Saggi Esame Arte Tradotti e Riassunti

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INTERVISTA A J.H MARTIN L’imminente mostra "Magiciens de la Terre," è stata concepita nel 1985 da Jean Hubert Martin, da poco scelto come direttore della Biennale parigina. Originariamente pensata come alternativa al tradizionale formato di biennale (nella quale i contributi artistici venivano scelti da rappresentanze culturali e comitati di ogni singola Nazione partecipante), questa manifestazione è ora cresciuta fino a diventare una eccellenza tra le mostre d’arte contemporanea. I suoi curatori intendono esplorare il lavoro degli artisti nei Paesi asiatici ,africani e latino americani,affiancando una selezione di lavori provenienti dai suddetti contesti culturali alle opere contemporanee proventienti dal Nordamerica e dall’Europa occidentale. La mostra, la cui inaugurazione è stata fissata per il 18 Maggio, è stata curata da Martin , il quale nel 1988 è diventato direttore del Musee National d’Art Modern presso il Centre Pompidou di Parigi, in collaborazione con Mark Francis , ex curatore del Fruitmarket Gallery di Edimburgo. La mostra includerà le opere di circa cinquanta artisti dei cosiddetti ‘’centri’’della cultura contemporanea e altrettanti artisti provenienti dalle ‘’periferie’’ della cultura contemporanea. Tali opere, molte delle quali prodotte esclusivamente per la mostra, saranno esibite non solo presso la Grande Halle nel Parc de la Villette (uno spazio recentemente rimodellato e precedentemente utilizzato come location della biennale parigina), ma occuperanno anche l’intero piano A del centro Pompidou. Ciò che segue è la mia traduzione di estratti di due conversazioni piuttosto lunghe tra me e Martin, la prima avvenuta il 14 luglio 1986 e la seconda due anni dopo nell’ottobre del 1988, entrambe svoltesi a Parigi, in francese. Mentre queste conversazioni nascevano nell’interesse che condivido con Martin per ciò che sembra essere un tentativo, giunto con largo ritardo, di partire dalle prospettive culturali egemoni e monocentriche delle istituzioni dell’europa occidentale e nordamericane e i loro progetti espositivi, inevitabile era la mia volontà di sfidare alcuni presupposti sottintesi in questa mostra. In particolare, rilevo una questione che riguarda l’approccio della mostra nei confronti della autenticità culturale, r il suo trattamento della relazione tra ‘’centro’’ e ‘’periferia’’, e tutti i possibili inganni che comporta il concentrarsi esclusivamente intorno all’ oggetto ‘’culturale’’. In breve, il potenziale sottotesto neocolonialista della mostra. -Benjamin H.D. Buchloh La controversa mostra ‘’Magicienne de la terre’’, che inaugura in questo mese, presenterà opere di artisti occidentali insieme a quelle di artisti provenienti da numerosi Paesi non occidentali. Nella seguente intervista con il curatore della mostra, l’autore sfida alcune delle premesse di questa enorme esibizione internazionale. 1

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mia personale interpretazione di quanto studiato

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INTERVISTA A J.H MARTINL’imminente mostra "Magiciens de la Terre," è stata concepita nel 1985 da Jean Hubert Martin, da poco scelto come direttore della Biennale parigina. Originariamente pensata come alternativa al tradizionale formato di biennale (nella quale i contributi artistici venivano scelti da rappresentanze culturali e comitati di ogni singola Nazione partecipante), questa manifestazione è ora cresciuta fino a diventare una eccellenza tra le mostre d’arte contemporanea. I suoi curatori intendono esplorare il lavoro degli artisti nei Paesi asiatici ,africani e latino americani,affiancando una selezione di lavori provenienti dai suddetti contesti culturali alle opere contemporanee proventienti dal Nordamerica e dall’Europa occidentale.

La mostra, la cui inaugurazione è stata fissata per il 18 Maggio, è stata curata da Martin , il quale nel 1988 è diventato direttore del Musee National d’Art Modern presso il Centre Pompidou di Parigi, in collaborazione con Mark Francis , ex curatore del Fruitmarket Gallery di Edimburgo. La mostra includerà le opere di circa cinquanta artisti dei cosiddetti ‘’centri’’della cultura contemporanea e altrettanti artisti provenienti dalle ‘’periferie’’ della cultura contemporanea.

Tali opere, molte delle quali prodotte esclusivamente per la mostra, saranno esibite non solo presso la Grande Halle nel Parc de la Villette (uno spazio recentemente rimodellato e precedentemente utilizzato come location della biennale parigina), ma occuperanno anche l’intero piano A del centro Pompidou.

Ciò che segue è la mia traduzione di estratti di due conversazioni piuttosto lunghe tra me e Martin, la prima avvenuta il 14 luglio 1986 e la seconda due anni dopo nell’ottobre del 1988, entrambe svoltesi a Parigi, in francese. Mentre queste conversazioni nascevano nell’interesse che condivido con Martin per ciò che sembra essere un tentativo, giunto con largo ritardo, di partire dalle prospettive culturali egemoni e monocentriche delle istituzioni dell’europa occidentale e nordamericane e i loro progetti espositivi, inevitabile era la mia volontà di sfidare alcuni presupposti sottintesi in questa mostra. In particolare, rilevo una questione che riguarda l’approccio della mostra nei confronti della autenticità culturale, r il suo trattamento della relazione tra ‘’centro’’ e ‘’periferia’’, e tutti i possibili inganni che comporta il concentrarsi esclusivamente intorno all’ oggetto ‘’culturale’’. In breve, il potenziale sottotesto neocolonialista della mostra.

-Benjamin H.D. Buchloh

La controversa mostra ‘’Magicienne de la terre’’, che inaugura in questo mese, presenterà opere di artisti occidentali insieme a quelle di artisti provenienti da numerosi Paesi non occidentali. Nella seguente intervista con il curatore della mostra, l’autore sfida alcune delle premesse di questa enorme esibizione internazionale.

Benjamin H.D. Buchloh: Nei dibattiti di questi ultimi pochi anni, la questione del decentramento culturale è emersa con sempre maggiore importanza. Essa coinvolge i tentativi di decentralizzare le concezioni tradizionali di costruzione di autore/soggetto, e sfida inoltre la centralità dell’opera insieme al concetto dell’opera d’arte come oggetto di unione di sostanza. Tuttavia, da essa vi partono larghe derive: la questione della decentralizzazione è anche collegata alla critica in corso nei confronti dell’egemonia della cultura classista del modernismo borghese e all’analisi della dominazione, sui

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comportamenti nelle periferie sociali e geopolitiche ,della produzione culturale e dei mercati del mondo capitalista occidentale .

La decentralizzazione culturale mira anche ad un riconoscimento graduale, entro le cosiddette società del ‘’Primo Mondo’’ ,delle culture di gruppi sociali ed etnici diversi, e mira anche ad un riconoscimento della specificità dei comportamenti culturali al di fuori,ossia, nei Paesi cosiddetti del ‘’secondo’’ e ‘’terzo mondo’’.

Il progetto Magiciens de la Terre trae origine da questi dibattiti critici oppure è solo un ennesimo esercizio di rianimazione di un mondo artistico ormai esausto, attraverso l’esibizione ,in un diverso contesto , degli stessi prodotti contemporanei ?

Jean-Hubert Martin: Ovviamente il problema del centro e della periferia è stato trattato negli ultimi anni dall’avanguardia europea ed americana, e la nostra mostra parte proprio da quei dibattiti. Prima di tutto, da un punto di vista geografico, vogliamo trattare la produzione artistica contemporanea su scala globale. I problemi di centro e periferia sono tuttavia collegati anche alle questioni riguardanti paternità artistica e opera (ouvre) che ci riguardano da vicino, dal momento che il ruolo dell’artista e le funzioni dell’oggetto sono definite in un modo totalmente differente dal pensiero europeo in un numero di contesti con cui avremo a che fare. Per quanto riguarda il problema della marginalità , risulta complesso e delicato includere in una mostra d’arte contemporanea occidentale, ossia la dominante arte dei ‘’centri’’, artisti provenienti da diversi contesti . Ma siamo anche arrivati a riconoscere che per avere un centro c’è bisogno delle periferie, e viceversa.

Perciò, "Magiciens de la Terre" inviterà metà dei suoi circa 100 artisti da quei contesti periferici, e includerà artisti che sono praticamente sconosciuti al mondo dell’arte contemporanea.

BB: Come affronterai il progetto senza incorrere in quel che sembra essere la inevitabile nonché la peggiore delle trappole, ossia senza utilizzare per un’ennesima volta criteri etnocentrici ed egemoni nella selezione dei partecipanti e dei loro lavori per la mostra?

JHM: sono concorde che questa sia la prima trappola alla quale uno pensa. Ma non concordo nel dire che questa trappola sia davvero così inevitabile. Sarebbe peggio pretendere che si possa organizzare una simile mostra da un punto di vista oggettivo, aculturale, da una prospettiva decentrata. Come si può trovare una prospettiva ‘’corretta’’? Con l’inclusione forse di artisti in modo bilanciato, proporzionale? Oppure con una selezione attuata da funzionari culturali in ognuno di quei paesi, funzionari i cui principi sono infinitamente meno elaborati dei nostri? Oppure con commisari politici UNESCO, e in base alla misura della popolazione in ogni Paese? Credo che nessuno di questi approcci sia possibile. Ci catapulterebbero di nuovo verso quegli stessi errori fatti all’alba della biennale parigina , quando gli artisti venivano selezionati da commissari nazionali che sceglievano solo quegli artisti che, secondo loro, meritavano il bollo ufficiale dell’autorità culturale e politica. Il risultato è stato un disastro di cultura ufficiosa ed ufficiale. Perciò ho lottato per l’esatto opposto: poiché siamo difronte ad oggetti d’esperienza visuale e sensuale, guardiamoli davvero da una prospettiva della nostra cultura. Voglio incarnare il ruolo di colui che si serve del solo intuito artistico nella scelta di questi oggetti, che provengono da culture completamente differenti. Dunque il mio approccio sarà addirittura l’opposto di quello che hai potuto suggerire: La mia intenzione è quella di selezionare quegli oggetti da varie culture in base alla mia storia e sensibilità personali. Ma ovviamente voglio anche incorporare in questo processo il pensiero critico che l’antropologia contemporanea fornisce sul problema dell’etnocentrismo, la relatività della cultura , e le relazioni interculturali.

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BB: Quali sono gli elementi autocritici e correttivi nel tuo metodo e nel tuo procedimento? Stai effettivamente lavorando con antropologi ed etnografi in questo progetto? Lavori con specialisti provenienti dalle culture a cui ti approcci dall’esterno?

JHM: Sì, ho collaborato con numerosi antropologi ed etnografi per questo progetto. Tale collaborazione si è rivelata molto fertile, dal momento che ci ha aiutato ad individuare il ruolo dell’artista singolo nelle varie società, e a capire le attività specializzate di quegli artisti e le funzioni dei loro linguaggi formali e visivi. A tal proposito, la nostra mostra ha luogo in un momento in cui molti antropologi hanno iniziato a chiedersi perché l’antropologia ha ,per tradizione, privilegiato il mito ed il linguaggio rispetto gli oggetti visivi. Le idee critiche di autocorrezzione a cui penso in primo luogo sono le teorie etnografiche di etnocentrismo che si sono sviluppate negli ultimi 20 anni e più. Io in prima persona ho anche beneficiato del consiglio di etnografi e specialisti di culture locali e regionali, e ho ottenuto precise informazioni da essi per preparare ricerche e viaggi. In alcuni casi,abbiamo effettivamente condotto i nostri viaggi esplorativi in compagnia di etnografi. Ad esempio, siamo andati in Papua Nuova Guinea di compagnia di François Lupu. Ma non dimentichiamo che dopotutto devo sempre intendere questo progetto come una mostra. Se, ad esempio, un etnografo ci suggerisce un particolare esempio di culto in una società del Pacifico, ma gli oggetti di questa cultura non si rivelano essere abbastanza comunicativi sul piano visivo-sensuale per lo spettatore occidentale, eviterei di esibirli. Certi oggetti di culto potrebbero avere un enorme potere spirituale, ma estrapolate dal loro contesto e trasferite in una mostra d’arte perderebbero le loro qualità e, al più, genererebbero fraintendimenti, anche nel caso in cui vi si allegassero lunghi ed esplicativi cartelli didattici. Nello stesso modo, ho dovuto escludere un certa quantità di oggetti d’artigianato, dal momento che molte delle società che abbiamo osservato non riconoscono una reale differenza tra artista ed artigiano.

BB: Noto che un altro problema cruciale del tuo progetto è che, da una parte, non vuoi creare una expò colonialista sulla scia de ‘’L’Exposition Coloniale’’ della Parigi del 1931, in cui manufatti religiosi e pratiche magiche venivano estratte dalle loro funzioni e dai loro contesti. Questi oggetti venivano esposti per l’occhio egemone del controllo, per il dominio imperialista e lo sfrttamento. Ma d’altronde non vuoi neanche semplicemente estetizzare questi oggetti proventi da eteronome culture,e per l’ennesima volta sottoporle al concetto occidentale modernista di ‘’primitivismo’’.

JHM: La nostra mostra non ha nulla a che vedere con quella del 1931,che è chiaramente nata dalla prospettiva del colonialismo politico ed economico. Tuttavia, quella esposizione del 1931 è servita agli autori del catalogo come punto di riferimento negativo e sarà criticamente messa in discussione. Per quanto concerne il problema degli oggetti culturali nel loro contesto, vorrei offrire due argomentazioni. Anzitutto, quando si tratta di letterature ,musica e teatro stranieri nessuno volge mai questo tipo di interrogativi e noi ne accettiamo la traduzione, sebbene siamo consapevoli che spesso si tratta di una falsificazione, in quanto forma necessaria di mediazione. Ora, tu potresti controbattere dicendo che queste sono forme temporali e aurali di esperienza artistica, che differiscono dagli oggetti spaziali e visivi con cui ci confrontiamo, e che chiaramente esercitano diverse modalità di ricezione. Un visitatore occidentale vede in modo del tutto diverso da un visitatore asiatico, sebbene il momento dell’esperienza ottica è esattamente identico. Tuttavia, prendere le distanze dal fatto che è appunto impossibile presentare oggetti visivi/spaziali fuori dal loro contesto culturale mi sembra assolutamente orrendo- specialmente dal momento che questo tipo di comunicazione si è manifestata ad esempio per secoli nel campo della letteratura. Questa è la mia prima argomentazione…

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BB: Se posso interromperti quì, mi sembra evidente che il tuo problema è caratteristico di tutta la storia dell’arte modernista, che ha per tradizione contemplato solo quegli oggetti della cultura alta, sebbene l’arte modernista d’avanguardia era comunque costituita sulla relazione dialettica con la cultura di massa sin dalla sua prima origine. Sia gli oggetti che l’utenza della cultura di massa, se considerati nell’insieme, erano suddivise in scompartimenti di diverse discipline (sociologia), o più recentemente, nell’area degli studi della cultura di massa. Nello stesso modo in cui la storia dell’arte tradizionale ha sempre escluso la pluralità delle culture dalla cultura borghese, il tuo tentativo di selezionare solo l’’’altissima qualità artistica’’ dalle pratiche culturali degli ‘’altri’’ corre il rischio di assoggettarli a un simile processo di selezione e gerarchizzazione.

JHM:Questo è un ulteriore punto, sul quale tornerò, ma lasciami prima condurre la mia seconda argomentazione. Un criticismo che è stato immediatamente espresso nel progetto di questa mostra concerne il problema supposto della decontestualizzazione ed il tradimento delle altre culture. Certo, gli oggetti di questa mostra verranno delocalizzati dal loro contesto funzionale, e saranno mostrati in un museo ed in un altro spazio esibizionale a Parigi. Ma noi li mostreremo in un modo inedito, a cui oggetti provenienti dal Terzo Mondo non sono mai stati abituati. E questo consiste, in gran parte, nella presenza degli stessi artisti durante mostra, e col fatto che eviterò per quanto mi è possibile di mostrare oggetti finiti, amovibili. Favorirò ‘’installazioni’’ (come diciamo nel nostro gergo) create da artisti proprio per questa particolare occasione, ad esempio un mandala tibetano, un una maschera ljele nigeriana od un dipinto di sabbia Navajo. Opere d’arte , queste, che sono sempre il risultato di un rituale o di una cerimonia. Cosa, questa , tanto valida quanto può esserla per un celebre dipinto del diciannovesimo secolo dove, per così dire, ci confrontiamo appunto con un ‘’mero residuo’’. Si parla sempre di problema di ‘’contesto’’ quando si tratta di altre culture, ma il problema non ci sarebbe apparso se, visitando un museo, ci trovassimo di fronte ad una miniatura medievale o ad un dipinto di Rembrandt. Solo pochi specialisti conoscono davvero qualcosa riguardo ai contesti di questi oggetti, anche se noi diremmo che, dopotutto, essi sono parte della nostra tradizione culturale. So bene che è pericoloso estrarre oggetti culturali da altre forme di civilizzazione, ma noi possiamo anche imparare da queste forme di civilizzazione, le quali, proprio come le nostre, sono impegnate in una ricerca della spiritualità.

BB: questa concezione di una esperienza astratta e trans-storica di spiritualità sembra essere il fulcro del tuo progetto. Rispetto a ciò, mi ricorda "'Primitivism' in 20th-Century Art’’, che ebbe luogo al MoMa nel 1984. Anche lì una presunta spiritualità era posta al centro della mostra , e considerata come parte certamente attiva nel tessuto sociale e politico e dello sviluppo tecnologico di particolari formazioni sociali.

Non trovi che la ricerca di una riscoperta della spiritualità trae origine da un rifiuto delle politche della vita quotidiana?

JHM: Niente affatto. Come ricorderai, la critica principale mossa a "Primitivism" all’epoca , era che fosse un progetto puramente formale. A me sembra invece importante enfatizzare gli aspetti funzionali rispetto a quelli formali della spiritualità, dopotutto, le pratiche magiche sono pratiche funzionali. Quegli oggetti che hanno una funzione spirituale per la mentalità umana, oggetti presenti in tutte le società, sono proprio gli stessi che interessano alla nostra mostra. Dopotutto, l’opera d’arte non può seplicemente essere ridotta ad esperienza ottica. Possiede un’aura iniziatica rispetto a queste esperienze mentali. Proseguirei addirittura nell’argomentare che proprio quegli oggetti che erano stati creati 20 anni fa con l’esplicito intento di ridurre la natura aurale, ponendo enfasi sull’oggettività materiale, risultano essere quelli più spirituali. Difatti, se si parla con gli artisti di quella

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generazione, si sentirà spesso del loro impegno con la concezione di ‘’magia’’ dell’opera d’arte. Dobbiamo ammettere che c’è una sfera empirica sociale che è subentrata negli spazi religiosi e, se ciò non adempie alle funzioni comunitarie della religione, non coinvolge

larghi segmenti della nostra società.

BB: Sembra che , nonostante tu stia discutendo il fallimento delle pratiche artistiche degli anni 60 nell’emancipare l’arte dalla sfera rituale (ciò che Walter Benjamin chiamò dipendenza artistica parassitale) potrebbe ora essere compensato al meglio con la ritualizzazione delle stesse pratiche. Menzionando un esempio: quando Lothar Baumgarten partì in viaggio negli anni 70 per visitare le società tribali amazzoniche che adesso minacciamo con la distruzione, operò da etnografo dilettante. Tuttavia, egli ha anche operato dall’ambito di una tradizione artistica modernista, ricercando, e scoprendo valori di culture esotiche con l’intento di ricostruire il valore di culto del lavoro artistico, la sua condivisione nell’esperienza ritualistica. Paradossalmente, agendo così, artisti di quella tradizione di modernismo hanno contribuito allo sviluppo di una visione altamente problematica dell’’’diverso’’, concepita in termini di ‘’primitivismo’’.

Mi domando se la tua mostra non sia basata su questo stesso modello. E’ questo il motivo per cui hai mandato Lawrence Weiner in Papua nuova Guinea durante la preparazione al suo contributo alla tua mostra?

JHM: Ci sono enormi pregiudizi su quello che hai detto del nostro progetto.Un’idea fondamentale della nostra mostra è mettere in discussione la relazione tra la nostra cultura e le altre (‘’cultura’’ qui non è una astratta generalità, descrive una serie di relazioni che gli individui intrattengono tra di loro e con cui noi interagiamo). Mi chiedevo se fosse possibile accelerare queste relazioni ed il dialogo derivante da essi.

Per questo motivo ho suggerito che Lawrence Weiner dovesse andare in Papua Nuova Guinea. Lasciami prima porre l’accento sul fatto che tutta questa mostra intende iniziare dei dialoghi. Combatto l’idea che si possa guardare ad una cultura con il solo intento di sfruttarla. La nostra prima preoccupazione è quella di scambio e di dialogo, è la comprensione del diverso per comprendere come noi stessi agiamo..

BB: Inevitabilmente il tuo progetto opera come una sorta di archeologia del diverso e della sua autenticità: sei impegnato in una ricerca di pratiche culturali originali (magia e rituale), mentre invece quello che per lo più troverai, presumo, corrisponde a pratiche culturali estremamente ibride nei loro vari stadi di graduale o rapida disgregazione ed estinzione- una condizione che deriva dal loro contatto con i media dell’industria occidentale e la cultura del consumo. Hai intenzione di attuare una sorta di ‘’distillazione’’ degli oggetti originali in nome della purezza artificiale, oppure esibirai il grado effettivo di contaminazione e decadimento nel quale queste forme di produzione culturali effettivamente si trovano?

JHM: Credo questo sia un enorme fraintendimento del mio modo di guardare a questi fenomeni. A dire il vero, sono molto interessato nelle pratiche arcaiche(vorrei evitare il termine problematico di ‘’primitivo’’). Sono davvero contro il presupposto – che era in un certo qual modo sottinteso nella mostra di Rubin- secondo il quale noi abbiamo di fatto distrutto le altre culture con la tecnologia occidentale.

Un testo scritto da artisti aborigeni australiani che partecipano a questa mostra mi ha chiarito la questione. Loro definiscono il problema della decontestualizzazione molto bene.

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Continuano però a spiegare il fatto che stiano commentendo il loro ‘’tradimento’’ per un particolare scopo: dimostrare al mondo dei bianchi che la loro società è ancora viva ed attiva. Mostrare le loro pratiche culturali all’Occidente è ciò che loro credono sia il modo migliore per salvaguardare le loro tradizioni e la loro cultura in questo momento.

BB: Sembra quasi tu ti sia prefissato di procedere in una sorta di progetto riformista:cercare residui di culture magiche in società aliene alla nostra e che il tuo scopo sia rivitalizzare il potenziale magico della nostra stessa società.

JHM: Ovviamente noi viviamo in una società in cui parleremo degli altri sempre dalla nostra posizione , e giudichiamo le loro posizioni dalla nostra. E’ il ‘’noi’’ che si immagina il ‘’loro’’ come sempre ancora coinvolti nella magia.

Questo è un a-priori di cui ci fidiamo ancora ciecamente come bambini , sebbene la situazione sia in realtà

Infinitamente più complessa. E non abbiamo idea di come funzioni davvero. Allo stesso modo, non sappiamo come il pensiero magico funzioni nella nostra stessa società, ed ovviamente anche quì ce n’è in abbondanza.

BB: La tua mostra si rivolgerà anche alle nostre, di pratiche magiche? Sembra che tu stia cercando un potere irrazionale che guida la produzione artistica delle società tribali, e sembra che il tuo argomento sia il bisogno nella nostra società di riscoprire quel potere. Per contrasto, il meccanismo effettivo in cui i rituali magici vengono praticati nella nostra società-nella feticizzazione del segno, nella cultura dello spettacolo e nel feticismo per la comodità- questi meccanismi non sembrano essere di tuo interesse?

JHM: Ma io non sono neanche alla ricerca di un’originaria purezza, sebbene ci sono culture che hanno tuttavia avuto una contatto molto ridotto con la civilizzazione occidentale, e i cui modi di pensare sono profondamente diversi dai nostri. Più ci lavoro, più mi stupisce come l’ideale di una produzione arcaica ed autentica sia così sostenuta persino in studi seri, persino quella di una produzione collettiva sebbene in realtà il numero di oggetti che si possano qualificare entro questa categoria è davvero ridotto. Sappiamo che, in gran parte, queste pratiche sono state compromesse o distrutte del tutto. Ma nelle grandi città asiatiche ed africane, dove i traumi derivanti dall’incontro tra culture locali e quelle industriali occidentali tuttora riverberano, si trovano numerose manifestazioni che dovremmo identificare come opere d’arte contemporanea- per esempio, quelle connesse con l’emergere di una avanguardia in Cina o quelli di Cheri Samba nello Zaire. E si trovano esempi di entrambe le sfere, ossia, gli oggetti dell’alta cultura trazionale locale e gli oggetti della cultura popolare.

BB: Non credi di dover discernere tra forme residuali di alta cultura e cultura locale popolare da una parte, e le forme emergenti di consumo di massa culturale dall’altra?

JHM: No, non escludo gli oggetti della cultura di massa, ma mi interessa trovare l’artista individuale o artisti che si possano davvero collocare e nominare, e che abbiamo davvero prodotto degli ogetti. Mi rifiuto di esporre oggetti che vengono dichiarata come risultato anonimo di una comunità culturale- per me, questosembra una idea perversa tipicamente occidentale ed europea che intendo evitare ad ogni costo. Se 50 artigiani producono piu o meno lo stesso tipo di oggetto di culto, non mi interessa. Cerco quello che risulta più originale rispetto al resto-come lo è l’Esther Mahlangu is nella cultura Ndebele nel Sud Africa.

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BB: Non sembri curarti che questo approccio re-introduca il più tradizionale concetto di soggetto privilegiato e di oggetto originale in un contesto culturale che potrebbe addirittura ignorare questi concetti occidentale, e che esclude dal principio tali nozioni come produzione anonima e creazione collettiva?

JHM: Ma non escluderò gli oggetti di produzione collettiva. Ce ne sono difatti già alcuni nella mostra in progetto. Ma mi piace molto quella battuta che addice come unica ragione per la quale attribuiamo l’anonimato alle maschere africane sia che, quando esse vennero trovate nelle comunità tribali, chi le prese in possesso e le collezionò non si curò di attribuirne i crediti autoriali. E’ una tipica proiezione occidentale fantasticare che queste comunità vivano in uno stato originario di beatitudine collettiva, e perciò non si vuole accreditare la paternità autoriale originale. Voglio farti un esempio- il tipo di maschera che viene identificato come Gelede. Due etnografi californiani hanno studiato questi oggetti, che vengono indossati solo una volta l’anno per una festività particolare . Essi hanno scoperto che i creatori di queste maschere sono specialisti che creano questi oggetti per i vari villaggi e comunità che ne fanno uso.

Non solo ci sono specialisti che identificano i loro lavoro con una firma all’interno, ma questi specialisti provengono da dinastie di artigiani di maschere , e spesso le loro maschere possono essere eseguite su calchi di due o più generazioni. Inoltre, ciò che è particolare di queste maschere Gelede è che sono mutabili nel tempo, differentemente dalla nostra concezione occidentale di tipo fisso e stabile- e negli ultimi decenni esse hanno accorpato sempre più elementi dalla cultura industriale. Per me, questo mutamento dimostra la vivacità di quella cultura e la flessibilità come reazione al contatto con la civiltà Occidentale. Alcuni etnografi si affliggevano per questi mutamenti poiché percepivano che queste comunità tribali avessero perso la loro purezza originaria. Ma io non credo che alcuna di queste società abbia mai avuto questa purezza. Tutte loro sono in costante flusso e costante scambio con le altre società e , ammettiamolo, il mondo Occidentale certamente è una influenza particolarmente potente in questi contatti.

BB: Serviamoci di un esempio ipotetico per discutere il tuo metodo. Come approcceresti un Paese ex colonia europea che- supponiamo -sia oggi uno stato socialista, che possa ancora avere scuole attive di Belle Arti nelle proprie città, ma se si viaggiasse nei suoi remoti villaggi, probabilmente ci si imbatterebbe in forme residuali di cultura popolare artigianale e forse persino in pratiche religiose. Allo stesso tempo, immagino, ci possano essere forme emergenti di una nuova cultura socialista. Quale di questi tre dominii sarebbe di primario interesse per il tuo progetto?

JHM: Prima di rispondere, vorrei rivolgere il metodo del nostro lavoro. I bisogni particolari di questo progetto richiedono che un costante scambio si verifichi tra teoria e pratica , e che entrambi si correggano vicendevolmente nel corso della preparazione di questa mostra. Non è che il discorso sulle relazioni interculturali sia stato assente dal pensiero francese- ciò che manca sono le forme pragmatiche di porre questo discorso nella pratica. Questo è ciò che cerco di sviluppare. Ora, rispondendo alla tua domanda. Quale di queste tre forme ci interessa? Beh, io voglio mostrare per quanto possibile, quanti più divergenti fenomeni possibili, anche se questo potrebbe talvolta rendere la mostra eterogenea .

BB: Inverto la domanda: La tua mostra presenterà anche informazioni sulle cosiddette culture minoritarie che vivono nelle società egemoni occidentali? Ad esempio, mostrerai particolari forme di modernismo afro che è emerso negli Stati Uniti sin dall’inizio di questo secolo, od anche le pratiche culturali delle attuali minoranze africane ed arabe viventi in Francia?

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JHM: Ovviamente, ci ho pensato, e spesso si è obbligati a partire da quel punto. Io ho, ad esempio, incontrato un pittore che dalla repubblica cinese arrivò in Francia circa 4 anni fa e che ora vive a Parigi. Egli è parte di una comunità artistica cinese in Francia, e mi ha dato una serie di dritte, sia nell’approcciarmi col fenomeno degli artisti cinesi migranti sia con l’arte del suo stesso Paese. Per tornare alla tua domanda riguardante le ex-colonie europee, mi avvicinerò a loro in un modo pragmatico e non teorico. In questi Paesi si trova una diffusa tendenza ad armonizzare la calligrafia tradizionale con la pittura dell’Ecole de Paris , e il lavoro è spesso abbastanza notevole da un punto di vista tecnico. Devo ammettere, comunque, che questo tipo di lavoro non mi interessa particolarmente. E’ troppo artefatto, e si sa fin troppo bene come esso sia nato. Il mio metodo sarà, innanzitutto, tramite un atteggiamento purovisibilista, una mia visione personale e quella dei miei colleghi con cui sto preparando e discutendo il progetto, procederemo col visitare gli artisti di cui scopriamo più cose per quanto riguarda la loro storia e il loro contesto lavorativo. Io voglio mostrare artisti individuali, non movimenti o scuole. In questo senso, sto cercando di fare l’esatto opposto rispetto alla Biennale di Parigi con le informazioni,in essa, fornite dai funzionari delle singole nazioni, e che ha presentato artisti più o meno emuli della cultura mainstream occidentale- come era appunto la pittura dell’Ecole de Paris o della New York School

BB: Lo strumento centrale che la cultura borghese (ossia la cultura bianca, maschile, occidentale) ha tradizionalmente adoperate per escludere o emarginare tutte le altre pratiche culturali è il concetto astratto di ‘’qualità’’. Come eviterai questo, ossia il più intricato dei problemi, nei criteri di scelta se agirai esclusivamente in termini purovisibilisti?

JHM: Il termine ‘’qualità’’ è stato eliminato dal mio vocabolario, dal momento che semplicemente non esiste alcun sistema convincente per stabilire criteri relativi ed accordanti di qualità per un simile progetto. Sappiamo molto bene che perfino i direttori dei grandi musei occidentali non hanno alcun criterio fondato per stabilire consenso su questo punto. Ma chiaramente, si deve pur sviluppare dei criteri, ed alcuni sono più tangibili e rigorosi di altri. Ci sono criteri che devono derivare dalla fisicità dell’opera, dalla relazione tra il creatore dell’oggetto e la comunità che si relaziona a tale oggetto, dal contesto sociopolitico e culturale di quest’oggetto.

BB: Quando negli USA le mostre sono organizzate da una prospettiva critica che sfida la cultura egemonica mainstream , la tipica risposta intrisa di pregiudizio che di solito si riceve è: è un lavoro certamente molto interessante, ma manca di ‘’qualità’’.

JHM: Questo è ciò che accade quando un gruppo di artisti insieme b(? manca la parola nella fotocopia originale, pag.158) il Paese o il contesto geopolitico. Ma questo non è il mio approccio. Noi stiamo selezionando artisti individuali da una vasta varietà di contesti. Ed è l’individualità di questi artisti a garantire il livello della nostra mostra. Questo ci riporta al criterio di ‘’qualità’’…

BB: Ma alcuni lavori(ad esempio, quelli eseguiti da artiste femministe) si distinguono chiaramente con la loro sfida e la loro critica da questa stessa nozione di qualità appunto astratta , perché è già il termine stesso ad sottendere interesse, privilegio, controllo ed esclusione.

JHM: Certo . Stiamo attraversando una fase in cui tutti questi concetti sono in trasformazione e rivalutazione, e ci stiamo gradualmente trasferendo su nuovi diversi concetti. Questo cambiamento sta ponendo l’accento anzitutto su un piano teorico, e sebbene non possediamo ancora mezzi affidabili né alcuna base solida su cui articolare questi cambiamenti , ciò non dovrebbe esimerci dai tentativi di svilupparli.

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BB: nel corso degli ultimi 10 anni circa, il modernismo occidentale , in quanto cultura egemone, è stato criticato da prospettive tanto culturalmente esterne quanto da prospettive interne ad essa . Per un po’, non è sembrato essere più accettabile considerare il modernismo come linguaggio e stile internazionali ed universali, dal momento che bisognava gestire sia la cultura industriale avanzata sia i Paesi del cosiddetto secondo e terzo mondo. Questo mutamento di comportamento è divenuto particolarmente ovvio con l’aumentare degli attacchi allo Stile Internazionale nell’architettura, e nel nostro riconoscere che era necessario prendere in considerazione le specificità nazionali e regionali e le tradizioni in modo molto maggiore rispetto a quanto ci permetteva il modernismo egemone. Il progetto della tua mostra prende come punti di partenza queste prospettive critiche?

JHM: Assolutamente. Questa è esattamente la ragione per la quale vogliamo costruire una mostra veramente internazionale che trascenda la cornice tradizionale euro-americana della cultura contemporanea. Piuttosto che mostrare che l’astrazione è un linguaggio universale o che il ritorno alla figurazione si sta ora verificando in tutto il mondo, voglio mostrare le differenze reali e le specificità delle culture differenti.

BB: Ma quali sono le ‘’culture differenti’’ tra le diverse culture, a questo punto? I centri egemoni dell’Occidente utilizzano il Terzo Mondo per procurarsi lavoro a basso costo (il proletariato nascosto delle società cosiddette post- industriali). Devastano le loro risorse ecologiche e le infrastrutture, per usarle come discariche delle proprie scorie industriali. Non credi che escludendo questi aspetti politici ed economici, e concentrandoti esclusivamente sulla relazione culturale tra centri Occidentali e nazioni in via di sviluppo, genererai inevitabilmente una lettura in chiave neo-colonialista?

JHM: I progetti di Alfredo Jaar e di Dennis Adamsthe per la mostra riguardano appunto questi problemi globali. La tua critica risulta piuttosto debole. Implica che i visitatori della mostra siano incapaci di riconoscere la relazione tra centri Occidentali e Terzo Mondo. La nostra generazione- e non siamo stati i primi- ha denunciato questi fenomeni a cui fai riferimento, e le cose si sono dopotutto evolute un po’ . Non si può ancora dire che viviamo in un periodo neo-colonialista. Ovviamente, il mondo Occidentale esercita ancora relazioni di dominazione rispetto al Terzo Mondo, ma questo non dovrebbe proibirci di comunicare con la gente di queste nazioni, né di osservare le loro pratiche culturali.

BB: Lascia che ti ponga una domanda più nello specifico. Per quanto riguarda un possibile contributo, ad esempio, dalla Nuova Zelanda, sceglieresti più un artista che lavora con video e che procuce studi documentari delle attività della forza lavoro dei Maori nell’industria della tosatura delle pecore, dei mattatoi e delle fabbriche di imballaggio delle carni, oppure cercheresti di trovare uno scultore Maori che produca forme artigianali tradizionali di oggetti scultorei che non affrontano tali condizioni del lavoro quotidiano?

JHM: Potrei scegliere entrambi. Sarebbe ovviamente molto interessante mostrare entrambi gli individui, finchè entrambi producano un lavoro che sia sufficientemente forte..

BB: Ma quali sono i tuoi criteri di una ‘’forza’’ nei lavori?

JHM: L’intensità comunicativa del significato

BB: Significato per noi, o significato per loro?

JHM: Per noi, ovviamente. Questo è importante, perché qualsiasi sia il significato di una tale pratica per i suoi praticanti, non è rilevante per noi se non può esserci comunicata.

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BB: Ma non è questo approccio, ancora una volta, etnocentrico e fallace?

Una particolare pratica comunica con noi, e dunque risulta rilevante per la mostra. Ancora peggio, questo approccio, odora di imperialismo culturale (e politico) . Noi vogliamo che queste culture spediscano i loro prodotti culturali per una nostra analisi e a nostro consumo, piuttosto che invece stabilire un tentativo di smantellare la falsa centralità del nostro approccio e cercare di sviluppare criteri partendo dai bisogni e dalle convenzioni di quelle culture.

JHM: Capisco molto bene ciò che cerchi di dire, ma come intavoleresti effettivamente lo sviluppo di questi criteri immanenti? Io ne ho determinato un certo numero di essi e li ho applicati per definire i partecipanti alla mostra, ma questi criteri dipendono inevitabilmente dai singoli casi, e alla fine generano un numero considerevole di contraddizioni. Non vedo davvero come si possa evitare del tutto una visione etnocentrica. Devo accettarla in una certa misura, nonostante tutte le autocorrezioni che abbiamo cercato di includere nella nostra metodologia.

D’altro canto, mi interessa particolarmente la differenza tra significato dell’oggetto nel suo contesto originario, e quello che assume nel nostro. Non è questa mostra una vera opportunità di porci interrogativi su questo problema vitale? Ciò che è particolarmente importante riconoscere è che questa sarà la prima mostra veramente internazionale di arte contemporanea globale. Ma non pretendo affatto che sia una indagine completa del pianeta. Ne è piuttosto un assaggio, che ho voluto fornire in base a criteri più o meno accurati, seppur in qualche modo arbitrari. Non mi è dato selezionare oggetti alla maniera degli etnografi, i quali scelgono tali oggetti secondo l’importanza e la funzione dentro la cultura, sebbene quegli oggetti possano ‘’significare’’ o ‘’comunicare’’ molto poco- o niente affatto- per noi. E’ inevitabilmente presente un giudizio estetico all’opera nelle selezioni per la mia mostra, e ciò include tutte quelle imprescindibili arbitrarietà che la selezione estetica comporta.

BB: L’altra faccia dell’inganno etnocentrico è il culto della riesumata autenticità, attraverso la quale cerchiamo di imporre alle pratiche di culture diverse di rimanere entro il dominio di ciò che consideriamo essere primitivo, il ‘’diverso’’ originale. Difatti, gli artisti di queste culture spesso affermano- ed a ragione-di aver sviluppato forme di alta cultura tutte loro, le quali corrispondono a quelle del mondo Occidentale, ai suoi valori istituzionali, alle sue convenzioni linguistiche. Perciò essi insistono nel voler essere guardati nei termini delle loro conquiste dell’alta cultura, e non nei termini della nostra proiezione di autentica alterità.

JHM: Ecco perché abbiamo concepito una mostra in cui si verifichino relazioni dialogiche tra centri occidentali e centri dei cosiddetti margini geopolitici. Questa esibizione però stabilirà anche altri tipi di relazioni transculturali: ad esempio, tra il modo con cui la ripetizione di modelli identici funziona nella pittura Tanka tibetana e nel lavoro di un pittore contemporaneo come Daniel Buren, che ha ripetuto in modo coerente il modello entro cui si stabilì sulla fine degli anni sessanta. Dopotutto la pittura Tanka è tuttora una pratica vivente , sebbene la conosciamo solo attraverso i musei etnografici.

Non dimentichiamoci che molte delle società a cui stiamo guardando non conoscono o non condividono la suddivisione occidentale tra cultura alta e cultura bassa, o tra antico e recente. La cultura aborigena australiana , ad esempio, non separa affatto la cultura popolare da quella alta. Vi è semplicemente una unica cultura tradizionale che adesso essi diffondono per difendere la propria identità contro il crescente assalto della cultura industriale occidentale. Anche se essi sono chiamati ‘’Boscimani’’ (uomini dei cespugli)

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anche loro ovviamente guidano macchine, hanno fucili. E tuttavia, insegnano ai loro bambini come usare freccia ed arco e come perseguire le proprie tradizione culturali come resistenza contro la violazione perpetrata dalla cultura industriale occidentale. Questo è anche un motivo per il quale sono stati così desiderosi di accettare il mio invito a mostrare il loro lavoro in un museo parigino, fuori dal contesto funzionale originario, quindi per parlare, ma sempre entro la loro funzione di difesa della propria identità aborigena.

BB: Questo innalza un altro problema. Come eviterai la totale estetizzazione del loro lavoro e delle forme di manifestazioni culturali diverse in esibizione provenienti da contesti non occidentali, una volta che saranno entrerate nel tuo museo /mostra? Come puoi fornire ai tuoi visitatori sufficienti informazioni visive e testuali e allo stesso tempo evitare di seppellire l’esperienza fattuale di questi oggetti nell’apparato didattico?

JHM: Ovviamente non voglio costruire una mostra didattica con un numero esorbitante di pannelli testuali. Viene da sé che tutti gli artisti riceveranno lo stesso trattamento sia nella mostra che nel catalogo (e il catalogo chiaramente fornirà le informazioni cruciali e l’assistenza didattica necessaria per una tale mostra).

BB: La tua decisione di enfatizzare i criteri estetici è dunque pragmatica,è un mezzo che ti permette di creare , da questa eterogenea massa di oggetti, una esibizione ?

JHM: Ovviamente, lavorerò con architetti(Jacques Lichnerowicz

e Xavier Ramond), e abbiamo già parecchie idee sulle varie forme di installazione che trasmetteranno ai visitatori la complessità della situazione- che indicherà loro di non essere di fronte a oggetti tradizionalmente museali ma di essere piuttosto di fronte ad oggetti provenienti da contesti totalmente diversi. Dobbiamo tenere in mente che comunque questa è una esibizione e non un discorso, una dissertazione. E tuttavia so che le mostre non possono autoproclamarsi innocenti, e il nostro progetto sarà allo stesso tempo critico e visivo. Ciò che mi interessa particolarmente sono gli shock visivi che tale mostra può produrre e i processi ragionativi che può provocare. Ma più che mai, vorrei vederere questa mostra operare come catalizzatore per progetti futuri.

BB: Immagino che il tuo progetto possa provocare un grande scetticismo, se non rabbia, in quelle autorità del mondo artistico il cuo preciso ruolo è quello di difendere rigorose suddivisioni e criteri della cultura egemone.

JHM: nel mondo dell’arte , sì. Ma non negli artisti, che hanno invece generalmente risposto con grande entusiasmo ed interesse…

BB: Anche se questo progetto minaccia di decentralizzarli nella ricezione dell’arte contemporanea?

JHM: non credo siano preoccupati di questo- ad ogni modo, non devono preoccuparsene. Credo che ogni individuo creativo sia profondamente interessato alle attività degli altri individui creativi nel mondo. Dopotutto, un elemento di curiosità e sorpresa è parte dell’esperienza artistica in generale. Ma nel corso degli ultimi anni, per quanto riguardava le grandi mostre di gruppo internazionali, non dovevi neanche vedere la lista di artisti partecipanti in anticipo. Era abbastanza facile prevedere chi avrebbe partecipato a quelle mostre. Col nostro progetto la situazione è abbastanza diversa. Ci saranno molte sorprese, e non sempre sarà di gradimento al mondo arte. Però vedranno di sicuro cose che non hanno mai visto prima. Io sto puntando ad un pubblico più vasto ed infatti ho già notato che quando discuto del progetto con la gente, fuori del nostro piccolo mondo

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museale e galleristico, sembra che questa mostra avrà davvero qualcosa da offrire che vada molto oltre i confini tradizionali delle nostre concezioni ci cultura visiva contemporanea.

BB: sembra che, tra le altre cose, la mostra, punti anche alla decentralizzazione delle definizioni sociali tradizionali di utenza artistica.

JHM: Assolutamente sì. Voglio esibire artisti di tutto il mondo, e voglio abbandonare il ghetto dell’arte occidentale contemporanea dentro cui ci siamo ritrovati negli ultimi decenni. Ovviamente, un pubblico più vasto realizzerà che questa è una mostra che, per una volta, sarà molto più accessibile a loro , che questa è una mostra che agisce su piani totalmente differenti. Se non cerchiamo per lo meno di dare inizio a questa evoluzione, allora siamo davvero nei guai.

Author. Benjamin H.D. Buchloh è professore assistente di storia dell’arte moderna e contemporanea presso la facoltà di Architettura al MIT.

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HANS BELTIN – FROM WORLD ART TO GLOBAL ART. VIEW ON A NEW PANORAMA.World art: un’idea vecchia complementare al modernismo, non appartiene alla contemporaneità. include l’arte di qualsiasi provenienza, tuttavia escludendola dall’arte mainstream occidentale. Attua una distinzione coloniale tra musei artistici e musei etnografici(dove è ospitata).Global art: una produzione improvvisa e mondiale al centro dell’attenzione solo da fine anni 80. E’ contemporanea e pervasa da spirito postcoloniale. Ha l’intenzione di riscrivere lo schema di centro e periferia tipico della modernità occidentale egemone.

{1} ***** W O R L D ***** ***** A R T *****Inizialmente: nozionole coloniale per indicare l’arte degli ‘’altri’’ come tipo di arte diversa. Collezionata in differente tipo di musei. Non esaminata da critici d’arte ma da antropologi. Separazione world art/arte occidentale era promossa da manuali di storia dell’arte. Interessante per il pubblico nella misura in cui gioca la nostalgia, mitizzazione lontano passato, disillusione per l’arte moderna.Dopo l’89 bisogno di affrontare il fatto che l’arte moderna internazionale aveva perduto frontiere geografiche nonchè la sua base stanziale (asse europa-nordamerica). Produzione artistica contemporanea non più esclusiva prerogativa occidente: dismessa la distinzione tra arte(occident.) e artefatto(non occid.).

{2}Tra i primi contributi sulla Global art, Biennale Havana> fondata nell’84. La sua focalizzazione sull’arte sud americana è il responso critico all’arte mainstream, nonostante continui a proclamarsi come arte altra e come internazionalismo alternativo. Termine third world in disuso dopo guerra fredda, ma dall’87 ancora usato in Third Text di Araeen come fase intermedia prima che la global art emergesse del tutto. Esibizione MoMa 84(Rubin) progetto ancora coloniale, nonostante fosse epoca già postcoloniale.Martin proclama divisione come pratica da abolire > Magiciens de la Terre, salutata dalla stampa come prima mostra arte contemporanea realmente globale. Diede via a discussioni sul tema.Ebbe luogo in centro ex colonialista e capitale dell’arte modernista, Parigi. Pari numero artisti occidentali riconosciuti e artisti sconosciuti nonoccidentali, stesso trattamento, stesso numero di informazioni su ogni artista. Individuazione di ogni artista, due pagine su

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catalogo per ognuno ecc. accusato tuttavia di continuare il gioco colonialista basato sul binarismo occidente/resto del mondo. Martin :1995 prima Biennale Johannesbourg come partecipante curatore. Spera in uno spazio condiviso dellarte del mondo contro la ghettizzazione nei musei etnografici. All’epoca rese l’attitudine colonialista e l’arte etnica intesa come esperienza estetica del credo modernista concetti passè non più abili a rappresentare l’età global contemporanea. Magiciens de la terre: primo tentativo di trattare l’arte in modo sinceramente postcoloniale. Questo responso generale è presente anche nella stampa di allora, ad es. in Art in America luglio 89 numero ‘’the global issue’’, (in copertina: visione estraterrestre della Terra) tratta il termine global come neologismo nel mondo artistico,con contributi teorici da parte di un’artista e un antropologo.Globalizzazione cambia anche modo di scrivere la storia. E’ un punto di non ritorno.Magiciens: intermezzo, rito di passaggio possibile né prima né dopo l’89. Trasforma World art e Modern art in termini obsoleti.Stesso anno: collasso della guerrafredda . arte diventa transnazionale, la geografia policentrica. Magiciens introduce la Global art. Mentre world art è sinonimo dell’eredità dell’arte degli ‘’altri’’, global art è invece ‘’accettazione’’ di ogni forma d’arte in quanto pratica contemporanea in piano di eguaglianza con arte occidentale. All’epoca termine global art non del tutto accettabile ancora nella stampa, nel ‘92 rivista Kunstforum parla di global art correlata però a una nuova cultura globale. Etnicità mai dibattuta nella world art. Con l’era global, nuova terminologia ‘’artisti dall’africa’’ invece che ‘’artisti africani’’. Curatori rimpiazzano etnologi anche nell’arte locale e promuovo creazione di nuove regioni dell’arte dal profilo transnazionale. Ambiguità terminologica anni 80, al termine world art nuovo significato correlato alle nuove geografie emergenti della produzione artistica.Sidney Biennale 1988: introduzione arte aborigena , lasciandosi indietro l’etnocentrismo. 1993 artisti aborigeni nel rango ufficiale della scena artistica contemporanea.Arte aborigena> da world art> a global art

{4}Effetto Global art sulla scrittura della storia: Difficile tracciare storia dell’arte contemporanea dato che essa è una condizione che supera le categorie storiche, si rivolta contro esse, è site specific. Global art è policentrica e richiede un discorso polifonico. Mentre la storia dell’arte moderna tendeva a dividere, la Global art tende ad unire, nel senso che apre a nuovi partecipanti che parlano diverse lingue e hanno concezioni diverse dell’arte . Rimappamento dell’arte al plurale che reclama le differenze geoculturali.Prima, la concezione di storia dell’arte tradizionale detta ‘’post-vasariana’’, si sviluppa dal rinascimento in poi. Global art: accelera la presa di distanza dell’arte contemporanea dalle lineeguida di una storia dell’arte lineare e fiorisce anche in zone del mondo dove non esisteva una storia dell’arte, almeno indipendentemente dai modelli coloniali imposti.World art: tendeva a supportare il mainstream attraverso un discorso di esclusione.Entrare nella Global Age segna non solo inizio ma anche fine, fine della mappa del mondo artstico con schema centro/periferie.

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Arte come condizione globale= le diversità delle visioni e storie dell’arte: come qualcosa che abbiamo in comune.Scongiurare il rischio di una visione mondo omogeneo piatto con l’utilizzo della diversità delle narrative locali: Diverse storie dell’arte.Tenere in conto degli aspetti economici politici dell’arte nel descrivere l’arte e Ridefinire ruolo dei musei: Nuove sfide dell’arte mondiale.

RASHEED ARAEEN: ARTISTA E CRITICA, di Andra Buddensieg.

-Fondatore Third Text- emigrato da Karachi, Pakistan nel 1964-la sua arte + suo editoriale: parte di una stessa visione= installazione THE READING ROOM 1979-2011 (per mostra THE GLOBAL CONTEMPORARY) usa i cubi per la sua opera artistica VIENNA 36, ZERO TO INFINITY (1968-2009) per esporre i Third Text 1987-2011-un pioniere dell’arte contemporanea senza frontiere, dell’alternativo vs il mainstream.-laureato in ingegneria a Karachi, arriva a Londra nel 1964 quando l’arte Minimalista era ai primi passi nel mondo dell’arte.-strategia per allargare il sistema: problema della visibilità in un mondo centralizzato-motivo dell’abbandono di Karachi: terribilmente annoiato dalla natura di modernità prevalente in Pakistan.-abbandono della pittura in favore della scultura(tra le cause: fascinazione per Antony Caro): ricerca di un nuovo sentiero originale del Minimalismo= configurazione geometrica piuttosto che la composizione= sfida all’arte del ‘’fixed-object’’ .-idea di cubi scheletrici geometrici i cui lati bisezionati da diagonali

-idea di trasformazione continua: atto creativo come movimento reale = CHAKRAS, THE FLOATING DISCS (1968-1970) : dischi geometrici fluorescenti galleggiano sull’acqua che li sposta verso mare aperto.-Interazione: è la gente a lanciare i dischi. -interesse per le ‘’relazioni cangianti’’ ossia NOcontemplazione di un ambiente, MA creazione di un’ambiente secondo nuovi concetti e idee.

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-progetto ZERO TO INFINITY :100 cubi aperti, un’idea del 1968 (Char Yar ‘’quattro amici’’ 4 cubi). Dapprima sono a terra come una normale scultura minimalista, ma poi smantellabile e ricomposizionabile dal pubblico. Opera mutante. Rivela nuove simettrie/asimmetrie. Nel 2007,al Tate Britain. Nel 2009, la seconda versione con 36 cubi rossi (VIENNA 36) usata poi per reading room.-valenze: Ridefinizione arte (sfida allo status quo del framework) e Ridefinizione artista & pubblico (colletività creativa e non più individuale)-Attività di scrittura = La sua idea deve rimanere visibile nonostante le cangianti strategie adottate. L’arte deve diventare una ‘’critical practice’’. ‘’art of resistance’’, capacità di produrre arte in contesti differenti vs istituzione museale. No barriera tra arte e vita. Concetto di ‘’quotidiano’’ o ‘’nominale’’ non mira a creazione di oggetto estetizzato. Promozione dell’arte come idea nella mente dell’artista , non come qualcosa di ‘’comodo, facile all’esposizone museale’’. Scrittura come complemento delle sue plurime attività: l’opera d’arte non basta da sola. Intento di far coincidere arte con criticismo dell’arte. Penetrare il sistema e metterlo in discussione.1984: Testo MAKING MYSELF VISIBLE prima pubblicazione questione visibilità. 1978: aveva pubblicato articolo BLACK MANIFESTO in Black Phoenix.THE ART BRITAIN REALLY IGNORES 1976: saggio di risposta a quello di Naseem Khan THE ART THAT BRITAIN IGNORES, in cui rigetta il termine ‘’arte etnica’’ coniato dalla Khan in favore di un’idea di spazio condiviso dell’arte in cui partecipare oltre ogni credo ed etnia.-ricerca di spazio pubblico dove operare vs museo. Vale sia per attività editoriale che per produzione artistica. Critico vs musei.‘’significant art cannot exist within the bourgeois institution’’-rifiuto dell’estetica del White Cube e della storia dell’arte modernista e delle avanguardie: 2001, proposta di sgozzare una capra e strappare un manuale di arte contemporanea come risposta all’invito al Kunsthaus Bregenz in Austria per una discussione sugli spazi museali. > rifiutata per rigetto degli altri artisti di esporre con lui: evidenza conflitto culturale & difesa della purezza spazi museali.-Resistenza all’assimilazione: Urgenza di Raccontare Altre Storie: OTHER STORIES 1989 Hayward Gallery London .-una serie di AUTORITRATTI dipinti dopo il 1978: uno di essi è copertina di MAKING MYSELF VISIBLE (How could one paint a self portrait i graffiti sulla

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faccia danno idea di aggressione, questione dell’autoritratto come contraddizione). Gli autoritratti mostrano il suo viso non occidentale in modi diversi, è un viso che mette in crisi d’identità il mondo dell’arte. Es. autoritratto Art/History titolo e ritratto mostrano uno spacco : la disparità tra capacità di fare arte e incapacità di entrare nella official history dell’arte.La serie di autoritratti ETHNIC DRAWINGS è una satira degli artisti che usano gli stereotipi della propria etnia per fare carriera nell’arte contemporanea. Mostrano un dilemma culturale, es. autoritratto con scritte in Urdu, sua lingua madre. O quello con scritte in inlgese e qualche parola Urdu, ecc. Uso dell’ironia nell’ammettere il dualismo tra ego/ego supposto.-Partecipazione a MAGICIENS DE LA TERRE: matrice di nove pannelli che sembrano riportare al minimalismo delle origini per la loro sistemazione seriale.nei pannelli foto, testi, ecc e un dipinto: GOLDEN CALF =come i feticci dell’arte contemporanea (le 4 Marilyn Monroe di Warhol) distraggano dal mondo , guerre e politica (al centro invece, immagine di giornale di soldato iraniano ucciso, in una pozza di sangue). Un mondo artisticoindifferente vs il mondo contemporaneo.

- GREEN PAINTINGS di cui esistono 4 versioni : pannelli verdi monocromi agli angoli. Nelle sezioni rimanenti, immagini dei Mass Media. In uno dei Green Paintings, quello presentato nel 1996 in Inklusion:Exhlusion l’immagine mass media è pozze di sangue. Il verde monocromo: colore sacro per l’Islam e colore bandiera Pakistan. Si riferisce a fatti storicamente pakistani ma con forma artistica estranea al mondo pakistano. La cultura di origine quella islamica, rimane ai margini è frammentata e occupa gli angoli della cultura dominante.

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-GOLDEN VERSES (nome originario Golden Words) : tappeto orientale con tre righe in curdu al centro. Inimicarsi pubblico occidentale che non comprende il curdu e quello orientale che legge versi di lode all’uomo bianco e alla sua civiltà. Il tappeto rappresentato è quello fatto in Andalusia nel periodo in cui musulmani ed ebrei furono forzati a lasciare la Spagna.

-THIRD TEXT aveva sottotitolo fino al 1999 THIRD WORLD PERSPECTIVES ON CONTEMPORARY ART AND CULTURE, ma poi termine terzo mondo diventa obsoleto e sostituisce third world con critical .Third text asia 2008, third world africa 2010 : attraversare dialogo e discorso culturale.Nei primi numeri Rasheed Araeen ‘’considerations of art cannot be separated from questions of politics’’ + aprire discussione e critiche su Magiciens de la Terre e (nonostante sua partecipazione) avanza dubbi su presupposti teorici della mostra: mancanza di una radicale cornice teorica concettuale entro cui

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è stato posto l’insieme (toghetherness) di opere che presentano formazioni storiche diverse + com’è possibile criticare la differenza Occidente dinamico/Altro statico in una mostra che parte da questa distinzione? E’ un modo per rimuovere la barriera o la stiamo rinforzando?(magicienne de la terre e il rifiuto di mostrare situazioni di diaspora, x es, o mito di un autentico che forse mai esistito poiché il terzomondo è parte del sistema globale, non vi è estraneo).

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