Rotture per Fatica: Due Secoli di Studi - ndt.net · Tematica: Meccanica della frattura Sommario...

9
ROTTURE PER FATICA: DUE SECOLI DI STUDI M. Cavallini 1 , V. Di Cocco 2 , F. Iacoviello 2 1 Università di Roma “Sapienza”, D.I.C.M.A., via Eudossiana 18, 00185 Roma 2 Università di Cassino, Di.M.S.A.T., via G. di Biasio 43, 03043 Cassino (FR) [email protected]; tel./fax: 07762993681 Tematica: Meccanica della frattura Sommario Nel 1837, Wilhelm Albert pubblicò il primo articolo scientifico sulla fatica, stabilendo una correlazione fra i carichi applicati e la durata di catene per impiego minerario. Solo due anni dopo, Jean-Victor Poncelet nel suo libro intitolato Introduction à la Mècanique Industrielle Physique ou Expérimentale scrisse che le molle sollecitate da una forza ciclica, inferiore alla resistenza massima, si rompono, ed utilizzò per la prima volta il termine fatica. Nei due secoli successivi, sono diventati sempre più importanti gli studi sui meccanismi di rottura dei manufatti metallici anche per sollecitazioni notevolmente inferiori rispetto alla resistenza massima. Ricerche sulla fatica oligociclica (Low Cycle Fatigue, LCF), sulla fatica fatica ad alto (High Cycle Fatigue, HCF) e ad altissimo numero di cicli (Very High Cycle Fatigue, VHCF), sulla propagazione della cricca di fatica e, più in generale, sui meccanismi di danneggiamento dei materiali sono diventate sempre più importanti al crescere del numero delle rotture per fatica in esercizio. In questo lavoro gli autori tentano di riassumere due secoli di studi aventi per oggetto una modalità di danneggiamento di sicura attualità e di enorme impatto economico e sociale. Introduzione Fino all’inizio dell’ottocento la fatica era una modalità di rottura sostanzialmente sconosciuta. Fino a quel momento si era certamente posto il problema della caratterizzazione del comportamento dei materiali e dei manufatti e di tentare una caratterizzazione dello stato di sollecitazioni, provando ad identificare quelle condizioni che comportavano, talvolta, eventi di rottura con conseguenze anche catastrofiche, ma tale problema era piuttosto associato ad eccessive sollecitazioni, oppure a carenze intrinseche dei materiali utilizzati, progettuali e/o costruttive. Il problema dell’integrità strutturale, e di salvaguardare l’integrità di un manufatto, lo si trova quindi già esplicitamente nel Codice di Hammurabi (2250 a.C.), in cui di ammonisce che …Se un costruttore edifica una casa per un uomo senza che questa sia stabile, e la casa che ha costruito crolla e causa la morte del proprietario della casa, che il costruttore sia messo a morte. Se il crollo causa la morte di un figlio del proprietario, che sia messo a morte un figlio del costruttore. Se distrugge una proprietà, dovrà ricostruirla e, dato che non ha costruito la casa in maniera stabile, la ricostruirà a proprie spese…. I primi studi dedicati alla frattura si occupano di forze – e non di tensioni – collegate all’evento finale della rottura: è la singola categoria di oggetti, come fili o travi, a venir caratterizzata, e non il materiale. Materiale, d’altro canto, così intrinsecamente difettoso da indurre Leonardo ad effettuare prove di trazione su fili sempre più corti per trovare sperimentalmente che la resistenza diminuisce con la lunghezza, a conferma di quanto poteva constatare in pratica chi si occupava di trafilare i metalli. Questa prova di trazione

Transcript of Rotture per Fatica: Due Secoli di Studi - ndt.net · Tematica: Meccanica della frattura Sommario...

ROTTURE PER FATICA: DUE SECOLI DI STUDI

M. Cavallini1, V. Di Cocco2, F. Iacoviello2 1Università di Roma “Sapienza”, D.I.C.M.A., via Eudossiana 18, 00185 Roma 2Università di Cassino, Di.M.S.A.T., via G. di Biasio 43, 03043 Cassino (FR)

[email protected]; tel./fax: 07762993681

Tematica: Meccanica della frattura

Sommario Nel 1837, Wilhelm Albert pubblicò il primo articolo scientifico sulla fatica, stabilendo una correlazione fra i carichi applicati e la durata di catene per impiego minerario. Solo due anni dopo, Jean-Victor Poncelet nel suo libro intitolato Introduction à la Mècanique Industrielle Physique ou Expérimentale scrisse che le molle sollecitate da una forza ciclica, inferiore alla resistenza massima, si rompono, ed utilizzò per la prima volta il termine fatica. Nei due secoli successivi, sono diventati sempre più importanti gli studi sui meccanismi di rottura dei manufatti metallici anche per sollecitazioni notevolmente inferiori rispetto alla resistenza massima. Ricerche sulla fatica oligociclica (Low Cycle Fatigue, LCF), sulla fatica fatica ad alto (High Cycle Fatigue, HCF) e ad altissimo numero di cicli (Very High Cycle Fatigue, VHCF), sulla propagazione della cricca di fatica e, più in generale, sui meccanismi di danneggiamento dei materiali sono diventate sempre più importanti al crescere del numero delle rotture per fatica in esercizio. In questo lavoro gli autori tentano di riassumere due secoli di studi aventi per oggetto una modalità di danneggiamento di sicura attualità e di enorme impatto economico e sociale. Introduzione Fino all’inizio dell’ottocento la fatica era una modalità di rottura sostanzialmente sconosciuta. Fino a quel momento si era certamente posto il problema della caratterizzazione del comportamento dei materiali e dei manufatti e di tentare una caratterizzazione dello stato di sollecitazioni, provando ad identificare quelle condizioni che comportavano, talvolta, eventi di rottura con conseguenze anche catastrofiche, ma tale problema era piuttosto associato ad eccessive sollecitazioni, oppure a carenze intrinseche dei materiali utilizzati, progettuali e/o costruttive. Il problema dell’integrità strutturale, e di salvaguardare l’integrità di un manufatto, lo si trova quindi già esplicitamente nel Codice di Hammurabi (2250 a.C.), in cui di ammonisce che …Se un costruttore edifica una casa per un uomo senza che questa sia stabile, e la casa che ha costruito crolla e causa la morte del proprietario della casa, che il costruttore sia messo a morte. Se il crollo causa la morte di un figlio del proprietario, che sia messo a morte un figlio del costruttore. Se distrugge una proprietà, dovrà ricostruirla e, dato che non ha costruito la casa in maniera stabile, la ricostruirà a proprie spese…. I primi studi dedicati alla frattura si occupano di forze – e non di tensioni – collegate all’evento finale della rottura: è la singola categoria di oggetti, come fili o travi, a venir caratterizzata, e non il materiale. Materiale, d’altro canto, così intrinsecamente difettoso da indurre Leonardo ad effettuare prove di trazione su fili sempre più corti per trovare sperimentalmente che la resistenza diminuisce con la lunghezza, a conferma di quanto poteva constatare in pratica chi si occupava di trafilare i metalli. Questa prova di trazione

non caratterizza il materiale, ma il tipo di prodotto e la sua tecnologia di produzione: la forza che viene applicata è dello stesso tipo di quelle che il filo sopporta in servizio. La indubbia capacità di progettare e costruire senza bisogno di una scienza dei materiali o di quella delle costruzioni non ha promosso lo studio di tensioni, deformazioni, né lo sviluppo di materiali funzionali al miglioramento delle prestazioni [1, 2]. Sulla base della morfologia della frattura, Galileo distingue preliminarmente tra i materiali naturali fibrosi o filamentosi, che costituiscono le corde ed i legni, ed i materiali omogenei, come i metallici ed i lapidei. La sua prova di trazione si riduce ad una prova di resistenza con l’applicazione di una forza tale che violentate da forze gagliarde che dirittamente le tirino, finalmente si separano e si diuidono: la rottura avviene nei primi per strappo dei filamenti, mentre nei secondi si produce un cedimento della continuità, generata da un indefinito glutine: E si come nella corda noi intendiamo, la sua resistenza deriuare dalla moltitudine delle fila della canapa che la compongono, così nel legno si scorgono le sue fibre, e filamenti distesi per lungo, che lo rendono grandemente più resistente allo strappamento che non sarebbe qualsiuoglia canapo della medesima grossezza: mà nel Cilindro di pietra, ò di metallo la coerenza (che ancora par maggiore) delle sue parti depende da altro glutine, che da filamenti, ò fibre, e pure essi ancora da valido tiramento vengono spezzati. La prova di trazione su una colonna [1] è un grande passo in avanti rispetto a quanto aveva fatto Leonardo, perché la colonna (il cilindro o prisma AB di legno o di altra materia solida e coerente, fermato di sopra in A e pendente a piombo, al quale nell'altra estremità B sia attaccato il peso C) non è destinata a sopportare sollecitazioni di trazione: non è una caratterizzazione in opera ma la ricerca di un dato sperimentale. Lo studio dei meccanismi di rottura delle fibre non stimola particolarmente Galileo; l’interesse si concentra piuttosto sui materiali omogenei; il problema diventa quello d'intender, qual sia quel glutine, che si tenacemente ritien congiunte le parti de i solidi, che pur finalmente sono dissolubili: cognizione che pur anco è necessaria per intender la coerenza delle parti de gli stessi filamenti, de i quali alcuni de i solidi son composti. Ma questo glutine, visco, ò colla, che tenacemente colleghi le particole, delle quali esso corpo è composto deve avere una natura congruente con i fenomeni della fusione e successiva solidificazione dei metalli, a seguito dei quali la resistenza meccanica viene cancellata, per esser di nuovo ripristinata; durante la fusione nulla potrebbe impedire a questa “colla” di esser’ arsa, e consumata in una ardentissima fornace in due, tre, e quattro mesi, né in dieci, ò in cento; doue stando tanto tempo argento, oro e vetro liquefatti, cauati, poi tornano le parti loro, nel freddarsi, à riunirsi, e rattaccarsi, come prima. La resistenza locale dei materiali viene spiegata ricorrendo al principio dell’horror vacui riferendosi alle ragioni d'Aristotele in confutazion del vacuo, tenendo conto di una composizione del continuo di atomi assolutamente indiuisibili. Gli atomi sono separati da minuscole cavità tali Vacui sarebber piccolissimi, ed in consequenza ciascheduno facile ad esser superato, tuttauia l'innumerabile moltitudine innumerabilmente (per così dire) multiplica le resistenze. Il glutine non può essere una sostanza reale, che verrebbe alterata dalla fusione del metallo, ma il vuoto che agisce a livello locale tra atomi: il passo mancante è l’introduzione di una forza interatomica sul modello di quella che agisce tra i corpi celesti, che verrà introdotta da Newton verso la fine di quel secolo. Le analisi della natura della materia ed i tentativi di elaborare una teoria della resistenza meccanica della “trave” proposti da Galilei nella seconda giornata dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno à due nuoue scienze (1638) verranno approfonditi e

corretti dai suoi allievi e seguaci [3-5], fino a costituire le basi della moderna scienza delle costruzioni. I testi riportati, pur distribuiti nell’arco di poco più di un secolo, concordano nel mostrare un approccio “scientifico” allo stato nascente, con accumulo di dati e tentativi di interpretazione: il progresso delle conoscenze ha seguito, anche in questo particolare settore, un percorso tutt’altro che lineare. Leonardo propone una prova di trazione in grado di dare informazioni utili anche oggi, ma i risultati sono viziati dalla difettosità dei materiali. Galilei è interessato alla resistenza dei solidi, ma non è riuscito a razionalizzare correttamente il problema della trave e a svincolarsi dalla geometria del sistema; non ha introdotto il concetto di tensione, lavorando sulle forze, nè quello di deformazione. Forza e deformazione saranno collegati in una relazione lineare (ceiiinosssttuu = ut tensio sic vis) da Robert Hooke alla fine del XVII secolo. Solo con Augustin Cauchy (1789-1857), nel XIX secolo, si arriverà ad una trattazione moderna, con tensione e deformazione applicate ad un mezzo continuo [5, 6]. La rivoluzione industriale: “nasce” la rottura per fatica La fatica è un problema relativamente recente. “Nasce” con la rivoluzione industriale, con lo sviluppo del motore a vapore, del trasporto meccanizzato e, più in generale, con l’utilizzo sempre più esteso di dispositivi meccanici [7] e l’impiego sempre più esteso di leghe, anzitutto ferrose. Il primo lavoro dedicato esplicitamente alla rottura per fatica è quello di Wilhelm August Julius Albert [8]: a partire dal 1829 analizzò il fenomeno della rottura di catene di sollevamento utilizzate nelle miniere di ferro che si trovavano sotto la sua responsabilità e notò che queste non si rompevano a causa di incidentali sovraccarichi, ma che piuttosto la rottura era dipendente dal carico applicato e dal numero delle volte che questo era applicato. Costruì anche una macchina di prova dedicata al fine di sollecitare in maniera controllata le catene oggetto del suo studio. A partire da questo primo lavoro, si può osservare che lo studio del fenomeno della fatica si sviluppa parallelamente all’impiego dei materiali in condizioni sempre più gravose ed al verificarsi di eventi incidentali con conseguenze, spesso, catastrofiche. Il termine fatica venne quindi definitivamente associato ad una particolare modalità di rottura dei materiali metallici quando, nel 1839, Jean-Victor Poncelet, in un ciclo di lezioni presso la scuola militare di Metz, descrisse i metalli sollecitati ripetutamente con carichi non elevati come stanchi [9]. In particolare, nel suo libro intitolato Introduction à la Mècanique Industrielle Physique ou Expérimentale [10], scrisse che le molle sollecitate da una forza ciclica, inferiore alla resistenza massima, si rompono. Verso la metà dell’ottocento, con l’avvento del trasporto ferroviario, hanno luogo una serie di incidenti: il primo fra questi incidenti in Francia, e fra i primi al mondo, è quello di Versailles (presso Meudon), verificatosi l’8 maggio del 1842 (Figura 1). Due locomotive e diciassette vagoni furono coinvolti in un incidente con un numero di vittime compreso fra sessanta e cento (ma ci sono stime anche superiori), a causa della rottura di un assale della prima locomotiva. L’incidente ebbe una enorme risonanza (alcuni gruppi religiosi ci videro una punizione divina per il fatto che il viaggio si svolgeva di domenica) e fu oggetto di studi approfonditi. La superficie di frattura era inusuale e descritta come “lamellare con cristalli di grandi dimensioni”, decisamente diversa dalla usuale rottura “fibrosa” [11]. Il meccanismo di rottura fu identificato in una trasformazione interna, una

sorta di recristallizzazione dovuta alla sollecitazione ciclica: tale meccanismo è stato successivamente riportato in letteratura fino agli anni cinquanta del secolo scorso.

Figura 1: Incidente ferroviario di Versailles (A. Provost).

William John Macquorn Rankine fu tra i primi ingegneri a riconoscere che la rottura per fatica di assali ferroviari era dovuta all’innesco ed all’avanzamento di cricche. Egli, infatti, dopo l’incidente ferroviario di Versailles del 1842, esaminò numerosi assali ferroviari fratturati: la causa della rottura fu da lui correttamente identificata nell’innesco della cricca in corrispondenza di punti di intensificazione delle sollecitazioni e dalla conseguente propagazione (Figura 2). Rankine presentò le sue conclusioni in un articolo presentato presso l’ Institution of Civil Engineers [12], lavoro purtroppo a lungo ignorato.

Figura 2: Schema della rottura per fatica in un assale ferroviario [12].

Negli anni successivi gli studi più sistematici di Sir William Fairbairn, principalmente su grandi manufatti [13], e di August Wöhler, sugli assali ferroviari [14], permisero di definire meglio il problema della rottura di manufatti metallici nel caso di sollecitazioni ripetute con valori del carico inferiori al carico di rottura del materiale. In particolare August Wöhler, dal 1854 al 1869 direttore delle ferrovie imperiali prussiane, per primo affrontò in modo sistematico e sperimentale lo studio della fatica degli assali ferroviari, costruendo apposite macchine di prova. In particolare, sviluppò la prova di fatica a flessione rotante, introducendo il concetto di limite di fatica. Wöhler riportò i risultati ottenuti sotto forma di tabelle (Figura 3). Solo il suo successore, Spangenberg, direttore del Mechanisch-Technische-Versuchsanstalt, riportò i risultati in un grafico, con assi lineari [15]. Le curve S-N furono denominate curve di Wöhler solo a partire dal 1936. Alcuni anni dopo la pubblicazione dei risultati di Wöhler, Johann Baushinger, imponendo ad un materiale metallico dei cicli di deformazione trazione-compressione tra valori uguali

e tali da superare lo snervamento, rilevò un particolare andamento della curva - [15], con un valore di snervamento a compressione inferiore a quello ottenuto durante la prima sollecitazione a trazione. Il principale obbiettivo di questi primi studi era quello di definire delle procedure sperimentali in grado di quantificare la resistenza a fatica di un determinato materiale, in termini di numero di cicli a rottura Nf [16].

 Figura 3: Pubblicazione dei risultati di August Wöhler, con tabella (a destra).

Prima metà del Novecento: sollecitazione a fatica e meccanismi di rottura Nel 1903, Ewing ed Humfrey esaminarono e documentarono sistematicamente la formazione di cricche superficiali in un provino sollecitato ciclicamente in laboratorio. Essi evidenziarono l’aumento della presenza delle linee di scorrimento con il procedere della sollecitazione ciclica ed il loro effetto sulla formazione delle cricche di fatica (Figura 4).

Figura 4: Micrografie di un acciaio per valori crescenti del numero di cicli di fatica [18].

Nel 1910, O.H. Basquin rappresentò la regione a vita finita delle curve di Wöhler utilizzando degli assi logaritmici “loga-logN” [19], descrivendo questa zona con la semplice formula:

n

a f fN

Basquin tabellò dei valori sperimentali dei coefficienti f ed n utilizzando principalmente i valori ottenuti da Wöhler più di cinquant’anni prima, a testimonianza del fatto che successivamente a Wöhler l’attività sperimentale, almeno dal punto di vista della determinazione di curve “a-N”, non era molto progredita [20]. In questi anni gli eventi catastrofici associabili alla fatica furono molto numerosi, a partire dagli assali ferroviari, che continuavano a rompersi in maniera così frequente che verso la fine dell’ottocento la rivista Engineering stampava dei rapporti settimanali a riguardo, per passare a strutture metalliche diverse, quali, ad esempio, serbatoi in pressione: si può ricordare, ad esempio, l’inondazione di melassa di Boston del gennaio 1919, durante la quale un enorme serbatoio di melassa, di 15 metri d'altezza e 27 metri di diametro, collassò fisicamente. Tale collasso provocò un'immensa ondata di melassa, alta tra i 2,5 e i 4,5 metri, che si mosse a una velocità di 56 km/h: la violenza sviluppata fu sufficiente a sbriciolare le strutture della vicina stazione di Atlantic Avenue della ferrovia sopraelevata di Boston e fece deragliare un treno dai binari, con decine di morti (Fig. 5).

Figura 5: Ondata di melassa di Boston, 1919.

L’approccio di Wöhler, presentava diversi limiti. Uno di questi era legato al fatto che le prove erano svolte in condizioni di ampiezza di carico costante. Nel 1945 Miner [21] divulgò ed implementò un approccio sviluppato venti anni prima da Palmgren [22], proponendo l’accumulo lineare del danno a seguito di sollecitazioni applicate di ampiezza differente. Secondo questo approccio, il danno accumulato dal materiale per effetto della sollecitazione ciclica è proporzionale al rapporto tra il numero di cicli che il componente ha subito n1 ed il numero di cicli N1 che provoca rottura al livello di sollecitazione. Il danno complessivo accumulato dal materiale per effetto della successione di carichi ciclici è quindi ottenuto mediante la sommatoria dei danni relativi ad ogni livello di carico:

1 2

1 2

.....n n

DN N

 

e la rottura si verifica se

1ii

i

nD

N

Nel 1954, Coffin e Manson, lavorando indipendentemente su problemi di fatica termica, proposero una caratterizzazione della vita a fatica basata sull’ampiezza della deformazione plastica. Infatti, notarono che il legame fra il logaritmo dell’ampiezza della deformazione plastica p/2 ed il logaritmo del numero di cicli a rottura 2Nf era sostanzialmente lineare:

' 22

cpf fN

Negli stessi anni diventa sempre più pressante il problema della fatica nel trasporto aereo civile. Fra maggio 1952 ed i primi mesi del 1954 si verificarono alcuni incidenti gravi riguardanti il primo aereo a reazione per il trasporto civile, il de Havilland DH.106 Comet. Il recupero dei rottami, e prove sperimentali condotte in piena scala su un aviogetto privato dei motori, permisero di identificare il problema nell’innesco di cricche di fatica in corrispondenza delle rivettature delle cornici dei finestrini… di forma pressochè rettangolare. Seconda metà del Novecento: meccanica della frattura Ormai consolidato il concetto che la rottura per fatica era da collegare a meccanismi di innesco e propagazione di cricche di fatica, e non ad improbabili processi di ricristallizzazione indotta da sollecitazioni cicliche, era quasi naturale che la meccanica della frattura potesse fornire un approccio più evoluto alla caratterizzazione della resistenza alla fatica nei materiali metallici. Introdotto da Irwin nel 1957 il concetto rivoluzionario del fattore di intensificazione degli sforzi K [23], nei primi anni sessanta Paris ed altri [24, 25] proposero che la velocità di avanzamento della cricca (per ciclo di sollecitazione) fosse correlabile con la variazione del fattore di intensificazione introdotto da Irwin con una formula decisamente semplice:

mdaC K

dN

Paris stesso ricorda il tipo di accoglienza che ebbe la relazione sopra riportata [26]: … In 1957, as a faculty summer associate at Boeing-Seattle, Paris suggested that fatigue crack growth rates could be correlated using the elastic crack tip stress intensity parameter, K, and that data so represented could be related through this parameter to predict growth rates in structural cracks from laboratory data for the material and environment of interest.… The paper written on that work at that time was not published until 1960, since it was delayed by rejection by three journals (ASME, AIAA, and Phil. Mag.). Though that method is widely accepted today, in the late 1960s at Boeing it was rejected by an outside review panel for federal supersonic transport exploratory studies as ‘it simply won’t work’.… In realtà il successo dell’approccio proposto da Paris e della relazione che prende da lui il nome è stato enorme: nei decenni successivi sono state proposte decine di formulazioni differenti, magari in grado anche di descrivere la correlazione fra da/dN e K oltre lo stadio lineare (zona di soglia e di rottura di schianto), ma il successo della relazione di Paris è rimasto insuperato. Alcuni anni dopo, Elber [27] evidenziò per primo il fenomeno del crack closure sulla propagazione della cricca, sottolineando l’influenza della plasticizzazione dell’apice della cricca, della rugosità della superficie di frattura e della formazione di ossidi sul K effettivo all’apice della cricca. Fra gli anni settanta e novanta del secolo scorso, grazie al notevole interesse dimostrato dall’industria (prime fra tutte, quella nucleare e quella aerospaziale), si osserva un incremento notevole dell’attività di ricerca sperimentale, focalizzando l’attenzione sui meccanismi di propagazione della cricca e sulla loro interazione con la microstruttura delle

leghe analizzate. Si evidenzia, ad esempio, l’effetto di una sovrasollecitazione sulla propagazione della cricca di fatica: l’evidente rallentamento dovuto alla presenza di un campo di sforzi residui di compressione all’apice della cricca sottolinea gli evidenti limiti dell’approccio di Palmgren-Miner. Oppure, ancora, il comportamento sorprendente delle cricche “corte”, che possono avanzare anche per valori del K applicato inferiore a quello considerato come soglia nelle cricche lunghe [28], consentendo di modellizare un arco di vita sempre più ampio. Nello stesso periodo, hanno continuato a verificarsi numerosi altri incidenti imputabili a rotture per fatica, sia in campo aeronautico (ad esempio, il caso dell’Aloha Airlines Flight 243 del 1988, con una decompressione esplosiva dell’aeromobile dovuta alla perdita di diversi metri quadrati di fusoliera, che comunque ha consentito l’atterraggio del velivolo, Fig. 6) che ferroviario (ad esempio, con l’incidente di Eschede, del 1998, oppure l’incidente di Viareggio del 2009, Fig. 6), che, più in generale, in ambito industriale.

Figura 6: Aloha Airlines Flight 243, 1988 (sx); Viareggio 2009, superficie frattura (dx).

Conclusioni Non si può concludere un lavoro dedicato allo sviluppo storico degli studi sulle rotture per fatica, e sui modi per evitarle, senza descrivere quali sono le linee di sviluppo più recenti. Anzitutto gli ultimi venti anni hanno visto un incredibile incremento della potenza di calcolo “casalingo” dei singoli sperimentatori: essi sono in grado oggi di sviluppare calcoli estremamente complessi utilizzando calcolatori dal costo relativamente modesto ricorrendo a diverse tecniche numeriche (ad esempio, ma non unicamente, gli elementi finiti, FEM Finite Element Method). Ciò ha consentito un incredibile incremento dell’attività di ricerca basata sull’approccio numerico. Di questo ne possiamo trovare testimonianza nell’incremento negli ultimi venti anni del numero di lavori basati sull’approccio numerico presentati nei convegni delle maggiori associazioni di settore (ad esempio, l’International Congress on Fracture, ICF, oppure, in Italia, Il Gruppo Italiano Frattura, IGF). Inoltre sono state messe a punto apparecchiature impensabili solo venti anni fa, fra le quali possiamo ricordate, sempre a titolo di esempio, le macchine per prove di fatica ad altissimo numero di cicli (VHCF, Very High Cycle Fatigue) che, permettendo sollecitazioni a frequenze di decine di migliaia di Hz, consentono di applicare in tempi accettabili un numero di sollecitazioni pari o anche superiori a 109, oppure ancora microscopi elettronici a scansione (SEM) caratterizzati da prestazioni decisamente superiori a quelle dei decenni passati, grazie sicuramente alla disponibilità di calcolatori in grado di elaborare segnali relativi ad immagini che solo venti anni fa sarebbero stati considerati dei “disturbi”. Dal punto di vista sperimentale, quindi, si può osservare un incremento dell’interesse sulla fase di innesco della cricca, che tanta parte prende nella

vita a fatica di un manufatto, e sulla caratterizzazione della fase di soglia, ovvero quella antecedente alla zona lineare di Paris. Bibliografia [1] S. SMITH, A history of metallography, The MIT Press. Cambridge, Massachusetts

(1988). [2] J. LEMAITRE, Meccanica, (2001) 13. [3] R.L.COLOMBO, D.FIRRAO, Frattura ed integrità strutturale, 1 (2007) 19. [4] S.P.TIMOSHENKO, History of strength of materials, Dover Publications Inc., NY

(1983). [5] D.CAPECCHI, Storia della scienza delle costruzioni, Progedit, Bari (2003). [6] G.R. IRWIN, The historical development of our understanding of fracture, JOM,

(1997) 38. [7] L.P. POOK, Metal Fatigue. What It Is, Why It Matters, Springer (2007) [8] W. A. J. ALBERT, Über Treibseile am Harz, Archive für Mineralogie Geognosie

Bergbau und Hüttenkunde, 10 (1838) 215. [9] R.W. HERTZBERG, Deformation and Fracture Mechanics of Engineering Materials,

John Wiley & Sons, (1976). [10] J.-V. PONCELET, Introduction à la mécanique industrielle, physique ou

expérimentale, Mme. Thiel Éditeur, Paris, seconda edizione (1841). [11] R.A. SMITH, In: Proceeding of 13th European Conference on Fracture, M. Fuentes,

M. Elices Eds., San Sebastián, Spain (2000). [12] W. J. RANKINE, In: Minutes of Proceedings of Civil Engineers (1843). [13] W. FAIRBAIRN, Phil. Trans. R. Soc., 54 (1864) 311 [14] A. WÖHLER, Zeitschrift für Bauwesen, 20 (1870) 73. [15] L. SPANGENBERG, Fatigue of metals under repeated strains. With various Tables

of Results of Experiments, D. Van Nostrand Publisher, New York (1876). [16] J.BAUSCHINGER, Mitteilung XV aus dem Mechanisch-technischen Laboratorium

der Königlichen Technischen Hochschule, 13 (1886) 1. [17] H. MOUGHRABI, Metallurgical and Materials Transactions A, 40 (2009) 1257. [18] J.A. EWING, J.C.W. HUMFREY, Phil. Trans.R. Soc., 200 (1903) 241. [19] O. H. BASQUIN, Am. Soc. Test. Mater. Proc., 10 (1910) 625. [20] W. SCHÜTZ, Engineering Fracture Mechanics, 54(2) (1996), 263. [21] M.A. MINER, Journal of Applied Mechanics, 12(3) (1945) 159. [22] A. PALMGREN, Zeitschrift des Vereines Deutscher Ingenieure, 68(14) (1924) 339. [23] G. R. IRWIN, J. Appl. Mech., 24 (1957) 361. [24] P. C. PARIS, M. P. GOMEZ, W. P. ANDERSON, The Trend in Engineering, 13

(1961) 9. [25] P. C. PARIS, F. ERDOGAN, Transactions of the ASME, series D, J. Basic Engrg,

85D (4) (1963) 528. [26] P.C. PARIS, H. TADA, J.K. DONALD, Int. J. of Fatigue, 21 (1999) 35. [27] W. ELBER, Eng. Fract. Mech. 2(1) (1970) 37. [28] S. PEARSON, Eng. Fract. Mech., 7 (1975) 235.