Roma cultural n°03

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Con il supporto finanziario del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario del progetto “Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity – JUST/2011/ FRAC/AG/2743” del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. I contenuti di questa pubblicazione sono unica responsabilità dell’autore e non può in nessun modo essere considerato come espressione delle volontà della Commissione Europea. Partner www.romaidentity.org

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Roma cultural n°03

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Con il supporto finanziario del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea.

Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario del progetto “Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity – JUST/2011/FRAC/AG/2743” del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. I contenuti di questa pubblicazione sono unica responsabilità dell’autore e non può in nessun modo essere considerato come espressione delle volontà della Commissione Europea.

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Donne in campo

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La persona al centro della propria esi-stenza

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Asini che volano

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Piccoli fuochi si accendono

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Si può fare

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Snezana Nikolic

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Cosmin

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Storia positiva

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Fuochi attivi...crescono

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Dal Kosovo a Trento

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Nenad, dalla Serbia a Bologna

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Politeia romanì

EDITORIalE

Nell’ordinamento italiano esistono ancora norme discriminatorie, razziste, xenofobe o relative al periodo fascista e della tutela della razza. A partire

da questi presupposti, l’ex ministro per l’Integrazione, Cecile Kyenge, aveva annunciato di aver predisposto un disegno di legge per la modifica o l’abrogazione di tali norme. Il nuovo anno, per le minoranze, per i “diversi”, si è aperto con i buo-ni propositi della Kyenge, che nel suo mandato si è battuta per i diritti dei più deboli. L’auspicio, ora, è che il nuovo Go-verno Renzi prosegua nella stessa direzione.

Filo conduttore di questo nuovo numero di Roma Cultural Magazine sono, tra l’altro, proprio le storie di vita di chi ad una di quelle minoranze appartiene. Storie di persone solo in apparenza deboli. Storie di chi, con tenacia, impegno, non senza difficoltà, è riuscito a realizzarsi. Raccontiamo, ad esempio, la storia di Nevrija, giovane rom che, con grandi sacrifici, è riuscita a diplomarsi e a trovare un lavoro. O la storia di Snezana, donna “libera”, orgogliosa del suo passato e della sua identità culturale. O ancora, l’esperienza di una 27enne arrivata dal Kossovo in Italia, dove ha trovato un lavoro ed è riuscita ad acquistare la casa tanto desiderata, anche in questo caso dopo sofferenze e sacrifici. Storie di vita che rappresentano tanti piccoli tasselli di quel più ampio mosaico che è il processo di integrazione verso cui ambire.

Ancora una volta parliamo di campi nomadi, vera e propria “ecatombe della popolazione e della cultura romanì”. Il pro-cesso definito di “campizzazione”, d’altronde, sembra farla da protagonista, ma studi dimostrano che “più della metà della popolazione romanì residente nel nostro Paese è com-posta da cittadini italiani che sono storicamente residenti in tutte le regioni”.Raccontiamo, inoltre, un interessante progetto, denominato “Donne in campo”, frutto di una collaborazione tra la Fon-

Rivista registrata presso il tribunale di Pescara, Agosto 2013Registro stampa n. 1223/2013Hanno collaborato:Guarnieri Nazzareno, Ion Dumitru, Baskim Berisa, Vanessa Cirillo, Enzo Abruzzese, Fiore Manzo, Marco Bevilacqua, Ramovic Badema, Marinela Costantin, Corsina Depalo.

REDAZIONE: Via Rigopiano n. 10/B - 65124 - PescaraTel: 085.7931610 | N. Verde: 800.587705 [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILE: Lorenzo DolceCOORDINATORE EDITORIALE: Dr. Nazzareno GuarnieriGRAFICA: Andrea Guarnieri

EDITORIal

In the Italian rules have yet been discriminatory, racist, xe-nophobic or relating to the fascist period and the protec-tion of the breed. Starting from these assumptions, the

former Minister for Integration, Cecile Kyenge, announced it had prepared a draft law for the amendment or repeal of these rules. The new year, for minorities, for the “different”, opened with the good intentions of Kyenge, that its mandate has fought for the rights of the weakest. The hope now is that the new government Renzi continues in the same direction.

The underlying theme of this issue of the Roma Cultural Magazine are , among other things, their life stories of those who belong to one of those minorities . Stories of people only apparently weak. Stories of those who, with tenacity, commitment , and not without difficulty , he was able to

be realized. Tell , for example, the story of Nevrija , young Roma, who, at great sacrifice , was able to graduate and find a job . Or the story of Snezana woman “free” , proud of its past and of its cultural identity . Or again, the experience of a 27 year-old arrived from Kosovo to Italy, where he found a job and was able to buy the house so desired , even in this case, after suffering and sacrifice . Life stories that represent many small pieces of the larger mosaic that is the process of integration to be attained .Once again we are talking about camps, real “ massacre of the population of Romany culture .” The process defined as “ campizzazione “ , on the other hand , it seems to be the protagonist, but studies show that “ more than half of the Romani population residing in our country is made up of Italian citizens who have historically resided in all regions.”

We tell also an interesting project called “ Women in the field,” a collaboration between the Foundation and the Ro-many Ikea San Giovanni Teatino (Chieti ), which is a prelu-de to a series of experimental activities and workshops that the Foundation intends to support as part of an overall stra-tegy of “ self-empowerment “ . The project is dedicated to a group of Romani women Abruzzo who always play tailoring activities , preserving a heritage craft strained by the econo-mic crisis .

Plenty of space , then , the campaign “ Tre Erre “ created by the Foundation Romany Italy , and training towards active ci-tizenship Romany , with reflections and testimonies of those who participated in the courses. Finally, a reflection , from the theories of the French philosopher Emmanuel Mounier , the concept of “ person “ in contemporary society, and the idea of “learning to be and to live together.”To all of you Happy New Year and good reading.

dazione Romanì e l’Ikea di San Giovanni Teatino (Chieti), che fa da preludio ad una serie di attività e laboratori speri-mentali che la Fondazione intende sostenere nell’ambito di una strategia globale di “self-empowerment”. Il progetto è dedicato ad un gruppo di donne romanì abruzzesi che da sempre svolgono attività sartoriali, custodendo un patrimo-nio artigianale messo a dura prova dalla crisi economica.Ampio spazio, poi, alla campagna “Tre Erre”, ideata dalla Fondazione Romanì Italia, e al percorso formativo verso la cittadinanza attiva romanì, con riflessioni e testimonianze di coloro che hanno partecipato ai corsi. Infine, una riflessione, a partire dalle teorie del filosofo francese Emmanuel Mou-nier, sul concetto di “persona”, nella società contemporanea, e sull’idea di “imparare a essere e a vivere insieme”.A tutti voi buon anno e buona lettura.

Lorenzo Dolce

ROMA CULTURAL MAGAZINE, febbraio 2014

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“DONNE IN CAMPO”F.R.I. e IKEA, innovazione e cambiamento

Vanessa Cirillo, Delegato regione Abruzzo - Responsabile del progetto

Nel 2013 Fondazione romanì Italia ha avviato la collabora-zione con Ikea Italia sede di

San Giovanni Teatino, aderendo al pro-getto Yalla con cui la rinomata azienda svedese, nell’ambito dei propri progetti di solidarietà ha donato circa 600 mt di tessili promuovendo attività di sviluppo sociale sul territorio.La partecipazione a questo progetto inaugura lo start up di una serie di attivi-tà e laboratori sperimentali che Fonda-zione romanì Italia intende sostenere nel quadro di una strategia globale di self-empowerment delle comunità romanì.

FRI ha dedicato il progetto Yalla e l’op-portunità offerta da Ikea, ad un gruppo di donne, mamme, nonne, romnì abruz-zesi che per tradizione hanno sempre

svolto attività sartoriali, confezionando abiti da festa e di uso quotidiano, rap-presentanza di un ultimo baluardo di conservazione di un patrimonio artigia-nale che nell’attuale crisi economica tro-va sempre meno spazi produttivi.

La scommessa in questo progetto si gio-ca sulla capacità di ideazione, progetta-zione e realizzazione di prodotti diversi dal proprio vissuto culturale e sulla pos-sibilità di interagire e mettere in campo le proprie competenze in un nuovo am-bito professionale e relazionale.

Da quest’ultimo punto di vista il proget-to Yalla ci regala un ulteriore occasione di crescita:le attività vengono condivise con l’as-sociazione On the road di Pescara che

sostiene percorsi di aiuto alle donne vittime di tratta e sfruttamento, con cui mensilmente è previsto un incontro di confronto e condivisione.Ulteriore occasione di stimolo all’auto promozione sarà il periodo di vendita in cui all’interno del negozio Ikea sarà allestito uno spazio dedicato e l’attività di produzione personale domiciliare as-sumerà una dimensione sociale e di rap-presentanza collettiva.

Obiettivo finale vuol essere da un lato sperimentare nuove ipotesi di lavoro sostenibile, dall’altro contribuire all’ab-battimento degli stereotipi che generano categorizzazione e ancora nel 2014 ghet-tizzazione sociale ed economica.

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LA PERSONA AL CENTRODELLA PROPRIA ESISTENZA

Ins. Corsina Depalo, Presidente Associazione “Eugema Onlus”

Il problema della persona è stato spesso oggetto di vari e contrastan-ti dibattiti nella storia della filosofia,

però mai come oggi è al centro del mon-do culturale e filosofico.Molti sono infatti i filosofi (come Ma-ritain e Monieur) che hanno fatto della persona l’epicentro delle loro riflessioni dando origine ad una visione filosofica che ha assunto il nome di Personalismo.L’aver posto con fermezza il problema della centralità della persona e del rispet-to della sua dignità di fronte al malessere esistenziale, culturale ed etico - politico del nostro tempo, che diventa elemento imprescindibile per la costruzione della civitas humana, ha reso attuale il pensie-ro di Maritain.

A lui, va il merito di aver fatto della persona umana, della sua dignità e dei suoi diritti, i temi centrali del suo inse-gnamento, della sua vita di pensiero e di azione. Infatti il disagio esistenziale e le

difficoltà presenti in tutti i settori della vita, privata o pubblica, si possono defi-nire come disagio della persona umana, che ha smarrito la via della verità.Anche Mounier, con il suo personali-smo comunitario, ha apportato validi contributi al concetto di persona.Oggi, agli inizi del terzo millennio, in una situazione di grande incertezza per il futuro e di continui attacchi all’uni-verso della persona, l’alternativa di una civiltà fondata sulla riscoperta del senso e del valore della persona e della comu-nità, proposta da Mounier, sembra esse-re di una attualità rivoluzionaria. Tutta la sua vita e i suoi scritti sono la volontà di difendere l’uomo da ogni pre-varicazione e preservare l’umanità dalla perdita di senso e di valori, al rispetto della dignità umana che va ritrovata an-che oggi, nell’Europa unita, sempre più multietnica, multiculturale e multi reli-giosa, che richiede l’incontro con l’altro, il dialogo.

Egli afferma che la persona non è un oggetto, la persona è un “processo”, un “impegno”, “presenza”, “libertà” , “rap-porto con gli altri” . La persona “non è l’essere, ma movimento d’essere verso l’essere” Perciò la persona non può esse-re definita perché è processo, relazione con gli altri e insieme apertura al me-stiere dell’essere.La persona è un divenire.Dal mio punto di vista una cultura inclu-siva che abbraccia la dimensione umana, deve porre l’attenzione alla storia che scorre e alla sua specificità del momento che si sta vivendo. Definire il termine persona presuppone la presenza dell’altro a cui e con cui ci si relaziona con modalità e intensità, anche le più diverse.“L’altro è visto nella sua dignità, oltre ogni aspetto e condizione di razza, ses-so, cultura, religione, status, nella sua diversità”.

Da queste foto emergono due significa-tive esperienze di vita che ho condiviso e aiutato a portare a termine.Una riguarda Daniela, una giovane mamma di due bimbi che ha preso la pa-tente e ha conseguito da adulta (insieme alla sua mamma), la licenza media nel corso serale dell’I.C. “Grimaldi-Lom-bardi di Bari.L’altra riguarda appunto Ligia, mamma di Daniela e nonna di 14 nipoti che, a quasi 50 anni, ha frequentato la scuola serale e ha conseguito anch’essa la licen-za media.In queste foto emerge la felicità delle donne rom che hanno sperimentato la socialità dentro e fuori la scuola di tutti anche dei più deboli.E’ tangibile l’affermazione del sé al dl là dei panni di donna e madre.Offrire l’opportunità di una istruzione adeguata, lavorativa, pari opportunità

alle donne Rom, è il vero riscatto dal pregiudizio.

Il mio lavoro di docente, pedagogista, mediatrice culturale, si intreccia costan-temente con l’impegno di volontariato a sostegno degli immigrati e in particolare delle comunità Rom presenti sul terri-torio barese (nello specifico quella rom rumena del quartiere Japigia di Bari) e di alcune famiglie presenti in Giovinaz-zo (Ba).

Uguali diritti e doveri: è quanto di più prezioso e formativo possa offrire ai miei piccoli studenti con il lavoro che svolgo in qualità di docente. A loro, futuri cittadini del mondo, nella fase più delicata dell’ esistenza, fase in cui all’imparare a conoscere e a fare, si deve affiancare l’imparare a essere e a vivere insieme.

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“aSINI CHE VOlaNO”Vanessa Cirillo

ASINICHEVOLANO è un asso-ciazione di promozione sociale, gestisce un Asineria didattico ricre-

ativa ed è presente con laboratori itineranti in feste, sagre ed eventi culturali in Abruzzo.L’asino compagno infaticabile dell’uomo fin dai tempi più antichi, denigrato e sbeffeggia-

to per le caratteristiche solo apparentemen-te poco nobili,dimenticato, quasi estinto nella frenetica corsa alla produttività, torna nell’era post- moderna per testimoniare ed insegnare a piccoli e grandi la bellezza della “lentezza”e della ricerca dell’essenziale in-visibile agli occhi.Asinichevolano promuove e gestisce at-tività di Onodidattica rivolte alle scuole, Onoturismo per gruppi di bambini e adul-ti, eventi culturali e percorsi benessere con la mediazione dell’asino.

PICCOLI FUOCHI SI ACCENDONO

Licia Di Rocco

Le riflessioni di seguito riportate, appartengono ad alcuni corsisti impegnati nel percorso forma-

tivo verso la cittadinanza attiva roma-nì, TRE ERRE - “Fuochi Atttivi”, di Fondazione romani Italia, e sono state recepite attraverso l’utilizzo dei diversi metodi di indagine appresi nei manuali di psicologia sociale e antropologia cul-turale: interviste semi strutturate, storie di vita, spunti emersi durante le giornate di formazione, articoli scritti dai ragazzi pubblicati nella rivista “Roma Cultura Magazine”, riflessioni emerse dalle con-versazioni e dalle email che ho scambia-to con i ragazzi.

Con Enzo, Fiore, Marinela, Badema, Marco, Ion e Baskim ho passato gior-nate intere, in quanto mi hanno dato la possibilità di essere presente in alcu-ne giornate di formazione, e durante il Secondo Congresso delle Comunità romanés e associazioni, svoltosi a Silvi Marina (Te) nei giorni 7 e 8 settembre 2013. Mi hanno raccontato il vissuto quotidiano, gli eventi più importanti della loro vita, le discriminazioni subi-te, la loro voglia di rivalsa. Il canovaccio dei colloqui è stato modulato a seconda della quantità e della qualità di informa-zioni che gli esponenti avevano voglia di raccontare, senza per questo, diventare erratici e inefficaci.

La selezione degli intervistati è stata pre-cedente fatta da chi ha sostenuto i 200 colloqui di ammissione al progetto, ed

ha fatto sì che io avessi a che fare con ragazzi rom grintosi e determinati, che hanno in comune la grandissima voglia di far riemergere dignitosamente le ra-dici della loro cultura rom, mettendosi in discussione in maniera critica e rifles-siva.Di seguito leggerete le loro storie, i so-gni e le aspettative.I ragazzi intervistati non rappresentano tutta la cultura romanì, ma sicuramente quella fetta di popolazione rom che ha davvero intenzione di cambiare le cose.

Enzo e Fiore sono due ragazzi che abita-no a Cosenza, da piccoli facevano parte di un’associazione gaggia che lavorava con i bambini rom del quartiere. Oggi hanno una loro associazione: da fruitori di un servizio, si sono attivati autono-mamente per offrirne di altri.

Spiega Enzo Abruzzese: “Il mio sogno è quello di non avere più il sogno che vi dirò, ma che questo diventi realtà. Vor-rei che una persona Rom non debba più vergognarsi di essere Rom. Purtroppo oggi essere rom è ancora un grande problema, si è bersagli di intol-leranza, razzismo ed esclusione figli di stupidi pregiudizi radicati, generati dal-la poca informazione e dalla chiusura mentale. Personalmente essere Rom non mi ha mai creato grandi problemi. Sono cresciuto in un quartiere prevalentemen-te di gajè. Ho avuto la grande fortuna di conoscere gente che mi ha apprezzato come persona.

Credo che questa caratteristica è tipi-ca delle persone semplici, di quelli che vivono nei quartieri di periferia, luoghi dove si trovano persone che material-mente non hanno molto, ma credono nei sentimenti sinceri e nell’amicizia.Crescendo tuttavia ho visto e provato sulla mia pelle l’esclusione, la margina-lità e il razzismo. Basta dire il tuo cognome oppure la zona da dove vieni e alcune persone iniziano a guardarti con sospetto: per mia grande fortuna riesco a farmi scivolare addosso i commenti e i giudizi che non ritengo importanti. Queste esperienze fanno sicuramente nascere una fiamma den-tro se stessi. Ma fanno anche riflettere, provando a pensare al futuro. Il sogno è quello di abbattere i muri dell’emar-ginazione e dell’ipocrisia, e dico questo non solo per quanto riguarda i Rom, ma per tutti quelli che vengono considera-ti diversi in questa società. E’ questo il motivo per cui racconto la mia storia e porto come esempio il quartiere dove sono cresciuto: evidentemente è possibi-le combattere l’emarginazione partendo dal valore della persona, e qualche volta già succede.”

Fiore Manzo, anch’egli cosentino, de-scrive il suo sogno: “Vedere il mio po-polo libero dai pregiudizi, un popolo co-operativo e quindi unito. Penso che per raggiungere uno scopo simile, oltre ad una vera presa di coscienza, bisogna raf-forzare la romanipè (identità Romanì) e tirar fuori la voce, non piangersi più ad-

TRE ERRE - Fuochi attivi

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dosso, e mettersi in gioco, fare qualcosa per gli altri, per la propria comunità. La Fondazione romanì Italia con il per-corso formativo verso la cittadinanza attiva romanì, Fuochi attivi, ci sta dan-do proprio questa opportunità. Penso dunque che è possibile attuare quel pas-saggio fra il sunò (sogno) e il cipò (reale-concreto), ma solo se uniti e collaborati-vi, consapevoli di quelli che sono i nostri diritti di esseri umani, senza dover na-scondere la propria identità e quindi rovesciando completamente il concetto sbagliato di normalità”

La famiglia di Livia Marinela Constan-tin, che viene da Bologna, è uscita dal campo grazie al Programma di accom-pagnamento sociale nel contesto di ac-coglienza, di cui si parla nel capitolo III.c. Nel 2007, l’amministrazione co-munale si è fatta garante nella richiesta di mutuo per l’acquisto di un’abitazione, attivata dalla famiglia di Marinela.

Ad oggi lei convive con il suo fidanzato in un appartamento a Bologna. Hanno un bellissimo bimbo che si chiama Lo-renzo e con le loro forze, come tanti al-

tri giovani, pagano affitto e bollette. Mi dice che hanno provato a vivere con i suoi genitori che hanno una casa di pro-prietà, ma che la voglia di costruirsi un nucleo familiare tutto loro era troppo forte, quindi hanno deciso di pagare il canone d’affitto in un appartamento au-tonomo.

Rispetto alle politiche assistenziali rivol-te ai rom nei campi, dice:” Oggi è di-ventata una moda occuparsi della popo-lazione romanì per le istituzioni italiane ed europee, e per tante organizzazioni Rom della società civile. Per essere one-sta questo modo di occuparsi dei rom da parte di associazioni e cooperative è diventato un business. Capisco che per vivere bisogna lavorare, ma non capisco che si possa lavorare sfruttando il di-sagio di alcune popolazioni. Inoltre mi chiedo: com’è possibile che un gruppo di persone che non conoscono nulla del-la cultura romanì possano fare progetti per “aiutare i Rom ad integrarsi” o per la “la scolarizzazione dei bambini rom” o peggio ancora per l’assistenzialismo nei campi nomadi.Queste persone si sono mai chieste se

il loro lavoro produce discriminazione contro i Rom?

Tutte le risorse utilizzate per la gestione dei campi nomadi sono uno sperpero che non aiuta nessuno, né la popolazio-ne romanì, né le comunità locali.Io credo che la discriminazione e l’as-senza di integrazione culturale della popolazione romanì sia da addebitare all’assistenzialismo di queste persone.Non è affatto vero che noi Rom abbia-mo bisogno di qualcuno che ci aiuti ad integrarci, ma abbiamo bisogno di es-sere riconosciuti come persone e come minoranza linguistica.

I miei nonni mi raccontano che l’odio e la discriminazione verso la popolazione romanì nel passato non era così forte come oggi; al contrario le persone Rom erano parte integrante della comunità ed apprezzati per i loro lavori, cioè non ave-vano bisogno di qualcuno che si occu-passe di loro. Oggi le persone Rom ven-gono considerate persone pericolose, ma è una falsa percezione e bisognerebbe fare ricerche per dimostrare la verità. A mio avviso sarebbe necessario eliminare ogni tipo di progetto per i Rom che ha come obiettivo l’assistenzialismo ed il buonismo.Io sono convinta che le persone Rom, nell’ottica della “normalità”, devono es-sere protagoniste del loro futuro, e come tutti gli altri cittadini, vivere nel rispetto della normativa”.

Badema Ramovic, professione infermie-ra, è una ragazza di 23 anni che vive e lavora a Reggio Calabria. La sua fami-glia, fuggita dalla guerra civile in Mon-tenegro nel 1998, ha deciso di uscire con le proprie forze dalla vita del campo che si era prospettata al loro arrivo in Italia. Spesso si scontra con le idee degli altri suoi colleghi, che credono che la sua famiglia sia l’eccezione che conferma la regola perché è davvero dura affrontare

l’uscita da una vita relegata nel campo.

Lei si arrabbia e dice che le fatiche che hanno dovuto affrontare sono tante, e pensa che una parte della causa romanì è insita nei rom stessi. “Siamo noi i primi a non riuscire ad accettarci per quello che siamo a rispettarci a vicenda. Dobbiamo iniziare a comprendere come creare un progetto di vita per un futuro migliore. Non dobbiamo auto-discriminarci. Solo quando questo si verificherà avremo le giuste opportunità per rivendicare la le-gittimità della causa romanì.”

Marco Bevilacqua, ha 29 anni e vive a Reggio Calabria. Per lui, Concetti chiave come: conoscenza, riscatto, comunica-zione, responsabilità, integrazione, cam-biamento, cultura, ecc. sono in qualsiasi cultura di grande importanza per un confronto.

Dice: “Nella società multiculturale, la conoscenza dell’altro, inteso come di-verso da noi, deve essere alla base del dialogo e dello scambio culturale.Le comunità Romanés per molti anni sono state vittime di soprusi e discrimi-nazioni, per cui necessitano di un forte riscatto per dirigersi verso un riconosci-mento reale e concreto.Un buon attivista rom deve interiorizza-re la volontà di riscatto culturale e per raggiungere questo obiettivo deve met-tere in gioco le proprie capacità e svilup-parle a favore della collettività romanì.

Il riscatto inizia dalla scuola e dalla for-mazione, strumenti per migliorare le proprie capacità personali con nuove conoscenze e competenze.Noi, futuri attivisti Rom, dobbiamo as-sumerci la responsabilità di rivendicare il riscatto per una convivenza civile con gli altri popoli. Dobbiamo acquisire la consapevolezza per non nascondere la nostra Identità.”

Ion Dumitru ha 50 anni e vive a Roma. Mi spiega cosa significa per lui essere at-tivista: “Il ruolo di un attivista è quello di mettersi a disposizione della sua co-munità, di capirne i problemi, e dove c’è bisogno di intervenire. Ci sono due condizioni fondamentali di cui l’attivista deve tener conto nel suo lavoro: la pri-ma è la conoscenza della cultura, delle tradizioni, ma anche delle problemati-che con cui la comunità di riferimento si confronta sul territorio.La seconda è quella di riuscire a creare un rapporto di fiducia con la comunità e quindi di creare un clima di confronto sui problemi esistenti.L’attivista dev’essere profondamente consapevole del suo ruolo, con un’idea molto precisa degli obiettivi che si vo-gliono raggiungere; questo determinerà le strategie d’azione con cui avvicinare i problemi che si vogliono affrontare.Come impegno strutturale, in riferi-mento alle comunità Romanés, è quello di migliorarne le condizioni di vita.Ad esempio il corso di formazione TRE ERRE – Fuochi Attivi, dev’essere vi-sto come una grande opportunità per approfondire conoscenze e acquisire esperienza. Un attivista che lavora in maniera professionale, non ha quindi il ruolo dell’oratore che ripete ciò che ha imparato teoricamente, ma quello di ide-are delle azioni concrete, attraverso un lavoro preciso e ordinato, capace quin-di di elaborare anche autonomamente le azioni possibili in concordanza con i problemi da affrontare.

Altrettanto importante per un attivista è la conoscenza della storia e delle origini della popolazione Romanì.Bisogna essere coscienti che il popolo Rom è portatore di una tradizione mol-to antica, che risale a circa 1.100 anni fa, che è stato un popolo presente in tutti i Paesi Europei e in tutto il mondo. Oggi è quindi una questione di responsabilità del popolo Rom quella di gestire questa

presenza diffusa in tutto il mondo, at-traverso la partecipazione alla vita del-la società civile al fine di raggiungere l’obiettivo principale, ovvero quello di essere ufficialmente riconosciuti come minoranza etnico-linguistica.

Il punto di partenza è di creare relazio-ni forti, di conoscersi meglio l’uno con l’altro, di comunicare di più. Spesso quando vengono applicate leggi e mi-sure che coinvolgono i Rom, nessuno reagisce perché nella cultura Romanì ciò che accade è considerato un segno del destino; di conseguenza esiste il sen-timento di non poter cambiare in nes-sun modo le cose. Credo però che si può avviare una trasformazione con la forza dell’unità, con più convinzione e determinazione nel credere all’obietti-vo da raggiungere. In questo momento uno dei primi cambiamenti da attuare è quello di convincere le comunità Rom che vivono dentro i cosiddetti campi at-trezzati, ad uscirne fuori. In generale un attivista deve dimostrare un grande inte-resse sociale al problema di cui si vuole occupare e non prettamente finanziario. Un altro importante fattore per il lavoro dell’attivista è poi quello di monitorare continuamente il lavoro e di saperne va-lutare il grado di successo. Se l’obiettivo viene raggiunto questo produrrà, anche sull’attivista stesso, un’elevata soddisfa-zione, per essere riuscito a risolvere quel nodo di problemi.

L’attivista Rom nello specifico, può aiu-tare la comunità, partendo dal suo inter-no, a valorizzare la cultura le tradizioni i valori e la lingua, che sono il patrimonio da cui partire per interagire e dimostra-re di essere persone capaci e integre con una precisa identità.Quando si parla di lavoro di comunità, si deve pensare all’attivazione progettuale di una serie di processi e di attività pro-gettuali volte alla facilitazione dell’as-sunzione di responsabilità collettive,

Piccoli fuochi si accendono - Tre Erre Fuochi Attivi Piccoli fuochi si accendono - Tre Erre Fuochi Attivi

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all’agevolazione dei soggetti alla parteci-pazione e alla collaborazione sociale, ma anche allo sviluppo di relazioni e legami che favoriscano il senso di appartenen-za, all’acquisizione e al miglioramento delle competenze da parte dei soggetti della comunità. Il dovere di un attivista è quello di tirare fuori le potenzialità, di sviluppare competenze e risorse.

In conclusione, quando parliamo di la-voro di comunità nella sua formulazio-ne più elementare, parliamo di quel pro-cesso tramite cui si aiutano le persone a migliorare le loro comunità di appar-tenenza, attraverso iniziative collettive. Le comunità devono diventare attori sociali, protagonisti della propria vita e costruttori delle proprie realtà.”

Baskim Berisa è un ragazzo rom stan-ziale khorahno (lettore del corano, di re-ligione musulmana) di 27 anni che vive a Trento da quando ne aveva 10. Appena arrivato in Italia, si vergognava di dire che era Rom. Adesso è iscritto al IV anno di giurisprudenza, ed il suo sogno, una volta diventato avvocato, è quello di lottare per distruggere le discriminazio-ni di cui sono vittime le comunità Rom.

Gli chiedo cosa significa, per lui, il ter-mine comunità.“Nel parlare di comunità, ci si può rife-rire a realtà e significati tra loro piutto-sto differenti. Si può intendere in molti modi: spaziale, aspaziale, astratta.In senso spaziale si può intendere infatti la comunità in senso territoriale riferen-dosi ad un aggregato di persone che vive in uno stesso territorio, in uno stesso quartiere, o nello stesso paese, nel caso di piccoli comuni.

In senso aspaziale la comunità può es-sere ancora intesa come luogo virtuale dove ciò che accomuna sono gli interes-si, gli scopi, l’appartenenza ad una stessa categoria o professione.

In senso astratto: la comunità, ancora, può essere considerata come meta idea-le da raggiungere, si pensi a determinati credi religiosi che pongono il vivere ed essere una comunità come luogo, obiet-tivo ideale di vita.La comunità è un’entità viva, dinamica. Nel tempo può, e deve, evolvere. Quindi la riflessione intorno alla comunità deve focalizzare soprattutto il suo meccani-smo di funzionamento: possiamo ave-re comunità chiuse e comunità aperte. Comunità chiusa: ha determinate ca-ratteristiche di sopravvivenza, ovvero è autoreferenziale, non è permeabile all’e-sterno, non ha margini di confronto con gli altri. Conseguenze: rimane chiusa, non evolve (non cambia, è rigida), ripro-pone gli stessi riti, usi e costumi, prodot-ti culturali in maniera acritica;

Tende ad essere discriminata, margina-lizzata dalla cultura dominante, quindi non c’è arricchimento reciproco, si crea una diffidenza bilaterale;Non c’è riconoscimento dell’altro, quin-di non c’è coscienza di diritti e doveri: di fatto, non esiste un “contratto sociale” riconosciuto e condiviso, cioè rischia di vivere non solo ai margini della società ma anche della legalità.La cultura “chiusa” rischia di morire, per sopravvivere deve esasperare i pro-pri caratteri, quindi è sempre meno di-sponibile all’apertura e al confronto.Comunità aperta: è una comunità che si relaziona con le altre culture, cioè realiz-za il principio fondamentale dell’Inter-cultura: l’incontro e il dialogo. È dina-mica e in continua evoluzione.

Gli chiedo come dev’essere una comu-nità aperta.“Essere comunità significa avere un’i-dentità. Bisogna riconoscersi in alcuni elementi comuni: può essere una lingua, può essere una religione, nel caso della popolazione romanì, soprattutto usi, co-stumi e tradizioni.

Comunque, è fondamentale sapere chi sono? Quanti sono? Dove vivono? Come vivono? Solo sulla base dei dati reali, statistici, è possibile tracciare l’identikit di un gruppo e della sua cultura, ovvero definire con precisione la comunità reale e attuale. Nella conoscenza della storia di una cultura e della sua evoluzione si possono ritrovare anche i suoi valori, che la rendono unica ed originale.Avere un’identità significa avere qual-cosa da portare, dei valori culturali che sono propri ma possono arricchire gli altri.

Avere la capacità di dialogo apre le porte al confronto, scambio, arricchimento.Istruzione, significa conoscere altre realtà, creare occasioni di confronto, condividere esperienze, avere una base comune di conoscenza, di valori “uni-versali”. Per esempio educazione alla cit-tadinanza, conoscenza dei propri diritti e doveri….Riconoscere l’altro come interlocutore, porta l’abbattimento degli stereotipi, dei pregiudizi, del rifiuto della diversità. Si-gnifica soprattutto evidenziare il poten-ziale di arricchimento bidirezionale del-la diversità, piuttosto che considerarla un problema. Se io accetto l’altro come portatore di valori riconosco la possi-bilità di uno scambio e di una crescita reciproca.Quindi, in definitiva, fare comunità si-gnifica aprirsi al confronto intercultura-le, come soggetti attivi, poiché ciascuno porta il proprio bagaglio culturale e lo contamina, nel senso positivo dell’arric-chimento, con i valori portati dall’altro.

Questo processo si realizza trasversal-mente nel riconoscimento della dignità culturale di ciascuno e nel rispetto e tu-tela di tutte le culture, perché esse sono il terreno fertile che rende possibile la crescita di una civiltà, come il carburan-te senza il quale una macchina non può circolare.

Negli ultimi anni si parla molto del “fe-nomeno Rom” ed in particolar modo della cultura Romanì, dei progetti mi-rati a migliorare l’inclusione sociale dei Rom, ma soprattutto mettere in atto delle strategie di inclusione, sia a livello europeo che nazionale per migliorare le condizioni di vita della popolazione Ro-manì.L’opinione pubblica e gli addetti ai lavori parlano soprattutto di alcune questioni che secondo loro, sembrano essere alla base della cultura Romanì.

Ad esempio che i Rom abbiano una bas-sa scolarizzazione, che devono vivere, per cultura, nei campi nomadi, che non hanno voglia di lavorare e che per so-pravvivere devono fare “ciorele” “man-ghel” (rubare e chiedere la carità). Insomma un etichetta ben precisa ed umiliante. Io ovviamente, da portatore sano della cultura Romanì, non mi tro-vo d’accordo, perché la cultura Romanì non è fatta di queste cose, ma è compo-sta da una lingua (romanì chib), di usi e costumi, di alcuni valori fondamentali come per esempio il rispetto per il più anziano, la sacralità della famiglia ecc... non sono d’accordo quindi, che la nostra cultura venga inquinata in questo modo.Una di queste falsità è sicuramente la

questione dei campi nomadi: i Rom per cultura devono vivere nei campi noma-di...beh non è proprio così!

Io che sono un Rom ho sempre vissuto in una casa e quindi per me, andare a vivere in un campo sarebbe un suicidio culturale.Come me esistono tante altre persone Rom che vivono nelle case e quindi la questione dei campi non può e non deve esistere. Dal mio punto di vista tutti i campi devono essere smantellati perché producono conseguenze negative per le persone che vi abitano: esclusione socia-le, autoreferenzialità, discriminazione, devianza, chiusura culturale. Di conse-guenza la cultura romanì rimane statica e quindi non si evolve con il rischio che la nostra affascinante cultura possa mo-rire.

Provocatoriamente mi viene da dire che i campi potrebbero anche esistere, solo se diventano una soluzione abitativa aperta a tutti, non solo ai Rom, con un regolamento “condominiale” e un cano-ne d’affitto.Provocatoriamente posso dire che mi piacerebbe far vivere in questi campi nomadi per primi coloro che si sono assunti l’onere di gestirli con un lauto

Piccoli fuochi si accendono - Tre Erre Fuochi Attivi Piccoli fuochi si accendono - Tre Erre Fuochi Attivi

compenso. Evidentemente tenere i cam-pi aperti e non smantellarli, fa comodo: è chiaro che dietro a tutto questo c’è un interesse economico molto forte.

Le istituzioni potrebbero agire in ma-niera diversa. Al posto di investire de-naro per tenere aperti i campi, si potreb-bero mettere a disposizione quegli stessi fondi per poter progettare un percorso di inserimento nelle case. Ovviamente i condomini non devono essere di solo Rom, ma per tutti i cittadini: solo così si avviano concreti processi di integrazio-ne culturale.

Una cultura per evolversi non può es-sere autoreferenziale, ma deve aprirsi all’incontro e al confronto con le altre culture.La questione della popolazione romanì necessita della messa in atto di un pro-getto efficace ed efficiente per l’evolu-zione della cultura romanì. Il primo step è quello della formazione verso la citta-dinanza attiva di giovani Rom, in modo che essi possano diventare soggetti, e non oggetti, di questi processi: la nostra cultura romanì dev’essere il software che fa funzionare la nostra quotidianità.”

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“Non arrenderti mai, per-che’ quando credi che tutto sia finito, è lì che

tutto ha un nuovo inizio”, sono le paro-le di una giovane donna rom di origine montenegrina di soli 24 anni, Nevrija Bardosan.Nevrija ha deciso di raccontarsi alla no-stra rivista ROMA cultural magazine, per raccontare la sua storia, ed essere uno stimolo per quei rom che pensano di essersi persi, convincerli che se vo-gliono possono ritrovare la strada giusta.Nevrija Bardosan è nata a Podgorica (Montenegro) nel 1989, in una famiglia rom di quattro figli che nel 1990 decide di trasfersi in Italia per cercare un futuro

migliore per i propri figli.Arrivati in Italia vengono accolti da parenti del padre e successivamente si trasferiscono a Messina, dove la piccola Nevrija rimane fino all’eta’ di sette anni, vivendo in un campo nomade con pes-sime condizioni igieniche, senza acqua e senza elettricità.Per i genitori di Nevrija non era accetta-bile vivere in quelle brutte condizioni e con immensi sacrifici decidono di tra-sferirsi a Reggio Calabria, in un’appar-tamento in affitto, dove inizia il periodo del cambiamento.Nevrija inizia a frequentare la scuola, nell’anno 2011 si diploma all’Istituto Alberghiero e inzia subito a lavorare in

SI PUÒ FaREBadema Ramovic

alberghi e ristoranti più prestigiosi della zona.Nevrija è una giovane rom realizzata, è riuscita a diplomarsi, a prendere la pa-tente di guida, a trovare lavoro; Come? Con tanti scrifici. Nevrija non si fermera’ qui, ma andrà avanti per migliorare le conoscenze nell’ambito del lavoro e dell’istruzione, anche con la iscrizione all’Università.Noi della rivista ROMA cultural ma-gazine facciamo gli auguri di cuore alla nostra amica Nevrija.

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Mi chiamo Draga ho 20 anni, sono nata e cresciuta a Bolo-gna. Nel 1993, i miei genito-

ri, nati e cresciuti in Serbia, sono arrivati in Italia nei anni 90 per scappare dalla guerra per cercare una una vita migliore per i propri figli.Io sono cresciuta in un campo nomade, non riuscendo a trovare un lavoro, per vivere abbiamo chiesto l’elemosina.Nel 2005 io e la mia famiglia, composta da 7 perone, ci siamo trasferiti in una casa.Oggi studio e lavoro, sono al secondo anno d’università di scienze della forma-zione. Attraverso la rivista ROMA cultural magazine voglio farVi conoscere Sneza-na Nikolic.Snezana è nata in Serbia ed è arrivata in Italia quando aveva quattro anni con i suoi genitori.Arrivata in Italia ha vissuto in campo nomade abusivo di Bologna.All’età di 6 anni si trasferì con i genitori e il fratello nel campo di Sasso Marconi gestito dal comune. Il campo di Sasso Marconi, essendo gestito dal comune, offriva il ‘servizio scolastico’, un pulmino accompagnava i bambini del campo a scuola e poi li ri-portava a casa. Dei primi anni di scuola Snezana ha ri-cordi vaghi, ricorda una discussione con una compagna di scuola alla quale qual-cuno aveva rubato la bici ed essa diceva che erano stati gli zingari. Snezana le disse ‘chi sono gli zingari? Perché dici che sono stati loro?’ la ragaz-

za le rispose che gli zingari erano quelli che puzzavano e che andavano in giro sporchi a rubare e poi chiese inoltre a Snezana ‘ perché ti agiti così tanto? Sei una zingara?’.Snezana ha sempre nascosto a scuola il fatto di essere rom e di abitare in un campo, per paura di essere presa in giro e perché ne sentiva parlare male.Snezana era un esempio per le bambine del campo, tutti i genitori dicevano alle propie figlie di diventare come lei: anda-va a scuola, ubidiva ai genitori, ecc..Snezana è andata a scuola fino ai 18 anni, è stata bocciata due volte per il nu-mero di assenze.Snezana ha cominciato a lavorare appe-na raggiunta la maggiore età in un risto-rante vicino al campo come cameriera, al ristorante non sapevano che fosse rom, sapevano che era serba e che abita-va in un campo. Snezana ha cominciato a lavorare per aiutare economicamente i suoi genitori.Intorno ai 21 anni di Snezana la sua fa-miglia è uscita dal campo per andare a vivere in un appartamento.Snezana ricorda il campo come un par-co: un posto in cui c’erano tanti bambini con cui giocare.Il cambiamento più grande che ha por-tato la nuova casa è stato l’opportunità per Snezana di cominciare ad uscire, co-noscere nuova gente e il poter invitare amici/colleghi a casa.Per Snezana mantenere la famiglia non è mai stato un peso.All’età di 23 anni Snezana ri-incontra Giacomo (suo ex compagno di scuola

SNEZaNa NIKOlICDraga Petrovic

superiore), attualmente suo marito.Giacomo ha aiutato Snezana a non ver-gognarsi della sua origine e della sua cultura, Giacomo è orgoglioso della cul-tura della moglie e ci tiene a far conosce-re le origine della moglie a piu persone possibili.Snezana non voleva presentare subito Giacomo ai genitori, Giacomo insistet-te. Quando Giacomo conobbe gli at-tuali suoceri fu ben accetto, il papà di Snezana gli offrì una birra, la mamma si assicurò che mangiasse e il fratello lo minaccio, gli disse di non far soffrire la sorella.Snezana oggi continua a lavorare in un ristorante, ma le piacerebbe aprire una sua attività da gestire con il marito in Australia.La storia si Snezana è una storia posi-tiva perché è una Donna libera e indi-pendente, una Donna che rispetta e si fa rispettare, perché è orgogliosa del per-corso fatto da sola.Diceva Einstein: La mente è come il pa-racadute, funziona se si apre”.

Cosmin Galbenu, nato nel 1994 in Romania a Turnu Severin, in una famiglia rom numerosa, 6

figli (quattro maschi e due femmine), di cui Cosmin è il primogenito.Nel 2001 la famiglia di Cosmin decide di lasciare la Romania e venire in Italia con la speranza di un futuro migliore per i figli. La famiglia di Cosmin arriva a Roma e trova ospitalità presso connazionali nel campo nomade di via di Salone. A breve tempo, i genitori di Cosmin en-trano in contatto con un gruppo di per-sone dell’associazione “Occhido”, che pur non essendo insegnanti avviano con circa 20 ragazzini un percorso di alfabe-tizzazione in una stanza non attrezzata.Le difficoltà erano enormi, ma Cosmin

COSMINIon Dumitru

ha trovato la forza di andare avanti e di superare tutti i problemi . Inoltre devo sottolineare che Cosmin, essendo il primo di 6 figli, doveva dedi-care parte del suo tempo per accudire i fratelli più piccoli, era il suo spontaneo contributo all’economia della sua fami-glia con l’aiuto alla sua mamma, come accade in gran parte delle famiglie rom. Un giorno Cosmin disse: ”all’inizio del mio percorso di scolarizzazione non sa-pevo che cosa era un diario e che cosa dovevo fare con questo, i verbi, gli ag-gettivi, le doppie, ecc. mi sembravano cose che non avrei mai capito.” Cosmin, sin da piccolo, aveva dimo-strato una grande capacità di apprendi-mento degli insegnamenti che riceveva e quindi ce la fatta.

Attualmente, e un grande appassionato di computer, frequenta il 4 anno della scuola superiore per tecnico-informati-co, e non si fermerà qui. I genitori hanno sempre sostenuto Co-smin, hanno saputo dargli la forza per andare avanti e superare gli ostacoli, senza mollare mai. A Roma nessuno conosce la storia di Cosmin, molti pensano che tutti i rom sono delinquenti.Di giovani rom come Cosmin, ce ne sono tanti in Italia, ed il numero potreb-be essere maggiore se vengono attivate corrette opportunità di istruzione e for-mazione.

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1918

La storia che voglio raccontarvi è quella di Fabio. Fabio è un ragazzo rom, nasce a

Cosenza nel 1975 in una famiglia molto numerosa, infatti è il quarto di 11 figli. Sin da piccolo in lui c’è la voglia di cam-biamento e, diversamente dai fratelli piu grandi, decide di proseguire gli studi anche dopo le scuole medie, infatti fre-quenta il liceo scientifico. Purtroppo per varie vicissitudini non prosegue gli studi. All’età di 15 anni entra in contatto con un’associazione di Cosenza e inizia un percorso che fa crescere in lui la voglia di diventare un simbolo, un punto di ri-ferimento per gli altri rom della sua età. Inizia a svolgere attività di volontaria-to nell’associazione. In questo percorso impara tante cose e tanti aspetti anche

del mondo rom, fino a quel momento a lui non conosciuti. All’eta di 18 anni viene chiamato alla visita militare, ma rifiuta di passare un anno facendo il soldato e decide per l’o-biezione di coscienza. Fabio è il primo rom-cosentino a fare l’obiettore di co-scienza, e svolge il servizio civile nell’as-sociazione dove faceva il volontariato. In lui cresce anche la voglia di vedere al-tre realtà di rom e quindi insieme ad un prete di Cosenza inizia un giro per l’Ita-lia e vede le realtà di Brescia, dell’Abruz-zo e altre ancora per riempire sempre di piu quella sete di conoscienza. Diventato ormai un ragazzo grande, Fa-bio inizia a lavorare facendo esperienza e imparando il mestiere del falegname, prima come apprendista, presso una pic-cola falegnameria di Cosenza, e poi av-

STORIa POSITIVaEnzo Abruzzese

via una piccola falegnameria in proprio, che ancora adesso, anche se la crisi inci-de tanto sulle piccole attività, permette a Fabio di avere un reddito e quindi una casa propria dove abita con la moglie e due splendidi bambini. Fabio è un bell’esempio di integrazione, Fabio non solo ha fatto cose utili per la comunità , ma è un esempio positivo per tanti giovani rom, compreso il sotto-scritto, che ha anche la fortuna di averlo come fratello.

“Non dico agli altri di esse-re una romnì, probabil-mente perché è difficile

che qualcuno se ne accorga, non ho i tratti somatici tipici delle comunità ro-manès, ma non rinnego le mie origini. Credo che al di là di essere rom o non-rom si debba essere guardati come per-sone, esseri umani, avente eguali diritti e doveri ”.Queste sono le parole di Alba Chiara Manzo, romnì Cosentina laureanda in scienze economiche e sociali presso l’u-niversità della Calabria. Ha vissuto sino al periodo dell’adole-scenza assieme alla famiglia in via degli stadi, dove abita una grossa parte dei rom della città dei bruzi, e successiva-mente la famiglia ha deciso di trasfe-rirsi in un appartamento nel centro di

Cosenza.Particolare per lei è il concetto di cul-tura: ”Non esiste una cultura standard, ogni famiglia elabora valori differenti che sceglie di trasmettere ai propri figli”. Questo pensiero deriva dall’esperienza della ragazza, nutrita da valori positivi inerenti allo studio, da genitori reduci dell’impossibilità economici di frequen-tare la scuola, hanno così motivato la fi-glia all’apprendimento, al fine di costru-ire una vita stabile. Racconta: “per i miei coetanei era strano che mi importasse di avere ottimi voti, non riuscivano a comprendere la mia volontà di non accontentarmi di essere mediocre ”. Tutto questo l’ha spinta a diplomarsi ed iscriversi all’università.Non è un caso, infatti, la scelta del suo

FUOCHI aTTIVI...CRESCONOFiore Manzo

corso di laurea, oltre che per una que-stione di stabilità, importante sia per lei che per la famiglia. La sua è una scelta oltre che per se stessa anche per il pros-simo, utile per la società. Infatti dice: “mi piace l’idea di fondere l’economia nella sociologia, così forse potrò aiutare il mio paese a crescere ed uscire dalla crisi ”. Sebbene la ragazza riconosce l’impor-tanza delle sue origini, ama essere con-siderata una cittadina del mondo, anche se questo non ha scemato, eliminato il suo interesse per il popolo romanò, di-fatti ha deciso di scrivere la sua tesi di laurea su tale tema.

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Mi chiamo Maria (nome di fan-tasia), ho 27 anni , sono una romnì Khorakhanì stanziale

del Kosovo. Ho sei fratelli 5 maschi ed una femmina ed io sono la seconda dei sette fratelli.Vivo in Italia dal 1992 precisamente a Trento.Il mio arrivo in Italia è stato causa della crisi economica e sociale che aveva col-pito i Balcani.I miei decisero di cercare fortuna altrove e la meta scelta era l’Italia.Quando siamo partiti io avevo solamen-te 5 anni e quindi non sapevo a cosa an-davo incontro.Quando sono arrivata, il primo periodo era molto difficile dato che non sapevo la lingua e quindi anche le relazioni con la società maggioritaria era assai diffici-le, ma soprattutto era difficile trovare una casa e quindi ci accampavamo io, mio fratello che era nato da poco, i miei genitori ed alcuni parenti in case abban-donate e per sopravvivere andavamo a chiedere l’elemosina. Insomma per me all’età di 5 anni que-sta situazione non era delle migliori dato

che non ero abituata a fare queste cose nel mio paese perché i miei nonni assie-me a mio padre erano commercianti e nel loro campo lavorativo avevano mol-to successo e quindi vivevamo una vita soddisfacente.Dopo circa un anno mio padre trovò lavoro come autista di camion, ma no-nostante tutto ciò io dovevo continuare a fare questo umiliante “lavoro”, chie-dere la carità per il fatto che dovevamo pagare il debito fatto per venire in Italia e solo il papà che lavorava non bastava.La mia nuova vita a Trento i primi quat-tro anni non sono stati molto felici, per-ché invece di stare tranquilla e giocare come facevano i miei coetanei, dovevo lavorare pure io per aiutare la famiglia e quindi ho passato tempi durissimi.Dopo un paio di mesi che eravamo sul territorio Trentino, il comune se n’è accorto e quindi decisero di aprire un campo nomadi chiamato “campo del Kosovo”.La vita nel campo era dura, dato che non era attrezzato per niente, non c’era luce, gas, acqua quindi dovevamo vivere una vita da “cani”.

Dal KOSOVO a TRENTOBaskim Berisa

Nel 1996 ecco che iniziava il cambia-mento dato che il comune si decise di chiudere il campo e concederci una casa, anche se isolata dal mondo, ma era sem-pre una casa, con un bagno, una cucina ed una stanza da letto.

Finalmente iniziai a vivere una vita tranquilla, ho incominciato la scuola elementare , mi sono fatta delle amiche e quindi la mia vita sociale incominciava a prendere un’altra piega.Dopo un periodo rimasta in quella casa, a dir il vero anche lì non era una situa-zione ideale, il comune ci concesse una casa solo per la mia famiglia, dato che erano arrivati il resto dei fratelli rimasti in Kosovo e quindi in quella casa dove stavo non bastava per tutti.Incominciai a frequentare le scuole me-die con dei buoni risultati.Nella nuova casa tutto procedeva a me-raviglia, dato che era situata in un quar-tiere dove la socializzazione era più faci-le dato che c’erano altri ragazzi con cui giocare.Finite le medie dovevo scegliere l’indi-rizzo per frequentare le scuole superio-

NENaD, Dalla SERBIa

a BOlOGNaMarinela Costantin

ri e decisi di frequentare la scuola per sarta. Ricordo che alle scuole superiori mi trovai molto bene, mi ero fatta tante amicizie e le professoresse erano molto brave.

Durante il periodo scolastico comunque io lavoravo, questa volta non andando a chiedere l’elemosina, ma facevo compa-gnia ad un’anziana, viveva vicino a casa mia, mi ero tanto affezionata a lei, ma purtroppo dopo circa un anno morì.Dopo il mio diploma cercai lavoro, ed ho avuto tanta fortuna a trovare subito un lavoro, non era il lavoro che sognavo e nemmeno quello per cui ho studiato, ma era un lavoro come barista.L’esperienza come barista mi ha dato molto, per il fatto che ho conosciuto tanta gente e poi mi divertivo, oltre a questo lavoro facevo compagnia alla mamma della mia datrice di lavoro. Molte persone mi chiedono la mia pro-venienza, io rispondo sempre che sono kosovara, nego mal volentieri di far sa-pere la mia etnia poiché ho sempre tanta paura di perdere le amicizie e soprattut-to il lavoro.

Due anni fa ho comprato casa dove ora vivo con i miei, devo dire che ho fatto molti sacrifici per poter comprare questa casa, tengo inoltre a precisare che i miei genitori hanno condiviso le mie scelte matrimoniali.Ho un sogno: vorrei un giorno che la si-tuazione riguardo alla nostra etnia cam-bi e non aver più timore di dichiararsi per quello che si è, purtroppo per ora non ho ancora coraggio di levare questa maschera.

La parola rom porta l’opinione pubblica ad immaginare cose negative e classificano questa comunità come delinquenti. Molti non conoscono o non vogliono conoscere che come in tutte le po-

polazioni anche nelle comunità romanès ci sono persone che lavorano, studiano e conducono una vita “normale”Vi racconto la storia di un ragazzo rom di nazionalità serba Nel 1994 Nenad con i fratelli arriva in Italia dove lo aspettava suo padre. Era molto felice perché finalmente la sua famiglia era riunita.In Italia si trova a vivere in una condizione abitativa molto precaria e segregante, i genitori non avevano un lavoro e di conseguenza non potevano permettersi un alloggio dignitoso. Trascorso un pò di tempo i genitori di Nenad trovarono lavoro e si trasferirono in una casa.Nenad e i suoi fratelli iniziarono ad andare a scuola senza mai trovare alcuna difficoltà e non esitavano di dire a tutti che loro sono rom.Crescendo i tre fratelli hanno fatto il loro percorso di vita ed oggi tutti lavorano. Nenad si è diplomato e lavora come operaio, vive in un appartamento con sua moglie e suo figlio, al quale insegna sempre di rispettare il prossimo e di non dimenticare mai le sue origini e la sua identità rom. Il suo sogno è di avere un situazione economica sufficiente che gli permetta di far studiare suo figlio.

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Nazzareno Guarnieri

In Italia quando si parla di Rom, si parla di campi nomadi. Un dispositivo ammi-nistrativo frutto di una serie conca-tenata di errori, equivoci e scelte che oggi identifica, definisce e coglie un’identità intera.Eppure esiste anche tanto altro che però non trova spazio nel quadro della riflessione gene-rale sulla condizione dei Rom in Italia.Il processo di “campizzazione” del tema rom ha occupato tutto spazio politico-mediatico- sim-bolico, con conseguenze incalcola-bili in termini di fossilizzazione delle rappresentazioni sociali che fomentano forme di rassegnazione atavica come di de- responsabilizzazione anche, e so-prattutto, istituzionale.

Eppure studi scientifici indicano che più della metà della popolazione romanì re-sidente nel nostro paese è composta da cittadini italiani che sono storicamente residenti in tutte le regioni Italiane.

Si tratta di una popolazione che, pur vivendo condizioni e problematiche so-ciali simili a quelle del resto dei cittadini, spesso si trova al centro di negazione dei diritti fondamentali, di strumentalizza-zioni politiche ed atteggiamenti razzisti

Tanti dei pochi rom che si recano alle urne spesso “svendono” il proprio voto

al politicante di turno in cambio di un buono/benzina o il pagamento di

una bolletta. Questa accade non solo per sfi-ducia, ma principalmente per assenza di consapevolezza po-litica all’interno delle comuni-tà romanès La partecipazione politica non è un processo spontaneo

(soprattutto nelle nostre so-cietà complesse fondate sulla

delega) ma, per esser efficace ed efficiente presuppone l’attivazione

di campagne di sensibilizzazione (self-empowerment) e processi di formazione alla partecipazione (capacity building), per sviluppare capacità che consentano ai soggetti di partecipare attivamente, di co-elaborare decisioni in gruppo, di perseguire in modo efficace le proprie idee, di sviluppare un pensiero critico e autonomo.

Partendo da questo insieme di fattori che un individuo, un gruppo, una co-munità possono strutturare i contenuti alla base dell’accesso a ciò che definia-mo cittadinanza sostanziale, e non me-ramente formale. Si tratta di un processo che necessita di

basati sul pregiudizio e sull’eredità del processo di “campizzazione” del tema rom.

Più della metà della popolazione romanì sono cittadini Italiani, hanno a tutti gli effetti i diritti elettorali, possono vota-re e candidarsi in qualsiasi elezione; un numero molto elevato di queste persone rom non si recano alle urne per eserci-tare il diritto di voto, mentre le organiz-zazioni politiche evitano di candidare persone rom alle elezioni per timore di perdere consenso elettorale.

POLITEIA ROMANÌCampagna di sensibilizzazione politica, 2014

una visione strategica che la Fondazione romanì Italia ha individuato nell’elaborazione di una nuova romanipè, una romanipè 2.0 (due punto zero).E’ essenziale per la popolazione romanì prendere parte al processo di costruzione della politica e dei meccanismi di formazione degli organi istituzionali al fine di parteciparli, ma anche per inviare messaggi, sti-moli e provocazioni in modo strutturato, trasparente e organizzato, a tutta la comunità politica italiana.

Nell’ottica della visione strategica di elaborare una romanipè 2.0, la Fondazione romanì Italia, con il sostegno di Open Society Foundation, promuove la Campagna “Politeia romanì”. “Politeia romanì” è campagna di sensibilizzazione politica delle comu-nità romanès con la finalità di muovere i singoli e le comunità nella direzione della consapevolezza in relazione ai diritti elettorali.

“Politeia romanì” è anche sensibilizzazione delle organizzazioni poli-tiche per rendere visibile un quadro di conoscenze depurato da visioni stereotipate, parziali e buoniste, per fornire occasioni di scambio e di reciproca sensibilizzazione sulla partecipazione politica. “Politeia romanì” attiva il protagonismo positivo con il processo di em-powerment degli attivisti rom di “Fuochi attivi”, (unico gruppo italiano di universitari rom) che interverranno nei territori di 8 regioni Italiane per progettare, pianificare e realizzare le attività della campagna di sen-sibilizzazione politica.

Il voto è un diritto politico che permette di partecipare attivamente alla vita pubblica.Il voto è un diritto civico essenziale per il funzionamento della demo-crazia.La democrazia che NON funziona genera discriminazione, esclusione. La democrazia che funziona produce libertà di pensiero, giustizia socia-le, partecipazione sostanziale.

Per aderire e sostenere la campagna Politeia romanì invia una email: [email protected]

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