teoria del valore utilità assume che scopo della produzione sia la produzione di valori d’uso, il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori. La teoria del valore lavoro assume invece che scopo della produzione sia la produzione di valori di scambio, in vista della realizzazione di un profitto”15.

Oppure, in altri termini (che sono poi analoghi), la teoria del valore-lavoro dipende dall’uso capitalistico delle macchine, ovvero dall’esistenza di un fattore produttivo - il capitale (fisico) - che è proprio della fase storica del capitalismo (sino a connotarlo etimologicamente), mentre la teoria del valore-utilità fa perno sull’ipotesi della sovranità del consumatore, agente economico presente in qualsiasi fase storica, ma è centrale soprattutto nella produzione di valori uso, ovvero nelle fasi storiche antecedenti il capitalismo.

15 Cfr. G.Lunghini, F.Ranchetti, ibidem, p. 1. Con il termine valore d’uso, si intende la capacità (numericamente quantificabile) di un bene od un servizio di soddisfare un dato fabbisogno, o tout-court il valore di utilità. Con il termine valore di scambio, invece, si intende il valore di un bene o di un servizio che si determina sulla base del’attività di scambio (rapporto economico), a prescindere dalla sua utilità. Il valore d’uso e il valore di scambio non necessariamente coincidono, dal momento che il valore di un bene o di un servizio non necessariamente coincide con il suo prezzo, che si definisce nello scambio di mercato (concorrenziale o non concorrenziale). Il valore di scambio presuppone l’esistenza della moneta come unità di conto e misura del valore. Esso è prevalente in un’economia monetaria di produzione D-M-D (Denaro-Merce-Denaro) come quella capitalista. Il valore d’uso, invece, è il valore prevalente nelle economie di semplice scambio e produzione del tipo M-D-M (Merce-Denaro-Merce) come quelle pre-capitaliste, nelle quali il processo di accumulazione era fortemente limitato se non assente.

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La teoria del valore-utilità presuppone infatti che il processo economico sia finalizzato alla produzione di merci, in grado di soddisfare i bisogni degli individui. L’idea di processo economico a cui rimanda è così un sistema merce-denaro-merce: M-D-M. L’idea di economia politica a cui sottende è invece quella di una scienza che studia l’allocazione ottimale di risorse scarse date a priori. Da un punto di vista metodologico, il perno dell’analisi è centrato sullo studio del comportamento individuale, supposto massimizzante. Da un punto di vista di merito, il processo economico si esaurisce solo ed esclusivamente nell’attività di scambio (allocazione), dove è il consumatore (colui che domanda) che determina l’offerta, in un contesto in cui la capacità di produzione, essendo fondata su risorse naturale e non artificiali, è per definizione limitata e quindi soggetta a scarsità (approccio in termini di EEG).

La supremazia del processo allocativo su quello produttivo implica che è il mercato e il suo funzionamento l’oggetto principale della scienza economica.

La teoria del valore-utilità coincide così con la teoria del libero mercato presupponendo che tutti gli individui siano in grado di consumare ovvero che siano “sovrani”. Il principio della sovranità del consumatore afferma che la valutazione del funzionamento di un’economia debba dipendere unicamente dal grado di soddisfazione delle preferenze dei consumatori. Si tratta di un caso particolare del principio di “sovranità dell’individuo”, tanto caro agli apologeti del neoliberismo corrente, a sua volta basato sull’idea che ogni individuo è l’unico arbitro di se stesso (principio del libero arbitrio) e che la valutazioni sociali devono fondarsi unicamente sulle valutazioni espresse dai singoli individui (primato dell’individualismo).

Nella teoria del valore-utilità, di fatto, la sovranità del consumatore restringe la sovranità dell’individuo all’atto del consumo. La tanto sbandierata libera iniziativa si traduce, così, solo nella libertà di consumo, che non è comunque una libertà assoluta, ma è vincolata dalle diverse capacità di spesa degli individui e dalle merci disponibili.

Come scrive G. Palermo:

“Così, chi non ha risorse monetarie che permettano di domandare beni o servizi sul mercato, non esiste dal punto di vista economico …. Quello che conta non è infatti la domanda intesa come insieme di beni e servizi che ciascun individuo desidera avere per poter soddisfare i propri bisogni, ma la domanda solvibile, quella che si esprime soldi alla mano. I bisogni che non riescono ad essere espressi sul mercato per mancanza di denaro, di fatto non esistono … Insomma, nella discussione della razionalità ed efficienza economica del capitalismo, gli individui sono presi in considerazione solo nella misura in cui essi sono

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in grado di comprare e di consumare”16.

Poiché il reddito disponibile per il consumo (dato il vincolo di reddito) dipende, per la maggior parte degli esseri umani, dalla remunerazione del lavoro, le condizioni di lavoro sono quelle che determinano il grado effettivo di libertà individuale.

La possibile contraddizione insita in questa affermazione viene risolta in modo molto superficiale affermando banalmente che le condizioni di lavoro sono dipendenti semplicemente dalla volontà degli individui, in condizioni di supposte pari opportunità di scelta, quindi di pari libertà. Anche in un contesto metastorico una simile affermazione può apparire discutibile e sicuramente non è accettabile in un sistema economico capitalistico fondato sul rapporto capitale-lavoro, in cui, qualunque sia la forma dinamica di tale rapporto, la natura stessa del processo produttivo si fonda sulla libertà d’azione senza vincoli, da parte dell’impresa, e sulla necessità di lavorare, da parte dei lavoratori. Non è sufficiente affermare che, dopo la rivoluzione francese, il lavoro è libero e, in quanto libero, va remunerato e quindi il/la lavoratore/trice è un agente economico con gli stessi gradi di libertà dell’imprenditore. La natura monetaria del rapporto capitalistico fondato sulla proprietà dei mezzi di produzione stabilisce infatti che i proprietari di sola forza-lavoro siano soggetti al vincolo di reddito (non hanno accesso al credito)17 mentre gli imprenditori, grazie alle garanzie della proprietà dei mezzi di produzione, non sono soggetti ad alcun vincolo monetario di reddito.

Per comprendere perché la teoria del valore-lavoro sia quella più adeguata all’analisi del sistema capitalistico, occorre ricordare brevemente che l’economia capitalistica è un’economia monetaria di produzione e non un’economia di scambio. Con tale affermazione, s’intende ribadire la supremazia dell’attività di produzione/accumulazione su quella di scambio/realizzazione. Il motore dell’attività di produzione è l’attività di investimento (accumulazione privata di capitale), frutto delle decisioni imprenditoriali, in grado di modificare, in modo dinamico, il progresso tecnologico e l’utilizzo combinato dei fattori produttivi. L’investimento rappresenta la manifestazione del potere capitalistico. Da tale attività

16 Cfr. G.Palermo, Il mito del mercato globale,, Manifestolibri, Roma, 2004, pag. 26-27. Sul fatto che nel mercato capitalistico, si soddisfino solo bisogni solvibili, che non coincidono necessariamente con i bisogni concreti, cfr. G.Lunghini, L’età dello spreco, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, ma anche K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, Einaudi, Torino, 2004, soprattutto il capitolo “Il Denaro”.17 Come nota ironicamente Marx: “il proprietario (della forza-lavoro, ndr.) non é solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Cfr. K.Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione Sesta, Cap. XVII.

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dipende l’esito del processo di accumulazione e quindi la distribuzione della ricchezza sia dal lato quantitativo che da quello qualitativo. È dall’investimento che si determina il livello di consumo e di risparmio18. La possibilità di investire è forma di biopotere nel momento stesso in cui da tale atto dipende il modo e la forma della prestazione lavorativa. L’investimento, infatti, non solo dà potere sulle merci, offrendo la possibilità di decidere come produrle, a che prezzo e in quale quantità19, ma è soprattutto dispositivo di controllo, diretto o indiretto – a seconda delle caratteristiche tecnologiche – del lavoro umano vivo, quindi del corpo e della mente degli individui.

La possibilità di investire non è però l’esercizio di un potere assoluto, ma è vincolata a più livelli. In particolare, l’attività di investimento è condizionata dalle modalità di finanziamento e dalle aspettative sul valore atteso della domanda finale di beni, ovvero dalla realizzazione attesa. Il primo vincolo è noto a priori e costituisce un fattore la cui evoluzione, nella forma e nella quantità, predetermina le scelte di investimento; il secondo vincolo non è invece noto a priori e richiede la formulazione di aspettative in condizioni di incertezza20. Tali aspettative sono in qualche modo commisurate – seppur non quantificabili tramite formule matematiche21 - da un lato alla dinamica congiunturale del sistema economico e dall’altro alla percezione soggettiva di chi investe22.18 L’approccio neoliberista, ancora oggi, contro ogni evidenza teorica ed empirica, persiste nel sostenere che è il risparmio a determinare il livello di investimento. Tale opinione è resa possibile proprio dal fatto che per la teoria dell’Equilibrio Economico Generale, ogni atto economico è riducibile a semplice e puro scambio (infatti, si parla di economia di libero scambio); anche l’attività di produzione è riducibile a scambio, in quanto esito del processo di allocazione (ottimale) dei fattori produttivi in presenza di progresso tecnico esogeno; l’attività di investimento dunque, si riduce al semplice acquisto di beni capitali, in condizione di certezza o con possibilità di formulare aspettative sul futuro comunque riducibili a rischio.19 Cfr. J.A. Schumpeter, La teoria dello sviluppo economico, Etas Libri, Milano, 2002. Schumpeter è l’economista che per primo ha analizzato il ruolo della figura e dell’attività imprenditoriale da un punto di vista strettamente economico.20 Dire che le aspettative vengono formulate in condizioni di incertezza, significa affermare che esse non sono in nessun modo riducibili a rischio. Per capire questo delicatissimo punto si rimanda alla trattazione fatta da Keynes, 1994. Si veda anche A. Carabelli, On Keynes’ method, McMillan, Londra,1988.21 Numerosi sono stati i tentativi di elaborare una teoria formale delle aspettative – dalla teoria delle aspettative adattive a quella delle aspettative razionali – ma le conclusioni di Keynes circa l’impossibilità di predire il futuro sulla base di modelli matematici seppur probabilistici non sono mai state confutare del tutto e rimangono ancora valide. Piuttosto, occorre segnalare come nell’accademia economica tale questione sia stata del tutto rimossa e viga di fatto l’idea – del tutto fuorviante e comoda – che sia possibile formulare le aspettative mediamente corrette.22 Keynes, attento e sensibile alle variabili psicologiche che influenzano l’agire umano, definiva le aspettative imprenditoriali “animal spirits” (spiriti animali), proprio per

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Ne consegue che lo studio del processo di accumulazione e produzione, esito dell’attività di investimento, rimanda necessariamente all’analisi della fase di finanziamento a monte e dei meccanismi di realizzazione a valle.

Poiché lo scopo dell’attività di accumulazione è la generazione di un plusvalore e non di un plusprodotto, ovvero la generazione di un profitto monetario, che si concretizza tramite la fase della realizzazione e non di un sovrappiù fisico, l’economia capitalistica è anche un’economia intrinsecamente monetaria. La caratterizzazione dell’economia capitalistica come monetaria deriva altresì dalla funzione svolta dalla moneta in quanto moneta-credito.

Queste semplice premesse rimandano direttamente al ciclo del capitale monetario, descritto a Marx ne “Il Capitale”23: D-M-D’ ma anche allo schema ipotizzato da Pasinetti nell’interpretazione non volgare di Keynes24.

In tale quadro, il processo di produzione e le modalità del suo finanziamento influenzano e determinano il processo di valorizzazione, ovvero come il valore delle merci si realizza potenzialmente. La realizzazione effettiva del plus-valore, ovvero la valorizzazione reale, si attua compiutamente una volta terminata la fase di realizzazione, quando il plus-lavoro, dopo aver generato l’accumulazione (plus-prodotto), si è trasformato in plus-valore.

Nel sistema capitalistico, dunque, il valore ha origine nel processo di accumulazione, esito delle scelte unilaterali dell’investimento imprenditoriale, perché è grazie all’accumulazione che si genera il sovrappiù. L’economia classica, non a caso, è la scienza che studia la generazione e la distribuzione del sovrappiù nel capitalismo.

sottolineare la loro incommensurabilità.23 Cfr. K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1977a, vol. II, cap. 1 ed anche cap. 2, para. 3.24 Cfr. L.Pasinetti, Sviluppo economico e redistribuzione del reddito. Saggi di teoria economica, Il Mulino, Bologna 1977, cap. 2. In questo saggio, Pasinetti descrive il processo economico di Keynes come una successione di fasi sequenziali legate da nessi unilaterali che partono all’equilibrio del mercato della moneta, in grado di determinare un tasso d’interesse monetario (fase del finanziamento), che va a condizionare le scelte di investimento e produzione. Una volta prodotto il reddito, esso poi viene realizzato e suddiviso tra consumi e risparmio. Ne consegue che, a differenza dell’impostazione neoclassica, sono gli investimenti a determinare il livello del risparmio.

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