Storia Del Diritto Medievale e Moderno

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Storia del diritto medievale e moderno I longobardi Nel 568, quindi solo dopo 4 anni dalla morte di Giustiniano, l'Italia fu invasa dai Longobardi. Erano costoro dei barbari originari della Scandinavia, ferocissimi e implacabili guerrieri. Quando i Longobardi, guidati dal re Alboino, invasero la penisola, l'Italia era sotto il controllo dell'Impero d'Oriente. Dopo l'invasione l'Italia rimase divisa in due: una parte occupata dai Longobardi, l'altra rimase sotto il dominio bizantino. L'Italia perdeva così la sua unità politica, che avrebbe riacquistato solo 1300 anni dopo. La capitale del regno longobardo fu prima a Verona e poi a Pavia. La strategia adottata per l’occupazione aveva finito per disperdere i conquistatori in tanti distretti autonomi (ducati), disposti a riconoscere l’unità solo in tempo di guerra, ma non a sottomettersi in tempo di pace. La dominazione longobarda fu, inizialmente, crudele e oppressiva. I vecchi abitanti della penisola furono ridotti in una condizione servile o para-servile, i terreni furono espropriati, le leggi germaniche presero il posto delle leggi romane. La gerarchia sociale era così composta: · Al vertice della gerarchia sociale c'erano gli arimanni , i guerrieri che costituivano l'esercito e facevano parte della assemblea popolare ( Gairethinx ), preposta ad eleggere il re e ad assisterlo nelle decisioni più importanti. · Venivano poi i gli altri Longobardi , unici che potessero considerarsi "uomini liberi" e che detenevano la maggior parte della proprietà terriera. · Alla base della piramide sociale erano i Latini , considerati "semi-liberi" o "non liberi". Con il tempo le differenze tra Longobardi e Latini si attenuarono e i Latini riuscirono addirittura a rivestire cariche di rilievo. Anticamente pagani, i Longobardi si erano poi convertiti all'arianesimo. Essi perseguitarono i cattolici, bruciarono le chiese, confiscarono i beni agli ecclesiastici. Solo da quando divenne regina la cattolica Teodolinda (591) l'atteggiamento dei Longobardi verso i cattolici si fece progressivamente più mite; sotto l'impulso di Papa Gregorio Magno (590-604) la regina decise infatti di convertire il suo popolo al cattolicesimo. La conversione fu piuttosto lenta, e per anni la popolazione longobarda fu divisa tra ariani e cattolici, fino alla prevalenza di questi ultimi. Il più grande re longobardo del VII secolo fu certamente Rotari (636-652; Duca di Brescia, successe ad Arioaldo, avendone sposato la vedova Gundeberga. Combatté contro i bizantini, ai quali sottrasse la Liguria (643) e Oderzo, nel Veneto e frenò le ambizioni autonomistiche dei duchi). Egli emanò il celebre Editto che porta il suo nome, nel quale raccolse tutte le leggi civili e penali, codificando il diritto consuetudinario longobardo, aprendolo però all'influenza del cristianesimo e del diritto romano. Editto di Rotari (22 novembre 643 d.c.)

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Storia del diritto medievale e moderno I longobardiNel 568, quindi solo dopo 4 anni dalla morte di Giustiniano, l'Italia fu invasa dai Longobardi. Erano costoro dei barbari originari della Scandinavia, ferocissimi e implacabili guerrieri. Quando i Longobardi, guidati dal re Alboino, invasero la penisola, l'Italia era sotto il controllo dell'Impero d'Oriente. Dopo l'invasione l'Italia rimase divisa in due: una parte occupata dai Longobardi, l'altra rimase sotto il dominio bizantino. L'Italia perdeva così la sua unità politica, che avrebbe riacquistato solo 1300 anni dopo. La capitale del regno longobardo fu prima a Verona e poi a Pavia. La strategia adottata per l’occupazione aveva finito per disperdere i conquistatori in tanti distretti autonomi (ducati), disposti a riconoscere l’unità solo in tempo di guerra, ma non a sottomettersi in tempo di pace. La dominazione longobarda fu, inizialmente, crudele e oppressiva. I vecchi abitanti della penisola furono ridotti in una condizione servile o para-servile, i terreni furono espropriati, le leggi germaniche presero il posto delle leggi romane.La gerarchia sociale era così composta:

·       Al vertice della gerarchia sociale c'erano gli arimanni , i guerrieri che costituivano l'esercito e facevano parte della assemblea popolare ( Gairethinx ), preposta ad eleggere il re e ad assisterlo nelle decisioni più importanti.·       Venivano poi i gli altri Longobardi , unici che potessero considerarsi "uomini liberi" e che detenevano la maggior parte della proprietà terriera.·       Alla base della piramide sociale erano i Latini , considerati "semi-liberi" o "non liberi".

Con il tempo le differenze tra Longobardi e Latini si attenuarono e i Latini riuscirono addirittura a rivestire cariche di rilievo. Anticamente pagani, i Longobardi si erano poi convertiti all'arianesimo. Essi perseguitarono i cattolici, bruciarono le chiese, confiscarono i beni agli ecclesiastici. Solo da quando divenne regina la cattolica Teodolinda (591) l'atteggiamento dei Longobardi verso i cattolici si fece progressivamente più mite; sotto l'impulso di Papa Gregorio Magno (590-604) la regina decise infatti di convertire il suo popolo al cattolicesimo. La conversione fu piuttosto lenta, e per anni la popolazione longobarda fu divisa tra ariani e cattolici, fino alla prevalenza di questi ultimi. Il più grande re longobardo del VII secolo fu certamente Rotari (636-652; Duca di Brescia, successe ad Arioaldo, avendone sposato la vedova Gundeberga. Combatté contro i bizantini, ai quali sottrasse la Liguria (643) e Oderzo, nel Veneto e frenò le ambizioni autonomistiche dei duchi). Egli emanò il celebre Editto che porta il suo nome, nel quale raccolse tutte le leggi civili e penali, codificando il diritto consuetudinario longobardo, aprendolo però all'influenza del cristianesimo e del diritto romano.Editto di Rotari (22 novembre 643 d.c.)Rotari raduna il suo popolo   mettendo insieme i guerrieri che poteva da tutti i ducati, l’obbiettivo era la conquista della Liguria in mano ai bizantini, obbiettivo che riesce a perseguire. Tornato indietro a Pavia, capitale del regno, egli chiama a se tutto l’esercito per mettere in pratica un’idea che egli bramava da tempo; infatti, resosi conto che le leggi orali vigenti sono diventate ormai inattendibili, sente il bisogno di codificarle, ma, allo stesso tempo, di rivisitarle e aggiornarle, con il preciso intento di rafforzare il potere monarchico, di consolidare politicamente le strutture del regno e di impedire una manipolazione arbitraria del diritto. Il progetto sotteso era quello di trasformare in monarchia ordinata una dominazione nata come sfruttamento militare.L’editto è la prima raccolta legislativa longobarda, composta da 388 capitoli e le materie in esso trattate appaiono disposte secondo un ordine prestabilito: un primo gruppo di capitoli tratta dei reati politici; seguono i reati contro le persone e quelli contro le cose; con una rubrica intitolata alla filiazione legittima ha inizio la trattazione del diritto di famiglia e successorio, compresi i reati contro il matrimonio. Seguono i diritti reali e le obbligazioni, i reati minori e i danneggiamenti, nonché un breve gruppo di capitoli dedicati alla materia processuale. I capitoli conclusivi (367-388), riguardanti diverse materie, probabilmente sono frutto di aggiunte posteriori, apposte a scopo di integrazione o di correzione di capitoli precedenti. Oltre che dall’antichissimo diritto consuetudinario longobardo l’Editto fu influenzato in modo formale e sostanziale dal diritto teodosiano, dalla compilazione giustinianea, da fonti biblico-ecclesiastiche ma, soprattutto, dalle altre legislazioni barbariche: dal diritto visigoto in primis , dei Burgundi, dei Bavari, degli Alemanni e dei Salii. Lo stesso Rotari scrive di aver redatto il codice coinvolgendo l’intero esercito eseguendo un solenne Gairethinx, al fine di confermare la legge e renderla inviolabile ed inattaccabile. L’idea dell’approvazione popolare piaceva perché essa sembrava corroborare la concezione pattizia della

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norma – accordo tra re e popolo – che gli storici descrivono come originaria del popolo germanico. Nel suo complesso l’Editto contribuì, in maniera decisiva, a rendere più consapevole la popolazione longobarda di costituire una comunità unitaria della quale era superiore garante l’autorità regia. Fu un potente strumento di conservazione dello spirito nazionalistico e della coesione di stirpe tra i Longobardi. Il testo venne redatto in latino, un latino quanto mai rozzo, oscuro e costellato di germanismi intraducibili.Tariffario delle peneDall’Editto traspare un diritto penale imperniato sulle composizioni pecuniarie, che si traduce in un tariffario eminentemente casistico, variabile a seconda dello status dell’offeso. Centrale è a questo proposito la nozione di guidrigildo, che è il prezzo dell’uomo libero: la somma (ingente) che deve essere pagata alla famiglia dell’ucciso in caso di omicidio. Si mira così a disincentivare il ricorso alla faida, prospettando un’allettante alternativa di risarcimento economico.La donnaInteressante è la condizione della donna. Essa, priva di guidrigildo (ma il suo omicidio comporta una pena non inferiore a quella comminata per l’uccisione di uomo), è permanentemente soggetta al mundio , un istituto che per certi aspetti è riconducibile alla tutela romana, per altri alla potestas e alla manus. In realtà il mundio mantiene caratteristiche peculiari. Il mundoaldo (chi ha il potere di esercitare il mundio) autorizza i contratti della donna, che non può alienare o donare alcun bene senza il suo consenso; compie la desponsatio della donna e la consegna al marito all’atto del matrimonio; ne permette la monacazione; esercita su di lei un potere disciplinare, del quale non può però abusare. All’atto del matrimonio, il marito acquisisce la potestà familiare sulla donna, ma non necessariamente il mundio; se vuole acquisirlo, deve comprarlo. Altrimenti il mundio resta nelle mani del padre della donna; esso può essere trasmesso per eredità, cosicché i figli possono acquisire il mundio sulla propria madre. Il pagamento del mundio da parte del marito al momento del matrimonio ha indotto taluno ad affermare che il matrimonio fosse in realtà una compravendita della donna, perfezionata dalla traditio della donna stessa al marito; tuttavia, il consenso della donna è sempre necessario, allorché è prevista la perdita del mundio per il mundoaldo che l’avesse costretta a prendere marito. Alla donna vanno poi i doni dello sposo, il morgincap (o pretium virginitatis ) e la meta (o meffio), nonché una parte delle sostanze paterne, proporzionata alle sue aspettative ereditarie.SuccessioniL’Editto regola anche la successione e pone limitazioni alla facoltà di disporre dei beni ricevuti in eredità: essi possono essere alienati solo per necessità e col consenso di tutti i familiari.Obbligazioni e altri atti formaliPer quanto concerne il diritto delle obbligazioni, è da dire che i Longobardi fanno propri i contratti tipici del diritto romano: compravendita, locazione-conduzione, enfiteusi, mutuo e così via. A questi si affiancano peraltro atti formali e riti produttivi di effetti obbligatori. Per quanto riguarda gli atti formali propri del popolo longobardo possiamo distinguere:

·       Il thinx o gairenthix è un atto mortis causa, con cui si dispone del patrimonio a favore di estranei, che ricalca le forme del testamentum per aes et libram dei Romani, effettuato mediante mancipatio (alla presenza di cinque testimoni e di un libripens, con la mano poggiata sull’oggetto del negozio, l’acquirente recita una formula, con un frammento di metallo grezzo percuote la bilancia, come in una simbolica pesatura e la porge all’alienante). Il beneficiario acquistava i beni in possesso del disponente solo alla morte di quest’ultimo. Il disponente ( thingans ) aveva, quindi, l’obbligo di non disperdere in vita il proprio patrimonio, salvo circostanze eccezionali, dettate dalla necessità di provvedere alla propria sussistenza (in questo caso, tuttavia, il beneficiario doveva essere informato). Il thinx è utilizzato altresì per l’affrancazione dei servi, secondo uno schema molto simile all’emancipazione romana. Entrambi i casi confermano che il thinx altro non è che la germanizzazione della mancipatio·       Il launegild è la controprestazione simbolica del donatario che rende la donazione irrevocabile.·       La datio wadie è un atto formale tipico avente la funzione di garanzia accessoria nei negozi di varia natura. Il debitore consegna un oggetto ( wadia ) a mo’ di pegno al creditore, per mezzo di un garante ( fideiussor ). La funzione del fideiussor non è chiara: da Liutprando lo si vede talvolta incaricato di pignerare il debitore insolvente, talaltra appare soggetto egli stesso a pigneratio come garante personale del debitore, come un autentico fideiussore. Liutprando, per evitare controversie, stabilisce che essa venga prestata in presenza di testimoni. Quanto alla pigneratio ,

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essa è una forma di esecuzione privata ed ha inizialmente ad oggetto soltanto i beni mobili, per poi ricomprendere anche i beni immobili; molto probabilmente, l’oppignorante ha il godimento dei beni pignorati ( anticresi ).

Processo LongobardoEra diretto a scongiurare il pericolo della faida. Inizialmente esso non si può nemmeno definire un giudizio. Le dispute sono risolte tramite il duello (controfigura in scala ridotta della guerra) o il giuramento; in quest ultimo caso insieme al convenuto o all’imputato devono giurare un certo numero di persone, a seconda del valore della causa; esse giurano sulla credibilità della persona, non sui fatti, cui possono anche non aver assistito. Il giudice, quindi, non giudica, ma si limita a garantire il rispetto delle regole e a proclamare il vincitore. Col passare degli anni, il duello va incontro allo sfavore del legislatore. La credenza che gli dei intervengano in aiuto di chi è dalla parte della ragione cozza con la conversione al cristianesimo dei Longobardi. Anche il giuramento collettivo non appare più molto affidabile; si ammettono così nel processo mezzi probatori più attendibili, come la prova testimoniale e quella documentale. La chiesa, Bisanzio e i CarolingiNel 712 fu eletto re Liutprando, probabilmente il più grande sovrano longobardo. Egli modificò l'Editto di Rotari aggiungendo nuove leggi e combatté vittoriosamente contro i Bizantini, sottraendo loro dei territori. Il tentativo di unificare l'Italia sotto lo scettro longobardo fu continuato da Astolfo (749-756), che riuscì a conquistare la più importante roccaforte bizantina, Ravenna. Ma quando egli tentò di conquistare anche Roma, il Papa invocò il soccorso del re dei Franchi, Pipino il Breve, che sconfisse i Longobardi (756) e conquistò parte dell’Italia.Carlo MagnoAlla morte di Pipino il regno franco fu spartito tra i suoi figli, Carlo (che sarà poi noto come " Carlo Magno ") e Carlomanno. La morte di Carlomanno fece sì che Carlo Magno diventasse sovrano dell'intero regno. Su invito del Papa, nel 774 Carlo Magno discese in Italia e sconfisse i Longobardi che avevano nuovamente minacciato Roma; le regioni centro-settentrionali della penisola furono annesse al regno franco. Carlo Magno condusse altre vittoriose campagne militari contro i Sassoni (che furono convertiti al cattolicesimo), gli Avari e i Saraceni. Il regno franco si estendeva ormai dai Pirenei all'Europa centrale, dal Mare del Nord alla Toscana. Carlo Magno poteva considerarsi come il sovrano indiscusso dell'Occidente. Il 25 dicembre dell'anno 800, il re franco fu incoronato imperatore a Roma da papa Leone III. Nasceva il Sacro Romano Impero, con capitale ad Aquisgrana.  Un così vasto territorio era difficilmente governabile. Carlo Magno pensò di suddividerlo in territori più piccoli, i "feudi". A capo di ciascun feudo pose un suo dignitario di fiducia, il feudatario o vassallo, che aveva la funzione di rappresentare l'imperatore e amministrare il territorio locale, riscuotendo i tributi e comandando il piccolo esercito del luogo.  Sull'operato dei vassalli vigilavano i "missi dominici", inviati dall'imperatore, questi rappresentavano l’imperatore. In ogni località tenevano un’assemblea generale degli uomini liberi, nella quale veniva prestato giuramento di fedeltà all’imperatore, pubblicati i capitolari, raccolte le lamentele contro i funzionari. Ad essi venivano sottoposti i processi giudiziari più gravi, talvolta le denunce tra singoli sul piano morale o religioso, le suppliche delle persone senza difesa (orfani, vedove). Essi svolgevano funzioni amministrative: inchieste sulla riscossione delle imposte, sulla moneta falsa, sulla manutenzione delle strade, sulla conservazione delle proprietà del re, sulla gestione delle chiese. Gli ordini dei missi dominiciin quanto accompagnati dal banno regio, tale da comportare pesanti sanzioni per chi lo violasse, si imponevano a tutti: ai privati, così come ai conti e ai vescovi. A loro volta i feudatari potevano suddividere il loro feudo affidandone porzioni di territorio a persone di fiducia, e così via. Nasceva il sistema feudale. Finché Carlo Magno fu in vita, egli riuscì a tenere saldamente sotto controllo il territorio del Sacro Romano Impero. Ma alla sua morte (814) l'Impero fu conteso e diviso tra i suoi tre figli, mentre il potere centrale andava progressivamente indebolendosi a vantaggio dei feudatari. L'ultimo esponente della dinastia carolingia, Carlo il Grosso, fu deposto nell'887. I territori occidentali dell'Impero avrebbero costituito il nucleo della Francia, mentre il Sacro Romano Impero, la cui anima era ormai esclusivamente germanica, sarebbe stato protagonista della storia europea, tra alterne vicende, sino al 1806.   Carlo Magno e il diritto

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I sovrani Carolingi ebbero una produzione normativa rilevante; questa produzione passa attraverso i Capitolari , così detti poiché le norme in essi contenute sono raccolte in brevi capitoli, emanati dal re. Dopo la morte di Carlo Magno i capitularia vennero specificandosi in categorie diversificate a seconda della funzione:

·        Capitularia ecclesiastica : riferiti a clero, chiese e monasteri·        Capitularia mondana : riferiti al mondo laico ·        Capitularia missorum : riferiti ai missi dominici ·        Capitularia legibus addenda : riferiti alla modificazione e all’aggiornamento delle leggi popolari

Capitularia ecclesiasticaI capitolari ecclesiastici sono raccolte normative che si riferiscono al clero, alle chiese e ai monasteri. Il re li emana spesso su pressione della Chiesa stessa; l’indebolimento della monarchia a favore dell’aristocrazia feudale dopo la morte di Carlo Magno fece sì che la Chiesa rischiasse di perdere questo importante strumento: le diete dei nobili (gli interessi dei quali non di rado contrastano con quelli del clero), prima niente più che luogo di formale approvazione dei capitolari,  assumono sempre maggiore importanza. La risposta della Chiesa si manifesta nel fenomeno delle falsificazioni dei capitolari regi, tra cui spiccano le contraffazioni di Benedetto Levita e la falsificazione della Hispana Gallica . Grande fortuna incontrano le Decretali Pseudo-Isidoriane , che ci hanno consegnato la celebre Donazione di Costantino. Esse, contenenti false lettere papali e norme conciliari risalenti addirittura al I secolo, quindi non arbitrarie invenzioni di testi inesistenti, insistono sul principio della autonomia e della pari dignità dei vescovi contro il processo di feudalizzazione della Chiesa transalpina.Leggi PopolariDurante il suo regno Carlo Magno non si sottrasse dall’aggiornare le antiche leggi popolari, basate sulle consuetudini dei gruppi etnici germanici. Vi è l’impressione tra gli storici che egli abbia riattivato il vecchio bipolarismo tra ius vetus (vecchie tradizioni popolari) e ius novum (capitolari). Quest’opera di aggiornamento avvenne attraverso i capitularia legibus addenda . Secondo gli Annali di Lorsch nell’802 egli convoca un concilio generale al fine di portare a termine un grandioso progetto di sistemazione del diritto; A Carlo Magno sono attribuite due revisioni normative, la Lex Salica emendata e la Karolina , condotta sulla Legge Salica (complesso di norme personali risalenti al diritto dei Franchi salici, e intreodotte da questi durante l’invasione delle zone settentrionali dell’Italia. Il suo nucleo è costituito dal Pactum legis salicae di Clodoveo promulgato tra il 486 e il 498.), risalenti all’802-803; dello stesso periodo sono probabilmente i capitolari aggiunti alle leggi Ripuaria e Bavara. L’imperatore mira così a centralizzare e uniformare il sistema normativo di un Impero culturamente composito, nel quale le legislazioni franche e carolingie si confrontano,  nei territori appena conquistati, con norme e consuetudini preesistenti. In questo contesto si colloca il Capitulare italicum , emandamento degli Editti longobardi, con i quali andrà a formare il Liber Papiensis . L’uniformità dell’ordinamento non può certo dirsi raggiunta: la situazione è esemplificata dal dotto Agobardo, che dipinge uno stato caotico nel quale cinque persone seguono cinque leggi diverse. Nasce la prassi delle cosiddette professiones iuris : davanti al notaio, il contraente forte dichiara di vivere secondo la legge della sua gente, cui appartiene per nascita. Si afferma così il principio di personalità del diritto su quello della territorialità. Presso i Longobardi, la compenetrazione tra diritto romano e diritto longobardo appare in grado di escludere che il principio sia stato in vigore presso di essi prima della conquista franca.In età carolingia e post-carolingia parte dei testi arcaici di diritto romano divengono irreperibili, poiché la legge romana si era consolidata come consuetudine volgare, mentre, con la riapparizione dell’Impero Romano in Europa Occidentale, compaiono diverse nuove collezioni. Tra queste assumono rilevanza la Lex Romana canonice compta , la Collectio Anselmo dedicata (IX sec.), la Summa Perusina (datazione incerta); dell’VIII sec. è una Lex Romana Raetica Curiensis , epitome del Breviario Alariciano. Molto dubbia è l’esistenza di una Epitome Codicis ; incerta anche quella di una Lex Romana , vigente ai tempi di Carlo Magno.   Il sistema feudale

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Feudo nel significato originario (in latino beneficium ) era costituito dal diritto reale su di un bene in grado di fornire una rendita, quasi sempre di natura fondiaria, concesso a fronte dell'espletamento di un servizio. Quest'ultimo poteva anche essere di tipo professionale (per esempio poteva ricevere un feudo il medico o il notaio alle dipendenze di un re o un grande signore), ma almeno da un certo punto in avanti fu quasi sempre solo il corrispettivo di un impegno di tipo militare.Il feudo, di cui è incerta l’etimologia, è un istituto carolingio, che affonda però le sue radici nelle tradizioni germaniche. Secondo un consueto insegnamento, il feudo nasce dall’unione di tre istituti diversi: vassallaggio , beneficium , immunitas .

·       Il vassallaggio è il rapporto personale che intercorre tra il signore e il suo vassallo che nacque in Gallia nel VII secolo, riprendendo l’istituto romano della commendatio, imperniato sulla fidelitas , il giuramento di fedeltà. Fidelitas è un termine generico, allorché tutti i sudditi devono prestarla al sovrano, tanto che chi si macchia di un delitto è punito per essere venuto meno al suo obbligo di fidelitas nei confronti del re. Ad essa si affianca la fidelitas che il vassallo presta al suo signore, creando un legame in cui si pone in posizione subordinata rispetto a questi. Inizialmente il rapporto di vassallaggio non è molto diverso da quello servile; tuttavia, se il signore è il re o un potente, il titolo di vassallo conferisce prestigio e potere.  Il vassallo può legittimamente sottrarsi al suo legame col signore solo se qualora quest ultimo si renda colpevole di gravi abusi, tassativamente previsti (Il legame può essere sciolto quando il signore pretenda servigi non dovuti, congiuri contro la vita del vassallo o si lanci contro di lui a spada snudata o abbia commesso adulterio con la di lui moglie o abbia omesso di difenderlo. Quest’ultimo caso può essere invocato dal vassallo solo qualora il rapporto sia stato instaurato con formale commendatio ). ·       Successivamente al rapporto personale di vassaticum si aggiunse un rapporto reale, che prese il nome di beneficium : questo è la concessione patrimoniale, remunerativa dei servigi resi, che il signore fa al vassallo; è grazie ai beneficia , soprattutto terreni, che il vassallo acquisisce potere. L’antenato del beneficium andrebbe ricercato nei precaria (forma di concessione agraria usata dalla Chiesa, i precaria erano utilizzati dai sovrani franchi per distribuire in premio ai guerrieri i terreni di proprietà della Chiesa). Il sovrano può concedere il beneficium a vita o a termine; può revocarlo ad libitum , e lo fa ovviamente in caso di infidelitas del beneficiato. Il sovrano non riesce però a vigilare su tutti i feudi dell’immenso impero, essendo tra l’altro l’incertezza giuridica aggravata dall’assenza di una documentazione scritta delle concessioni; egli, per evitare abusi dei vassalli, invia presso di loro dei missi dominici , i quali hanno, tra gli altri, il compito di verificare lo stato dei benefici, che possono essere illegittimamente detenuti, perché scaduti o usurpati.·       Controversa è la nozione di immunitas . Nel diritto romano veniva considerata come l’esenzione da un munus , ossia da un obbligo imposto in forza di legge, di consuetudine o di autorità. Nell’alto Medioevo consisteva nell’esenzione dalle tasse, di cui godevano determinate terre e, soprattutto, quelle che il sovrano regalava ai propri fedeli. In origine aveva carattere reale ma in seguito divenne un privilegio personale, concesso dal re a determinate persone (sia grandi proprietari laici, sia chiese) per tutte le proprie terre. A partire da Carlo Magno il privilegio dell’immunitas subì una trasformazione e consistette nella proibizione fatta dal re ai propri funzionari di entrare ( introitu ) in determinate terre e di esercitare in esse la loro autorità ( districtio ). Agli immunisti (per la maggior parte ecclesiastici) venne, quindi, ceduto il diritto di riscossione delle imposte per conto del re ed il compito di condurre gli abitanti delle terre all’esercito del sovrano. In tal modo, i titolari dell’immunitas assunsero nei confronti degli abitanti delle terre immuni le funzioni tipiche dei funzionari regi, compresa l’amministrazione della giustizia. L’immunista giudicava per i reati privati e per i processi meno importanti, rinviando i casi più gravi al tribunale del conte e provvedendo ad assicurare la comparizione dei contendenti o dei colpevoli davanti al tribunale di questi. E’ incerto se questo istituto sia poi stato esteso anche ai laici;

Alla morte del vassallo, il feudo torna al sovrano. Nell’877, in una dieta convocata a Quierzy, l’imperatore Carlo il Calvo garantisce però ai figli degli vassalli morti in guerra per difendere il sovrano la concessione del feudo paterno. Formalmente, il feudo non diviene ereditario, poiché esso non si trasmette automaticamente dal padre al figlio, occorrendo comunque una nuova concessione regia.

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Cosa diversa dai vassalli sono i conti . Il conte era il più importante funzionario dell’amministrazione locale,sempre vigilato dai missi dominici, posto a capo di un distretto, la contea, che divenne poi ereditario. L’imperatore li sceglieva liberamente i tra i giovani appartenenti alle antiche famiglie aristocratiche dei Franchi ed educati alla Corte regia. All’atto della sua nomina, il conte prestava giuramento di fedeltà all’imperatore, diventando suo vassallo e poteva in qualunque momento essere revocato. Al conte   di solito non veniva corrisposto del danaro da parte dell’imperatore in cambio dei servigi resi, ma spesso gli venivano attribuite delle terre in beneficio.In Italia, a partire dal X secolo, fanno la loro comparsa i milites cittadini, formazioni di armati che ottengono beneficia come remunerazione della loro prestazione. Sono suddivisi in milites primi ordinis e in milites secundi ordinis . Nel 1037 Corrado II emana un Edictum de beneficiis (1037) che sancisce la ereditarietà dei beneficia dei milites lombardi; il beneficium non può essere revocato se non per colpa dei milites .   L’Editto risponde certamente alle pressioni dei milites lombardi, che reclamano l’ereditarietà dei feudi per acquisire una sorta di status nobiliare, ma anche ad una esigenza economica, allorché la temporaneità del godimento del bene non incentiva certo investimenti sul feudo. Il feudo lombardo si differenzia così dal feudo francese: nel primo prevale l’aspetto patrimoniale, nel secondo quello personale. Il diritto bizantino e il mezzogiornoI domini bizantini dell’Italia meridionale seguono una sorte diversa. Il diritto Bizantino viene elaborato nelle province orientali dell’impero romano, dopo il trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio attuato nel 330 da Costantino il Grande. Tale ordinamento esercitò pure una notevole influenza sulla vita giuridica italiana, poiché venne applicato anche nelle regioni della penisola rimaste escluse dalla dominazione longobarda, ossia l’Italia meridionale (compresa la Sicilia), la Sardegna, l’ Esarcato (Ravenna, Bologna,Ferrara) la Pentapoli (Romagna e Marche settentrionali) e la laguna veneta. Dopo la compilazione giustinianea l’evoluzione del diritto bizantino può essere divisa in due fasi. caratterizzati dal dominio della dinastia isaurica (717-867) e di quella macedone (867-1057). A Leone III Isaurico ed a suo figlio Costantino Copronimo si deve la promulgazione nel 740 dell’ Ecloga ton nomon . All’imperatore Basilio I (867-886) della dinastia macedone si deve l’emanazione del Prochiron , un manuale di leggi in cui il diritto giustinianeo veniva rielaborato ed adattato alle esigenze locali. La più imponente compilazione bizantina è costituita dai 60 Libri di leggi imperiali, i c.d. Basilici , promulgati da Leone VI il Saggio (886- 912) e contenenti, opportunamente riformate, le fonti di diritto giustinianeo e quelle successive.L’ecloga ton nomon.L’ ecloga di Leone III è una libera interpretazione, divisa in 18 libri, di fonti giustinianee in materia penale e civile, nonché tre compilazioni legislative disciplinanti i rapporti agrari, la materia militare e la navigazione (Composta da 144 capitoli, era prevalentemente dedicata alla materia penale. I pochi istituti di diritto privato in essi disciplinati riguardavano soprattutto la materia matrimoniale e successoria, oltre al deposito, all’enfiteusi, alla locazione e alla transazione).Un posto di rilievo nell’ecloga è occupato dal matrimonio; questo può essere concluso in due modi: mediante scrittura notarile eseguita alla presenza di tre testimoni oppure con una celebrazione, tenuta in chiesa o inter amicos .   Il primo modo, cosiddetto “matrimonio scritto” tende più che altro a determinare gli assetti patrimoniali. Vi è infatti un patrimonio familiare, formato dalla dote della moglie aumentata da un apporto maritale ( ipobolo ). Oltreché sul piano patrimoniale, la posizione dei coniugi appare piuttosto equilibrata anche a livello di rapporti personali: la patria potestas non è esclusiva del marito, e in caso di premorienza di uno dei coniugi, l’altro acquista l’amministrazione del matrimonio fino alla maggiore età dei figli. L’ Ecloga regola anche le successioni e il diritto delle obbligazioni, il quale conferma la scomparsa della stipulatio. All’ Ecloga si affiancano tre piccole raccolte di norme speciali. Procheiros nomos, Epanagoghè ton nomon ed i Basilici.Tra l’870 e l’879, l’imperatore Basilio I, capostipite della dinastia macedone, promulga la Procheiros nomos , seguita pochi anni dopo dalla Epanagoghè ton nomon , che dovrebbero costituire, nelle intenzioni dell’imperatore, il primo passo verso una grandiosa Anacatharis ton palaion nomon (“purificazione del leggi antiche”). Essa non vede mai la luce, ma il figlio di Basilio I, Leone VI (886-911), emana la vasta collezione dei Basilici, che attinge in modo preponderante, seppur con molta libertà, dalle fonti giustinianee, spesso attraverso il filtro di traduzioni e commenti. Il merito maggiore dei Basilici è quello di stimolare l’attività interpretativa, che passa attraverso note di commento ( scholia ).

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L’influenza del diritto bizantino sull’Italia meridionale è forte e permane anche dopo la conquista normanna. Ne è un esempio l’istituto della protimesi, la prelazione – forse con diritto di retratto - a favore dei consorti e dei parenti nelle alienazioni di beni immobili, che sopravvive addirittura ancora in età angioina. Aspetti della prassiI giudici e i notai sono i protagonisti della prassi. Essi interpretano le leggi, trasformano i costumi in norme consuetudinarie.Il notaio.Il notaio dell’Alto Medioevo non è un pubblico ufficiale, anche se già dai tempi dei Longobardi è definito scrivane (poi notarius ) publicus (non si sa se fosse un dipendente del palazzo oppure un privato che svolge la sua funzione pubblicamente); in età carolingia, è nominato e controllato dall’alto. Funzione del notaio è quella di attribuire firmitas agli atti. La firmitas rende l’atto irrevocabile: davanti al notaio, le parti e i testimoni sottoscrivono il documento notarile. Secondo Brunner, il documento notarile avrebbe avuto non solo efficacia probatoria, ma addirittura costitutiva: in realtà, il fatto che le obbligazioni nascessero anche senza carta, la circostanza che ci fosse la presenza dei testimoni, denotano la vocazione probatoria dell’atto, che tende ad assicurare l’autenticità del documento. Anche i giudici, tramite l’ostensio chartae in giudizio, possono assolvere a questa funzione. I documenti notarili riguardano prevalentemente i trasferimenti di diritti reali.Gwere - InvestituraIn epoca Carolingia compare la Gewere (in Italia chiamata Investitura ) istituto di origine germanica, che avrebbe designato il legame materiale dell’uomo sulla terra prescindendo da qualificazioni giuridiche, e da stati soggettivi (buona o mala fede); questa consisteva in una cerimonia simbolica attraverso cui, nell’ordinamento feudale si trasferiva ad altri in beneficio un bene, in cambio del giuramento di fedeltà e sottomissione vassallatica. Essa avveniva mediante la consegna di una bacchetta e un berretto o di un guanto o un anello. Era possibile la coesistenza di più Gewere sullo stesso bene (del proprietario, dell’usufruttario, del beneficiario). E’ stato avvicinato al possesso o alla traditio che lo conferisce, in realtà ha caratteristiche peculiari. In seguito, l’investitura sarà il rito con cui vengono “investiti” prelati e vassalli. Nel Basso Medioevo, vista la difficoltà di ricondurla agli schemi romanistici, sarà considerata una traditio abusiva, idonea a costituire un ius ad rem (diritto personale alla consegna della cosa), ma non ius in re . Il sistema Feudale.Una visione tradizionale vede l’economia del Medioevo imperniata sul sistema curtense. I grandi latifondi , comprendono un comprensorio centrale (sala, casa dominica), sfruttato direttamente dal padrone con manodopera servile (aldi, commendati), circondato da una costellazione di fondi detti mansi . La struttura è autarchica, sono presenti anche gli artigiani che producono gli utensili; tutto ciò che è prodotto è consumato all’interno, con ridotta circolazione di moneta. In realtà gli scambi con l’esterno e l’uso della moneta non sono infrequenti. I contratti con cui vengono concessi i mansi sono soprattutto enfiteusi, livelli e precàrie: i terreni vengono concessi in cambio di prestazioni lavorative o in natura.

·       Precaria: Istituto giuridico medievale, consistente in una benevola elargizione di terre effettuata dietro preghiera ( prèce del futuro concessionario) e sottoposta ad un canone annuo. Tale figura derivava dal precarium romano, dal quale si distingueva perché quest’ultimo era gratuito, provvisorio e, almeno originariamente, non era un contratto. In età merovingia e carolingia l’istituto venne utilizzato come strumento di finanziamento dell’esercito: anziché la rituale preghiera del concessionario vi era la decisione del maggiordomo di corte e, quindi, del sovrano (che la sanciva in un capitolare ). ·       Il livello: questo istituto funzionava in questo modo: si chiedeva una concessione agraria al proprietario; i richiedenti si “commendavano” al proprietario, diventando così “commendati”, una condizione para-servile. Questa subordinazione personale richiedeva la fidelitas , come nel caso dei feudi; il diritto reale del livellario, dell’enfiteuta, del conduttore a lungo tempo, del  vassallo, è un dominio utile contrapposto al dominio diretto del signore.

La convenientia (o Stantia)La convenientia (o stantia ) non è, come ha ritenuto taluno, il contratto consensuale germanico, né tantomeno un contratto formale: il termine sta a significare, vagamente, “convenzione”, “accordo”, “consenso”; talvolta indica le cosiddette “paci” tra nobili, che si impegnavano a non commettere atti ostili.

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L’uso intenso della convenientia indica la scarsa propensione altomedievale d’inquadrare dogmaticamente le fattispecie contrattuali, preferendosi ricorrere a un termine generico. Dopo l’anno Mille – Nascita del diritto comuneIl diritto comuneCon l'espressione " diritto comune ", o, alla latina, ius commune , gli storici del diritto usano definire l'esperienza giuridica che si sviluppò nell' Europa continentale dal X secolo fino alle codificazioni ottocentesche. Ne è esclusa l' Inghilterra , il cui sistema, detto di Common law , si sviluppò fin dalle origini senza rilevanti influenze del Diritto romano . Ciò avvenne anche perché i Common Lawyers, al contrario degli omologhi continentali, non usarono mai il latino come lingua dei tribunali, bensì il francese dei Normanni fino al Seicento e l' inglese dopo. La nascita del diritto comune fu indubbiamente una tappa fondamentale dell’evoluzione giuridica del mondo occidentale.Panorama storicoCon l’anno mille , sollecitata dal crescente dinamismo dell’economia, dallo sviluppo delle comunicazioni e dei traffici che mettevano ormai in contatto l’ Occidente con un numero sempre maggiore di popoli, stimolata dalla domanda di istruzione dei ceti sociali in ascesa e dal travaglio di una società in trasformazione, la cultura assunse nell’età dell’espansione economica, contenuti e atteggiamenti sempre più articolati. La rinascita culturale andò di pari passo con il rifiorire della vita cittadina e le città, pian piano, sostituirono i monasteri come centri di cultura.Evoluzione dell’imperoAlla morte dell’ultimo imperatore Carolingio Enrico I fece seguito l’incoronazione del sassone Ottone I (962). In una dieta veronese del 967 sono emanate legge fortemente germanizzanti, tra cui il ristabilimento del duello. Questa tendenza è però effimera e scompare con il regno di Ottone III, estimatore della romanità e primo restauratore dell’Impero. Qualche decennio dopo la morte di quest’ultimo, inizia la politica di recupero delle regalie ( iura regalia ), ossia il restauro di tutti quei diritti sovrani che nello sfacelo post-carolingio l’Impero ha perduto: diritti sui feudi, sulla nomina degli altri ufficiali e dei magistrati locali, sul conio della moneta, sui mercato, sulla riscossione dei tributi.Le resistenze della chiesa – Riforma GregorianaLa politica di restaurazione dei poteri imperiali si scontra però con il Papato e i Comuni. Nei primi decenni del nuovo millennio la Chiesa è protagonista di un forte fermento riformista. Sulla spinta della nascita dell’ordine cluniacense in Borgogna, inizia la riforma dell’ordine benedettino; in Italia sorgono nuovi ordini religiosi e nuovi conventi. Tra eremo e convento vive Pier Damiani, conoscitore del diritto romano e protagonista della riforma gregoriana . All’inizio del millennio Burcardo vescovo di Worms compone una collezione canonica, il Decretum , che resterà in voga sino a Graziano. Con l’inizio del millennio si apre una nuova epoca per la Chiesa, caratterizzata dal forte primato del pontefice romano, dalla rivendicazione della giurisdizione ecclesiastica, dalla sacralità dei beni del clero per sottrarli alla cupidigia dei sovrani e dei feudatari. Testimone ne è il Dictatus Papae di Gregorio VII , vero e proprio manifesto della riforma, nel quale egli enunciava in ventisette proposizioni il suo programma di riforma della Chiesa e dei costumi del clero, e che esalta quasi con arroganza la potenza del pontefice: tutte le norme canoniche devono essere da lui approvate, le decisione del concilio devono essere da lui ratificate, tramite i suoi legati può deporre i vescovi; l’imperatore deve baciargli i piedi.Di questo periodo sono anche diverse collezioni di diritto canonico. Tra gli autori di collezioni spicca Ivo di Chartres, che ne compone ben tre: il Decretum, la Panoramia e la Tripartita . In tali collezioni l’autore, pur ispirandosi alla Riforma gregoriana ne lasciò da parte alcune intemperanze, cercando di operare una sutura tra l’ordinamento ecclesiastico e quello civile, che in quegli anni turbolenti sembravano irrimediabilmente divenuti inconciliabili; di questo periodo sono anche il Policarpo e la collezione di Farfa, la quale va in controtendenza e resiste alla riforma. In Ivo di Chartres e nel Policarpo compaiono alcuni passi del Digesto, che riemerge dopo secoli di oblio, usati con maestria per rivendicare le posizioni assunte dalla chiesa; ben 93 frammenti di esso sono presenti nella collezione canonica Britannica. La tradizione vuole che tutte le versioni testuali del Digesto circolanti in Occidente derivassero dalla littera Pisana/Florentina , manoscritto di età giustinianea; in realtà così non è: la Britannica sarebbe derivata da un altro filone. (Nel 1076 un monastero senese rivendica alcuni beni che gli erano stati donati ma che si trovano nelle mani di alcuni vassalli, i quali eccepiscono la prescrizione. Ecco allora che i monaci

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invocano un passo del Digesto in cui la prescrizione non opera nel caso di mancanza di giudici cui ricorrere. )La riforma gregoriana ha quindi contribuito in maniera cruciale al ritorno in auge degli antichi testi Giustinianei.Le fonti Giustinianee nei difensori dell’imperoAnche i difensori delle prerogative imperiali (cesaristi) utilizzano fonti romane, come Pietro Crasso nella sua Defensio Henrici IV ; fanno altresì ricorso a falsificazioni come l’ Hadrianum , in cui papa Adriano conferisce a Carlo Magno il potere di eleggere il pontefice, dopo che il popolo romano, con la lex regia , aveva trasferito all’imperatore ogni potere. Secondo il Privilegium maius e il Privilegium minus , lo stesso avrebbe fatto Leone VIII con Ottone I.Nel 1047 l’imperatore Enrico III interviene sull’interpretazione di una legge del Codice giustinianeo, piegandola ai principi canonici, ma avvertendo che, in questo modo, obbedisce a Giustiniano il quale assegna medesima efficacia a canoni e leggi: dice quindi di aver agito utraque lex (Espressione utilizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza medievale per designare l’intima correlazione esistente tra il diritto civile e quello canonico.Entrambi gli ordinamenti venivano considerati universali, espressione di due supremi poteri (l’imperatore ed il papa) e potenzialmente in grado di disciplinare tutti i rapporti giuridicamente rilevanti (sia in ambito temporale che spirituale). Prontamente incontrerà il favore dei canonisti; più tiepidi saranno invece i civilisti. Ma questa unione starà alla base del diritto comune fino all’età contemporanea.Quindi assistiamo a due riforme speculari, da un lato quella dell’impero, dall’altro quella della chiesa, che si affrontano e si scontrano sul terreno del diritto e delle reciproche prerogative, utilizzando come armi le fonti romane talvolta piegate alle proprie ragioni. Scuole preirneriane di dirittoPaviaAll’inizio del nuovo millennio Pavia si evidenzia per la sua scuola di arti liberali, cui si affianca poi una scuola professionale di diritto franco-longobardo. Essa compie studi sugli Editti longobardi e sul Capitulare italicum (Raccolta cronologica dei capitolar carolingi per l’Italia e delle costituzioni degli imperatori successivi fino ad Enrico II ). Gli studi sono compiuti in una raccolta ordinata cronologicamente nota come Liber Papiensis . Successivamente, il complesso normativo è riorganizzato sistematicamente a imitazione del Codice giustinianeo, nella Lex Longobarda . I testi normativi sono corredati di formule per facilitarne l’applicazione l’applicazione nella pratica dei tribunali. Alla scuola pavese sono attribuiti anche il Cartularium , raccolta di formule, risalenti al secolo XI e destinata ad uso pratico; (essa contiene l’indicazione delle formalità necessarie al compimento di negozi giuridici di diritto privato, ossia delle formalità richieste per la redazione del documento), e le Quaestiones ac monita , un insieme eterogeneo e disordinato di note formulate a scopo pratico, in cui sono trattate diverse materie già disciplinate dal diritto romano (dalle Istituzioni e dalle Novelle) e dal diritto longobardo; nelle intenzioni dell’anonimo autore (forse un ecclesiastico, dato il richiamo che vi si fa al diritto divino ed alla patristica), i vari diritti sono posti l’uno accanto all’altro senza problemi di interpretazione o di gerarchia delle fonti.Il capolavoro della scuola pavese è però l’ Expositio ad Librum Papiensem , commento analitico del Liber Papiensis . Nonostante il dichiarato intento dell’autore fosse quello di destinare l’opera all’uso pratico nei tribunali, essa ha un indubbio carattere scolastico e scientifico, desumibile dalla cura profusa dall’autore nella indicazione delle varie correnti dottrinarie enunciate e dalla pedante attenzione mostrata verso questioni grammaticali e retoriche. Da quest’opera emerge un certo interesse per il diritto romano, utilizzato come diritto sussidiario.Altre scuoleL’interesse per gli studi romanistici non è limitato a Pavia: provenienti da luoghi diversi, in questo periodo circolano diversi piccoli gruppi di apparati di glosse alle Istituzioni.  Odofredo riferisce che i libri legali sono giunti a Bologna da Roma, passando per Ravenna: da qui l’ipotesi, non ancora accertata, dell’esistenza di scuole a Roma e Ravenna. A Bologna , ma prima di Irnerio, un certo Pepo o Pepone, secondo un racconto del glossatore Odofredo , nella seconda metà dell' XI secolo avrebbe cominciato a dare lezioni di diritto romano a Bologna, di sua iniziativa (de auctoritate sua) . Pepo, peraltro, sempre secondo questo racconto, non conseguì col suo insegnamento nessuna fama (nullius nominis fuit) . Lo stesso Pepo ricevette invece le lodi di un maestro inglese di arti liberali che ebbe cattedra a Parigi , Radulfus Niger (Rodolfo il Nero), che lo definisce addirittura aurora surgens per aver determinato la

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rinascita dello studio del diritto romano e della scienza romanistica. Addirittura, la prima Summa delle Istituzioni giustinianee, scritta in Provenza nella prima metà del XII secolo , contiene una sola citazione dottrinale e fa il solo nome di Pepo. Sul fatto che Pepo fosse docente di diritto romano a Bologna non vi è nessun indizio né tanto meno prove storiche; del resto egli fu molto più conosciuto in Francia (e specialmente in Provenza) piuttosto che in Italia .  Irnerio e BolognaLe originiNarrano le cronache che il celebre Studium bolognese non abbia mai avuto una sede stabile fino alla metà del XVI secolo e che gli antichi dottori tenessero le loro letture nelle proprie case o in sale prese in affitto dal Comune. Mentre in altre situazioni, per esempio a Parigi , le origini dell'Università furono legate alla Chiesa e all'autorità monarchica, a Bologna lo Studium rappresentò un esempio di scuola laica, basata su uno stretto rapporto tra studenti e Comune. La vita dell'Università è sempre stata strettamente legata a quella della città.IrnerioIl primo maestro che lesse in pubblico i testi giustinianei e divulgò il risultato dell'analisi svolta su di essi fu Irnerio , che fa della scuola bolognese, nella quale insegna, la più celebre di questo periodo. Poco sappiamo della sua vita, ma è probabile la sua origine germanica. Tra i pochi eventi certi il suo incontro con Matilde di Canossa, accanita oppositrice degli Enrici, quindi avversaria dell’impero, che gli avrebbe affidato l’incarico di “rinnovare i libri della legge”, intendendo secondo taluni spronarlo all’insegnamento della scienza giuridica attraverso la creazione di una scuola specialistica, secondo talaltri a produrre uno studio filologico della compilazione giustinianea, restituendone il testo corrotto, ricostruito in base ad epitomi lacunose e inaffidabili, alla forma originaria. Ciò che è certo è che Irnerio presta grande attenzione alla autenticità dei testi, tanto che mette in dubbio la genuinità dell’ Authenticum , raccolta delle Novelle giustinianee. Secondo Odofredo, Irnerio si interessa anche della prassi notarile, redigendo il primo formulario per notai.L’attrito con la chiesaL’anno 1118 è cruciale nella vita di Irnerio: è inviato dall’imperatore a Roma per perorare la causa di Maurizio Burdino, che sarà poi eletto antipapa. Irnerio ricorre probabilmente alla lex regia de imperio (che Irnerio invoca anche per il recupero delle regalie), senza dubbio un falso, con la quale il popolo romano avrebbe conferito all’imperatore tutti i poteri, quindi non dio. Irnerio cade nelle ire del legittimo papa Callisto II, che lo scomunica; ed è probabilmente questa la ragione per cui egli cade nell’ombra, scomparendo dalle cronache fino al 1125.La glossaIrnerio ci ha lasciato numerose glosse (la glossa era l'interpretazione di parole oscure, perché ermetiche o cadute in disuso, attraverso altre più comprensibili, ossia attraverso il linguaggio corrente, esegesi ), talvolta oscure o prolisse, altre volte eleganti e rivelanti scienza mirabile; è peraltro controversa la paternità irneriana di diverse glosse ed opere. A seconda del posizionamento, le glosse si distinguevano in interlineari e marginali. Le prime consistevano in annotazioni scritte tra riga e riga del testo, in modo da affiancare visivamente al testo, considerato di difficile compensione, un’espressione più semplice ad una parola o ad un costrutto più difficile, per agevolare l’esegesi da parte di lettori meno colti: furono anche definite grammaticali . Le seconde si sostanziavano in annotazioni apposte ai margini del testo della norma ed avevano lo scopo di chiarire il senso complessivo del dettato normativo. Erano quasi un commento e furono dette interpretative . Alcune glosse attuavano dei richiami ad altri testi e, talvolta, indicavano quelli concordanti e quelli discordanti dal testo glossato. In tal modo, all’interno della compilazione giustinianea vennero ad intersecarsi migliaia di nessi logici, frutto di un certosino lavoro di coordinamento di parti anche molto diverse tra loro. Con l’utilizzo della metodologia interpretativa della glossa, i giuristi bolognesi (che presero il nome di glossatori ) ebbero la possibilità di analizzare i testi giustinianei parola per parola, espressione per espressione, approfondendo così la conoscenza dei testi presi in esame.Irnerio ed i suoi discepoli, i c.d. glossatori Il risultato centrale dell'attività di Irnerio e i suoi discepoli- che fu un’opera di sviluppo continuo, creativa e non riproposizione pedissequa di leggi- consistette nella trasformazione di un testo, antico di secoli e dimenticato, in una normativa vigente e suscettibile di immediata applicazione (in questo senso non furono soltanto interpretes iuris , ma anche conditores iuris , ovvero di fondatori del diritto) ed è per questo

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motivo che furono definiti “glossatori”. Le difficoltà pratiche che Irnerio e i suoi discepoli incontrarono furono comunque notevolissime: infatti i testi che essi esaminarono non solo erano antichi di oltre sei secoli, ma si erano tramandati in modo oscuro e frammentario, il materiale era complesso e disomogeneo. Ecco perché all’inizio una raccolta come il Corpus, rivista a distanza di secoli non poteva che essere occasione di antinomie e di errori interpretativi. Il lavoro iniziale fu dunque quello di esplorazione conoscitiva che consistette nel fare un passo dopo l’altro, con molta prudenza; poi, via via, si arrivò alla padronanza completa di qualsiasi aspetto contenuto nel Corpus giustinianeo. Attraverso l'opera di interpretazione del testo in chiave altamente libera e creativa, la Scuola dei glossatori di Bologna seppe adattare alle fattispecie concrete norme che in origine avevano una differente funzione, ricollegandovi scopi attuali che tali norme non possedevano di per sé.L’eredità di Irnerio – i glossatori (Bulgaro vs. Martino)La morte di Irnerio non segna un declino della scuola bolognese, allorché la sua opera è proseguita da quattro suoi allievi: Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo. Secondo Azzone, Bulgaro e Martino rappresentano due opposti filoni di pensiero: il primo è convinto assertore dell’interpretazione rigorosa della legge scritta, il secondo ammette che la legge deve, in certi casi, cedere il posto all’equità. E’ il contrasto tra il rigor iuris della “lettera” della legge, e il principio razionale ed etico dell’equità. La tesi di Martino sarà oggetto delle aspre critiche di Giovanni Bassiano (allievo di Bulgaro), di Azzone e Odofredo che gli imputano di aver dato una concezione arbitraria di equità. Enrico da Susa definirà invece Martino come spiritualis homo disposto a seguire la legge di Dio a costo di sacrificare Giustiniano, giacché il ricorso all’equità altro non sarebbe se non il ricorso al diritto canonico. Il diritto civile e il diritto canonico si incontrerebbero quindi nel sistema unitario del diritto comune, attraverso i meccanismi dell’ utrumque ius (ovvero l’uno e l’altro diritto, quello del mondo giuridico e quello del mondo etico tra i quali non esisteva alcun confine, ma c’era invece una profonda unione). A questo mira Martino; ma gli si oppone Bulgaro, che auspica il ritorno al diritto giustinianeo, interpretato rigorosamente.Diritto romano vs. Diritto canonicoPartendo da questa contrapposizione il conflitto si sposta su di un altro livello, ovvero quello dello scontro tra diritto romano e diritto canonico, come nel caso del computo dei gradi di parentela, o quando esso è lacunoso, e quindi deve essere integrato; o, ancora, quando il diritto giustinianeo contrasta addirittura con le Sacre Scritture, cioè con la parola di Dio. E’ il caso, ad esempio, degli interessi sul prestito: Giustiniano li ammette, seppur limitandoli, cosicché è usura la pretesa di interessi superiori a quelli consentiti; il Vangelo invece li esclude, sicché è usura la semplice pretesa di un interesse, anche modico. Altro terreno di contrasto è il numero di testimoni di cui occorre la presenza nella conversione del peccatore (due o tre secondo la Bibbia, sette secondo Giustiniano). Il recepimento dei precetti biblici nel diritto canonico attutisce lo scontro tra legge divina e legge terrena, che si sposta così sul piano del conflitto tra diritto canonico e diritto civile.  Vi è poi il caso, simile al precedente, nel quale un vescovo dichiara illegittimo uno statuto che richiede la presenza di sette testimoni all’atto del matrimonio (ne sono sufficienti due per il del diritto canonico) perché contrastante con il precetto divino; della questione è investito l’intero collegio dei dottori bolognesi, i quali affermano che la legge terrena, pur non potendo abrogare quella divina, può interpretarla e derogarla nell’applicazione del caso concreto.Canonisti e civilisti sono concordi nel rappresentare il sistema normativo come un sistema di sfere concentriche (diritto naturale, diritto delle genti, diritto civile), ma per i primi il diritto naturale coincide con il dettato biblico (diritto divino), per i secondi, il diritto naturale, pur avendo punti di contatto col diritto divino, non coincide con esso. I civilisti rinvengono il diritto naturale anche nella compilazione giustinianea, ma soprattutto nel diritto del pretore romano, che, aequitate naturali motus , può derogare il diritto civile che gli appare ingiusto. Si fa riferimento a due definizioni: a quella di Cicerone, per cui l’equità corrisponde all’eguaglianza ( aequitas = aequalitas ), e a quella delle Questiones de iuris subtilitatibus , la quale descrive l’equità come corrispondenza dell’atto giuridico con la sua “causa naturale” (se il venditore consegna la cosa il compratore deve pagare il prezzo, e viceversa), non creata dall’arbitrio del legislatore, ma insita nella “natura” stessa, espressione, cioè, del diritto naturale. Si tratta però di una equità in forma grezza ( rudis ): secondo un esempio di Cino da Pistoia, è paragonabile al metallo prezioso che l’uomo deve estrarre e poi lavorare per farne oggetti di valore. Allo stesso modo il legislatore deve enucleare l’equità grezza, darle forma nell’atto legislativo: l’ aequitas rudis diventa aequitas constituta e il diritto naturale diventa diritto civile.Diritto naturale e diritto civile agiscono però separatamente. Dal diritto naturale hanno origine obbligazioni naturali (causa naturale) e da quello civile obbligazioni civili (causa civile); nessun problema quando la

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causa civile coincide con quella naturale (l’ aequitas rudis è diventata aequitas constituta ), oppure quando, pur non coincidendo, si rimedia con la stipulatio ; la questione si fa invece spinosa quando manchi una delle due cause. Il diritto è quindi inquadrato nella duplice cornice del diritto naturale del diritto civile; è una medaglia dalla doppia faccia, che rispecchia due principi, l’uno oggettivo (l’equità) e l’altro soggettivo (la giustizia).

Le scuole minoriBenché la più celebre, Bologna non è l’unica scuola attiva in questo periodo: soprattutto grazie allo sviluppo del diritto canonico, l’interesse per gli studi romanistici si estende anche oltralpe. Ad Oxford insegna Vacario, il quale diffonde la dottrina dei glossatori, in Provenza – in particolare a Montpellier, dove insegnano Rogerio e Piacentino– fiorisce una scuola importante. Quivi l’interesse per il diritto si mescola con quello per la grammatica, dove i giuristi curano l’eleganza stilistica e si cimentano addirittura come poeti. Rogerio, allievo di bulgaro, scrive due brevi commenti al Codice e alle Istituzioni, si tratta delle Enodationes quaestionum super Codice e delle Quaestiones super Institutis .  Quaestiones de iuris subtilitatibusIncerta è la paternità delle Quaestiones de iuris subtilitatibus , attribuita però dal Fitting ad Irnerio e da altri a Piacentino o comunque, ad un glossatore del secolo XII. Essa è divisa in 28 paragrafi, in cui sono discussi problemi privatistici e processualistici. L’opera si apre con un proemio retoricamente sontuoso, contestualizzato in un templum iustiatiae abitato dalla Giustizia e dalle sue figlie ( religio , pietas , gratia , vindicatio , observantia , veritas ). L’opera tratta inizialmente del rapporto tra diritto naturale, civile e delle genti; si lancia poi in una violenta invettiva contro gli Editti longobardi e il Capitolare italico, considerati un’accozzaglia di norme obsolote e redatte senza alcuna scienza, reclamando il ritorno al diritto romano; L’importanza del trattatello è dovuta al fatto che in essa è contenuto un duro attacco al sistema delle leggi personali che in quel secolo si trascinava. Il postulato dal quale parte l’autore era rappresentato dalla considerazione dell’assurdità del sistema delle leggi personali, non più sopportabile non soltanto di fronte alla prassi o, ad un sentimento religioso, ma nei confronti di quell’ordinamento giuridico universale — l’impero — che ormai aveva riunito le genti e superato i loro particolarismi. Secondo l’autore delle Quaestiones si poneva giocoforza un’alternativa solenne: o si affermava l’unità dell’impero (e in tal caso doveva affermarsi anche l’unità del diritto) o si accettava la molteplicità delle leggi (e, quindi, anche dei regni). Poiché l’unità dell’impero si poneva come dato inconfutabile, appariva naturale all’autore delle Quaestiones concludere affermando la necessità che unico fosse il diritto. La realtà politica medievale, tuttavia, era caratterizzata dalla presenza di numerosi ordinamenti giuridici, sia all’interno sia all’esterno dei territori imperiali, ciascuno dei quali aspirava ad una qualche forma di autonomia se non alla vera e propria indipendenza, anche normativa. Al fine di superare la contraddizione tra una realtà pluralistica ed una teoria volta alla reductio ad unitatem , i giuristi medievali diedero vita ad una poderosa creazione concettuale che conciliasse il diritto romano (diritto dell’impero) e i diritti particolari. Fulcro della costruzione logica divenne allora il concetto di ius commune , vale a dire l’idea del diritto romano imperiale come diritto generale e universale, al quale dovevano essere ricondotti in posizione di subordinazione tutti gli iura propria , ossia i diritti degli ordinamenti giuridici particolari che nell’impero si ricomponevano in unità.Chiesa, antigermanesimo e scuole minoriAnche la Chiesa è caratterizzata da un certo antigermanesimo: in particolare contesta la composizione pecuniaria e il sistema probatorio fondato sul duello e sul giuramento.  Sotto la sua influenza, si tende a tornare al processo romano; la materia processualistica attira così l’interesse delle scuole minori; esempi ne sono il De natura actionum e il De actionum varietate , di cui è incerta la paternità, italiana o provenzale, ma anche di Bologna, dove Bulgaro scrive un trattatello e Anselmo dall’Orto lo Iuris civilis instrumentum ; in questi studi si evidenzia Mantova, dove Giovanni Bassiano compone una trilogia sulle azioni.  Mantova, Piacenza e Pavia sono centri di studi longobardistici, con produzioni di summae, glosse e piccoli trattati. A Modena Pillio scrive la summa Cum essem Mutine , raccolta di quaestiones sulla fase preparatoria della lite.La scuola provenzaleLa scuola provenzale si cimenta nelle summae (che saranno adottate anche da Bologna), in particolare del Codice e delle Istituzioni, tra cui spicca la summa Institutionum di Piacentino. Questi insegna prima a Piacenza, poi a Montpellier e infine a Bologna. Forte è il suo legame con le arti liberali. Il diritto è d’altra parte considerato un’appendice della retorica; solo agli inizi del Duecento Azzone rivendicherà l’autonomia del diritto e della scienza giuridica.

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    Pillio e AccursioPillio e ModenaAlla fine del XII secolo, si segnalano tentativi, tutti incompiuti, di comporre una summa dei tre libri del Codice: vi si cimentano Piacentino, Pillio, Rolando da Lucca. Pillio, che insegna a Modena, riesce comunque a portare a termine un Libellus disputatorius , vasta raccolta di brocardi sui principi tratti dalla compiliazione giustinianea. La tecnica del brocardo consiste nell’enucleare dalle leggi principi detti generalia , ai quali vengono affiancate le fonti che li supportano e quelli che li contrastano. Col tempo ad essi si aggiunge una solutio della contraddizione.Analoga al brocardo è la quaestio: la contrapposizione di due argomenti contrari circa un casus dubbio da cui poi estrapolare la solutio . Talvolta la quaestio concerne i testi normativi discordanti ( quaestio legitima ); altre volte un caso concreto tratto dalla prassi giudiziaria ( quaestiones ex facto emergentes ) o inventato dal maestro ( quaestio de facto ), il quale dà poi incarico agli allievi di sostenere le tesi contrapposte, per dare infine la soluzione ( quaestiones disputatae ). L’approccio critico al diritto giustinianeo imponeva quindi di passare dalla mera comprensione del testo alla discussione critica delle fattispecie normative e concrete.Mentre Bologna è concentrata esclusivamente sullo studio del diritto giustinianeo, la Modena di Pillio allarga i suoi orizzonti, assumendo tra le materie d’insegnamento i Libri feudorum , raccolta di consuetudini feudali lombarde. Pillio definisce il diritto del feudatario come dominium utile (un diritto reale su cosa altrui), contrapponendolo a quello del signore, che chiama dominio diretto. Il nome di diritto utile deriva dalle “azioni utili” che il superficiario, l’enfiteuta e il conduttore di lungo termine possono esercitare, e che Pillio estende, per analogia, anche al feudatario. Anche il diritto consuetudinario diventa oggetto di studio, e si controverte dell’ammissibilità delle consuetudini contra legem . Accursio e BolognaAll’inizio del Duecento a Bologna insegna Azzone, autore di summae al Codice e alle Istituzioni, nonché di una, incompiuta, al Digesto. Accursio, suo allievo, scrive una summa Authenticorum , e forse, una summa dei Libri feudorum ; lo stesso prosegue e porta a compimento l’opera del suo maestro di raccogliere e riordinare le glosse in una Magna Glossa , che correderà l’intero Corpus iuris . Essa attuò una selezione accurata e completa di tutto il materiale di glosse accumulatesi in oltre un secolo e mezzo sui testi giustinianei. Consta di 96.000 glosse, raccolte tra le migliori, conciliate e comunque presentate criticamente. Nell’uso pratico la Magna Glossa, detta anche Magna Glossa o Glossa Ordinaria , ottenne un enorme successo e dopo la sua apparizione il diritto romano giustinianeo poté diventare operativo soltanto attraverso l’apparato interpretativo da essa costituito.Giovanni BassianoFece parte della scuola bolognese dei Glossatori , ove ebbe come maestro Bulgaro . Insegnò allo studio bolognese ed ebbe tra i suoi discepoli Azzone. Giovanni Bassiano affronta la questione della causa del negozio giuridico. Egli la chiama causa finalis , individuandola in senso oggettivo (le cause finali della compravendita sono, per il compratore, l’acquisto del bene e per il venditore il conseguimento del prezzo) e distinguendola dallo scopo soggettivo perseguito dal singolo (che chiama causa impulsiva , oggi si parla di “motivi”). Alla causa finalis è legata l’efficacia del negozio ( cessante causa cessat effectus ). Ciò che appare strano, è che, ricondotti gli atti normativi allo schema del negozio giuridico (in quanto volontà del principe), si sente l’esigenza di cercare una causa legis , in assenza della quale la legge cadrebbe senza bisogno di abrogazione. La causa legis viene individuata nella “necessità urgente” o nella “utilità pubblica evidente”. Anche qui si distingue tra causa finalis e causa impulsiva : la prima diventa ratio legis . Il binomio causa-ratio si allarga presto anche all’equità, cui sempre il legislatore deve ispirarsi. E’ ormai il tramonto della glossa, la quale, considerata troppo attaccata alle parole, è vista come intralcio alla ricerca dell’equità. Graziano e la decretistica (1140-1234)Graziano ed il Decretum

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In questo periodo, ovvero contemporaneamente allo sviluppo delle scuole civiliste, anche il diritto canonico è in fermento, per merito soprattutto di Graziano (Monaco camaldolese, canonista, professore di diritto a Bologna). Egli ne affronta lo studio con l’intento di metterne in luce le contraddizioni per poi appianarle. Nasce così la Concordia discordantium canonum , che i suoi seguaci chiameranno Decretum . Questa raccolta, pubblicata intorno al 1140, era una raccolta di tutte le leggi ecclesiastiche fino ad allora emanate. L’opera di appianamento delle contraddizioni rinvenute confrontando i vari canoni era ispirata ai seguenti criteri, ià precedentemente seguiti da Abelardo : tra una norma generale e una speciale, prevale la seconda ( ratione dispensationis ); tra una norma antica e una recente, soccombe l’antica ( ratione temporis ); tra una norma generale e una particolare, si preferisce la prima ( ratione loci ); tra una norma chiara e una oscura, prevale la prima ( ratione significationis ). I testi sono accompagnati dal commento dottrinale di Graziano, attuato attraverso dicta (esposizione e risoluzione delle questioni), autoritates (argomenti di prova a conferma delle sue soluzioni), palee (aggiunte da parte dei discepoli, specie da Paucapalea e dal vescovo di Assisi Rufino).La materia trattata nel Decretum non è, comunque, soltanto di diritto canonico, ma anche di teologia morale e dogmatica. Data la grande fortuna dell’opera, sarà il Decretum per antonomasia. Graziano la concepisce non come collezione per la prassi, ma come manuale per la didattica, che utilizza insegnando a Bologna: città che vede così contemporaneamente il sorgere di due grandi scuole, quella canonistica e quella irneriana. Gli allievi e successori di Graziano apportano qualche modifica al Decretum , ne completano la sistemazione in tre parti; ci sono pervenute anche tre summae dell’opera. Dall’Italia la canonistica si diffonde in tutta Europa, specialmente in Francia.Un personaggio importante nella storia del diritto canonico è Uguccione da Pisa. Egli apre le porte del diritto canonico al diritto romano, ed esige una solida preparazione civilistica dai canonisti. Legò il suo nome ad un’ampia Summa sul Decretum , che ben presto si impose come il più esaustivo commentario dell’opera di Graziano.La decretisticaIn breve il Decretum diviene inadeguato a causa della intensa produzione normativa pontificia dei decretali (decisioni del pontefice, emanate prevalentemente in forma di epistole e decisioni dei concili, che disciplinano la posizione ed i rapporti dei membri della Chiesa cattolica e affrontano questioni relative al governo e alla vita di quest’ultima.). Le decretali vengono man mano aggiunte al Decretum, e sono dette extravagantes: ne fioriscono numerose raccolte, di cui cinque di maggior rilievo (Compilationes Antiquae).Gregorio IX ed il Liber ExtraLe fonti del diritto canonico sono tante, disordinate, contraddittorie: il Decretum diviene gradualmente un mero deposito di ius vetus . Papa Gregorio IX (1227-1241) interviene con l’intento di creare una nuova grande collezione di decretali. L’opera, che prende il nome di Decretali di Gregorio IX (1° RACCOLTA UFFICIALE) ma correntemente è nota come Liber Extravagantium , o Liber Extra; extra poiché si riferisce solo a produzioni posteriori al Decretum di Graziano), è portata a termine e diviene il pilastro dell’ordinamento della Chiesa, allorché delle altre collezioni è vietata la consultazione.Tra i maggiori studiosi della decretalistica ricordiamo Bernardo da Parma (che redige la glossa ordinaria del Liber Extra ), Goffredo da Trani, Sinibaldo Freschi (papa Innocenzo IV), Enrico da Susa l’Ostiense.   Questi è autore di una Summa e di una Lectura alle decretali gregoriane; è sostenitore della ierocrazia (al papa spetterebbe anche il potere temporale, e l’imperatore sarebbe in posizione subordinata, secondo la nota metafora del sole e della luna), contro le tesi di Gelasio. Le tesi ierocratiche, che prendono forza in questo periodo, implicano anche la supremazia del diritto canonico sul diritto civile; in realtà, è controverso il criterio da adottare per risolvere le antinomie tra le due fonti. Solo nel Trecento si affermerà un utrumque ius fondato sulla prevalenza del diritto canonico esclusivamente nelle fattispecie dal contenuto più marcatamente spirituale, lasciando al diritto civile quelle di contenuto temporale.Bonifacio VII ed il Liber SextusProprio quando, dopo la decapitazione di Corradino di Svevia (1268), la Chiesa sembra vittoriosa sull’Impero e si affermano le tesi ierocratiche, il Papato sprofonda nella crisi (Bonifacio VIII era salito al trono dopo le dimissioni di Celestino V, e aveva dovuto affrontare le aspre accuse dei Colonna), e sarà addirittura costretto da Filippo il Bello di Francia a trasferirsi ad Avignone. In questo contesto Bonificio VIII emana (1298) il Liber Sextus ( 2° RACCOLTA UFFICIALE sesto perché si aggiunge ai 5 del liber extra) , grande collezione di decretali, con l’intento di aggiornare il Liber Extra . Clemente V e le Clementine

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Pochi anni dopo Clemente V, primo papa della “cattività avignonese”, raccoglie le proprie decretali (Clementine – 3° RACCOLTA UFFICIALE): è da rilevare che in esse viene delineato il processo sommario, applicato anche nella giurisdizione civile. Nel 1331 Giovanni XXII emana la bolla Ratio iuris , che segna l’inizio della storia della Sacra Rota, massimo tribunale della Chiesa, di cui saranno pubblicate numerose raccolte di decisiones . Successivamente Jean Chappuis pubblicherà il Corpus iuris canonici , comprendente il Decreto di Graziano, il Liber Extra , il Sextus , le Clementine, le Extravagantes di Giovanni XXII, le Extravagantes communes . Il testo definitivo del Corpus fu approntato da una commissione istituita da Pio V e venne promulgato da Gregorio XIII nel 1582. Questo rimase in vigore fino al 1917, quando venne emanato il Codice di diritto canonico . Tornando alla canonistica, dobbiamo annoverare tra gli studiosi Guglielmo Durante (autore dello Speculum iudiciale ), Giovanni d’Andrea, bolognese del Trecento (autore di lecturae delle Decretali di Gregorio IX, di un apparato al Sextus e di uno alle Clementine), Giovanni da Legnano, Niccolò Tedeschi, Andrea Barbazza. Peraltro, anche i civilisti iniziano a mostrare interesse per il diritto canonico. I commentatori civilistiCon il passare del tempo accanto alle Glosse , le differenze di interpretazione si accentuarono ed ecco che si venne a formare un’altra categoria di opere: le Summa e (Forma letteraria ad imitazione delle summae dei filosofi e dei teologi, le summae giuridiche dei glossatori fornivano una trattazione sintetica e sistematica dei vari istituti). Così per i giuristi dell’epoca, il testo giustinianeo e l’interpretazione che di esso se ne dava non v'era alcuna differenza formale né sostanziale: le glossae e le summae erano considerate alla stregua del testo giustinianeo, tanto che la Summa di Azzone Soldanus allora venne usata come fonte normativa.L’età dei commentatoriDopo le ultime glossae di Accursio fu la volta della cosiddetta Età dei commentatori (sec XIV-XV), nella quale, attraverso una progressiva frattura tra glossa e commento, i giuristi (tra i quali Bartolo da Sassoferrato e Baldo degli Ubaldi ) sfruttarono il diritto romano giustinianeo per trovare le risposte che la società del tempo richiedeva, costruendo organicamente e scientificamente il diritto del tempo. Tutto ciò provocò, quindi, la creazione di nuovo diritto, per nulla legato alla disposizione testuale del Corpus . Fino ad allora non si era mai sottolineata la storicità del diritto e la sua relativizzazione. Da questo momento, invece, il giurista incomincia a porsi di fronte alla società con grande praticità, ovvero come sincero interprete in grado di offrire soluzioni ricavabili da quello ius commune ormai diffusosi in coabitazione con gli iura propria dei singoli territori. La scoperta della RatioQuesti espressero attraverso la forma letteraria del commento la loro attività scientifica. Tale forma letteraria si esplicava innanzitutto attraverso la lettura del testo normativo, il quale veniva poi analizzato nei suoi elementi costitutivi; faceva seguito una enunciazione riassuntiva, con l’indicazione a titolo esemplificativo di alcuni casi pratici. Infine, esposte le osservazioni di maggiore rilievo, venivano affrontate tutte le problematiche che potevano sorgere. Attraverso questa tecnica interpretativa il giurista aveva la possibilità di cogliere la ratio ispiratrice della norma, che poteva essere applicata anche a fattispecie diverse da quella originariamente prevista dalla norma stessa.L’introduzione del concetto di ratio legis determina importanti cambiamenti: all’interpretazione “ricettiva” della glossa (che si avvia al tramonto) si sostituisce quella “creativa”, tesa anche alla creazione di nuovi istituti, fondandosi sulla capacità della ratio di estendersi de similibus ad similia . I nuovi commentatori civilisti saranno chiamati “dialettici”, perché facenti uso della dialettica, la quale peraltro non era certo ignota ai glossatori.Questa concezione innovativa si afferma soprattutto in Francia, ad Orleans, dove insegnano maestri provenienti dall’ alma mater bolognese; purtuttavia la scuola francese rivendica con decisione la sua indipendenza (Racconta Guido de Cumis che al momento di sostenere l’esame finale di laurea trovò tra i suoi esaminatori Accursio, del quale osò criticare una glossa; Accursio voleva respingerlo e Guido fu salvato solo dall’intervento di Iacopo Balduini, che era stato suo maestro a Bologna).La scuola orleanese – Jacques de Revigny e Pierre   de Belleperche Importanti esponenti dello Studio Orleanese sono Jacques de Revigny, giurista e professore dell’università di Orléans. Questi fu, con Pierre de Belleperche , la personalità giuridica francese più

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importante del XIII secolo. Intriso di conoscenze filosofiche, in particolar modo aristoteliche, egli ricercò tutte le possibili soluzioni interpretative contenute nel Corpus iuris civilis , utilizzando gli strumenti della dialettica. In tal modo, fu possibile “creare” norme non esplicitamente enunciate, ma che erano implicite nel Corpus , per cui andavano enucleate con un’argomentazione dialettica, utilizzando spesso l’ argumentum a fortiori . In tal modo, le norme romane finivano per estendersi in maniera illimitata, aumentando considerevolmente il potere dell’interprete. Egli fu autore di imponenti lecturae , ricche di repetitiones (Le repetitiones erano lezioni o conferenze tenute fuori dall’orario didattico e destinate a un’esegesi approfondita delle leggi) e quaestiones , sulle Istituzioni, sul Codice e del De significatione verborum o Dictionarium iuris , dizionario di voci giuridiche. Un altro personaggio fondamentale della scuola Orleanese fu Pierre de Belleperche (Petrus de Bellapertica), anch’egli autore di lecturae , quaestiones e repetitiones . Ad entrambi è stata erroneamente attribuita una summa dei Libri feudorum lombardi. Famosa per gli insegnamenti civilistici, Orleans ha anche insegnamenti canonistici. Ad Orleans si inventa una originale concezione dell’Impero, considerato per la prima volta una persona giuridica ( persona repraesentata ) del quale l’imperatore non è che l’amministratore: centro d’imputazione del potere è  infatti l’Impero, non il monarca.L’influenza italiana della scuola orleanese ed i commentatori italiani – Cino da PistoiaUn giurista italiano, Cino da Pistoia, mostra grande ammirazione per il de Revigny e per il Belleperche. Egli è autore di un commentario al Codice e all’inizio del Digesto, ma pure si cimenta nelle quaestiones (le quali consistevano in dispute condotte intorno a casi giuridici controversi. Solitamente alla disputa era dedicato un apposito incontro fra un professore e gli scolari della città. A partire dal secolo XII vi era l’obbligo per il professore di organizzare almeno due dispute annuali e di redigere, secondo l’andamento e le argomentazioni del dibattito, un testo ufficiale dei risultati raggiunti,. Alle quaestiones il professore partecipava col compito di riassumere le ragioni in un senso e quelle in un altro e dicendo, infine, la propria opinione quasi a titolo di sentenza ( solutio )) , e nei consilia (pareri forniti dai giurecosulti, su richiesta di giudici o di privati, e relativi ad una controversia o ad una questione di diritto). oltreché nel genere nuovo delle additiones , compiendo aggiunte alla glossa accursiana. Con lui si apre la storia dei commentatori civilisti italiani. La scuola di Padova, nata nel 1222 a seguito di una migrazione studentesca da Bologna, annovera tra i suoi studiosi Alberico da Rosciate, autore di una importante esegesi del Corpus iuris. In questo periodo si diffonde il modello della scuola istituzionalizzata, dove insegnamenti di maestri sono coordinati e uniti sotto la prestigiosa qualifica di “Studium generale”, che può essere concessa da papi e imperatori: è una novità rispetto alle scuole postirneriane in cui insegnavano singoli maestri. I più importanti Studia generalia sono quelli di Pisa, Siena, Firenze, Pavia, Perugia. Quivi insegna Cino da Pistoia, che ha tra i suoi discepoli Bartolo da Sassoferrato, destinato ad avere grandissima fama.Bartolo da SassoferratoBartolo compie studi non solo sulle fonti giustinianee ma anche sull’ordinamento comunale (Bartolo scrive dei trattatelli sulle costituzioni Ad reprimendum e Qui sint rebelles di Arrigo VII, analizza l’istituto del bando, le forme di tirannia dei regimi signorili, la diatriba tra guelfi e ghibellini). Egli occupò una posizione di enorme prestigio nell’ambito della scuola dei Commentatori ,per la capacità di interpretare le esigenze del suo tempo. Visse infatti nel secolo di massima esplosione della vita economica del comune , che pose alla dottrina il problema di determinare i rapporti tra ius commune. Baldo degli UbaldiAllievo di Bartolo, Baldo degli Ubaldi è famoso per la sua produzione di consilia , oltreché per una esegesi del Digesto, per un commento alla Pace di Costanza, per i commenti alle principali fonti del diritto canonico; più che un civilista, esso è – il primo – giurista in utroque .  L’umanesimo GiuridicoL’argumentum ab auctoritateLa ricerca della ratio legis , il liberarsi dal vincolo dell’interpretazione letterale rischiano di rendere arbitraria e incerta l’interpretazione del diritto. Si afferma così il metodo argomentativo dell’ argumentum ab auctoritate , fondato sull’autorevolezza della dottrina del maestro che le professa. L’ argumentum ab auctoritate presenta analogie con la teoria romana dell’ exemplum (L’ exemplum era la precedente soluzione di un caso alla quale giudici e giuristi potevano far riferimento. Giustiniano ne sancì comunque la non vincolatività). L’ argumentum ab auctoritate non è tuttavia considerato necessarium (vincolante):

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l’opinione del dottore infatti è generale ma non necessaria (simile al ruolo della dottrina moderna dei paesi di civil law); la sentenza del giudice è necessaria ma non generale; solo la legge è generale e necessaria. Tuttavia l’uso prolungato e costante dell’ argumentum ab auctoritate rende l’interpretazione abbastanza obiettiva e condivisa, diventando opinio communis , e quasi mai i giudici, pur potendo, si distaccano da essa.Panorama storicoNel Quattrocento, con l’umanesimo si ridesta l’interesse per la filologia, sopito nei commentatori. Gli umanisti criticano e disprezzano i dialettici, cercano la riscossa delle arti liberali sul diritto. D’altronde gli stessi giuristi non possono far meno della filologia, allorché essi apprendono dagli umanisti che il testo del Digesto vulgato è corrotto (Il giurista bolognese Ludovico Bolognini tentò di realizzare un’edizione critica del Digesto ma la sua opera fu piuttosto frammentaria e modesta). Percepiscono però il rischio che con esso venga messo in discussione il patrimonio dottrinale.La nascita dell’umanesimo giuridicoNel cinquecento, innanzitutto, si affermò la scuola degli Umanisti : questi giuristi fecero parte del generale movimento intellettuale dell’epoca, e ne condivisero l’entusiasmo per il ritorno alle fonti, l’avversione per il barbarismo medievale (in particolare per il cattivo Latino ) e l’amore per il metodo filologico e storico volto a scoprire il vero significato dell’antichità classica e delle sue opere. I giuristi umanisti volevano ricostruire il diritto romano ed il ruolo che esso giocò nell’antichità, per cui era necessario liberarlo dai sedimenti e dai travisamenti medievali, e sviluppare un vero approccio storico. Questo fu ciò che essi si impegnarono a realizzare, e non vi è dubbio che raggiunsero una più profonda e più esatta comprensione del diritto di Roma e della società in cui esso operava. Si diffuse perciò la convinzione che il diritto puro dell’antichità era applicabile solo all’antica Roma; la prospettiva critica con cui venne studiato il ius commune decretò progressivamente la sua fine, in corrispondenza anche con la progressiva statualizzazione del diritto . Ulteriore caratteristica dei giuristi umanisti fu la convinzione che, per poter accedere allo studio del diritto, occorresse essere estremamente preparati non solo in materie giuridiche ma anche in altre discipline, soprattutto in storia e filologia, per non incorrere negli errori e nelle ignoranti affermazioni che essi attribuivano a glossatori e commentatori . In sostanza, l’atteggiamento comune agli umanisti fu di distacco nei confronti degli antichi testi: essi andavano valutati in modo critico e molto libero come mera testimonianza del passato. Il Corpus iuris giustinianeo veniva considerato come patrimonio culturale, come deposito di nozioni ed istituti giuridici la cui validità non era, tuttavia, aprioristica, ma andava evidenziata solo a seguito di un elaborato processo di conformazione ai criteri della ragione.Esso si diffonde in tutta Europa: tra gli esponenti principali ricordiamo il francese Budeo, il tedesco Zasio e l’italiano Alciato. Questi insegna a Bourges ed ha tra i suoi uditori Francesco Connan, che elabora una interessante teoria del sinallagma .Mentre la scuola francese è permeata dall’umanesimo, la scuola italiana resta ancorata al metodo dialettico-scolastico, tanto che si contrappone un mos gallicus iura docendi ad un mos italicus iura docendi . In Francia il diritto romano non viene tenuto nella stessa considerazione che ha in Italia, perché viene osteggiata l’idea di un diritto universale (dell’Impero) che possa mettere in pericolo l’identità nazionale francese: lo stesso diritto comune è oltralpe considerato l’insieme delle consuetudini francesi. Ciò implica una posizione critica nei confronti del Corpus Iuris (antitribonianismo), che non viene più considerato un modello: le leggi giustinianee non sono state ispirate da Dio, e, fatte da uomini fallibili, sono imperfette. I comuniCostituzione ed evoluzione storica dei comuniNel Basso Medioevo un nuovo protagonista si affaccia nella storia medievale: il Comune. Numerose e contrastanti sono le teorie formulate sull’origine del comune. Secondo alcuni esso sarebbe sorto in seguito ad apposita licenza imperiale del periodo ottoniano, ma di essa non si hanno notizie precise. Altri vedono nel comune la continuazione del Municipio romano. L’opinione prevalente tuttavia lo considera un’istituzione del tutto nuova e autonoma rispetto a simili istituzioni precedenti. Ad ogni modo, i fattori posti all’origine del comune furono soprattutto di ordine politico ed economico. Al termine delle invasioni straniere (degli Ungari e degli Arabi), le città italiane si sentirono rassicurate e ciò produsse un incremento demografico e delle attività commerciali, che a sua volta generò una forte attrattiva dalle campagne (inurbamento). La costituzione del comune avveniva mediante la prestazione di un giuramento reciproco tra cittadini e consoli (una sorta di primo magistrato) o rettori. Ciascun capofamiglia, in

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rappresentanza dei membri della propria famiglia, giurava di desistere da qualsiasi comportamento dannoso o pericoloso per la pubblica quiete e di informare la propria attività all’interesse della collettività. A loro volta, i consoli (o rettori), il cui numero variava da un minimo di due ad un massimo di dodici, promettevano alla comunità di improntare il proprio operato al servizio dei citadini. Il potere normativo, ossia il diritto di darsi proprie leggi, entro i limiti del diritto comune , era esercitato dapprima da un Parlamento, presieduto dai consoli e composto solitamente da tutti i capifamiglia. Tale organo, che prendeva il nome di Consiglio ( Consilium ) o Arengo ( Arengum ) si riuniva solitamente nelle arene romane, dinanzi alla cattedrale o negli antichi teatri e. oltre ad approvare le leggi, dichiarava le guerre, stipulava la pace ed eleggeva i vari ufficiali. A partire dagli ultimi anni del secolo XI, la reggenza del comune fu attribuita ad un podestà (un supremo magistrato eletto, che per meglio garantire la propria estraneità alle lotte di potere che dilaniavano i contrapposti partiti politici di ogni comune egli veniva scelto tra i migliori cittadini di altra città; durava in carica, di regola, un anno, trascorso il quale il suo operato era soggetto a sindacato. Ad esso non spettavano funzioni legislative; egli era accompagnato da un seguito di collaboratori con incarichi speciali, doveva adottare uno stile di vita irreprensibile e non poteva stringere rapporti sociali con alcuno. Era rigidamente vincolato al rispetto delle norme statutarie che, tra l’altro, disciplinavano i limiti dell’esercizio dei suoi poteri discrezionali. non rieleggibile, che doveva essere straniero, di età non superiore ai trent’anni, ricco, nobile, persona d’armi (in tempo di guerra) ed uomo di scienza (in tempo di pace)). Il comune ebbe definitivamente affermazione in seguito al conflitto con Federico I Barbarossa ed alla successiva Pace di Costanza , con questa i comuni ottennero il riconoscimento dell’autonomia politica e giuridica, con la possibilità di emanare Statuti. In cambio essi dovevano prestare giuramento di fedeltà all’imperatore e sottoporre all’approvazione di quest’ultimo i nomi dei consoli eletti (prima a capo dei comuni erano messi i podestà direttamente dal re). Oltre che in Italia, sorsero comuni in Germania, nella Francia meridionale e nelle Fiandre, in Spagna e in Belgio.Il diritto comunaleLa legislazione statutaria comunale ebbe eccezionale rilievo; lo statuto raggruppava in se: consuetudini locali (antiche e meno antiche), norme deliberate dall’assemblea generale ( statuta in senso stretto) e brevia (documento diplomatico contenente il riassunto del giuramento, che all’atto della costituzione di un comune veniva scambiato reciprocamente tra il capo del comune da un lato ed i cittadini dall’altro). Agli statuti comunali si affiancano gli statuti delle corporazioni, che stabiliscono norme per coloro che esercitano lo stesso mestiere.La pace di costanzaIn un primo momento Federico Barbarossa pose a governo dei Comuni i podestà,  spesso degli ufficiali tedeschi considerati in Italia come oppressori. I Comuni cacciarono i podestà, si unirono nella Lega Lombarda, sconfissero l’imperatore a Legnano (1176). Nel 1183 la pace di Costanza conferma la formale sottomissione dei Comuni all’Impero; ma sancisce il riconoscimento imperiale delle consuetudini, quelle autonomie che i Comuni avevano usurpato, e la rinuncia alla regalie. L’Impero riteneva che il testo della pace vigesse solo nei confronti delle città espressamente nominate, e che la sua efficacia fosse condizionata dal rispetto della fedeltà al monarca, che comunque poteva revocare a sua discrezione i privilegi concessi. Ben diversa interpretazione è data dai Comuni; addirittura la Pace di Costanza è inserita nel Corpus Iuris; il cardinale Ostiense la chiamerà Novella lombarda.La pace di Costanza stimolò il perfezionarsi delle burocrazie urbane, aumentando l’importanza dei notai; a Bologna si costituisce la societas notariorum , una corporazione molto potente. Pare che il notaio Salatiele tentò, senza successo, di agganciarla allo Studium , per l’opposizione di Rolando Passeggero che preferisce non disperdere l’ ars notaria tra le nuvole della scienza teorica conservandone le tecniche specifiche, come l’impianto formulistico.Dopo la Pace di CostanzaDopo Costanza, i Comuni scelgono i propri podestà non tra i cittadini ma tra i forestieri, per l’esigenza di assicurare l’imparzialità del governo, sottratto alle beghe locali. Al podestà si affianca la figura del Capitano del popolo: in sostanza, il primo rappresenta nobili e magnati, il secondo le fazioni popolari. Il Comune è teatro di lotte intestine: i nobili sono soprattutto ghibellini, il ceto popolare è guelfo; quando ci sarà la vittoria dei guelfi, ci saranno vendette che porteranno all’espulsione di numerose casate.Questi eventi hanno riflessi sul mondo giuridico. Il processo inquisitorio soppianta quello accusatorio (Il rito accusatorio aveva largamente prevalso nell’Alto Medioevo, consono all’idea che il reato generasse un rapporto di tipo privatistico tra offeso e offensore, per cui il primo, portatore dell’interesse al risarcimento, aveva l’onere della prova. Il processo inquisitorio presuppone invece l’interesse pubblico alla repressione:

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il giudice prima indaga e poi giudica, con pregiudizio della sua posizione di imparzialità), cosicché cresce l’importanza della tortura (Ne sono esentati, ratione personae i fanciulli, i vecchi, i malati, le donne incinte; ratione dignitatis gli uomini di Stato, gli alti gradi militari, i nobili, gli ecclesiastici e i doctores) . Vedono la luce trattazioni di diritto e procedura penale (libelli), scritte da giudici e specialmente rivolte alla prassi, ma comunque attingenti dalla produzione accademica, in particolare dalle quaestiones .   Tra gli autori di libelli, ricordiamo il Gandino e l’Antelmi.Nel clima tempestoso del Comune si diffonde l’istituto del bando, che prevede l’espulsione della città e la confisca dei beni per ragioni politiche.Lentamente, i Comuni si trasformano in Signorie. Alcuni accostano i signori ai tiranni: Bartolo considera tiranni coloro che governano il potere senza alcun titolo o, che pur avendolo, esorbitano dalle loro competenze.Con le repubbliche marinare si sviluppa il diritto consuetudinario marittimo. Ordinamenti monarchici italianiQuando, a partire dalla fine del XI secolo, l'omogenea struttura feudale cominciò a trasformarsi in un complesso più articolato, la monarchia venne a porsi come indispensabile strumento di mediazione tra le varie forze in campo (nobiltà e borghesia, centri cittadini e campagna feudale). Nel 1550 si afferma infatti l’ assolutismo monarchico e in virtù di questo il principe aumenta la propria attività legislativa intaccando sempre più il consolidato diritto comune. L’esigenza di consolidare il potere si traduce, nel campo del diritto, nell’esaltazione normativa dell’autorità dello stato piuttosto che nella premiazione dei meriti e delle competenze dei giuristi.Chiesa e ordinamenti monarchiciLo sfacelo dell’unità imperiale, ainsieme all’avvento degli stati principeschi e monarchici ebbero influenze negative anche sul diritto canonico . L’emergere delle dottrine assolutistiche post-medievali era in contrasto con la dottrina delle due potestà, entrambe sovrane ed indipendenti del Medioevo ; quell’idea di unità politico giuridica tipica dell’universo medievale veniva intaccata, così come anche l’idea di una Respublica christiana superstatale. In Italia furono molte le attribuzioni sottratte alla Chiesa e forte fu l’ingerenza statale nell’amministrazione della sfera religiosa. A questo va anche collegata la Riforma protestante che determinò il crollo del primato cattolico e la rottura dell’unità del mondo cristiano d’ Occidente , dando luogo ad un fenomeno di territorializzazione. I novelli paesi riformati si rifiutarono ufficialmente di riconoscere il diritto canonico. Tale erosione di competenze del diritto canonico causò un marcato distacco di esso dal diritto civile (i due diritti avevano raggiunto la maggiore unità nel campo del processo).Ordinamenti monarchici e dirittoLa nascita di ordinamenti monarchici, alternativi al potere imperiale universale, pone problemi relativi alla loro legittimità. Essi rivendicano una loro autonomia che contrasta l’applicazione del diritto romano e del diritto comune.Costituzioni EgidianeNell’Italia centrale lo Stato pontificio vede la nascita delle Costituzioni egidiane, raccolta completa e organica della legislazione vigente negli Stati della Chiesa. Trattasi di un codice diviso in sei libri, pubblicato nel 1357 dal cardinale spagnolo Egidio Alvarez Carrillo de Albornoz (1310-1367), su incarico del pontefice Innocenzo VI (1352-1362). Tale codice era intitolato Constitutiones o Liber Constitutionum Sanctae matris Ecclesiae , conosciuto anche come Constitutiones Marchiae Anconitanae . Esso, utilizzando la legislazione precedente, poneva ordine all’enorme materiale a disposizione, eliminando il superfluo e le norme obsolete. Inoltre, veniva abrogata ogni altra norma non ricompresa nella compilazione, con la conseguenza che le Costituzioni costituivano l’unico diritto generale vigente.Liber Augustalis e Federico IIUn vero e proprio codice è emanato a Malfi nel 1231 da Federico II nel regno di Sicilia ( Liber Augustalis ). Ne furono autori Pier delle Vigne e Iacopo, arcivescovo di Capua. Il Liber rappresentava il diritto generale del Regnum Siciliae ; gli altri diritti, comuni e particolari, sarebbero restati in vigore, solo se non lo avessero contraddetto. Si divide in tre libri, suddivisi in titoli, ciascuno dei quali ha la sua rubrica. Il primo libro è dedicato all’ordinamento del regno, in particolare magistrature e finanze; il secondo si occupa del processo; il terzo comprende norme diverse di diritto privato, penale e feudale. Per compattezza e struttura logica il Liber rappresenta un’opera legislativa unica per l’epoca. Nell’aspetto esteriore si riallaccia alla legislazione degli imperatori romani (da cui il nome). Come personificazione del

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diritto al pari di quelli, Federico II promulgò il Liber da solo dopo averla sottoposto all’esame di un’assemblea imperiale a Melfi. Per quanto concerne le fonti, vi si ritrovano essenzialmente la legislazione normanna, il diritto romano ma anche alcune decretali pontificie e taluni statuti municipali delle città settentrionali. La parte più importante concerne la riforma delle cariche pubbliche. Per la prima volta nel Medioevo uno Stato si fondava su una magistratura interamente laica. L’appalto delle cariche fu abolito e furono stabiliti compensi fissi per i funzionari. Una riforma completa subì la giustizia, che venne tolta ai feudatari, ed affidata ai giustizieri dello Stato . A capo della giustizia e dell’amministrazione vi era il magister justiciarus . Nel diritto penale fu attuato il criterio dell’inchiesta d’ufficio sia per l’accusa, sia per la prova. Il processo civile si ispirava al diritto romano, senza riguardo alle nazionalità delle parti in causa. Il feudalesimo non fu abolito, ma sottomesso a una tendenza centripeta fondata sulla fedeltà individuale al re. L’amministrazione finanziaria fu accentrata.Ai tribunali ecclesiastici il Liber sottrasse la giurisdizione sui laici e persino sugli eretici. Anche gli ecclesiastici, in taluni casi, dovevano essere giudicati da tribunali regi. Agli ecclesiastici fu inibito l’esercizio di pubbliche funzioni e venne notevolmente limitato il diritto di possedere terreni: in caso di devoluzione ereditaria, le terre dovevano entro un anno essere alienate, a pena di confisca. Il Liber vietò, inoltre, ai comuni l’esistenza autonoma, con propri magistrati e comminò, in caso di contravvenzione a tale divieto, il saccheggio della città e la pena di morte ai magistrati comunali.Il Sud era un vero e proprio “caleidoscopio giuridico”. Federico II raccoglie alcune costituzioni normanne, tenendo altresì in considerazione la legge longobarda e quella romana. Secondo una versione tarda (interpolata) della costituzione federiciana Puritatem, il diritto longobardo e quello romano avrebbero costituito i diritti comuni del regno; secondo il Calasso, ciò è impossibile, perché il diritto comune può essere uno solo, ed è vero simile che fosse quello romano, essendo troppo rozzo quello longobardo.Nel Duecento, in Campania, Carlo di Tocco apre una scuola di studio del diritto longobardo; contemporaneamente, Federico II inaugura lo Studio di Napoli, dove si affronta lo studio del diritto romano, con lo scopo di far concorrenza a Bologna: si studiano i testi giustinianei, non il Liber Augustalis ( ius Regni ); questo fa sì che la cultura accademica napoletana non attira l’interesse dei pratici. Quando la Sicilia passa agli aragonesi, vi resta in vigore il Liber; però gli si affianca la legislazione aragonese, che, con il cap. Volentes concede la libera alienabilità dei feudi senza il consenso regio.In Sardegna, nel 1391 è emanata la Carta de Logu de Arborea, complesso normativo in lingua sarda, tenuto in vita anche dopo la conquista aragonese, promulgato dalla giudicessa Eleonora, che racchiude consuetudini locali, ma che fa riferimento anche al diritto canonico e al diritto romano.Nel 1430 il duca Amedeo VIII emana un legislazione unitaria per il Ducato di Savoia.  Il sangue dell’onoreAppannaggio pressoché esclusivo del ceto aristocratico e del sesso maschile, il duello rappresenta un istituto – «polimorfo per definizione» – che «storicamente fu in grado di cogliere inflessioni di enorme raffinatezza e sottigliezza, nonché di rimodulare assai variamente funzioni e struttura in differenti contesti sociali e culturali». Questa istituzione, ridottasi nel corso del XX secolo a mero fossile sociale e giuridico, riuscì a diventare «una delle essenziali chiavi di volta del medioevo e dell’età moderna in Europa» Il duello ordalicoIl duello giudiziario “per prova della verità” – conosciuto anche coi nomi di duello giudiziario ordalico , di monomachia e di pugna – fu il primo tipo di duello ad apparire in Europa. Esistente già in epoca remota presso alcune popolazioni dei territori centro-settentrionali, la monomachia si diffuse nelle regioni mediterranee di pari passo con lo sfaldamento dell’Impero romano, conservando dappertutto quasi inalterata l’originaria matrice germanico-barbarica. Normalmente riservata ai liberi (in età feudale, ai milites et nobiles ), essa «consisteva in un giudizio di Dio concesso dal giudice per risolvere liti civili e criminali»: dall’esito dello scontro fra uomini armati si coglieva la sentenza inappellabile della divinità. Non diversamente dalle altre ordalie (prova del fuoco, dell’acqua fredda, del ferro arroventato, del pane e formaggio, della bilancia ecc.), il duello giudiziario appariva con tutta evidenza « espressione di una civiltà giuridica in cui le dimensioni della religione, della morale e del diritto venivano percepite insieme ed indistintamente nell’unità del verbo divino ».  

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Evoluzione storica del duello ordalicoL’atteggiamento dei Longobardi rispetto al duello fu caratterizzato dall’alternarsi tra momenti di apertura e ferma opposizione, specie nell’ultimo periodo. La rivalutazione dell’istituto avvenne contestualmente al declino della dominazione barbarica e all’avvento dei Carolingi.Nella società medievale il potere pubblico investiva uno spazio esiguo nell’amministrazione della giustizia; infatti, salvo rari e gravi reati, come quello di lesa maestà, la materia criminale era rimessa alle transazioni private.La barbara monomachia entrò in crisi nel Duecento-Trecento, allorquando – fra innumerevoli varietà locali – iniziò una sua trasfigurazione nell’aulico duello d’onore all’italiana, come ben documenta il Tractatus de bello, de represaliis et de duello , redatto nel 1360 da Giovanni da Legnano. Tale irreversibile declino del duello ordalico fu causato da tre fattori:

·       i costi notevoli a carico delle parti (cauzioni processuali, spese d’allestimento, compensi dei pugiles ecc.); ·       le prime politiche accentratrici per via legislativa;·       le posizioni del mondo ecclesiastico: la Chiesa e il diritto canonico – a partire soprattutto dal XII secolo – si schierarono in modo intransigente contro il proliferare di giudizi di Dio, dal momento che questi ultimi risultavano conditi da invocazioni mistiche e anatemi di carattere liturgico che di cristiano conservavano molto poco e in quanto vi era la consuetudine di prevedere pratiche religiose di supporto alla monomachia (per esempio, la cerimonia di benedizione delle armi da utilizzare nel campo chiuso, prassi abituale in alcune città, oppure – come si è visto – la missa pro duello e i vari giuramenti). Da parte ecclesiastica si rammentava che ricorrere alla pugna – definita come una vera e propria «invenzione demoniaca» – significava sia tentare Dio, perché innaturalmente gli uomini ricercavano ciò che non poteva verificarsi se non grazie ad un miracolo divino, sia porre i corpi a rischio di morte e le anime in pericolo di dannazione.

Come si è accennato, al progressivo abbandono del duello ordalico contribuì anche una serie di legislazioni secolari restrittive: esse emersero durante quel processo di scientificizzazione del diritto che, sulla base del diritto romano-canonico, puntava ad assoggettare istituti e consuetudini all’analisi e alle categorie concettuali dei giuristi dotti; il duello giudiziario, comunque, venne sempre percepito quale pratica sostanzialmente estranea all’universo del diritto comune, solo localmente ed eccezionalmente ammissibile per via normativa.Svolgimento del duello ordalicoI duelli ordalici si svolgevano secondo le consuetudini locali, che peraltro differivano solo marginalmente fra di loro, in quanto « la fraternità cavalleresca dei duellanti tendeva a favorire lo sviluppo di istituti unitari: la cavalleria era ceto ed istituzione largamente sovranazionale ». La concessione della monomachia poteva avvenire o attraverso la decisione del giudice o attraverso la semplice richiesta dell’accusatore senz’alcuna precedente attività giudiziale (in questa seconda evenienza, il giudice si limitava a valutare la congruità della causa). Il grave caso da risolvere con le armi doveva tassativamente rientrare in una delle fattispecie previste dalla tradizione germanica ovvero dalla normativa locale . Talvolta, come accadeva in Francia, l’accusatore era tenuto a dichiarare formalmente ai giudici che non esisteva altro mezzo di prova se non il duello, dopodiché gettava a terra un oggetto simbolico (ad esempio, un guanto): raccogliendolo, l’avversario dimostrava pubblicamente e incontestabilmente di accettare la sfida; la parola passava così alle armi.Le parti si battevano molto spesso mediante “campioni”, detti romanisticamente pugiles , che venivano scelti dal giudice in modo che la loro forza fisica e la loro destrezza si equivalessero il più possibile; erano prezzolati e tenuti quale categoria infamata. Specie in antico, ogni campione giurava, prima dello scontro, sul buon fondamento della causa che si accingeva a difendere: chi, nel combattimento, soccombeva era quindi considerato spergiuro e non di rado punito col taglio della mano o con la morte. I pugiles si sfidavano all’interno del “campo chiuso”, che era un luogo ampio e piano, ricavato dentro o fuori della città e circondato dalla “lizza”, il “segno” che delimitava l’area dello scontro e che di solito consisteva in una barriera di legno; mantenuto in ordine da una “polizia degli steccati”, il campo era sorvegliato dal giudice e tutelato da pubblico “banno”.Il giorno prefissato, dopo la missa pro duello ed altri rituali religiosi, i contendenti si presentavano nel campo chiuso dinanzi al re e, dopo aver eventualmente contestato e fatto modificare le armi loro assegnate dal giudice (quasi sempre scudi e bastoni ovvero spade e lance), ascoltavano le regole del confronto lette da un araldo e prestavano alcuni giuramenti di rito. Sovente il giudice nominava due arbitri

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col compito di verificare l’esatta applicazione delle regole e il buon ordine in campo. A questo punto, lo scontro poteva avere inizio. Era ritenuto perdente chi toccava terra col capo ovvero fuoriusciva dallo steccato ovvero si riconosceva vinto: i casi di morte erano assai rari. In attesa delle decisioni del giudice, lo sconfitto veniva provvisoriamente incarcerato, mentre tutti i suoi beni erano confiscati dal re, una volta rimborsato il vincitore delle spese sostenute. Duello in torneoL’epoca in cui la monomachia pervenne all’apice della fortuna, coincise con l’inizio dell’espansione su scala europea del duello in torneo “per ostentazione di forza e di valore ” . Quest’ultimo, nato secondo la leggenda intorno al 1066 in Francia, era finalizzato a dar pubblica dimostrazione del coraggio e del valore marziale dei contendenti, a mantenere in allenamento quanti esercitavano il mestiere delle armi, ad esprimere in un linguaggio festoso e fastoso la complessità dell’etica cavalleresca, a trasmettere consuetudini e modelli comportamentali nobiliari.In antico, i tornei si svolgevano soprattutto durante le guerre, nelle pause, fra gruppi di cavalieri degli eserciti nemici, che si sfidavano in un luogo e in un tempo concordati; se inizialmente mancavano vere e proprie regole, andò via via affermandosi un codice etico cavalleresco e cortese, e le armi vennero spuntate. Fra Trecento e Quattrocento, ormai dotato di un proprio statuto ludico di gioco d’armi, il torneo diventò una festa ricorrente nelle città e nelle corti. Dal torneo trasse peraltro origine la “giostra mortale”, condotta ad oltranza con armi letali, fino alla resa o alla morte di una delle parti.Assai diffusi soprattutto in Francia, i tornei si svolgevano fra uomini a cavallo in un campo che era aperto ovvero chiuso da palizzate. Intorno all’area del confronto erano predisposti palchi di legno per il pubblico di maggior riguardo: in prima linea, i giudici. Gli allestimenti potevano essere più o meno sfarzosi. Fondamentale era il ruolo degli araldi : annunciavano l’imminenza dell’apertura dei giochi e ne assicuravano l’ordinato e corretto svolgimento, presentavano – esaltandone le mirabili virtù guerriere e la preclara nobiltà di sangue – i cavalieri nel momento in cui essi scendevano in campo, erano «i massimi conoscitori ed interpreti delle ‘leggi’ dei tornei e come tali erano consultati su ogni problema, anzi talora – soprattutto nel XV secolo – si [fecero] essi stessi scrittori e trattatisti»Il torneo poteva consistere o in una serie di giostre, che ricordavano più da vicino i duelli, o – rifacendosi al remoto, autentico “torneo” – in uno scontro generale di gruppi. Spesso le giostre individuali terminavano con la caduta a terra di uno dei due contendenti, ma potevano anche articolarsi diversamente. Di solito al vincitore venivano assegnati premi quali uno scudo, una cintura o un altro utensile bellico di valore, oltre alle costose armi del vinto e all’eventuale prezzo del suo riscatto; meno di frequente veniva offerta anche la “mano” di una nobildonna con annessa dote.La condanna ecclesiastica del torneo, sempre apparsa tutto sommato abbastanza blanda, e il fatto che l’omicidio colposo che talvolta vi si commetteva risultasse escluso dal diritto comune, non impedirono a questo tipo di duello di entrare in crisi nel Cinquecento, una fortuna che peraltro andò declinando lentamente nel corso dell’intero l’antico regime. Ciò si spiega sia col duplice avvento della Riforma e della Controriforma, e dunque di un clima poco propizio a fatui giochi di guerra, sia col verificarsi di alcuni tragici episodi che – a cominciare dalla morte in torneo nel 1559 del re di Francia, Enrico II – suscitarono un’enorme impressione e presentimenti sinistri nei contemporanei.  Il duello d’onoreNel XIV secolo nobili e militari iniziarono a ricorrere al duello d’onore allo scopo di « risolvere la gran parte delle loro controversie al di fuori di qualsiasi intromissione statale ». Il diritto al singulare certamen «era, dunque, percepito come un intangibile diritto naturale, che si legittimava nella terra e nella storia, nel sangue antico di nobili antenati e nell’integerrima osservanza delle virtù marziali» e rappresentò un vero e proprio archetipo culturale.Anche se il processo ordinario interpretava e reprimeva l’ingiuria come violazione del buon ordine pubblico, i nobili e i militari ritenevano che recuperare l’onorabilità – cioè l’onore esterno, la percezione che dell’onore di ogni individuo di elevata condizione possedevano gli altri aristocratici – fosse diritto/dovere del gentiluomo offeso, e il politico arbitrio del legislatore non aveva ne l’autorità ne i mezzi per intaccare lecitamente il diritto del gentiluomo alla salvaguardia del proprio onore; e la spada, simbolo cavalleresco per eccellenza, veniva a costituire il mezzo attraverso il quale purgare convenientemente l’ingiuria e «dimostrare al proprio ceto d’essere ancora degno di farne parte, in quanto uomo d’onore che non si lascia “sprezzare” od oltraggiare impunemente». Emergeva, così, la figura di un cavaliere

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intimamente persuaso di far parte di un categoria eletta: la sua missione consisteva nell’attuare la giustizia naturale per una specie di vocazione innata, che aveva ereditato con il proprio sangue e che con il proprio sangue doveva saper realizzare.Evoluzione e nascita della “scienza cavalleresca”Il duello per punto d’onore visse la sua stagione più gloriosa socialmente e più raffinata culturalmente nelle corti italiane del Rinascimento: questo spiega tanto perché la “ scienza cavalleresca ” – che era distillata in una ricchissima trattatistica e in erudite interpretazioni dell’etica della nobiltà – venne percepita all’estero come un prodotto della cultura italiana quanto perché il modello di “singolar tenzone” venuto alla luce presso tali corti ebbe così grande risonanza in tutta Europa, pur non diventando mai egemone al di là delle Alpi, dove si preferiva pattuire scontri fra privati senza autorizzazione ufficiale.Il singulare certamen all’italiana presupponeva una netta distinzione tra duello, vendetta e gloria: fu, anzi, strutturato come un vero e proprio processo. Da ciò derivava che il duello «non era vendetta più di quanto lo fosse una qualsiasi azione giudiziaria, formalmente diretta a veder riaffermato il proprio buon diritto». L’autorità pubblica possedeva pieno arbitrio sulla valutazione della congruità della causa di duello; viceversa, il semplice accordo tra le parti sprovvisto di concessione formale dava vita a scontri criminosi, meri “duelli alla macchia” che rientravano nel novero delle risse, delle vendette e dei privati “abbattimenti”, e che erano dunque esposti agli strali della giustizia ordinaria secondo le varie normative locali.Giuristi vs. Professori d’onoreIl duello giudiziario d’onore si plasmò attraverso la dialettica fra i professionisti del duello (o “professori d’onore”), che fondavano le proprie concezioni sul mito dell’esperienza dei cavalieri, e i giuristi , impegnati ad esaltare il primato della giudiziarietà. Questi ultimi – i cui principali esponenti erano Paride dal Pozzo (Puteo) e Andrea Alciato – operavano nelle università e nei tribunali, avevano pretese di giuridicizzazione secondo il diritto comune, consideravano essenziale subordinare la prassi alla dottrina, il factum al ius ; i professori d’onore – tra i quali figuravano Girolamo Muzio e Sebastiano Fausto da Longiano – erano uomini d’arme esperti di consuetudini nobiliar-militari, frequentavano corti ed eserciti, collocavano al centro delle proprie preoccupazioni il momento sostanziale dell’onore, anziché quello procedurale del giudizio.Svolgimento del duello d’onoreSi addiveniva allo scontro d’armi quando uno dei litiganti imputava formalmente all’altro di aver mentito (“ mentita ”) nelle sue asserzioni ingiuriose, violando quel supremo obbligo di verità cui ogni cavaliere era tenuto per poter continuare ad essere reputato tale. Nella prassi, una delle lesioni più ricorrenti all’onore era l’accusa del mancato rispetto della parola data, inequivocabile indice di “disprezzo”.Ormai scomparso l’istituto del campione, il duello d’onore veniva combattuto direttamente dalle parti, che dovevano essere incarnate da individui di sesso maschile, appartenenti al medesimo ceto, dotati di buona salute, di età congrua alle armi e in possesso d’integrità d’onore; in caso di requisiti fisici non omogenei, era necessario provvedere adeguatamente (ad esempio, bendando un occhio del contendente che non era guercio).Professori d’onore e giuristi dotti in scienza cavalleresca venivano assoldati dalle parti per studiare la vertenza e definire le condizioni di ammissibilità ed eventualmente i termini del duello. Una delle questioni fondamentali era individuare il provocato , uno status che nei fatti non risultava sempre agevole da distinguere: secondo la consuetudine, egli possedeva il privilegio di scegliere tanto il campo quanto le armi, vantaggio assai considerevole.Fra i compiti dei giuristi si annoverava la stesura dei “ cartelli ”, la cui disciplina fu minuziosamente costruita sulla falsariga degli atti processuali ordinari. Il testo del cartello, preparato da una delle parti in causa, doveva essere sottoscritto da due o tre testimoni ed era consegnato sia al giudice del duello sia all’avversario, il quale aveva a disposizione un tempo pattuito per rispondere con un altro cartello. Si provvedeva a divulgare i termini della sfida in luoghi pubblici, di frequente con l’ausilio della stampa, affinché fosse impedita l’allegazione d’una finta ignoranza e soprattutto in modo che la nobiltà venisse a conoscere i particolari della causa: la tutela dell’onore cetuale non poteva che aver luogo dinanzi al tribunale dell’opinione.I cavilli e i sottili artifici terminologici che caratterizzavano non solo i cartelli, ma anche un’infinità di altri problemi affrontati dai giuristi (dalle discussioni sui termini temporali del duello alla ricerca d’un giudice imparziale), irritavano i professori d’onore, secondo i quali chi discettava troppo di fino su questi temi palesava la disonorevole volontà di evitare le armi.Il duello d’onore all’italiana si svolgeva all’interno di un “campo franco” – circoscritto da un solco d’aratro, da uno steccato di legno, da un muro di pietre o da una lunga fune – tra due gentiluomini dotati di idoneo

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equipaggiamento difensivo, che talvolta poteva risultare abbastanza pesante. Il confronto in armi era sorvegliato dal signore del campo e, salvo che le parti non avessero patteggiato altrimenti (per esempio, “al primo sangue” o “a le tre prime ferite”, secondo il numero delle escoriazioni), proseguiva ad oltranza, se necessario, dall’alba al tramonto del giorno prescelto: scaduto questo termine senza risultati, si giudicava nettato l’onore del reo. Per non dare adito a disonoranti sospetti, la dinamica della sfida doveva dimostrare la buona voglia delle parti alle armi. Al giudice non era consentito interrompere lecitamente il duello contro la volontà delle parti, sotto pena del pagamento delle spese al provocatore; allo stesso modo, egli risultava patrimonialmente responsabile se graziava il vinto senza il permesso del vincitore.I “ padrini ” ( patrini ), o “avvocati dei combattenti”, avevano il compito di tutelare i loro protetti in tutti i contrasti relativi non già alla causa d’onore, bensì ai problemi connessi con lo scontro cruento (ad esempio, i pareri sull’uguaglianza delle armi, sull’equa disposizione nello steccato ecc.). I padrini erano coadiuvati da un notaio, da un armaiolo e da “confidenti”; tra questi ultimi figuravano amici dell’una e dell’altra parte che contribuivano ad evitare ogni genere di scorrettezza dei contendenti.Lo sconfitto, che si presumeva avesse combattuto ingiustamente, cedeva di solito all’avversario armi, insegne, selle, cavalli e abbigliamento; inoltre, egli pagava tutte le spese del vincitore, che potevano essere anche assai consistenti, e diveniva suo “prigioniero di fede”. A questo punto, il vincitore lo donava al signore del campo oppure lo teneva presso di sé come una sorta di servo, almeno finché non veniva pagato un riscatto in cambio della sua libertà.Nel caso in cui una parte non si presentasse in campo entro il tramonto della giornata convenuta, la sua causa veniva dichiarata ingiusta dal giudice e dai suoi consiglieri, onde egli – come reo confesso – era diffamato e interdetto da qualsiasi altro duello. In maniera analoga, l’ammissione del proprio torto resa pubblicamente nella confessio contraria (o “disdetta”) ed ottenuta nella maggior parte dei casi con la spada dell’avversario alla gola, equivaleva alla morte civile del cavaliere: questa era la sorte più spaventosa che potesse occorrere ad un uomo nobile. Duelli clandestini d’onoreIl declino del duello d’onoreLa ferma condanna tridentina (Concilio di Trento) e una legislazione secolare via via più ramificata e impetuosa nelle sue mire “razionalizzatrici” (dunque, ostile alle pratiche giudiziarie consuetudinarie, comunitarie e negoziate prodotte autarchicamente dalla società), trasformarono l’ormai diffusissima tenzone solenne per punto d’onore in procedura contra legem . Tuttavia, né la vasta campagna pubblicistica contro il singulare certamen né le intransigenti prese di posizione della Chiesa cattolica né le politiche repressive – peraltro, non sempre adeguate – delle autorità secolari riuscirono a contenere l’aumento esponenziale del numero di scontri d’armi “clandestini” , cioè di duelli d’onore contrattati fra le parti prescindendo dalla gravità della causa in gioco e, dunque, sprovvisti dell’autorizzazione ufficiale del potere pubblico. Questo comportava un gran risparmio di tempo e di denaro: erano eliminate la domanda e la concessione di campo franco, non si prevedeva alcun giudice, il numero dei cartelli era ridotto al minimo, non si ricorreva ai pareri d’onore e si duellava a piedi, armati d’una spada e indossando una semplice camicia in luogo dei tradizionali equipaggiamenti difensivi. Nondimeno, il duello privato possedeva due notevoli inconvenienti per entrambe le parti : la perseguibilità penale, a cui si riusciva nondimeno ad ovviare di frequente sia per l’omertà determinata dalla solidarietà di ceto sia per la grazia che interveniva immediatamente o in seguito ad una breve contumacia; l’ardua difficoltà di definire le eventuali conseguenze del rifiuto d’una sfida a duello. E, naturalmente, al reo-provocato non erano più riconosciuti i diversi privilegi accordati nel duello lecito: dalla scelta delle armi e del campo alla tutela contro possibili agguati e scorrettezze da parte dell’attore-provocante.Il parziale declino del controllo politico e giudiziario sulla vita dei gentiluomini veniva a rafforzare la cogenza del codice d’onore, che aveva modo di profondersi in tutta la sua sottigliezza negli ambiti e nelle situazioni più diverse: durante il gioco e durante la danza, durante la messa e durante la guerra, per amore o per alterigia.Conversione della letteraturaNella seconda metà del Cinquecento la letteratura d’onore si convertì in blocco alla trattatistica sulle “paci private”, assecondando – almeno esteriormente – il rigorismo controriformista. In questi scritti la pace negoziata fra privati (o “rappacificazione”) era dipinta come opera giusta, cristiana e in sintonia con l’ordine pubblico, anche se – al medesimo tempo – non si mancava di discorrervi ancora ampiamente del duello, al riparo dagli strali ecclesiastici dietro lo scudo d’un titolo “pacifista”. La figura cruciale di questo

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tipo di trattatistica era il cavaliere che si proponeva come arbitro-paciere di vertenze d’onore: la rappacificazione, infatti, non era trattata dai soggetti coinvolti personalmente, ma interveniva un “mezzano”, un gentiluomo autorevole ovvero amico delle parti, affinché le questioni cavalleresche trovassero una soluzione onorevole per ambedue i litiganti senza addivenire ad uno scontro d’armi.Non solo gli abbattimenti clandestini rimasero a lungo tollerati nell’Europa meridionale, ove essi erano da lungo tempo praticati, ma nel tardo Cinquecento sbarcarono e si diffusero rapidamente in Inghilterra e in Irlanda, per poi – soprattutto grazie alla guerra dei trent’anni (1618-1648) – penetrare in Germania, in Polonia, in Ungheria e nei Paesi scandinavi, e giungere in Russia alla fine del XVII secolo. La democratizzazione del duello e la sua fineDappertutto l’abbandono del duello iniziò nella società borghese e senza ceti, preparata dall’Illuminismo. Precoce esempio del nuovo orientamento culturale della società europea fu Della scienza chiamata cavalleresca (1710), un libro in cui Scipione Maffei negava recisamente qualsiasi fondatezza razionale alla “scienza dell’onore nobiliare” e andava, quindi, a contrapporsi con veemenza alla vulgata tradizionale, pomposamente rappresentata in quegli stessi anni da una sterminata opera in fieri , che rimase però incompiuta: l’ Ateneo dell’uomo nobile , di cui Agostino Paradisi senior riuscì a pubblicare – fra il 1704 e il 1731 – soltanto i primi cinque volumi (l’ottavo avrebbe dovuto essere dedicato al duello).Da lì a pochi decenni le idee illuministiche si propagarono in buona parte dell’Europa e si fece largo la convinzione sempre più ferma che il sovvertimento radicale della società e dei suoi valori avrebbe fatalmente cancellato duelli e punto d’onore. In ambito italiano, com’è noto, esempio emblematico di questa nuova temperie culturale fu il trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria. Il clima di ostilità nei confronti del singolar certame si attenuò nel corso della Rivoluzione francese, allorché diventarono assai frequenti i duelli per motivi politici. In seguito, le armate napoleoniche e lo spirito del bonapartismo diffusero il senso dell’onore – specie nei ranghi degli eserciti – in quasi tutto il Vecchio Continente, e il duello visse un periodo di ripresa. La Restaurazione ne riconfermò pienamente l’importanza in seno alla società europea, anche se si praticavano più che altro duelli fra militari.Nell’ultima fase della millenaria storia del duello si evidenziò un fatto epocale, «la sua democratizzazione o meglio il suo pieno inserimento in una società senza ceti, ben diversa dall’ambiente in cui il duello era sorto e in cui aveva prosperato» [20] . La pratica della singolar tenzone si allargò alla classe media e acquisì caratteri “borghesi”, perdendo il ruolo di strumento di rigida espressione cetuale: «il diritto all’onore delle armi [veniva ora] ristretto al gentiluomo, figura individuata […] socialmente in chi si assoggettava liberamente al codice formale dell’onore cavalleresco» [21] . Il duello «si conservò per l’affermazione dello statuto civile di gentiluomo, per ideali romantici e per il consolidamento delle identità nazionali, ma anche – come un tempo – per i più lievi motivi di disputa al gioco, al ballo o quant’altro» [22] . A partire dalla metà del XIX secolo in tutta Europa si moltiplicarono le leghe (sovente promosse e sostenute da cattolici) e le pubblicazioni contro il duello. Tuttavia, il costume di battersi in armi seguitò a rimanere abbastanza radicato: nei primi anni dell’Italia unita, ad esempio, si verificarono innumerevoli casi di duello non solo fra militari, ma anche in difesa dell’onore nazionale oppure per dirimere polemiche giornalistiche o politiche; la repressione penale era limitata e la stampa riservava molta attenzione a tali sfide.I duelli all’arma bianca non avevano quasi mai esito mortale, perché era consuetudine arrestarsi al “primo sangue”. Del resto, i codici cavallereschi che circolavano in Europa nell’Ottocento e all’inizio del Novecento vietavano di solito i duelli ad oltranza, pur cercando di garantire una qualche serietà allo scontro, quanto meno formalmente [23] . Il prestigio di questi codici era all’epoca talmente indiscusso che «per realizzare il duello il legislatore otto-novecentesco riconobbe di fatto l’ordinamento cavalleresco, ad esso implicitamente rinviando: il rispetto delle sue regole era ineludibile per determinare i contenuti di quella lealtà essenziale a distinguere il reato di duello e a giustificarne il regime» [24] . Nel XIX secolo la repressione del duello diventò in tutt’Europa un problema di codice penale. La posizione di gran lunga maggioritaria fu quella di considerarlo come un reato contro le persone, ponendo in primo piano le eventuali lesioni all’integrità fisica (così avveniva, fra gli altri, nei codici penali austriaco, ungherese, spagnolo, danese, olandese e giapponese). Il codice penale greco e alcuni codici penali di cantoni svizzeri, invece, collocarono il duello fra i crimini che turbavano l’ordine sociale o la pubblica quiete. Il codice penale Zanardelli (1889) lo considerò un reato contro l’amministrazione della giustizia. Nei codici inglese e francese, infine, non si trovavano riferimenti al duello come reato specifico. Dunque, al di là

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delle singole scelte di ordine sistematico, pur di per sé significative, sembrava emergere la tendenza di punire il reato contro l’integrità fisica, se compiuto da un onorato gentiluomo

borghese rispettoso del codice paragiuridico del duello, in maniera più lieve di quanto non avvenisse per il medesimo crimine compiuto col coltello fra due contadini.

Il duello otto-novecentesco consisteva in un combattimento a due, conforme alle regole e alle prescrizioni d’onore, e avveniva con il libero consenso dei partecipanti, alla presenza di quattro testimoni e di un medico; le armi impiegate dovevano essere riconosciute adatte dal codice penale e da quello cavalleresco. Se i padrini non riuscivano ad approdare a una conciliazione amichevole della vertenza, erano tenuti: ad impegnarsi affinché le conseguenze fossero le meno gravi possibile; a stendere il processo verbale di tutte le condizioni concordate dalle parti; a scegliere un terreno solido e omogeneo per un’estensione di dieci metri quadrati; a procurare le armi; ad invitare un chirurgo sul luogo del duello; a controllare che tutti osservassero le condizioni prestabilite. Prima dello scontro, si doveva stabilire, tirando a sorte, quale dei padrini avesse la precedenza nella scelta della posizione più vantaggiosa per il proprio assistito; inoltre, si doveva tirare a sorte quale padrino avesse la scelta fra le armi portate per lo scontro.Se all’arma bianca, i duellanti – l’uno di fronte all’altro con l’arma in mano – al comando “In guardia!” erano tenuti a farsi il saluto e al comando “A voi!” dovevano incrociare le lame e cominciare gli “assalti”. Nel frattempo i padrini, recando ciascuno un’arma uguale a quella dei loro assistiti, avevano l’obbligo di rimanere a debita distanza, pronti a far cessare lo scontro in caso di ferita, rottura d’arma, violazione delle condizioni stabilite o fuoriuscita d’un contendente dal terreno prefissato.In caso di sfida alla pistola, il direttore del combattimento conduceva i duellanti al loro posto, faceva loro montare i cani e ordinava di tenere l’arma con la bocca rivolta verso il suolo; portatosi al suo posto, dava una rapida occhiata alla posizione dei tiratori e domandava loro ad alta voce: “Sono pronti?”. Alla risposta affermativa dei due avversari, egli comandava “Fuoco!”, facendo seguire senza interruzione il comando dell’enumerazione delle battute sulla mano “uno, due, tre”. Alla domanda preparatoria “Sono pronti?”, i combattenti tenevano l’arma immobile e rivolta al terreno, limitandosi a rispondere “Sì” o “No”. Non appena il comando “Fuoco!” era stato pronunciato, i duellanti portavano l’arma davanti all’occhio e miravano per essere pronti a sparare al comando “tre!”.Terminato il duello, i padrini dovevano imporre agli avversari che si congedassero in forme amichevoli e cortesi, suggellate da una stretta di mano. Nel caso in cui uno dei duellanti perisse, i suoi parenti e il chirurgo erano obbligati a denunciare il fatto alle pubbliche autorità. I padrini di entrambe le parti, di comune accordo, dovevano stendere il verbale del duello, certificando nel dettaglio il comportamento tenuto dagli sfidanti e indicando ora, luogo e risultato, oltre che il numero degli assalti e quello delle ferite (specificando la posizione e la gravità). Con la formale consegna d’una copia del verbale alle parti, si considerava ristabilito l’onore.Mentre in diversi Stati europei il duello scomparve entro la fine dell’Ottocento, esso si mantenne in discreta salute ancora per mezzo secolo in Italia, in Germania, in Francia e in Spagna – ma anche nell’America settentrionale, dove il singulare certamen era penetrato solo in epoca abbastanza recente. Interessanti furono, in particolare, i casi italiano e tedesco. Anche se Mussolini si rese protagonista di parecchi celebri scontri d’onore, il «fascismo ebbe atteggiamento ambiguo nei confronti del duello, espressione di encomiabile virtù marziale, ma anche negazione individualistica dello Stato fascista, organico, disciplinato e tendenzialmente totalitario»; nel codice penale Rocco del 1932 le norme sul duello confluivano nel più generico capitolo “Della tutela arbitraria delle proprie ragioni” e la disciplina risultava un poco più severa di quanto non fosse quella contenuta nel codice Zanardelli. Il nazismo, invece, fu tendenzialmente più favorevole al duello, specie se avveniva tra militari, perché era «percepito come un opportuno momento formativo di quello spirito guerriero e patriottico che si intendeva incentivare, ma su questa valenza pedagogica sovrastava la diffidenza per l’intima anti-statualità dell’istituto»; se – col tempo – i controlli sugli eventuali duelli divennero ancora più incisivi, «la propaganda ideologica restò sempre ambiguamente ammiccante: ogni buon tedesco non doveva mai sfuggire al combattimento per la difesa del suo onore, etnico anzitutto».A partire dalla metà del Novecento i legislatori europei iniziarono a considerare il duello una reliquia sociale e un reato ormai desueto da eliminare dai codici penali nazionali. Quest’opera di formale cancellazione, tuttora in corso, ha recentemente interessato anche l’Italia: nella terra di nascita della duellistica e dell’antiduellistica lo storico provvedimento risale al 1999. 

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