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N. 4 DICEMBRE 2000 LA RIVISTA DELLA DSC PER LO SVILUPPO E LA COOPERAZIONE Un seul monde Eine Welt Un solo mondo I Balcani – un giorno lontani e sconosciuti, oggi vicini ed interessanti Niger: una grande fede, povertà e buon umore Cooperazione allo sviluppo ed economia privata: opportunità e rischi

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N. 4DICEMBRE 2000LA RIVISTA DELLA DSCPER LO SVILUPPO E LACOOPERAZIONE

Un seul mondeEine WeltUn solo mondo

I Balcani – un giorno lontanie sconosciuti,

oggi vicini ed interessantiNiger: una grande fede,

povertà e buon umore

Cooperazione allo sviluppoed economia privata:

opportunità e rischi

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Sommario

Editoriale 3Periscopio 4Dietro le quinte della DSC 25Che cosa è… un fondo di controvalore 25Servizio 33Agenda 35Impressum e tagliando d’ordinazione 35

La Direzione dello sviluppo e della cooperazione, l’agenzia dello sviluppoin seno al Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) è l’editrice di«Un solo mondo». La rivista non è una pubblicazione ufficiale in sensostretto; presenta infatti anche opinioni diverse. Gli articoli pertanto nonesprimono sempre il punto di vista della DSC e delle autorità federali.

DOSSIER

DSC

ORIZZONTI

FORUM

CULTURA

Un solo mondo n.4 / dicembre 20002

BALCANIUn grande impegno teso a diminuire la tensioneGuerre e profughi hanno avvicinato i Balcani al restod’Europa. Una sfida anche per la Svizzera

6«Riportare i Balcani al loro posto, in Europa»Un’intervista con Wolfgang Petritsch, Alto Rappresentantedella comunità internazionale in Bosnia-Erzegovina

12Finalmente il Kosovo guarda al futuroOvunque in Kosovo si lavora per la ricostruzioneanche grazie all’impegno svizzero

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NIGERPer una manciata di patate dolciLe difficoltà di un paese in cima alle statistichesulla povertà

16Dolce nettare del NigerIl giornalista nigerino Ibbo Daddy Abdoulayeci svela il suo segreto culinario

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L’opinione della DSCCondizionalità politica quale strumento di pressione

21Primi soccorsi ai margini di BogotaIn Colombia vivono due milioni di rifugiati interni,le loro condizioni di vita sono pessime

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Economia privata e cooperazioneallo sviluppo: un futuro comuneTre specialisti dibattono su limiti, opportunitàe rischi di un possibile connubio

26Carta bianca:Lo zairiano Louis Mombu vive da anni in Svizzeraed è l’organizzatore di «Festival Integration»

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Storie di cinema, di Africa & Pinocchio Toni Linder ci illustra un programmadi formazione per scenografi ed autori di testicinematografici africani

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Aiutare l’Afganistan nonostante i TalibaniLa Svizzera presiede il Gruppo di sostegnointernazionale all’Afganistan e pone le donne alcentro degli interessi

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Thabo Mbeki, l’attuale presidente del Sudafrica, haincitato tre anni fa durante una conferenza interna-zionale i paesi donatori a contrapporre delle imma-gini positive alle attuali immagini negative dell’Africa.

Abbiamo perciò esaudito il desiderio di Mbeki all’in-segna del motto « l’altra Africa», facendone per laDSC la priorità di quest’anno nel campo della co-municazione e sostenendo diverse manifestazioniculturali sul tema dell’Africa. Attenzione oltre i con-fini elvetici ha suscitato l’esposizione d’arte «Southmeets West », allestita a Berna. Essa ha mostratoper la prima volta in Europa una panoramica di ope-re di artiste e artisti moderni originari di vari paesiafricani, rompendo con molti dei clichés che si so-gliono abitualmente attribuire alla produzione arti-stica africana. Louis Mombu, organizzatore del«Festival Integration» ci parla in questo quaderno,dalle pagine di «Carta bianca», delle sue esperien-ze con le realtà svizzere.

Il fatto che gli scambi culturali possono contribuirea una migliore comprensione dei vari mondi è statodimostrato anche dall’intervento dallo scrittoremozambicano Mia Couto alla nostra Conferenzaannuale, tenutasi a fine agosto. La lettura di branidella sua opera «Unter dem Frangipanibaum»(A varanda de Frangipani) e il successivo dibattitohanno permesso al pubblico di conoscere meglio ilMozambico e hanno suscitato una viva impressio-ne. Il successivo doppio concerto del gruppo mo-zambicano «Mabulu» e della band bernese «TheShoppers» ha fornito la prova di come la musicasappia costruire ponti. Molte persone, fra questo

pubblico che da anni frequenta la Conferenza, sisono dette entusiaste di questa parte del program-ma e hanno ballato con vivo piacere.

Reazioni positive si sono avute anche in seguitoalla campagna di manifesti che, in luglio ed agosto,ha attirato per due settimane in tutta la Svizzeral’attenzione sull’« altra Africa» e il sito internetwww.africanow.ch. Reazioni e segnalazioni di link ri-guardanti l’Africa ci giungono per posta elettronicadalla Svizzera e dall’estero. E da ultimo, ma perquesto non meno importante, anche il CD «UrbanAfrica Now», che riunisce 17 brani di gruppi musi-cali africani noti e meno noti, sta trasformandosi inuna storia di successo. Le reazioni dei media sonostate tutte molto positive e l’andamento delle vendi-te mostra che il sampler è apprezzato dal pubblicoelvetico.

L’«altra Africa» esiste. Se volete convincervene, vi-sitate il sito www.africanow.ch, frequentate una ma-nifestazione culturale legata all’Africa oppure anda-te semplicemente a vedere una partita di calcio!

Harry SivecCapo media e comunicazione DSC

(Tradotto dal tedesco)

Oppure andate semplicemente a vedere una partita di calcio

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Editoriale

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Sempre più caffè biologico(bf) Per compensare le dramma-tiche riduzioni del reddito causa-te dal tremendo crollo delle ven-dite, i produttori peruviani dicaffè hanno trovato una nuovafonte di guadagno: la coltivazio-ne biologica. Da quando, nel1989, è stato disdetto l’accordointernazionale sul caffè, i prezzidi questa derrata salgono e scen-dono ad altalena. Una reazione siè già avuta con la fondazionedelle organizzazioni del com-mercio equo. Cecovasa, una co-operativa di coltivatori di caffèattiva nelle vallate di Sandia, sullependici orientali delle Ande pe-ruviane, è diventata uno dei lorofornitori. «Nel 1995 la quotadelle nostre vendite al commer-cio equo era solo del quattropercento, mentre oggi è già deldodici percento: e noi siamo fi-duciosi che queste vendite au-menteranno ancora», diceTeodoro Paco, l’attuale presidentedi Cecovasa. Il caffè biologiconon è solo più ecologico e dimigliore qualità, per i contadinipresenta anche un prezzo più in-teressante: frutta loro infatti circa15 dollari in più al quintale delcaffè di qualità corrente. Con ilsupporto professionale di inge-gneri agronomi molti dei conta-dini organizzati in cooperativestanno ora progettando di con-vertire la loro intera produzionedi caffè alla coltivazione biologica.

Revocato il brevetto per l’al-bero del «neem»(bf) L’Azadirachta indica, corrente-mente conosciuta con il suonome inglese neem, ha riportatoun successo determinante a livel-lo mondiale, riconquistando cosìla propria libertà. Un’impresa sta-tunitense aveva, infatti, fatto bre-vettare l’interessante albero per lesue «molteplici possibilità d’uti-lizzazione». Nella società indiana,il neem occupa da millenni unposto importante: le foglie e lacorteccia forniscono abiti, cibo ealloggi, i rami forniscono spazzo-lini da denti, con varie sue partisi preparano medicinali naturali einoltre gli si attribuiscono delleforze spirituali. Dopo che varieorganizzazioni internazionali diricerca e sviluppo avevano mani-festato la loro opposizione allaconcessione del brevetto, difen-

dendo il neem come bene comu-ne, l’Ufficio europeo dei brevettiha revocato poco tempo fa uffi-cialmente il brevetto numero43257 concesso in un primotempo. «Per tutti coloro che sisono battuti per il controllo delleproprie risorse e delle conoscen-ze tradizionali questo è un gran-de giorno», dice Vandana Shivadell’Istituto di ricerche scientifi-che, tecnologiche ed ecologichedi Delhi.

La proteina del buon gusto(bf) Il processo di fermentazioneed essiccazione conferisce alcacao del Ghana un sapore in-comparabile, che lo rende moltorichiesto in tutto il mondo. Giàda tempo i laboratori di ricercadelle multinazionali del cacaostavano cercando di svelare il se-greto di questo sapore. E ora ci

sono riusciti. Hanno isolato laproteina responsabile di questoparticolare aroma e hanno giàanche presentato la richiesta peril relativo brevetto biotecnologi-co. I produttori di cacao delGhana sono ora in allarme per-ché le proteine brevettate potreb-bero facilmente essere trasferitein varietà di cacao meno pregia-te. Invece di vendere il cacao allemultinazionali per riacquistare inseguito i loro prodotti finiti, ilGhana ha perciò iniziato a pro-durre una sua propria linea diprodotti – contrassegnati da unproprio marchio del cacao – chevende soprattutto negli USA e inInghilterra, conseguendo già iprimi successi.Il Ghana ha un debito estero paria circa dieci miliardi di franchi.

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Le esportazioni di cacao gli frut-tano circa un miliardo all’anno –una cifra appena sufficiente persaldare gli interessi annui di que-sto debito.

Madrine e figliocce in Benin(jls) In certe regioni del Beninmolte ragazze abbandonano lascuola già dopo poco tempo.I genitori preferiscono che esse li aiutino nelle faccende domesti-che o nei lavori agricoli.Taluni,

come un notabile di Kpèkpè, te-mono addirittura il peggio quan-do dicono: «Mandare una ragaz-za a scuola è una perdita ditempo e di denaro. E poi v’è ilpericolo che si faccia mettere in-cinta da un insegnante».Così, quattro anni fa, nel sud delpaese è stato creato un program-ma chiamato «da ragazza a ragaz-za», con lo scopo di stimolare lapermanenza a scuola delle giovi-nette. Si cercano delle «madrine»

tra le allieve più anziane per at-tribuire loro fino a tre fanciulle.Esse accompagnano queste loro«figliocce» a scuola e le riaccom-pagnano a casa la sera. Inoltrerappresentano per loro un puntodi riferimento, le sorvegliano du-rante la ricreazione e le proteg-gono. L’esperienza è pienamenteriuscita: i genitori sono rassicura-ti e non ritirano praticamentepiù le loro figliole dalla scuola.

Il Vietnam si coreanizza(jls) In Vietnam le serie televisivecoreane fanno furore.Contrariamente ai film holly-woodiani, sono in perfetta sinto-nia con la morale vietnamita.I giovani si identificano con glieroi di queste telenovelas e sifanno in quattro per emularli,imitandone il taglio dei capelli, latinta del rossetto ed anche ilmodo di sfoggiare la camicia.Sponsorizzati dalle grandi mar-che coreane, questi film sonopreceduti e seguiti da insertipubblicitari per prodotti di bel-

lezza, materiale elettronico, auto-mobili, biancheria da letto…made in Corea. Ne risulta che leimportazioni di prodotti coreanisono aumentate lo scorso annodel 20 percento, facendo lievitarela cifra d’affari di queste ditte.Anche dei vietnamiti ingegnosihanno tratto profitto dal fenome-no, facendo per esempio registra-re in vietnamita le canzoni deifilm oppure stampando i ritrattidegli attori sulle T-shirt.

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Per la maggior parte della gente, ancora pochi anni fa, i Balcanierano una regione remota, sconosciuta, della quale si sapeva benpoco. Poi, all’improvviso, quel territorio è venuto a far parte del no-stro estero più prossimo. Guerre e profughi hanno, in tempi moltoristretti, causato un cambiamento di percezione, in una misura chel’immigrazione di gente della ex Iugoslavia, che pur perdurava dadecenni, non era mai riuscita a provocare. Di Andres Wysling*.

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recente si cristallizza nelle sostanziose donazioni peri rifugiati e nell’aiuto fornito per la ricostruzionedella Bosnia e del Kosovo. Un impegno mosso dadue ragioni principali: pietà nei confronti dei pro-fughi ed il timore di «inforestieramento».Il generico interesse dell’opinione pubblica è unabuona base per un’attiva politica estera dellaSvizzera nei confronti dei paesi del sud-est euro-peo. Una politica il cui desiderio primario è espli-citamente quello di accelerare il ritorno in patriadei rifugiati che si trovano in Svizzera e di impedi-re l’arrivo di altri profughi dalla zone di crisi.Contro una politica estera che esprime tali obiet-tivi, non ha gioco facile nemmeno una destra tesaall’isolazionismo ed intenta a ricercare una dimi-nuzione del numero dei residenti stranieri inSvizzera. Anche quella sinistra schierata per piùvaste aperture internazionali non solleva obiezioni,soprattutto nel timore di nuove fiammate xenofo-be e paventando un irrigidimento nel dibattito suldiritto d’asilo. È così che la politica estera dellaSvizzera verso i Balcani trova appoggio – anche sepiuttosto scomodo – nel consenso generalizzatoverso la sua politica interna.

All’ombra delle grandi potenzeL’impegno nei Balcani è dispendioso. In ambitostrettamente civile, la Svizzera – soprattutto in re-lazione alla sua dimensione demografica – è tra ipaesi più generosi, sia dal punto di vista delle do-nazioni nell’ambito dell’aiuto umanitario che daquello della ricostruzione in Bosnia e nel Kosovo.In Bosnia la Svizzera ha investito negli ultimi cin-que anni oltre 250 milioni di franchi; in Kosovo, inun solo anno,quasi 120 milioni.Si tratta di cifre cheriguardano soltanto i contributi della Confedera-zione; ad esse si aggiungono le donazioni private.Cifre che quando entrano a far parte del grandecontenitore degli aiuti internazionali, tendono quasia svanire. Il programma di ricostruzione civile inBosnia (separato da quello dell’aiuto umanitario) ècostato cinque miliardi di dollari. Per il Kosovo ilcalcolo si ferma a due miliardi.La gran parte di que-sto denaro proviene dall’Unione Europea – che neiBalcani funge da tesoriere – e dagli Stati Uniti.Enormi somme vengono inoltre spese per lo sta-zionamento in zona di truppe della Nato.E dunque, al confronto l’impegno della Svizzeranelle regioni balcaniche in crisi non appare decisi-vo dal punto di vista finanziaro, e ancora meno si-gnificativo lo è in campo strettamente militare.Conseguentemente, Berna può svolgere qui sol-tanto un ruolo marginale.Talvolta si ha persino l’im-pressione che gli svizzeri debbano spedire denaro elimitarsi poi a fornire opera di manovalanza diplo-matica, da dire hanno poco o niente. Questo ruolo

Il sud-est europeo si avvicina, l’immagine deiBalcani cambia, e cambia soprattutto quella dellagente dei Balcani.Al posto dei poco amati «Jugo»,mediaticamente presenti più che altro nel ruolo ditrafficanti di droga e di gente introdotta all’uso delcoltello, fanno la loro apparizione anche personecon un loro destino, con storie di vita come le no-stre, storie che ci rendono partecipi. L’interesse delpopolo svizzero per questo vicino scoperto solo di

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Albania 1993

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marginale della Svizzera è dovuto non solo alla suadimensione demografica, bensì anche alla sua au-tonoma scelta di rimanere fuori dall’ONU,dall’UEe dalla Nato. Una scelta che comunque solo par-zialmente esclude la Svizzera dall’essere partecipedi quanto la «Comunità internazionale» fa o nonfa nei Balcani. Che lo voglia o meno, la Svizzera èvincolata all’azione politica delle grandi potenze esoprattutto degli Stati Uniti, anche se ciò non leconsente alcuna decisionalità. Ed inoltre, è tenuta asopportare anche alcune conseguenze.L’aiuto fornito dalla Svizzera è tuttavia sostanziale.Si impone dunque la domanda se il denaro è spesoin maniera sensata.Insomma,le grandi somme stan-ziate portano i risultati attesi? La risposta la si puòleggere nelle statistiche sui rifugiati. Dalla Bosnia,durante la guerra (1992-1995), arrivarono inSvizzera 34 mila profughi, 15 mila dei quali hannofatto ritorno in patria. Dal Kosovo (Iugoslavia), ametà del 1999,nel momento parossistico delle per-secuzioni, ben 67 mila profughi raggiunsero laSvizzera, e di questi 35 mila sono tornati in patria,la maggior parte di essi volontariamente, nell’am-bito dell’apposito programma di aiuto al rientro.Nello stesso periodo di un anno,sono stati registraticirca 6 mila nuovi richiedenti l’asilo provenienti dalKosovo (Iugoslavia). Ciò significa che la popola-zione composta da profughi dei Balcani in Svizzeraè, dopo l’aumento repentino verificatosi negli ulti-mi anni,diminuita in maniera drastica,anche se l’af-flusso di profughi, se pur esiguo, continua ancora.Nonostante la fine del conflitto,le regioni toccate dallacrisi bellica vivono tuttora uno stato di tensione.

Urge ridurre la tensioneLa politica nei Balcani non può limitarsi a perse-guire l’obiettivo, a breve termine, del rientro in pa-tria dei profughi, deve bensì puntare ad una ridu-zione costante delle tensioni, obiettivo primario, dilungo termine, dell’impegno dell’Occidente.È ov-viamente anche nell’interesse della Svizzera parte-cipare alla realizzazione di tale obiettivo. La ricettaper Bosnia e Kosovo prevede aiuto umanitario, ilripristino di spazi abitativi ed infrastrutture, gli sti-moli all’economia, la messa in funzione di organistatali, l’affermarsi di una società civile e, ovvia-mente, il ritorno delle popolazioni scacciate. Unalinea di condotta generalmente valida è quella tesaal ripristino di una società multiculturale, nell’am-bito di condizioni di democrazia analoghe a quel-le di norma vigenti in Occidente.

Il tè no, mai più…Un vecchio albanese,scacciato da Pristina,esprime il suo pensiero:«Con i serbi non voglio piùavere niente a che fare. Ilpopolo serbo è colpevoledi tutto ciò che è successoda queste parti.Certamente, ci sono anchepersone a posto, che nonhanno fatto niente di male.Per ciò che mi riguarda,queste possono anche re-stare; ma anche con loronon voglio avere niente ache fare. Che possa anco-ra succedere ciò che inpassato avveniva spesso,di sedere uno accanto al-l’altro e bere un tè in com-pagnia, credo che si possaescludere, non succederàpiù. Forse un giorno, chis-sà, ma ci vorrà tantotempo. Forse con la pros-sima generazione, o conquella dopo. Chissà…»

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Questo della «società multiculturale» è il luogo co-mune più ricorrente in ogni discorso, di ogni po-litico occidentale che si presenta in pubblico aSarajevo o a Pristina. In tutto ciò esiste la consape-volezza che quella società non c’è più, e che nonpotrà tornare tanto presto in vita,dopo le ferite dellaguerra. Il più recente dei conflitti balcanici è statocombattuto all’insegna della «pulizia etnica», rea-lizzata su vasti territori. Un ritorno al passato ap-pare pertanto impossibile, oltre che irrealistico.In Bosnia, i quartieri abitati dai diversi gruppi et-nici sono oggi separati, nei settori bosniaci (mus-sulmani), serbi e croati. Una situazione che, alme-no a breve scadenza, non lascia intravvedere cam-biamenti. Un massiccio ritorno dei profughi nelleabitazioni del passato, in regioni dominate da altrigruppi etnici (il cosiddetto «minority return»), èlungi dal poter essere ipotizzato.Anche se un orga-nismo apposito si occupa in particolare della resti-tuzione delle case sottratte ai profughi, le probabi-lità di successo restano comunque limitate.

masto in Kosovo. I serbi vivono in spazi ristretti edin diverse enclave praticamente tagliati fuori daogni contatto con il mondo esterno. Una loro cac-ciata definitiva è impedita solo dalla presenza delletruppe internazionali presenti in zona, incaricate disorvegliare le enclave serbe 24 ore al giorno.Proba-bilmente ancora più precaria è la situazione dei no-madi di lingua serba,che da parte degli albanesi sonoconsiderati collaborazionisti dei militari serbi. Lamaggior parte di essi è fuggita dal Kosovo, perlopiùin direzione del Montenegro e della Serbia inter-na. Le restanti popolazioni vivono prevalentemen-te in lager militarmente sorvegliati. Soltanto pochidi essi hanno potuto rimanere nelle loro case.Anchemolti Goraneh (mussulmani slavi) lamentano sva-riati atti di violenza, anche se nel frattempo vengo-no lasciati in pace.Al confronto,davvero pochi sonoi problemi dei turchi. Ma in generale regna unclima improntato all’intolleranza, che fra l’altro siidentifica anche nel divieto assoluto di esprimersiin pubblico in una delle lingue di matrice slava.

In venti, in una chiesaUna ventina di uomini, opoco meno. Abitano in unachiesa, nel territorio mon-tuoso del nord dellaBosnia. Il più giovane ha55 anni; gli altri sono tuttiultrasessantenni. Sonocroati, e con l’aiuto dellaCaritas hanno potuto far ri-entro nei loro villaggi, par-zialmente distrutti, nelcuore della RepubblicaSerba. Per prima cosahanno rimesso in sesto lachiesa. Adesso contano diripristinare le loro vecchieabitazioni. Nella vicina ba-racca, che ospiterà lascuola, si sono sistemati ipoliziotti serbi che sorve-gliano i croati nel frattempotornati in paese. Un diplo-matico tiene un discorso:«Presto, molto presto,bambini croati e serbi stu-dieranno in questa scuola,insieme», afferma. Ma nes-suno ci crede.

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Iugoslavia 1999 Bulgaria 1999

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Soltanto negli ultimi due anni, anche grazie al so-stegno svizzero, si è riusciti a promuovere il ritor-no degli abitanti in paesi piuttosto discosti e la cuipopolazione era già in passato, di norma, etnica-mente unitaria. Coloro che hanno fatto ritornosono perlopiù persone anziane. I giovani tendonoa restare nei loro nuovi luoghi di residenza, soprat-tutto se si trovano ad abitare in città. Il fenomenodel ritorno in centri urbani abitati in passato da po-polazione mista,ed oggi molto più omogenea,è sol-tanto all’inizio. Dai primi giorni del 1999 ad oggi,in Bosnia si sono contati 60 mila cosiddetti «mi-nority returns»,mentre le persone scacciate duran-te la guerra furono oltre 2 milioni.In Kosovo, dopo la cacciata ed il ritorno degli alba-nesi, ha avuto inizio la dispersione forzata dei serbi.Verosimilmente soltanto il 50 percento di essi è ri-

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La ricostruzione di una società richiedetempi lunghiLa società multiculturale è, alla luce dei dati di fattoqui elencati, solo un lontano obiettivo dell’aiutoumanitario. Per il momento, la priorità è quella diraggiungere obiettivi vicini e necessari:un tetto,unlavoro. Nel Kosovo ed in Bosnia la Svizzera ha for-nito sostegno rapido ed efficace nella ricostruzionedelle case. Per ciò che riguarda invece la creazionedi reddito, il nostro paese, in qualità di luogo di la-voro di parecchi emigrati del posto, continua a gio-care un ruolo molto importante.Un’esistenza sicura è per molti la base di ogni sta-bilità politica, e questa è a sua volta condizione in-dispensabile per un autonomo sviluppo economi-co. In Bosnia, il risultato degli aiuti è deludente. Leistituzioni statali funzionano poco e male e l’eco-nomia non appare in grado di operare autonoma-mente. Nel Kosovo la situazione sembra migliore,ma restano le insicurezze.Ci si rende conto oggi chela ricostruzione delle città, dei villaggi e delle stra-de può essere portata a termine nei tre anni previ-sti dal piano, mentre la «ricostruzione» di una so-cietà, di una classe politica e dell’economia richie-dono tempi molto più lunghi.Tale consapevolezza è stata alla base della fondazio-ne del Patto di stabilità balcanica, che prevede aiutinon soltanto a paesi e regioni distrutti dalla guerra,ma anche a quelli che finora hanno potuto conta-re su di un migliore sviluppo. Si parla qui di paesiquali Macedonia, Bulgaria, Romania, Albania eCroazia. Sono paesi diversi uno dall’altro, ma pre-sentano problemi di fondo simili: si trovano in unafase politica di cambiamento, e sono alle prese conenormi difficoltà economiche, che creano le basi di

possibili eventi negativi. È ciò che i ricchi paesi eu-ropei vogliono evitare, considerando ovviamentecome sia molto meno dispendioso prevenire che cu-rare.Anche qui, la Svizzera è tenuta a fornire il suocontributo, nel suo stesso interesse, anche se nonpotrà che giocare un ruolo secondario nelle gran-di vicende internazionali, quelle determinate dallapolitica delle grandi potenze e delle organizzazioniplanetarie. ■

*Andres Wysling è corrispondente estero della «NeueZürcher Zeitung» per il sud-est europeo.La sua sede ope-rativa è a Vienna.

(Tradotto dal tedesco)

Stelle e strisce, invecedella bandiera rossocro-ciata…Solo la Kula, la vecchiaTorre di guardia con i suoirobusti muri e le piccole fi-nestre, è riuscita a supera-re indenne le distruzionidella guerra. Per contro, lagrande fattoria nelle vici-nanze di Gjakove/Djakovicaè bruciata. Ma l’ultimopiano del grande edificio èdi nuovo in costruzione, eda un angolo del tetto,nella parte più alta, sporgeun’asta con la bandierastatunitense, stelle e stri-sce. «A dire il vero, do-vrebbe essere una bandie-ra svizzera – dice il delega-to svizzero –, in fondo, ilmateriale da costruzionel’abbiamo pagato noi».«Sì, certo. Ma sono stati gliamericani che ci hanno li-berato», dice l’albanese.

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I Balcani(bf) I Balcani: ampia catena montuosa che siestende dalla Serbia alla Bulgaria, dando il nomealla penisola balcanica, la più orientale fra le treche caratterizzano l’Europa meridionale. È lei chechiude, geograficamente, la parte di gran lungapiù vasta del sud-est europeo. Più esattamente, èlei che si adagia dalle regioni a sud del Danubio edel Sava, da una congiungente tra Lubiana e

Trieste fino ad est, alle sponde del Mar Nero edel Mar di Marmara, e ancora più a sud, versol’Egeo, e ad ovest: in direzione dello Ionio edell’Adriatico. I Balcani toccano attualmente i se-guenti stati:Albania, Bulgaria, Bosnia Erzegovina,Grecia, Repubblica Federale Iugoslava, Croazia,Macedonia. Inoltre: una regione della Romaniae la parte europea della Turchia. ■

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Un solo mondo n.4 / dicembre 200012

Un solo mondo:I Balcani hanno patito,a causadei conflitti, rilevanti battute d’arresto; i paesitoccati dagli avvenimenti devono oggi fron-teggiare una doppia sfida.Wolfgang Petritsch,quali sono, a suo avviso, i problemi che si op-pongono ad un futuro sviluppo?

Wolfgang Petritsch: In effetti, la Bosnia-Erze-govina ed alcuni paesi confinanti si trovano a fron-teggiare due sfide: la maggior parte delle nazionidell’Europa centrale ed orientale,ha compiuto negliultimi dieci anni un’intensa trasformazione,da un’e-conomia controllata dallo stato e dal comunismo adun’economia di mercato ed alla democrazia. LaBosnia si trova in una situazione ancora peggiore, inquanto tale sviluppo è stato frenato dalla guerra.Delresto, lo stesso processo di elaborazione dei fatti bel-lici non si è ancora concluso.Tuttavia, penso che laBosnia-Erzegovina si trovi sulla giusta strada:ciò chedefinisco «Europeizzazione del paese» è da noi so-stenuto con l’introduzione di leggi che corrispon-dono alle linee guida europee, con piani per la pri-

vatizzazione delle imprese residue dell’epoca comu-nista.A ciò si aggiunge l’incremento,gradito,del nu-mero dei profughi che fanno ritorno in patria.

È possibile trovare soluzioni ai conflitti «balca-nici» e cosa serve in questo ambito?È importante, in queste terre, che si comprenda inmaniera esatta il termine francese di «citoyen»: delcittadino attivo. Nazionalità ed etnia non possonogiocare alcun ruolo. Per le persone, saranno vinco-lanti soltanto i diritti di cittadinanza legalmente ri-conosciuti ed i diritti individuali.Grazie all’introduzione di nuove leggi sugli immo-bili e sulle residenze, che stabiliscono il modo in cuiogni cittadino potrà nuovamente ottenere la casa cheaveva prima della guerra, regole e norme di leggehanno finito per trovare normale applicazione anchein Bosnia-Erzegovina.L’applicazione di queste leggi,che io stesso ho disposto, è l’unica via che può con-sentire di superare le brutture della «pulizia etnica»dei giorni di guerra. Ci sono segnali che ci diconoche anche in Croazia è in corso tale processo. Per

L’evoluzione in corso oggi nei Balcani è affidata in gran partealle cure della comunità internazionale. Wolfgang Petritsch,che di questa comunità è Alto Rappresentante in Bosnia-Erze-govina, è un profondo conoscitore della situazione nei Balcani.Nell’intervista concessa a Gabriela Neuhaus tratteggia le pro-spettive, presenti e future, di questa martoriata regione.

Wolfgang PetritschIl diplomatico austriacoWolfgang Petritsch cono-sce da vicino gli sviluppidella situazione neiBalcani: dal 1997 al ’99 èstato ambasciatored’Austria a Belgrado e dal-l’ottobre 1998 fino al lugliodell’anno successivo hainoltre operato in qualità diDelegato speciale dell’UEnel Kosovo, rappresentan-do poi questo territorio, inqualità di primo negoziato-re, durante le difficili tratta-tive di Rambouillet e Parigi.Nel 1999, WolfgangPetritsch è succeduto aCarlos Westendorp in qua-lità di Alto Rappresentantedella Comunità internazio-nale in Bosnia-Erzegovina.Il suo ufficio, che è poiquello del cosiddetto HighRepresentative, è scaturitodagli accordi di Dayton edha come obiettivo la positi-va conclusione del proces-so di pace in Bosnia-Erzegovina.

«Riportare i Balcani al loro posto, in Europa»

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Bosnia Erzegovina, Sarajevo 1994

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contro, la situazione in Iugoslavia è purtroppo al-quanto insicura. Slobodan Milosevic resta il grandeostacolo sulla strada di una pacificazione duraturadella regione.

È dall’agosto del 1999 che lei è Alto Rappre-sentante della Comunità internazionale per laBosnia-Erzegovina. In quale ambito vede van-taggi,e dove i problemi di una mediazione dal-l’esterno?Il mediatore esterno è imparziale, non prevenuto. Inquesti ambiti, l’imparzialità è tutto: ogni mio movi-mento è osservato a fondo. Ed il fatto di essere cit-tadino austriaco e dell’UE mi accredita una certa di-mestichezza con la democrazia. Tuttavia, esistonoanche pericoli per chi viene dall’esterno, soprattut-to la tentazione di imporre soluzioni semplici.Personalmente, credo nell’assunzione di responsabi-lità da parte dei cittadini. Eppure, provocando in meun costante senso di delusione, molti politici, perlo-più quelli di partiti orientati in senso nazionalista,nonvogliono proporre decisioni « scomode». Troppospesso attendono che tali decisioni siano loro impo-ste dall’esterno, in modo che non siano costretti amettere le carte in tavola.E tutto ciò è a dir poco ir-responsabile.

Come giudica la situazione attuale del Kosovo,altro territorio balcanico pesantemente scossodalla guerra?In questa regione, il conflitto, in maniera latente, èancora in corso. La situazione è molto difficile. Inqualità di Delegato speciale dell’Unione Europea peril Kosovo e per essere stato il negoziatore principa-le nel corso dei colloqui di Rambouillet, è stata perme una vera sofferenza vedere i risultati ottenuti.Penso che la problematica del ritorno in Kosovo siasimile a quella che si presenta in Bosnia.Serbi e Rom,che sono stati spinti a lasciare le loro case, devonopotervi ritornare. Anche qui, il concetto di società

civile è di importanza decisiva. Un Kosovo chiuso,nazionalista,portato ad escludere tutti i non-albane-si, non avrebbe alcun futuro in Europa.

I Balcani dipendono dall’aiuto internazionale.Come giudica lei, in questo contesto, il ruolodella Svizzera?In Bosnia-Erzegovina, la Svizzera, sin dallo scoppiodella guerra, è stata molto attiva. Dei 34 mila profu-ghi rifugiatisi in Svizzera, al momento – anche gra-zie all’aiuto al rimpatrio fornito dalla Confe-derazione – circa la metà di essi è ritornata in patria.Ma la Svizzera non è impegnata soltanto nell’ambi-to dell’aiuto umanitario, bensì anche nel futuro svi-luppo della Bosnia-Erzegovina. Ma soprattutto, siguarda alla Svizzera come ad un modello, di comepossano, persone di differente idioma e origine et-nica, convivere in maniera rispettosa e positiva.Questo è, in fondo, il messaggio più importante chela Svizzera porta a cittadini e cittadine della Bosnia-Erzegovina.

La sua attività non è soltanto difficile, bensìanche frustrante,come lei stesso ha avuto mododi affermare. Da dove prende le energie percontinuare?La mia è un’attività estenuante,ma nello stesso tem-po anche una sfida affascinante. Si tratta di riporta-re i Balcani al loro posto,in Europa.Un compito cherichiede creatività e fantasia:non ci si deve arrende-re, anche alle prese con la a volte sconvolgente cru-deltà di questa guerra nei Balcani.L’immagine,quel-la per la cui realizzazione sono fortemente impe-gnato, quella di una Bosnia-Erzegovina multietnicae tollerante, capace di prendere il posto che le spet-ta nel contesto europeo, mi aiuta in modo determi-nante ad andare avanti in questo mio compito. ■

(L’intervista con Wolfgang Petrisch è stata realizzata primadella caduta di Slobodan Milosevic) (Tradotto dal tedesco)

Urge l’aiuto internazio-nale: Nella speranza diritrovare i parenti, alcunirifugiati kosovari cerca-no nelle liste del Comi-tato internazionale dellaCroce Rossa i nomidegli esuli registrati inAlbania.

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Albania 1999

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Nel marzo del ’99 il mondo intero guardava conpreoccupazione a Rambouillet. Uomini dal voltoteso, in uniforme o in abito scuro, arrivavano chiin limousine e chi in Jeep, e scortati dalle guardiedel corpo, sparivano dietro alle porte della speran-za. Ma i negoziati erano destinati a fallire. Per 79giorni vi seguì una guerra della Nato contro letruppe serbe stazionate in Kosovo, che a loro voltainasprirono le loro ritorsioni contro la popolazio-ne albanese. Oltre 750'000 persone cercarono rifu-gio oltre confine, lasciandosi dietro i propri morti,case distrutte dalle fiamme, strade e ponti devasta-ti dalle bombe.Poi fu fatta pace. Le truppe serbe si ritirarono dalKosovo e già nei giorni seguenti migliaia di perso-ne tornarono nelle loro case distrutte, sui lorocampi minati, accompagnati dai convogli degliaiuti internazionali che provvedevano ai generi diprima necessità. Per alcuni mesi ancora, il Kosovorimase al centro dei riflettori dei mass media, magià presto il loro interesse si rivolgeva unicamentealla cosiddetta problematica dei rifugiati: qualipaesi avrebbero accolto dei rifugiati, quanti e perquanto tempo? Poi, pian piano, il Kosovo cessòd’essere di interesse per i mass media.

Il processo di riconciliazione stenta adavviarsiAd un anno e mezzo dall’accordo di pace, nelKosovo si è instaurata una certa «normalità della ri-costruzione». Ben 400 Organizzazioni non gover-native ed Organizzazioni governative sono impe-gnate accanto alla popolazione locale nelle operedi ricostruzione. Grazie a progetti svizzeri nel ’99sono state riedificate ben 2'614 case e fino alla finedell’anno ne saranno pronte altre 2'395. Eppureanche quest’inverno non vi saranno ancora suffi-cienti abitazioni per tutti.I negozi, in genere, sono ben forniti di generi ali-mentari e le scuole hanno ripreso le loro attività.Ma il processo di riconciliazione tra gli albanesi ele minoranze locali (serbi, turchi e rom) tarda a farprogressi, provocazioni ed aggressioni sono ancoraparte della normalità.Nell’ufficio di coordinamento dell’aiuto svizzero aPristina lavorano 25 cittadini svizzeri e 125 impie-gati locali del Kosovo. «Qui vige un clima ottimi-stico, ovunque in Kosovo si sta ricostruendo. Nonsi tratta, però, di riparare solo i danni prodotti dallaguerra, bensì anche quelli dovuti a lunghi anni dicattiva amministrazione e a 50 anni di comunismo»,

Ad un anno e mezzo dalla fine del conflitto, nel Kosovo si è in-staurata una certa «normalità della ricostruzione». Ovunque si la-vora per la ricostruzione di case, scuole, strade ed impianti di de-purazione. Ma anche la democrazia va ricostruita. Di Maria Roselli.

La DSC è attiva nei Balcanisia attraverso la DivisioneAiuto umanitario (AU) perquanto concerne le azionidi aiuto immediato sia at-traverso la Divisione per lacooperazione con l’Europadell’Est e la CSI (DCE).La DCE ha preventivatoper il 2000 una spesa di12 milioni di franchi per ilKosovo, da investire neiseguenti settori:

Organizzazione dei co-muni e della giustizia:istituzione del catasto edell’anagrafe; progetto nel-l’ambito della detenzione;

Servizi pubblici:approvvigionamento d’ac-qua nel sudest delKosovo; progetti nell’ambi-to dell’educazione e dellaformazione; sostegno diuna stazione radio pubbli-ca;

Sostegno del settoreprivatoprogetti a sostegno dell’a-gricoltura nonché delle pic-cole e medie imprese;

Società civile:contributi per diversi pro-getti delle organizzazioniumanitarie.

Finalmente il Kosovo guarda

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ci spiega Antoine Dubas,che lavora per la DSC pres-so l’ufficio di coordinamento. Cosa si intenda percattiva amministrazione ci viene illustrato da CélineYvon della Divisione per la cooperazione conl’Europa dell’Est e la CSI (DCE) attraverso l’esem-pio dell’approvvigionamento d’acqua nel sudest delKosovo.«Da dieci anni in questa regione gli impiantidi depurazione dell’acqua non ricevevano più alcu-na manutenzione, gli albanesi che un tempo vi la-voravano sono stati cacciati e ben metà dell’acquapotabile va persa. Inoltre, gli impianti durante il co-munismo venivano gestiti in modo del tutto cen-tralistico. Si decideva, infatti, a Belgrado quantaacqua avessero bisogno i singoli comuni».Ma ciò è destinato a cambiare grazie ad un pro-gramma congiunto della DSC e del seco (Segre-tariato di Stato dell’economia) sull’acqua potabilenelle città del sudest del Kosovo. Il progetto si pre-figge di produrre una quantità sufficiente di acquapotabile di qualità sicura e di rendere possibili aglienti comunali di vendere l’acqua alla popolazione aprezzi che coprano le spese di produzione.

Ridurre l’aiuto umanitario per incremen-tare la cooperazione tecnica«Quando arrivammo in questa regione nell’agostodel ’99, la rete idrica era in uno stato pessimo», ciracconta l’ingegnere svizzero Philippe Genoud delCorpo svizzero di aiuto in caso di catastrofe (ASC).Grazie ad una serie di provvedimenti immediati èstato possibile garantire l’approvvigionamento d’ac-qua potabile. Segnatamente sono state in parte ri-parate e in parte sostituite le imboccature d’acquaalla sorgente, le condotte d’alimentazione e le retidi condutture idriche nelle città. Particolarmentedisastrato era l’impianto di depurazione della cittàdi Gnjilane/Gjilani,dove il soffitto rischiava di crol-lare.Per poter garantire l’approvvigionamento idri-co nella fase di riparazione del soffitto e delle con-dutture è stato necessario impiantare un bypass.

Grazie a questo cosiddetto Roughing-Filter è statopassibile fermare l’impianto centrale per la duratadei lavori. Il bypass è stato costruito nell’ambito deiprogetti dell’Aiuto umanitario e del Corpo Svizzerod’aiuto in caso di catastrofe avvalendosi di impreselocali, mentre per quanto concerne la ricostruzio-ne dell’impianto si tratta di un progetto della

Divisione per la cooperazione con l’Europa dell’Este del seco.Del resto, l’impegno svizzero nel Kosovova esattamente in questa direzione: ridurre l’impe-gno umanitario per incrementare la cooperazionetecnica.Le attività della DSC nel Kosovo sono state finan-ziate per l’ottanta percento dall’Ufficio federale deirifugiati nell’ambito del programma d’aiuti per il ri-entro.Nel 1999 per le attività della DSC nel Kosovosono stati spesi 83 milioni di franchi, per l’anno incorso sono preventivati ulteriori 55 milioni.Mentreil seco prevede per il Kosovo una spesa di otto mi-lioni per l’anno in corso e nei prossimi tre anni,nel-l’ambito dell’aiuto finanziario, ulteriori 27-30 mi-lioni di franchi. ■

(Tradotto dal tedesco)

Nell’anno in corso sonopreventivati per l’aiutoumanitario e per progettidell’ASC ulteriori 43 milionidi franchi:costruzione e ristruttura-zione di 500 case e 7scuole, materiali per chi ri-entra, costruzione di stra-de e ponti; coordinazionee realizzazione dell’approv-vigionamento idrico per150'000 persone; distribu-zione di 1'200 vitelli e vac-che, distribuzione di se-menti; salvaguardia degliinteressi delle minoranze;formazione dei membri delKosovo Protection Corps;operazioni di sminamentoin collaborazione con il mi-nistero russo per il soccor-so e la protezione civile.

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Talladjé è uno dei quartieri più poveri di Niamey.Vi predominano la precarietà, l’insalubrità e l’in-sicurezza. Le abitazioni si concentrano tra le pa-ludi nauseabonde, infestate dalle zanzare e dai cu-muli delle immondizie.Sono le sette.A casa dell’anziana Zeinabou il tin-tinnio delle scodelle e un fumo di legna umidaindicano che è ora di colazione. Colei che i ra-gazzi chiamano Ouichi insiste affinché il suoospite prenda almeno un po’d’«acqua bianca»,unmiscuglio d’acqua e pappa di miglio.Secca anchelei come una spiga di miglio, Ouichi, nonostan-te i suoi sessant’anni, trabocca di vitalità.Assegnai compiti con voce decisa continuando a distri-buire il becchime alle galline. «Rabi, tu porti ilmais al mulino; Aicha, tu prepari il pranzo escopi la casa».E poi sgrida un bimbo avvolto nellacoperta a mo’ di sacco di farina, perché rifiuta dialzarsi.Nessuno dei nove figli lavora. Il più vecchio stu-dia il Corano in Nigeria e una figlia è sposata.Gli altri sette vivono ancora sotto il suo tetto. Ilmarito di Zeinabou è morto nel 1991.Aveva la-vorato oltre trent’anni per una società commer-ciale, la quale ha chiuso i battenti lo scorso annosenza aver versato la benché minima indennità néalla vedova né agli orfani.

Derrate di stagioneOgni mattina, sulla strada polverosa che condu-ce al centro città,Ouichi espone alla vista dei pas-santi delle noci di cola, di palma dum, dei tube-ri di patate dolci, delle foglie bollite… in breve,tutte le derrate che offre la stagione. Ma primadeve andare a rifornirsi al mercato di Katako, chedista sette chilometri.Un vero calvario, perché lesue «vecchie ossa non sopportano più la marcia».Occorre attraversare la Cintura verde, una fore-sta di neem che è diventata il rifugio di banditi edi delinquenti e la discarica d’una comunità ur-

bana di un milione di abitanti. Creata negli anniSessanta per difendere la capitale dai venti cari-chi di sabbia, questa siepe viva sta assumendo unaspetto malinconico. In quartieri come quello diTalladjé mancano disperatamente l’acqua e l’e-nergia. Spesso gli uomini partono prestissimo ilmattino « senza lasciare un soldo per il compana-tico». E le donne non hanno altro combustibilese non la legna per far bollire la pentola.Strada facendo, Ouichi raggiunge le compagnedi sventura. Lunghe processioni di donne alzate-si di buon mattino per assicurarsi qualcosa concui ingannare la fame.Raccontano barzellette perimmunizzarsi contro una quotidianità tutt’altroche spensierata.Abbreviano il tragitto scambian-dosi gli ultimi pettegolezzi : la tale ha partorito lanotte scorsa, il marito di tal’altra è appena con-volato in seconde nozze, una terza ha perso unodei suoi figlioli in seguito a una crisi di malaria.

«Dio è grande»Bisogna che stiano attente a non farsi metteresotto. I conducenti di taxi danno degli strattonial volante per evitare i solchi che abbondano suquesta strada dissestata. «Ma guarda un po’!Hanno costruito un palazzo tra la polizia e il vil-laggio artigianale di Wadata », si meraviglia lamammona sistemandosi il figlioletto sulla schie-na. «Chissà dove trovano tutti quei soldi?» E lediscussioni ripartono alla grande: sulla fonte ditale fortuna, creata in un giorno e dilapidata l’in-domani, sui pochi fortunati che investono in casee nelle belle automobili, su questa opulenzaoscena nel bel mezzo di tanta spaventosa mise-ria. E poi questa esclamazione: «Dio è grande».È la formula preferita della gente del Niger quan-do un fatto supera la loro capacità di compren-sione.Dinanzi alla moschea Imam Malik, il grup-po si eclissa dietro le donne velate, completa-mente avvolte nei loro abiti neri.

Zeinabou è vedova e deve allevare sette figli. Per nutrirli, ladonna sessantenne gestisce una sua attività sul bordo dellastrada in un sobborgo a nord-est di Niamey. La sua vita quoti-diana rispecchia i tormenti del Niger, classificatosi penultimonel Rapporto mondiale sullo sviluppo umano. Di Ibbo DaddyAbdoulaye*.

Per una manciata di patate dolci

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All’ombra degli edifici diroccati una folla si strin-ge attorno al chiosco delle scommesse del Parimutuel urbain (PMU). «E dire che litigano pergettare via il denaro»,commenta Ouichi.Da quat-tro anni le corse di cavalli disputate negli ippo-dromi parigini hanno trascinato gli abitanti delNiger in una corsa sfrenata verso il guadagno fa-cile.Le donne scoprono un altro spettacolo insolitoall’incrocio del collegio Lako,dove i semafori nonlampeggiano più. A rischio di essere travolti, deigiovani mendicanti stanno contendendosi sull’asfalto una monetina lanciata da un automobili-sta. Una mendicante coperta di stracci, senzagambe e maldestra assiste alla scena.Lotta per trat-

tenere il suo bebè che si dimena in tutti i modi.Zeinabou commenta: «Anche se piangi la tuasorte, quando vedi una disgrazia più grande dellatua non puoi far altro che ringraziare il buonDio».Poi è la volta del liceo Kassai, i cui muri e i cuispazi sono invasi da venditori ambulanti privid’autorizzazione. Da quando i salari dei funzio-nari non vengono più versati regolarmente«ognuno gestisce il suo business». Infine è la voltadel mercato Katako, vera caverna di Ali Babà acielo aperto, dove si trova di tutto. Persino orga-ni umani, come insinuano le malelingue. I varitentativi compiuti dalle autorità per risanarlo op-pure spostarlo altrove sono rimasti vani. E questa

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nata non è affatto terminata. Fare il bucato, lava-re le stoviglie, andare al pozzo, pestare il miglionel mortaio… «I ragazzi mi prendono per unrobot», dice sorridendo. Per fortuna nessuno hamai avuto finora gravi problemi con la salute. «Virendete conto che hanno appena fissato a 500franchi l’entrata al dispensario!» E i medicinalisono spesso introvabili o impagabili. Ma Ouichisa che questa è solo una proroga concessale dallaProvvidenza, «perché ogni essere umano prima opoi si ammala». ■

* Ibbo Daddy Abdoulaye è un giornalista del Niger

(Tradotto dal francese)

piaga aperta nel cuore della capitale continua a ge-nerare enormi cifre d’affari che si sottraggono aqualsiasi controllo, grazie alla strepitosa diffusio-ne dell’economia sommersa. Ma per la piccolagente come Ouichi,Katako è essenzialmente «unmercato dove si trovano articoli a buon merca-to».

I prezzi non si discutonoRaggiunto il settore degli alimentari,Ouichi nontrova più il suo abituale venditore, che talvolta lefaceva anche credito. «È ritornato al villaggio pervedere a che punto sono i lavori nei campi», an-nuncia un altro commerciante, lisciando la suabarba da ayatollah. Lei chiede quanto costa unmucchietto di patate dolci. «500 franchi CFA.Prendere o lasciare!» Quando lei incomincia atrattare, lui ribatte: «Se sei venuta per compera-re, compera.Altrimenti posa quelle patate e vat-tene per i fatti tuoi». Ouichi ne sceglie due beimucchi,che paga contando minuziosamente il de-naro annodato nella sua gonna. E fa una crocesulle noci di cola, che pure voleva comperare conla stessa somma.Sulla via del ritorno, sotto il peso del carico e dellafatica, i suoi passi si fanno più lenti. Arrivata aTalladjé, stende il sacco di juta e vi dispone lamerce. «In realtà non sono queste inezie a farcivivere, ma l’incredibile bontà di Dio», ci assicu-ra. Oltre a questo modesto commercio, Ouichicontinua a coltivare nei due appezzamenti lascia-ti dal defunto marito alcuni semi di niébé o deipiselli di terra.A mezzogiorno si accontenta di masticare unanoce di cola. «Non è opportuno per un adultomangiare sulla pubblica via».Verso le 14 ripiegail bagaglio, sapendo che non venderà più ciò chenon ha potuto vendere il mattino.Ma la sua gior-

L’oggetto dellavita quotidianaL’hilaireI contadini del Niger (circail 90 percento della popo-lazione) metterebbero lamano sul fuoco perl’hilaire. Lodano la legge-rezza e l’agilità di questoattrezzo agricolo, le pro-dezze che sa realizzare suogni tipo di terreno. Il suoprezzo assai modico lorende un arnese prezioso,adottato da tempi imme-morabili da tutte le comu-nità. Facile da intrattenere,l’hilaire si distingue per lasua grande durevolezza.Tutte queste qualità lohanno reso un accessorioculturale emblematico delNiger, paese la cui agricol-tura figura tra le più arcai-che al mondo.L’hilaire è un lungo basto-ne di legno flessibile, prov-visto, a una delle estremità,di una manopola in legnodi forma triangolare e, all’altra, di una specie di affila-tissima mezzaluna in ferro.Nelle mani del contadinosperimentato si insinuanella terra come se fossedel burro, smuovendo lezolle e rasando le erbe in-festanti alla base.

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(sku) Nelle statistiche sullo sviluppo allestitedall’ONU il Niger occupa da anni un posto in coda.Oggetto di critica è soprattutto lo stato sconsolantedei settori educativo e sanitario. A livello statale laSvizzera e il Niger collaborano da circa 25 anni. Dal1990 la cooperazione si è estesa a operatori privati,quali le organizzazioni di contadini e di promozionedei diritti umani, le opere umanitarie e le associazio-ni femminili.Dal 1996 il partenariato si concentra suquattro regioni: nel sud si tratta del distretto di Gayae del dipartimento di Maradi; nelle regioni periferi-che del Sahel e del Sahara, dove predominano l’alle-vamento bovino e la piccola irrigazione,e dove le scar-se piogge pongono dei limiti alla sopravvivenza,si trat-ta del Cantone Téra del Nord e dei Monti dell’Aïr.In queste aree la DSC offre sostegno soprattutto perl’agricoltura e la selvicoltura, l’allevamento, le straderurali, il rifornimento idrico, l’educazione e la for-mazione degli adulti, i sistemi di risparmio e di cre-dito. Le azioni condotte sono di carattere integrato esi prefiggono quale obiettivo il partenariato direttocon la popolazione, nonché l’aiuto alla creazione di

Fatti e cifre

CapitaleNiamey

Superficie1267000 km2

Principali etnieHaussa, djerma-songhai,peul, tuareg e kanuri

LingueFrancese (lingua ufficiale),haussa (lingua veicolare)

ReligioneMusulmani (80%), animistie cristiani

PopolazioneNumero di abitanti:10 milioniSperanza di vita:47 anniScolarizzazione: 30% in media (18% per leragazze)Tasso di fecondità: 7,8 figli per donnaMortalità infantile: 191 su 1000

Settori di attivitàAgricoltura e allevamento:90%Industria e commercio:6%Servizi governativi: 4%

RisorseColture di sussistenza: mi-glio, sorgo, riso, mais, ma-niocaColture di reddito: arachi-de, cipero dolce, cotone,cipolle, niébéAllevamento: bovini, ovini,caprini, equini, camelidiRisorse minerarie: uranio,carbone, manganese, fo-sfato, stagno e petrolio

La Svizzera e il NigerSviluppo locale, donne, stato di diritto

Niger

Cenni storici

1958 Il Niger approva il referendum con il qualela Francia proponeva alle sue colonie l’auto-nomia interna in seno a una Comunità fran-co-africana.

1959 Un decreto presidenziale ordina lo sciogli-mento del Sawaba, partito che aveva con-dotto la campagna contro il referendum. IlPartito progressista del Niger, sezione delFronte democratico africano (PPN-RDA)diventa di fatto un partito unico.

1960 Il Niger raggiunge l’indipendenza. DioriHamani viene eletto presidente dellaRepubblica.

1964 Le azioni di guerriglia orchestrate dalSawaba conducono molte persone nelle car-ceri, all’esilio forzato e all’esecuzione som-maria

1974 Il presidente Diori viene rovesciato nelcorso di un colpo di stato militare capeggia-to dal tenente colonnello Seyni Kountché, ilquale impone un regime d’emergenza.

1987 Il generale Seyni Kountché muore a Parigi.Gli succede il capo dello stato maggiore AliSaibou. Questi crea un partito unico, ilMovimento nazionale per una società insviluppo (MNSD), del quale diventa presi-dente.

1990 L’esercito soffoca nel sangue un movimentodi contestazione studentesco e un solleva-mento dei tuareg. I sindacati rivendicano ilmultipartitismo.

1991 Reintroduzione del multipartitismo.Una Conferenza nazionale elegge le autoritàincaricate di gestire la transizione e di assi-curare il ritorno a una vita costituzionale re-golare.

1993 Prime elezioni democratiche dall’indipen-denza. Mahamane Ousmane, sostenuto dauna coalizione di nove partiti, viene elettopresidente.

1996 In gennaio prende il potere un gruppo diufficiali condotti da Ibrahim BaréMainassara, capo dello stato maggiore. In lu-glio il generale Baré accede alla presidenzanell’ambito di elezioni macchiate da irrego-larità.

1999 In aprile il generale Baré viene assassinatodalla sua propria guardia. Un consiglio com-posto di giovani ufficiali assume tutti i pote-ri fino alla creazione di istituzioni repubbli-cane. In novembre il colonnello a riposoTandja Mamadou, sostenuto da 18 partiti,diventa presidente nel corso di elezioni una-nimemente riconosciute come trasparenti.

Niger

Niamey

Libia

Algeria

Ciad

NigeriaBenin

Mali

BurkinaFaso

strutture amministrative e decisionali decentralizzate,grazie alle quali la popolazione assume maggiore pesonelle contrattazioni con l’amministrazione pubblica,i capi tradizionali e le organizzazioni di sviluppo.I pro-cessi di apprendimento legati alla democratizzazionee l’autodeterminazione diventano in tal modo unapremessa importante per la decentralizzazione,la qualeè già stata decisa,ma non è ancora stata concretizzata.Il miglioramento delle prestazioni rese dallo stato didiritto rientra tra gli obiettivi più recenti della co-operazione.La conoscenza degli iter legali e dei mezzid’impugnazione rappresenta una premessa per la di-fesa dei diritti, in particolare dei diritti dei membrisvantaggiati della società, tra i quali rientra la stra-grande maggioranza delle donne. Nel diritto di fa-miglia o nel diritto fondiario sussistono notevoli in-giustizie. La DSC sostiene perciò le organizzazionifemminili, le opere umanitarie, i media, i tribunalinonché il Ministero delle opere sociali e quello dellagiustizia.

(Tradotto dal tedesco)

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La boule è una tipica specialità del Niger.Questo ciboa base di miglio e latte cagliato è un elemento ca-ratteristico dell’identità nazionale, al pari delle sca-rificazioni fieramente esibite da quasi tutte le etniedi questo grande paese situato nel cuore del Sahel.Gli abitanti del Niger sono gli unici a conoscere ilsegreto delle spezie e degli aromi che conferisconoalla boule il suo inconfondibile sapore. La maggiorparte di essi consumano questa pietanza da tre aquattro volte sull’arco delle 24 ore. La boule è per lagente del Niger ciò che il vino è per il francese o ilformaggio della Gruyère per lo svizzero,ossia il suomigliore ambasciatore.Ma è anche un eccellente ba-rometro: studiando la qualità e la quantità di bouleingerita nel corso della giornata si imparano più cosesullo stato del paese che non attraverso il miglioreindicatore di povertà. Questo cibo a elevato valorenutritivo è particolarmente ricco di proteine, vita-mine e ferro.

Unanimità attorno alla calebasseA dire il vero esistono diverse varietà di boule.Ogniregione loda l’incomparabile sapore della sua. Maquando giunge l’ora di riunirsi attorno alla calebas-se (la grande scorza di zucca usata a mo’di scodella)per passarsi l’un l’altro il cucchiaio, i commensali diogni etnia e di ogni confessione accantonano que-sta disputa campanilistica.Tra rutti gutturali e scrol-latine di capo, in merito al dolce nettare che ha lafacoltà di affascinare il neofita si crea l’unanimità.L’ospitalità del nostro paese passa anche attraversola boule.È un riflesso innato quello di offrirla al pro-prio ospite.A costo di renderlo magari dipendenteal punto che non avrà pace finché non avrà ingeri-to pure lui la sua dose. Ma ciò che potrebbe man-cargli si trova facilmente: la ricetta è semplice e laboule si vende a ogni angolo di strada.

Miglio, latte e speziePer ottenere un’eccellente boule occorre ovviamen-te del miglio – il cereale che costituisce la base del-l’alimentazione del Niger – e del buon latte vacci-no cagliato. Inoltre sono necessari altri ingredienti:secondo i gusti e i mezzi si possono impiegare for-maggio secco,datteri e un mazzetto di aromi e spe-zie esotiche (zenzero, chiodi di garofano, timo, pi-mento nero, pimento bianco…).Anzitutto occorre scegliere un miglio dai bei chic-chi dorati e duri.La seconda operazione consiste nelpestarlo nel mortaio per liberarlo dal suo involucro(la crusca),che darà una buona biada per gli animali.Quindi lo si lava e lo si rimette nel mortaio per ri-durlo a una farina bianca e fine. Si mescola questafarina con poca acqua, si formano delle palline – le

boules appunto –, che danno il nome alla pietanza.Segue poi la tappa della cottura. Le palline di gran-dezza diversa vengono tuffate in una pentola conmolta acqua. Dopo averle lasciate sobbollire perun’oretta si ritornano nel mortaio, dove si pestanodi nuovo fino a ottenere una pasta morbida e vi-schiosa.

Pazienza…A questo punto si scioglie la pasta ottenuta nell’ac-qua e nel latte cagliato, quindi vi si aggiungono apiacimento le spezie e gli aromi,anch’essi pestati nelmortaio. In questo modo si ottiene quel cibo liqui-do al quale la gente del Niger non rinuncerebbe pernulla al mondo. La boule è pronta per essere degu-stata,ma i veri conoscitori raccomandano di lasciarlariposare ancora per qualche oretta.Il sapore ha tuttoda guadagnare. Se anche voi seguirete questa ricet-ta alla lettera non alzerete il naso dalla calebasseprima di averne visto il fondo. ■

(Tradotto dal francese)

Ibbo Daddy Abdoulayecollabora con varie pubbli-cazioni locali ed è corri-spondente in Niger dell’agenzia di stampa Syfia edell’emittente Fréquenceverte. Inoltre riveste la fun-zione di direttore dellepubblicazioni pressoEchos du Sahel, un’agen-zia di stampa specializzatain materia di agricoltura esviluppo, che egli ha con-tribuito a creare nel set-tembre del 1998. Il prodot-to di spicco di questaagenzia è una rivista trime-strale sul mondo rurale,sovvenzionata dalla DSC.

Dolce nettare del Niger

Voce del Niger

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Come comportarsi nei confronti di governi cheviolano regolarmente i diritti dell’uomo? Che farequando ragionevoli speranze di democratizzazionevengono soffocate sul nascere da brutali interventidi polizia? Ed infine, come possiamo contrastare legravi infrazioni che vengono commesse a scapitodella pace e della sicurezza, e che tanta sofferenzacausano ad interi popoli?

La semplice indignazione non porta risultati tangi-bili. È pertanto più che evidente che è necessarioporre l’accento su misure attive di carattere interna-zionale. In questo ambito, la Svizzera ed anche altrenazioni, hanno spesso considerato l’ipotesi di inter-rompere l’aiuto allo sviluppo o la cooperazione coni paesi dell’Europa dell’est. Al proposito non sussi-stono dubbi di sorta: non possiamo permetterci diessere semplici spettatori delle sofferenze di un po-polo, solo perché i suoi governanti non vogliono onon sono in grado di applicare le più elementarinorme di diritto e di rispettare gli accordi interna-zionali. Quindi bisogna chiedersi se è proprio veroche interrompere la cooperazione e lasciare tali paesial loro destino sia la soluzione migliore.

Esperienze in materia mostrano che l’effetto di talemisura è spesso sopravvalutato. Non di rado succe-de di colpire le persone sbagliate: ad esempio, etniealle quali viene sottratto un sostegno vitale, oppureforze politiche, e vigorose componenti della socie-tà civile,orientate al cambiamento,che si vedono sot-trarre il loro stesso spazio d’azione. Ed infine puòsuccedere che certe pressioni, tendenti ad otteneremiglioramenti, suscitino effetti contrari, quali un ir-rigidimento della situazione, e dunque i governi sisentono più che mai legittimati a violare i diritti del-l’uomo, prendendo come scusante le inammissibiliingerenze straniere.

Generalmente si ottengono maggiori successi ri-correndo ad misure positive nel paese stesso. Adesempio, con un sostegno mirato al ministero dellagiustizia, alle organizzazioni dei diritti umani o agliorgani d’informazione. In tal modo è possibile in-fluenzare in maniera positiva l’ambito delle attivitàpolitiche,creando condizioni che permettono di mi-gliorare la situazione del paese.

Solo nel momento in cui - nonostante seri inter-venti in queste direzioni - non si sono ottenuti mi-glioramenti sostanziali, è lecito riflettere sull’oppor-tunità di interventi più drastici.Tali misure possonoriguardare l’intero ambito delle relazioni estere sviz-zere,e dunque dovranno essere adeguatamente con-cepite. Si tratta di decisioni di grande importanza,prese autonomamente dal Consiglio Federale dopoun’esauriente analisi della situazione.

Ma queste sono, ovviamente, decisioni da «ultimaratio». Prima di giungere ad esse si cerca, con misu-re adeguate e positive, di rimuovere gli ostacoli e leincomprensioni che hanno portato alla situazione dicrisi, per fare in modo che il paese ritrovi la nor-malità. ■

Walter FustDirettore della DSC

(Tradotto dal tedesco)

Condizionalità politica quale strumento di pressione

Indignarsi non serve…

L’opinione della DSC

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Quando si reca al lavoro, la psicologa AliciaAlmeida infila spessi stivali. Il terreno su cuilavora la trentaduenne è sassoso – nel vero eproprio senso della parola. Per un’ora e mezzaAlicia viaggia dal centro della capitale colom-biana verso la periferia meridionale di questametropoli da otto milioni d’abitanti. Giunta aipiedi di un ripido colle, il viaggio prosegue apiedi. Le strade – quando ce ne sono – sono tal-mente scoscese e malridotte che è praticamenteimpossibile utilizzarle. Così Alicia si arrampicasulla collina attraversando le numerose baracchedel complesso Altos de Cazucá, nel quartiereCiudad Berna di Bogotà.

Cacciati con violenzaLe persone che vivono ad Altos de Cazucá sonotutti profughi, vittime della violenta guerra civi-le che insanguina la Colombia da ormai trent’anni. Questi «desplazados» sono per lo più don-ne, bambini e giovani. «Ogni giorno giungonoqui fino a 35 famiglie con dieci, anche dodicicomponenti. La maggior parte di loro ha vissu-to da vicino tutta la violenza della guerra civile,vuoi perché un familiare è stato ucciso, vuoiperché sono stati cacciati con la forza dalle loroabitazioni», spiega Alicia Almeida.Le persone che giungono in questa bidonvillesorta senza un minimo di pianificazione trovanocondizioni difficili. Con delle assi si costruisco-

In Colombia i rifugiati interni – persone in fuga dalla guerra ci-vile – sono circa due milioni. La metà di loro vive in enormi bi-donville alla periferia di Bogotà. Nell’intento di migliorare le lorodifficili condizioni di vita, la DSC sostiene progetti di aiuto uma-nitario. Un reportage di Beat Felber.

La DSC e la ColombiaLa Colombia non è unpaese di concentrazionedella DSC. Ciò significache non sussistono prioritàa medio e a lungo termine.Tuttavia, la DSC offre il suosostegno – nel 2000 cin-que milioni di franchi circa– attraverso diversi stru-menti e organizzazioni. Lamaggior parte dei fondi sitraduce in aiuto umanitarioe cofinanziamento di pro-getti d’organizzazioni nongovernative svizzere comeHEKS, Swissaid,Swisscontact e Terre deshommes Lausanne. Inprimo piano vi sono il so-stegno a più livelli dei pro-fughi interni, i «desplaza-dos», nonché di attivitàvolte a consolidare le orga-nizzazioni locali e a soste-nere la ricostruzione di retisociali in seno alla societàcivile.

Primi soccorsi aimargini di Bogotà

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no una misera dimora e cercano poi di organiz-zarsi. Ma manca l’acqua, manca l’elettricità ; nonci sono né commerci né scuole; e non c’è nep-pure lavoro. In compenso, il tasso di criminalitàè altissimo. Molti bambini soffrono di malnutri-zione, e quando in tasca c’è qualche soldo perprocurarsi il cibo bisogna andare molto lontano.Per offrire a queste persone un sostegno piùurgente, da tre anni Mencoldes – una fondazio-ne delle chiese mennonitiche colombiane per losviluppo sociale e l’aiuto umanitario – gestisceun centro di sostegno a Ciudad Berna. Il pro-gramma di questo centro è a sua volta cofinan-ziato dall’aiuto umanitario e dall’organizzazionesvizzera HEKS.«Ogni anno il centro offre aiuto a 2000 perso-ne», afferma Nancy Yael Bernal, coordinatricedel programma finanziato dal centro. «Distri-buiamo viveri, vestiti, oggetti per la casa, offria-mo assistenza medica, psicologica e dentistica, eorganizziamo diversi corsi affinché le personesviluppino nuovamente prospettive, sogni eobiettivi. Qui le persone non risentono solodella povertà economica; per colpa delle violen-ze subite e dei traumi che li affliggono soffronoanche di una povertà emotiva».Dopo aver rifornito i «desplazados» del minimovitale, si tratta in primo luogo di procurare loroun’assistenza psicologica, offrendogli cosìun’opportunità di reintegrazione sociale, cultu-rale ed economica.

Guadagnarsi la fiducia«Molte persone – soprattutto i giovani – giun-gono da noi in un grave stato depressivo. Dopola violenza della guerra civile vissuta a fior dipelle, qui trovano uno scenario di violenza ditutt’altro tipo: là fuori, nei quartieri, devonolottare per un lavoro, un alloggio, denaro, in

condizioni d’assoluta disperazione », spiegaAlicia Almeida. Per prima cosa,Alicia cerca per-ciò di guadagnarsi la fiducia della gente andan-dola a trovare nelle misere abitazioni. Un com-pito poco facile in un paese dove paura e diffi-denza sono profondamente radicate in duegenerazioni d’esseri umani, dove ogni anno sipiangono 30000 vittime della violenza e dove irapimenti sono all’ordine del giorno.Malgrado ciò, il centro di sostegno di Mencol-des non riesce più a soddisfare la domanda.«Regolarmente abbiamo più persone che desi-derano frequentare i nostri corsi che posti dis-ponibili», afferma Nancy Yael Bernal. Due voltea settimana, una novantina di persone si reca alcentro per frequentare uno dei corsi semestrali :mentre una parte di loro impara a leggere e ascrivere, altri intraprendono una formazionenegli atelier di cucito, oppure seguono corsid’amministrazione, contabilità, informatica onei più disparati mestieri dell’artigianato.«Il nostro obiettivo è che là fuori, nella lorobidonville, le persone organizzino delle piccoleimprese», spiega Nancy Yael Bernal. I primi suc-cessi sono già una realtà. Ad esempio, GraziellaPrieta, Olga Remolino e Idalyn Flores – tuttemadri – hanno avviato insieme un atelier dicucito; Josefina Perez ha aperto una bancarelladi bibite nei pressi della sua baracca; e JuanPablo Martinez, padre di cinque figli, cuce scar-pe di cuoio su ordinazione. Per Alicia Almeida,questi ed altri esempi sono una motivazione piùche sufficiente per infilare anche in futuro i suoistivali e arrancare su per la collina alla periferiadi Bogotà. ■

(Tradotto dal tedesco)

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(jls) L’ASG è stato creato nel 1996, l’anno in cui iTalibani giunsero al potere. Di fronte ad una situa-zione complessa e conflittuale, per i donatori si èreso necessario concentrarsi sulle modalità degliaiuti, coordinare meglio le azioni e offrire un so-stegno efficace agli sforzi compiuti dai paesi delleNazioni Unite.Il regime Taliban, responsabile di numerose viola-zioni dei diritti dell’uomo, non è riconosciuto danessun membro dell’ASG.«Nondimeno, i finanzia-tori non possono restare indifferenti a questa crisiumanitaria che dura da oltre vent’anni. Senza il so-stegno internazionale, l’Afganistan avrebbe enormiproblemi a nutrire la sua popolazione, soprattutto ledonne», sottolinea Serge Chappatte, direttore sup-plente della divisione DSC per la cooperazione bi-laterale allo sviluppo.

Aiuti legati a principiI paesi membri dell’ASG assumono la presidenza aturno. Nel 2000 questa funzione è toccata allaSvizzera. Ogni mese, a Islamabad (Pakistan) l’uffi-cio di coordinamento della DSC organizza una ri-unione dell’ASG, al fine di risolvere i problemi piùurgenti in materia di coordinamento degli aiuti. LaDSC ha anche effettuato diverse missioni d’alto li-vello in Afganistan, dove ha incontrato sia i Talibaniche i loro avversari dell’Alleanza del Nord.

«Abbiamo chiesto loro di rispettare i diritti del-l’uomo e di lasciar lavorare liberamente gli organi-smi d’aiuto. Abbiamo insistito per poter raggiun-gere tutti i gruppi più svantaggiati – incluse, natu-ralmente, le donne», afferma Serge Chappatte.Queste richieste si ricollegano alla carta dell’ASG,che seguendo l’esempio dell’ONU ha deciso di le-gare le sue attività di aiuto umanitario al rispetto dicerti principi fondamentali. «Non si tratta tuttaviadi una condizione sine qua non, poiché la popola-zione ne risentirebbe».

Donne discriminatePrivando le donne afgane del diritto all’impiego edella libertà di circolazione, i Talibani le hanno con-dannate a dipendere da un uomo per sopravvivere.La maggior parte delle 700000 vedove di guerrasono ora ridotte alla mendicità. In caso di ristret-tezze alimentari, le vedove e gli orfani sono i primia soffrire la fame.La situazione delle donne è al centro delle preoc-cupazioni dell’ASG. «Soprattutto da quando nelmese di luglio i Talibani hanno decretato il divietod’impiegare donne nei progetti di aiuto», precisaSerge Chappatte. ■

(Tradotto dal francese)

La Svizzera ha assunto la presidenza per il 2000 del Gruppodi sostegno all’Afganistan (ASG), che riunisce i 16 principalipaesi donatori. Devastato da un conflitto senza fine al qualesi aggiunge quest’anno una siccità dalle proporzioni cata-strofiche, l’Afganistan dipende più che mai dagli aiuti inter-nazionali.

Dalle vedove per le ve-doveIl Programma alimentaremondiale (PAM) ha escogi-tato un progetto originalevolto a garantire l’approvvi-gionamento alle donne af-gane indigenti, pur rispet-tando le leggi che impon-gono la segregazione deisessi. Con il sostegno dellaDSC ha creato una rete di37 «panifici delle vedove»,ottenendo l’autorizzazionead impiegarvi delle donne.Le vedove cuociono ilpane con farina fornita dalPAM, e alcune di essevanno di porta in porta di-stribuendo i ticket di razio-namento alle donne soleindigenti con bambini a ca-rico. Queste clienti si reca-no poi nelle panetterie peracquistare il pane ad unprezzo fortemente sovven-zionato.

Aiutare l’Afganistan nonostante i Talibani

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Novità: sezione Governo(rdd) A partire dal 1° gennaio2001 la DSC sarà dotata di unanuova sezione tematica, denomi-nata «Governo», che si occuperàdi competenze concernenti lostato di diritto, i diritti dell’uo-mo, il ruolo dello stato, la decen-tralizzazione e lo sviluppo locale,nonché di questioni economicheinerenti alla buona gestione delgoverno (bilancio pubblico, cor-ruzione, ecc.). Le sezioni temati-che della DSC appoggiano inmodo professionale programmipropri e dei partner, assumonol’organizzazione internazionale eformulano le politiche della DSCnei rispettivi settori.A dirigere lasezione Governo sarà l’attualecoordinatore DSC in EcuadorJean-François Cuenod. La crea-

zione di questa sezione è statadecisa nell’ambito della riorga-nizzazione dei servizi settorialidella DSC.

Ufficio umanitario inMoldaviaAll’inizio di settembre, la DSCha aperto un ufficio di collega-mento a Chisinau, la capitaledella Moldavia.Vi lavorano quat-tro collaboratori. Questa ex re-pubblica sovietica di 4,4 milionidi abitanti, situata tra l’Ucraina ela Romania, ha particolarmentesofferto del passaggio all’econo-mia privata. Secondo una classifi-ca fatta dalla Banca mondialenel’98, la Moldavia è il paese piùpovero d’Europa, ancor piùdell’Albania. Quest’anno la suasituazione è peggiorata a causa

delle condizioni climatiche av-verse: una gelata, e tre mesi disiccità, sono stati devastanti per iraccolti. In giugno, il ministerodegli affarsi esteri moldavo halanciato un appello per l’aiutointernazionale.Walter Fust, diret-tore della DSC, si è recato sulluogo l’otto agosto. In seguito aquesto viaggio, la DSC ha decisodi distribuire sementi ai contadi-ni più colpiti dalla siccità e di ap-portare un aiuto immediato a di-versi progetti nell’ambito medicoe sociale.

Buone nuove sui linkSul sito della DSCwww.dsc.admin.ch accanto adinteressanti informazioni ecomunicati stampa d’attualità,troverete gran parte degli articoli

apparsi nell’ultimo numero di«Un solo mondo» corredati dairispettivi link.Vi troverete peresempio: l’intero dossier sull’ONU «L’ONU, lo sviluppo e laSvizzera», apparso nel numero3/2000, e naturalmente nonmanca il link alla pagina ufficialedell’ONU www.uno.admin.ch delDFAE.

Dietro le quinte della DSC

Che cos’è...un fondo di controvalore?(drg) Un fondo di controvalore è un fondo creato nell’ambito dimisure bilaterali di sdebitamento.Ai paesi in via di sviluppo piùpoveri vengono così condonati i debiti in divise contratti con laSvizzera. Quale controprestazione, i loro governi si impegnano acreare nei rispettivi paesi un fondo di una determinata entità invaluta locale.Questo denaro proviene dal budget del governo cen-trale del paese in questione e viene investito presso una bancacommerciale locale, in modo da fruttare degli interessi.Simili fondibilaterali servono a finanziare progetti di sviluppo. Le organizza-zioni della società civile (soprattutto opere umanitarie) e le isti-tuzioni statali presentano richieste di sostegno per la realizzazio-ne di progetti. Il fondo, dopo averle selezionate in base a criteriprestabiliti, dà loro il mandato di realizzarli.Nell’ambito delle sue misure bilaterali di sdebitamento la Svizzeraha condonato a 18 paesi debiti per una somma complessiva di 1,1miliardi di franchi. In 12 casi si sono accumulati fondi di contro-valore per un ammontare complessivo di 270 milioni di franchi.Le strutture del fondo, generalmente, consistono in un segreta-riato esecutivo, coadiuvato da un comitato tecnico, il quale è in-caricato di valutare i progetti proposti. In quest’organismo siedo-no sia i rappresentanti dei due governi sia i rappresentanti dellasocietà civile.A decidere definitivamente sui finanziamenti sotto-posti dal segretariato esecutivo è , invece, un comitato bilaterale,nel quale siedono esclusivamente i rappresentanti dei governi.

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Un solo mondo: I poveri del mondo quale tar-get della cooperazione allo sviluppo e anche del-l’economia privata. Ma non significa la quadratu-ra del circolo?

Oscar Knapp: No di certo. Un’economia priva-ta che non trova le premesse favorevoli non puòsvilupparsi in modo sano.Al contrario,quando l’e-conomia privata può svilupparsi, anche i poveri ne

ganizzazioni, uffici di consulenza, ecc. che ci aiuta-no a realizzare progetti e programmi. Nei paesi invia di viluppo e di transizione la DSC mira decisa-mente a promuovere anche l’economia privata atutti i livelli, anche perché fa parte del mandato le-gislativo.Senza un’economia di mercato durevole esociale, lo sviluppo come lo immaginiamo noi nonpuò neppure incominciare.

Per molto tempo la collaborazione fra economia privata e co-operazione allo sviluppo è stata un tabù. Oggi, invece, i frontisi ammorbidiscono. Su limiti, possibilità e rischi di quest’avvi-cinamento discutono Rosmarie Michel, Oscar Knapp e RemoGautschi. Un’intervista di Beat Felber.

Rosmarie Michel è da molti anni vicepresi-dente di Women’s WorldBanking e siede in diversiconsigli d’amministrazione

Remo Gautschi è vicedirettore della DSCe responsabile dellaDivisione per la coopera-zione con l’Europa dell’Este la CSI (DCE)

Oscar Knapp è ambasciatore e delegatoagli accordi commercialidella sezione «Sviluppoe transizione» in seno alSegretariato di Statodell’economia (seco)

Economia privata e cooperazioneallo sviluppo: un futuro comune?

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Un solo mondo: I poveri non hanno alcun pote-re d’acquisto. Perché mai l’economia dovrebbe in-teressarsi a loro?

Knapp: Certo, l’economia non mira innanzi tuttoa sostenere i poveri. Il suo obiettivo è quello diconseguire utili. In determinate regioni individuaperò possibilità d’investimento, e poiché tali inve-stimenti sono spesso legati a rischi elevati, noi ne

traggono benefici.Perciò,da una parte il seco s’im-pegna a favore della cooperazione macroecono-mica con i paesi in via di sviluppo, dall’altra cer-chiamo di coprire determinati rischi e – in colla-borazione con l’economia privata – realizzareprogetti che forse l’economia privata non abbrac-cerebbe di sua spontanea volontà.

Rosmarie Michel: Alla base della globalizzazio-ne devono esserci mercati sani. Ciò significa che inostri partner devono essere equivalenti e che de-vono conoscere i nessi dell’economia di mercato.È quindi necessario iniziare dalla base, con la co-operazione allo sviluppo. Da una prospettiva eco-nomica, ciò va interpretato come un investimentoe non come un aiuto – che comprende anche il tra-sferimento di know-how nel management e nelmarketing. La «Women’s World Banking» agisce alivello mondiale secondo quest’ottica (cfr. pag. 28).

Remo Gautschi: Dobbiamo distinguere fra col-laborazione con l’economia privata qui in Svizzerae nei paesi in via di sviluppo.Qui operiamo con or-

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copriamo una parte. Del nostro aiuto beneficianoquindi sia i paesi in via di sviluppo che l’econo-mia privata. Effettivamente, l’economia privata èinnanzi tutto interessata ad integrare i più poverinel circuito economico, perché capisce che amedio e lungo termine altrimenti la povertà inci-derebbe negativamente sull’economia.

Michel: Chi mira unicamente agli utili ha una vi-sione a corto termine. È una realtà che si riscon-tra sempre più spesso nell’economia. Ma in un’e-conomia di mercato sana, integrata a livello glo-bale, tutti i partner, sia quelli piccoli sia quelligrossi, concorrono parimenti al successo comune.Le singole ditte non hanno il compito di occuparsidell’aiuto allo sviluppo. Di questo si occupano glienti pubblici, soprattutto se concentrati sul setto-re della salute, dell’educazione e della formazione.

Un solo mondo: Ma non sussiste il pericolo chela cooperazione allo sviluppo sovvenzioni compi-ti che in realtà spettano all’economia privata?

Penso in particolare alla formazione professiona-le…

Gautschi: L’obiettivo principale della coopera-zione allo sviluppo è la lotta alla povertà.Negli ul-timi anni è stato chiaramente dimostrato che lo svi-luppo verso una società civile, come la immagi-niamo noi, e la possibilità per l’economia privatadi evolvere nel relativo paese in cui gli aiuti ven-gono impiegati sono strettamente connessi. L’unocondiziona l’altra.Del denaro pubblico che utiliz-ziamo in seno a questi processi devono beneficia-re innanzi tutto vasti strati della popolazione, so-prattutto nei settori della formazione, della salute,delle istituzioni sociali e dell’infrastruttura fisica.Noi non possiamo investire i nostri mezzi limita-ti in grandi aziende, non è d’altronde nostro com-pito.

Knapp: L’esperienza insegna che se il mercato èin grado di autoregolarsi noi possiamo ritirarci.Gautschi: Finché non sussistono premesse mini-

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me sul piano della stabilità, delle istituzioni, del-l’infrastruttura e della formazione,a nessuno vienein mente d’investire. Il nostro compito è pertantoquello di creare tali premesse.

Un solo mondo: La DSC possiede un ricco ba-gaglio d’esperienza e grandi conoscenze sulla col-laborazione con i paesi in via di sviluppo.L’economia se ne avvale?

Michel: Oggi molti leader dell’economia mon-diale riconoscono la necessità di aiutare i più po-veri – 90 percento dei quali sono donne – a rag-giungere il minimo vitale. Ed è importante chetutti noi ripensiamo insieme questi processi. Perdestare il necessario interesse e una certa com-prensione occorre una discussione approfondita,bisogna proporre soluzioni e impostare la comu-nicazione in modo realistico.

Knapp: Sono d’accordo sul fatto che ci siano an-cora delle lacune e che tutti noi potremmo bene-ficiare maggiormente delle conoscenze reciproche.L’esempio dell’Europa sud orientale dimostra tut-tavia che la cooperazione funziona già molto me-glio che in passato.Un solo mondo: L’economia privata sarà mai ingrado di sostituire la cooperazione allo sviluppodello stato?

Gautschi: Il mercato e l’economia privata nonpotranno regolare tutto, nemmeno in futuro.Esattamente come noi continuiamo a credere chelo stato abbia un suo ruolo, crediamo anche allanecessità di una cooperazione allo sviluppo stata-

le. Lo concepisco come un ente che nei prossimidecenni svilupperà visioni, politiche e modelli incollaborazione con i nostri partner. I target dellenostre azioni e anche la realizzazione di program-mi possono certamente approfondire la collabora-zione con l’economia privata.

Knapp: Dalla caduta del muro di Berlino e quin-di dalla scomparsa della frontiera fra est ed ovest alivello mentale e pratico si parla più liberamente econ maggior spirito critico fra paesi donatori e ri-ceventi su problemi quali corruzione o buona ge-stione degli affari pubblici. Spero pertanto che siala DSC che il seco si ritireranno da determinatipaesi per affidarli al mercato.

Michel: Il compito di un organo statale è innan-zi tutto regolatore; è una necessità perché tutti glistimoli dell’economia privata hanno sempre unacomponente egoistica. È tuttavia importante ri-uscire a rafforzare il sistema economico globale in-tegrando i più deboli.Non dovremmo quindi par-lare di beneficenza o aiuti, ma d’investimenti o disviluppo e cooperazione. ■

(Tradotto dal tedesco)

Women’s World Banking(WWB)WWB è l’unica rete globa-le esclusivamente gestitada donne. È composta da44 società consociate in37 stati, soprattuttonell’area meridionale menosviluppata. WBB funge daintermediaria per laconcessione di crediti pic-coli e minimi a donnepovere per consentire lorodi gestire un piccolo eser-cizio (agricoltura, piccolaindustria, servizi o com-mercio) e di nutrire così laloro famiglia.Nel 1999 la WWB ha sos-tenuto 321000 donne conun importo pari a 52 milio-ni di dollari. Dopo l’Olandae la Norvegia, la Svizzera èal terzo posto dei paesidonatori più importanti diWomen’s World Banking.La DSC versa alla WWBun milione di franchi l’annoe sostiene inoltre tre orga-nizzazioni consociate nelBangladesh, nella Bosnia-Erzegovina e nel Benin.www.swwb.org

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In Europa i festival di musicaafricana abbondano un po’ dap-pertutto. Purtroppo è molto raroche queste manifestazioni venga-no organizzate da africani.A questo proposito, il «FestivalIntegration» di Zurigo, la cuiquarta edizione si è svolta loscorso mese di settembre, costi-tuisce un’eccezione. Di naziona-lità congolese, io ne sono in effetti il principale organizzatoredal 1996.

Essendo africano, non organizzoqueste giornate alla maniera diun europeo. D’altronde un po’diconfusione ci vuole… è un ele-mento della cultura africana!Con questo non voglio affermareche le organizzo come si farebbein Africa, dove i posti sono gra-tuiti e le infrastrutture rudimen-tali. Qui, tutto deve essere con-forme alle norme europee: la lo-gistica, la tecnica, l’illuminazione,le sale… senza dimenticare lapubblicità.Tutto quanto richiedemolti soldi. Quest’anno il nostrobudget era di 180'000 franchi.

Sono stati alcuni amici senegalesimembri dell’associazione AfricaFreedom ad avermi suggerito, nel1996, d’organizzare un festivalculturale. Sfida che ho subito rac-colto, con la collaborazione diuna piccola equipe di tre perso-

ne. Molto rapidamente ci siamoresi conto che la ricerca di artistinon poneva alcun problema. Eraben più complicato otteneredalla polizia le necessarie autoriz-zazioni e trovare gli sponsor. Sindall’inizio si è trattato dei duecompiti più ardui – e lo sonotutt’ora.

Oggi il comitato organizzativoconta dodici persone.Abbiamogià realizzato con successo quat-tro edizioni del festival.Nondimeno, ciò non ci ha fattoguadagnare la fiducia di certi in-terlocutori, che ci ricevono an-cora come se fosse la prima volta.La caccia alle autorizzazioni uffi-ciali rimane un vero e propriopercorso di guerra. E gli sponsorsono reticenti.Vedendo che ilprogetto è gestito da un africano,essi temono sia poco serio o ad-dirittura irrealizzabile.

Il fatto che io sia africano, invece,facilita notevolmente i contatticon gli artisti. Sono dei fratelli.Possiamo discutere liberamentedelle questioni di «cachet», d’al-loggio, o di altri aspetti legati alloro concerto. Capiscono la miasituazione e sono disposti, all’oc-correnza, a fare concessioni.

Bisogna sottolineare che i musi-cisti provengono dall’intero spa-zio culturale nero. Non dimenti-chiamo che vi sono dei nerianche ai Caraibi, nelle Antille, inBrasile… in sostanza, su tutto ilcontinente americano. Parlare diun «festival africano» equivale asottintendere che sia dedicatoesclusivamente all’Africa. Eccoperché preferisco parlare di «fe-stival dell’integrazione», espres-sione che dissipa l’idea di frontie-re fra le comunità nere – comu-nità che devono rendersi contodi condividere la stessa cultura.

«Integration» non vuole solopresentare la cultura africana at-traverso strumenti tradizionalicome il tam-tam, la cora, eccete-ra, bensì ha la chiara ambizionedi risaldare i neri che vivono inesilio e di sostenere i loro sforzid’integrazione in seno alle socie-tà europee.Africa Freedom had’altronde tenuto a includere nelprogramma un tema sociale lega-to a questioni d’attualità.Quest’anno abbiamo propostoun dibattito sull’epidemia diAIDS in Africa. ■

(Tradotto dal francese)

Louis Mombunasce nello Zaire, la futuraRepubblica Democratica delCongo. All’età d’otto anni arriva inBelgio con la famiglia. Segue unaformazione d’ufficiale all’École ro-yale militaire de Belgique. Nel1977 si trasferisce a Ginevra, dovesegue un apprendistato di mecca-nico di precisione nel settore dellametallurgia. Da una dozzina d’annivive a Zurigo. Inizialmente, nellacittà sulla Limmat esercita la pro-fessione di utensilista. Poi si lancianella cultura, fondando nel 1993l’associazione Africa Freedom,che organizza dapprima concertie, dal 1996, il «FestivalIntegration».

Come se fosse la prima volta…

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Maggio 2000, a Dakar, in una salariunioni della «Maison des Élus». Ilnoto scrittore africano AhmadouKourouma ha parole provocatorienei confronti dei giovani esordientiautori di testi cinematografici:«Questo vostro senso di rispettonon ha motivo di essere.L’approccio con i nostri miti dovràper voi avere una sua forma ludica.Essi dovranno rappresentare soltan-to materiale utile alla vostra ener-gia immaginativa.Avvicinatevi inmaniera critica alla nostra stessacultura».La scena: un seminario delProgramma di formazione «Africa& Pinocchio». Gli organizzatorihanno invitato, nelle vesti di relato-re, l’arguto Kourouma, ben notoper il suo umore collerico.L’anziano maestro è qui per inco-raggiare un gruppo di cineasti, pre-valentemente composto da giova-ni, ad essere più creativi. «L’autoreafricano tende a proteggere la suapropria cultura. E dunque, non la

mette in discussione», spiega unodei partecipanti, l’autore di testi ci-nematografici senegalese AbabacarDiop, che aggiunge: «Fa così inquanto già da piccolo si è confron-tato con una constatazione: i bian-chi non hanno stima per la culturadei neri».

L’ombra è una costante di ognigrande figuraLa carente grinta degli autori afri-cani è soltanto uno dei punti de-boli. C’è di più: il cinema africanoè sempre più dominato da grandifigure, composite, che si occupano,in proprio, di molto: scrivono i co-pioni, producono e realizzano ilfilm. E trattano i loro produttoricon un fare da matrigna, quasi fos-sero un male necessario.La conseguenza: una minoranza diproduttori africani impara a muo-versi nel modo che le consentemaggiori spazi operativi. In parti-colare, come vero partner del regi-

sta, con il quale intrattiene un dia-logo critico-costruttivo. Per altro,sino ad oggi non esisteva alcunapossibilità formativa che tenesseconto della specifica situazione incui si trovano gli autori di cinemaafricani.Sono queste le carenze che «Africa& Pinocchio», programma di for-mazione che ha preso le mosse neldicembre del’99, dovrebbe aiutarea superare. L’iniziativa che ha por-tato a questo programma è statapresa da FOCAL, che è poi laFondazione svizzera per la specia-lizzazione in film e audiovisivi. Essaopera insieme alla francese PendentACT Formation e con la CINE-SEAS, associazione dei cineasti se-negalesi. La gente del CINESEASsi occupa in modo determinante di«Africa & Pinocchio». Senza un ri-scontro locale, il programma – cheha anche il sostegno della DSC –non avrebbe grande significato.

Questo programma, davvero origi-nale, almeno per la realtà africana,offre una formazione nell’ambitodi concreti progetti cinematografi-ci. Il gruppo è composto da ottoteam, che elaborano singolarmenteprogetti esecutivi di cortometraggiper la TV rivolti ai bambini africa-ni. Ogni team è composto da unautore del testo e da un produttore.

L’Africa non è certo ilGiapponeMa perché proprio cortometraggiper bambini per la TV africana?Così ci risponde, Pierre Aghté,della FOCAL, padre spirituale del

Al momento attuale, scenografi ed autori di testi cinematografici africani sem-brano impegnati in un unico programma di formazione: Africa & Pinocchio. Sonootto i gruppi che stanno lavorando attualmente ad una serie di film televisivi peri bambini africani. Toni Linder* ci illustra un seminario cui ha avuto modo di par-tecipare in Senegal.

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Storie di cinema, di Africa & Pinocchio

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progetto: «I partecipanti al corso,ovviamente, avrebbero tutti il de-siderio di girare un vero film peril cinema. Ma noi puntiamo inve-ce su cortometraggi di 26 minutiin formato TV, perché con questiè possibile realizzare un maggiorintroito finanziario; le possibilitàche tali progetti alla fine venganodavvero realizzati sono abbastanzabuone».Film per bambini ben fatti sono,sui canali TV africani, merce piut-tosto rara, e per di più molti diessi mostrano una realtà che benpoco ha a che vedere con i bam-bini africani. I bambini dell’Africavivono in maniera molto diversadai loro coetanei di Tokyo, LosAngeles o Zurigo. L’assistenza e laconsulenza a questi team di cinea-sti è fornita da professionisti tele-visivi provenienti dal Nord e dalSud. L’intero processo formativoha la durata di un anno.Alla fine,

tutti avranno imparato qualcosa, eci saranno – pronti per essere sot-toposti all’attenzione delle stazionitelevisive africane – otto buoniprogetti di film televisivi. Già nellasua fase iniziale, «Africa & Pinoc-chio» ha consentito di osservareche i cineasti partecipanti hannoin mente soggetti buonisti e poli-ticamente fin troppo corretti. Ilproduttore mozambicano PedroPimenta, uno dei due mentori diquesto programma formativo, selo spiega in questo modo: «Moltiautori africani scrivono come sedovessero presentare il loro pro-

getto di film ad una delle molteopere assistenziali del Nord, perottenere da essa il finanziamentonecessario alla realizzazione. Così,il tono è didattico e smaccata-mente indirizzato ai temi preferitida quelle organizzazioni: ambien-te,Aids, promozione della donna,ecc. Certi testi sono nutriti dibuone intenzioni, sarà pur vero,ma non interessano nessuno, figu-riamoci poi i bambini!»Sotto la guida dello sceneggiatoree regista svizzero Denis Rabaglia(«Azurro»), si provvede, in quel diDakar, a limare gli aspetti dram-maturgici dei lavori ed a liberare iprogetti da tutte le accondiscen-denze nei confronti della mentali-tà da opera assistenziale. In talmodo, può succedere ad esempioche un concetto di politica am-bientale finisca escluso dai minuti

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del cortometraggio; per contro,Rabaglia incoraggia i suoi colleghia scrivere copioni più corti e pre-gnanti, a far muovere i loro prota-gonisti con maggiore vivacità, amostrare l’inasprirsi di certi con-flitti.

Hollywood come modello?Rabaglia spiega ad autori e pro-duttori qual è la classica strutturadi un copione. Proprio come siinsegna nelle scuole del grandemodello Hollywood. E dunque lereazioni dalla Svizzera non si sonofatte attendere, si è parlato addirit-tura di una sorta di fascismo dimercato. Insomma, di un qualcosache finirebbe per far perdere l’i-dentità, e magari anche l’anima, adautori locali le cui storie tipica-mente africane non troverebberopossibilità di essere realizzate.I partecipanti al seminario ironiz-zano su questo aspetto. «Tale ri-

flessione impegna voi europeimolto più di noi che viviamo elavoriamo in Africa», afferma il ci-neasta nigeriano Alfred Dogbe.«Le nostre particolarità africanenon soffrono di certo se noi, du-rante questo corso, impariamo imetodi operativi di Hollywood.La nostra immaginazione è suffi-cientemente forte per allontanarci,se necessario, da certi modelli».Dogbe è troppo cortese, e non siesprimerà mai in maniera direttasu come tale genere di preoccupa-zioni europee vengono recepitedalla mente di un africano: e cioè,paternalistiche e sprezzanti valuta-zioni della creatività africana.

Il seminario di Dakar è il secondodell’intero ciclo di formazione. Inagosto, i consulenti ed i team sisono incontrati a Segou, nel Mali.I progetti in questione riceveran-no la rifinitura conclusiva con

l’assegnazione del titolo «Contes àrebours», nel mese di novem-bre 2000, durante il seminarioconclusivo di Tolosa.Dipenderà dalla qualità delle ottodocumentazioni di progetto se ildenaro necessario a produrre ef-fettivamente i cortometraggi saràdisponibile o meno. Ovviamente,da una buona riuscita in questafase, scaturirà l’eventuale decisionedi ripetere per la seconda voltatale programma formativo.Organizzatori e partecipanti sono,al proposito, dichiaratamente otti-misti. ■

* Toni Linder è collaboratore dellaSezione Media e Comunicazionedella DSC.

(Tradotto dal tedesco)

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Educazione e sviluppo(bf) Siete interessati a pubblicazio-ni e manifestazioni sui rapportiNord-Sud, la multiculturalità, ilrazzismo, i diritti umani, la pace elo sviluppo sostenibile? Questisono infatti i temi prioritari deiquali si occupa dal 1997 laFondazione «Educazione e svilup-po». Ora essa è reperibile in inter-net al sito www.globaleducation.ch.Chi lo visita trova non solo il ca-lendario aggiornato delle manife-stazioni, ma anche un elenco dellenuove pubblicazioni concernentil’apprendimento globale, una pa-noramica dei corsi proposti dallaFondazione, con sede a Berna, at-traverso i suoi tre centri regionalidi Zurigo, Losanna e Lugano,nonché numerosi altri ragguagliutili.Fondazione «Educazione e sviluppo»www.globaleducation.ch

Protezione della natura epaesi in via di sviluppo(bf) Ogni giorno si estinguononumerose specie di animali e divegetali, la maggior parte dellequali non sono mai state né sco-perte né descritte scientificamen-te. Questa diminuzione delle spe-cie è particolarmente drastica neipaesi in via di sviluppo, dove la di-versità biologica è di gran lungasuperiore a quella riscontrabile neipaesi industrializzati. La protezio-ne della natura nei paesi in via disviluppo assume perciò una prio-rità assoluta nell’ambito della con-servazione globale dei sistemi eco-logici naturali.Nell’opera «Naturschutz inEntwicklungsländern» 37 espertiin materia di protezione della na-tura e cooperazione allo sviluppo– dalla biologa e dalla sociologa albiochimico e all’agronomo – pre-sentano problemi d’attualità enuove soluzioni per la conserva-zione della diversità biologicanei paesi in via di sviluppo, creandocosì un’opera di riferimento inquesto campo.«Naturschutz in Entwicklungsländern»,

(apparso solo in tedesco) MaxKasparek Verlag

Una denuncia infuocata(bf) Lo scrittore AhmadouKourouma della Costa d’Avorio,in Africa occidentale, ha raggiuntodi colpo la notorietà nel 1963 conil romanzo «I soli delle dipenden-ze». In seguito ha creato una pièceteatrale che gli è costata 20 annid’esilio. Oggi l’ex matematico at-tuariale vive e scrive di nuovo nelsuo paese. E di nuovo ha fattocentro con la sua ultima opera, in-titolata «En attendant le vote desbêtes sauvages», che da mesi guidain Francia la classifica dei best sel-ler, essendo nel contempo cele-brata come il romanzo politicod’Africa. Kourouma vi racconta,in modo avvincente e mordace,delle storie incredibili di grandicacciatori e di dittatori assetati disangue. Con una comicità esila-rante descrive la vita e le avventu-re galanti dei suoi antieroi, tramu-tando impercettibilmente l’odedel poeta di corte in un’infuocatadenuncia di ogni abuso di potere.Ahmadou Kourouma: «En attendantle vote des bêtes sauvages», Editionsdu Seuil, Parigi; o nella versione tede-sca: «Die Nächte des grossen Jägers»,Peter Hammer Verlag

La scultura su legno e il suosimbolismo(bf) Nell’area di frontiera tra la sa-vana d’Africa occidentale e la fo-resta vergine centroafricana, dun-que nelle steppe occidentali delCamerun, esiste da secoli la tradi-zione della scultura su legno.L’autore elvetico Hans Knöpfli,che per decenni ha vissuto in

questa regione studiandone l’arti-gianato locale, ha pubblicato di re-cente il suo secondo volume sullesculture lignee e il loro simboli-smo. «Sculture and Symbolism –Woodcarvers and Blacksmiths» siindirizza sia ad artigiane e artigia-ni, sia ai profani interessati allacultura e all’artigianato africani.L’opera contiene descrizioni parti-colareggiate e fotografie delle piùsvariate sculture e tecniche discultura, nonché appassionanti ri-tratti di fabbri e carbonai.«Sculpture and Symbolism –Woodcarvers and Blacksmiths» è usci-to in inglese ed è ottenibile presso:«Zur Kalebasse» – Kunsthandwerkaus Übersee, Missionsstrasse 21,4003 Basilea

Scontro tra Oriente eOccidente(bf) Nonostante che la sua operasia relativamente esigua, il sudane-se Tayeb Salih è indubbiamenteuno degli autori contemporaneidi spicco del mondo arabo.Questo scrittore, che da anni vivea Londra, ha raggiunto la notorie-tà internazionale con il suo primoromanzo «La stagione delle mi-grazioni a Nord» (Sellerio,Palermo, 1992), un libro di cultotra gli intellettuali arabi, nonchéun classico della letteratura araba.Con il titolo «Eine HandvollDatteln» sono ora stati pubblicatianche in versione tedesca noveracconti che egli aveva scrittooltre 40 anni fa, ma che strana-mente – malgrado la globalizza-zione – non hanno perso nulladella loro attualità.Tutti ruotano

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attorno al grande tema di Tayeb,quello dello scontro fra l’Orientee l’Occidente, fra la tradizione ela modernità. Servendosi di unlinguaggio ricco di poesia e diimmagini, egli descrive la culturaislamica e la vita degli abitanti delvillaggio ancora radicati nella tra-dizione e nei miti, ma sempre piùspesso confrontati con il progressoe lo sviluppo. In lingua italianasono stati tradotti finora solo dueracconti di Tayeb Salih.Tayeb Salih, Un pugno di datteri –Lettera a Helen, in Narratori arabi delNovecento, Bompiani, Milano, 1994Tajjib Salich, «Eine HandvollDatteln, Erzählungen aus demSudan», Lenos Verlag, Basel 2000

Incontri sulla via lattea(bf) Cime innevate avvolte in unacaligine opaca, cielo blu, prati dal-l’erba folta, vacche grasse. Da lon-tano giunge il tintinnio dellecampane. Un uomo seduto sullacresta del colle tenta di attirare agesti una mucca. L’immagine sa-rebbe kitsch se il pastore non fosseun contadino di etnia peul delBurkina Faso, che per proteggersidal freddo ha avvolto il turbanteattorno al capo. La scena è trattadal film «Q Begegnungen auf derMilchstrasse» dello svizzero JürgNeuenschwander e condensa conpoesia il messaggio della pellicola:la gente può scoprire aspetti fami-liari in ciò che le è estraneo, easpetti estranei in ciò che le è fa-miliare.Tre allevatori e lattai delMali e del Burkina Faso compio-no un viaggio in Svizzera per an-dare a trovare tre colleghi nelSeeland e dell’Oberland bernesi.Improvvisamente scoprono puntiin comune e differenze, cambia-menti e cose familiari – in Africa

e in Svizzera. Il film – sovvenzio-nato anche dalla DSC – è statopresentato in prima visione all’ul-timo Festival del film di Locarno,dove ha suscitato un lungo ap-plauso.«Q Begegnungen auf derMilchstrasse» da metà novembre nellesale cinematografiche elvetiche

Domani sono magari giàmorto(dg) In Colombia vengono ucciseogni giorno delle persone.Tra essemolti giovani. Sono vittime di unaviolenza senza scrupoli, di unalotta crudele per le droghe, il de-naro e il potere. Di fronte a essa sidifendono giovani come Ever diBogotà o Dora di Medellin, chelottano per un futuro pacifico esicuro nel loro paese. Non con laviolenza, ma con la musica rap.Compongono infatti delle opereche presentano nei quartieri pove-ri, esprimendo ciò che sentonodentro di sé. Il film descrive lapaura, la miseria, ma fa anche sen-tire la voglia di vivere che animaEver e Dora.Rita Erben, Deutschland 1996. Intedesco, video VHS, 30 min., do-cumentario.Noleggio/vendita: Fachstelle «Filmefür eine Welt», tel. 031398 20 88,[email protected], www.filmeei-newelt.ch

Una panoramica suggestiva(er) Vanno di moda i sampler.Riuniscono i titoli più gettonatidi varie interpreti e vari interpreti,rispettando quale unico criterioquello dell’indirizzo musicale, mariducendoli peraltro a essere per-fettamente intercambiabili. Unaltro tipo di scelta è invece quella

compiuta dal sampler «UrbanAfrica Now!», presentato dallaDSC. Esso riflette il vivace mondomusicale delle città africane, doveriverbera il sound mbalax e was-soulou, dove afrobeat, bikutsi, sou-kous, jive e reggae ti fanno vibra-re, dove zoblazo, marrabenta ehip-hop raggiungono il rap, doveavanza travolgente l’onda drum’-n’bass e lo stile disco kwaitò si tra-muta in estasi groove.Vi contri-buiscono tanto i brani di star afri-cane ancora sconosciute allenostre latitudini – quali BrendaFassie, Régis Gizavo o Mabulu –quanto quelli di musicisti afferma-ti a livello internazionale, qualiYoussou N’Dour o Cheikh Lô.Persino agli aficionados questa ri-uscita miscela assicura delle sco-perte sorprendenti, dato che quasila metà dei brani non è reperibilein Europa e che alcune registra-zioni sono disponibili per la primavolta su CD! È ideale per chi siavvicina da neofita al mondo mu-sicale africano, dato che la sua cu-riosità sarà ulteriormente stimola-ta da un libretto oltremodo istrut-tivo e di piacevole lettura. Ilperfetto regalo di Natale!«Urban Africa Now!»,Trace / COD

Feeling afro-brasiliano(er) Gli attraenti e variopinti CDdella casa discografica statunitense«Putumayo World Music» costi-tuiscono un’interessante collezio-

ne di compilation eclettiche eparticolarmente riuscite, conside-rando che la priorità è data allamusica latinoamericana, africana edi tradizione celtica. In questoambito è anche stato prodotto ilsampler «Festa Brasil». Stando altesto di copertina propone un«party non-stop» con headlinerquali la shootingstar Chico Césaro il leggendario divo Gal Costa.Visi può però ascoltare anche lavoce cristallina di Rita Ribeiro o ivirtuosi riff chitarristici di PepeuGomes. Così l’album della Putudocumenta, con 12 titoli di travol-gente reggae brasiliano della re-gione di Bahia e accordi di forródel Nordeste, una musica chepone al centro la fisarmonica, ilflauto, la chitarra e il ritmo battu-to dai piedi nella danza. In questaribollente miscela di feeling afro-brasiliano l’invito è:Vamos pra estafesta!«Festa Brasil», Putumayo WorldMusic/Disques Office

Una collezione transglobale(er) I suoni del flauto e del sitardanno carattere a un track hip-hop. Il sound da dancefloor si uni-sce ai ritmi latinoamericani.Attacchi di rai e di rap si alterna-no. Nella registrazione confluisco-no house, jungle, dub, reggae,salsa… Da ascoltare sono tra l’al-tro Indian Ropeman, Sly andRobbie, Cheb Mami, ManuChao, P 18, Sergent Garcia, BaabaMaal. Con l’album «Phat Global#1» i produttori della casa disco-grafica Palm Pictures hanno in uncerto senso compiuto una sceltatransglobale tra i titoli già uscitidei più svariati indirizzi stilistici,nonché delle artiste e degli artistipiù svariati. Essi presentano così,in maniera quasi sensuale e ine-briante, e in una nuova, affasci-nante combinazione, il mondodella world music impegnata.«Phat Global #1», PalmPictures/COD Music

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Impressum«Un solo mondo» esce quattro volte l’anno in italiano,tedesco e francese.

Editrice:Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) delDipartimento federale degli affari esteri (DFAE)

Comitato di redazione:Harry Sivec (responsabile) Catherine Vuffray (vuc)Sarah Grosjean (gjs) Andreas Stuber (sbs)Reinhard Voegele (vor) Joachim Ahrens (ahj)Beat Felber (bf) Gabriella Spirli (sgb)

Collaborazione redazionale:Beat Felber (bf – Produzione)Maria Roselli (mr)Gabriela Neuhaus (gn)Jane-Lise Schneeberger (jls)

Progetto grafico:Laurent Cocchi, Losanna

Litografia: City Comp SA, Morges

Stampa: Vogt-Schild / Habegger AG, Solothurn

Riproduzione di articoli:La riproduzione degli articoli è consentita previaapprovazione della redazione e citazione della fonte.Si prega di inviare una copia alla redazione.

Abbonamenti:La rivista è ottenibile gratuitamente presso: DSC,Sezione media e comunicazione, 3003 Berna,Tel. 031322 44 12Fax 031324 13 48E-mail: [email protected]

26139Stampato su carta sbiancata senza cloro per laprotezione dell’ambienteTiratura totale: 42000Copertina: Hiem Lam Duc / Vu

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«Svizzera oltre», la rivista delDipartimenta federale degli affari esteri(DFAE), presenta temi attuali dellapolitica estera svizzera.Esce cinque volte all’anno in italiano,francese e tedesco.

Ci si può abbonare gratuitamenterivolgendosi a:«Svizzera oltre»c/o Schaer Thun AGIndustriestr. 123661 Uetendorf

– classiche canzoni liriche religiose –al Danat, canti poetici di improntaurbana, sino al Muwashshah, che èil più tradizionale dei canti arabi.Il 26 gennaio 2001 nella Sala FrankMartin del Collège Calvin, Rue de laVallée, Ginevra.

Agricoltura internazionaleL’Università agraria svizzera, aZollikofen (BE), offre numerosicorsi di formazione post laurea inagricoltura internazionale. Ilprogramma contempla una vastascelta di corsi nei seguenti settori:agricoltura e sviluppo mondiale;strumenti e metodi, analisi deisistemi; produzione delle piantetropicali; produzione degli animalitropicali; economia agraria; mercatiagrari e politica agraria. I corsi sonotenuti in francese e in inglese.Per informazioni: Haute école suissed’agronomie, Länggasse 85, 3052Zollikofe/Bern, tel. 031910 21 11;e-mail: [email protected];Internet: www.shl.bfh.ch

Agendamondiale, sulle realtà di allora, ed orasente di nuovo quelle lontane radicidel Raï: sobrie percussioni e suoni diflauto accompagnavano allora leimpietose canzoni cantate da donnedi dubbia fama nei locali notturni diOrano; le parole dell’alcol, dell’amore, della nostalgia e del sesso.Cheikha Rimitti, con la sua «Bluesda Orano» è senza dubbio una dellamaggiori figure della musica delMaghreb.Il 17 gennaio 2001 nel Kaufleuten diZurigo.

Un maestro del canto araboL’Atelier di etnomusicologia èriuscito a portare in Svizzera, per ununico concerto, Mohammad Aman,uno dei maggiori virtuosi del cantoarabo. Sia nella sua terra, l’ArabiaSaudita (l’artista è originario diLa Mecca), che nei concerti nelBahrain, Tunisia ed Egitto,Mohammad Aman è consideratoormai da trent’anni uno dei maggioriinterpreti del suo genere musicale.È anche uno dei pochi capace dipadroneggiare le molte e svariatevenature del canto e della musica diimpronta araba: dal Maqâm Majassan

Bejarano, Aziyadé Ruiz, CarlosMontes de Oca, Hugo Rubio eRamón Casas – presenteranno ora,per la prima volta in Svizzera, le loroopere. «Artistas de Camagüey»mostrerà un ampio ventaglio dellafeconda attività degli artisti di Cuba.Fino al 13 gennaio 2001 nell’Havana-Galerie, Dienerstrasse 50, Zurigo.

La grande vecchia signora delRaï«Remettez!» significa «ne versiancora!»: È da questa esortazione cheviene il nome di Sadia Bédief, nata inAlgeria nel 1923, e meglioconosciuta con il nome d’artista diCheikha Rimitti. Questa vecchiasignora del Raï canta da oltre mezzosecolo. Iniziò a cantare ed improv-visare negli anni della seconda guerra

Suoni creoliZouk è la musica della gente diGuadalupa e Martinica – isolefrancofone dei Caraibi, nell’arci-pelago delle Piccole Antille – cosìcome della Guyana francese. Il creolone è invece contemporaneamentelingua e cultura. Il gruppo musicale«La Compagnie Créole» è uno deimassimi interpreti della musica zouk,ed è ammirato anche in altre terrefrancesi d’oltremare, dalla NuovaCaledonia all’Oceano Indiano, edancora di più da quando questaformazione composta da diecimusicisti ha ampliato il gruppoingaggiando giovani artisti zoukoriginari dell’Africa e dei Caraibi.Il prossimo 14 dicembre, nel TeatroBenno Besson, Rue du Casino adYverdon.

Artisti cubani in SvizzeraA Cuba esistono in tutto undiciscuole d’arte. Quella di Camagüey haavuto per lungo tempo una fama diistituto molto chiuso, fortementedominato da influenze provenientidalle accademie sovietiche. Cinque,tra pittori, scultori e fotografi dellaprovincia di Camagüey – Agustín

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DE L LO SVI LUPPO E

DE L LA COOPERAZ IONE

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Nella prossima edizione:

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