Roma cultural inserto speciale n° 02

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Con il supporto finanziario del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario del progetto “Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity – JUST/2011/ FRAC/AG/2743” del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. I contenuti di questa pubblicazione sono unica responsabilità dell’autore e non può in nessun modo essere considerato come espressione delle volontà della Commissione Europea. Partner www.romaidentity.org

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Roma cultural inserto speciale n° 02

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Con il supporto finanziario del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea.

Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario del progetto “Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity – JUST/2011/FRAC/AG/2743” del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. I contenuti di questa pubblicazione sono unica responsabilità dell’autore e non può in nessun modo essere considerato come espressione delle volontà della Commissione Europea.

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2° Congresso delle comunità romanès e delle associazioni

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Educarsi all’alterità in una società multi-culturale: per una approccio transcultu-rale e inclusivo

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Ragioni, forme e portata del riconosci-mento delle comunità linguistiche mi-noritarie

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Crescere in minoranza, politica del rico-noscimento e differenze socio-culturali nelle “seconde generazioni”, rom e non solo

INSERTO SPECIALEdel n° 2 / Novembre 2013

Rivista registrata presso il tribunale di Pescara, Agosto 2013Registro stampa 1223/2013Hanno collaborato:Alain Goussot, Guarnieri Nazzareno, Giovanni Agresti, Maura De Bernard.

REDAZIONE: Via Rigopiano n. 10/B - 65124 - PescaraTel: 085.7931610 | N. Verde: 800.587705 [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILE: Lorenzo DolceCOORDINATORE EDITORIALE: Dr. Nazzareno GuarnieriGRAFICA: Andrea Guarnieri

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2° CONGRESSO DELLE COMUNITÀ ROMANÈSE DELLE ASSOCIAZIONINazzareno Guarnieri

ROMA cultural magazine

Un ringraziamento a tutti i partecipanti a questo 2° con-gresso delle comunità romanès. Ringrazio suor Adriana dell’istituto Suore del Sacro

Cuore di Gesù, che ci ospita e per averci accolto con affetto e disponibilità.

All’apertura dei lavori di questo congresso voglio ricordare un carissimo amico che qualche settimana fa ci ha lasciato, Nico-lae Gheorghe che a tutti gli effetti noi della Fondazione romanì Italia consideriamo il socio fondatore occulto della nostra or-ganizzazione, perchè con i preziosi consigli derivanti della sua

ANALIZZARE IL PASSATO PER CERCARE DI COSTRUIRE IL FUTUROSe non sai dove vai, ricordati da dove vieni

La Fondazione romanì Italia esprime esigenza di un confronto con altre idee per definire il proprio programma politico, il con-gresso è il luogo ideale affinchè si possa “analizzare il passato per cercare di costruire il futuro”, perchè “se non sai dove vai, ricordati da dove vieni”.

Il termine congresso indica un evento in cui un insieme di per-sone sono riunite per uno scopo comune e per uno scambio di idee, di esperienze e di proposte. Lo scopo comune di tutti noi è finalizzato a migliorare le condi-zioni di vita della popolazione romanì, e se anno dopo anno le condizioni di vita della popolazione romanì continuano dram-maticamente a peggiorare, dobbiamo individuare le motivazioni con un’attenta analisi e cercare le soluzioni per rimuovere gli ostacoli.Abbiamo la consuetudine di attribuire le responsabilità ad al-tri, con facilità abbiamo fatto ricorso alla denuncia e spesso a superficiali ricerche che hanno condotto le comunità romanès da una parte a sviluppare un “fatalismo persecutorio” con compresso sociale per la sopravvivenza culturale che rischia di distruggere la cultura romani ed interiorizzando un adatta-mento forzato alle circostanze (sempre negative), dall’altro la presenza di “filtri culturali” che hanno permesso un radicato sviluppo di una mentalità assistenziale per “le scelte politiche differenziate” e per “l’assistenzialismo culturale” .

Forse lo scopo comune di tutti noi di migliorare la condizione della popolazione romanì NON è comune, perchè troppe stra-tegie attivate NON sono dotati di senso e SONO staccate e lon-tane dalla società.

Tutti abbiamo il dovere di analizzare il passato per costruire il futuro, cercando “risposte ragionate” per migliorare la condi-zione sociale, culturale, politica ed economica della popolazio-ne romanì, “risposte ragionate” inserite in un contesto dotato di senso, che non siano staccate e lontane dalla società.

La Fondazione romanì Italia si è posta alcune domande per cer-care di costruire “risposte ragionate”:1. Perchè il tema rom è irrilevante nelle agende delle orga-

nizzazioni politiche italiane?2. Perchè il mancato riconoscimento dello status di mino-

ranza linguistica alla popolazione romanì?3. Perchè la strategia nazionale per l’inclusione della popola-

zione non produce gli effetti sperati? 4. Perchè gran parte dei progetti attivati non producono un

miglioramento della condizione della popolazione romanì? 5. Perchè le buone iniziative locali non riescono a ridurre pre-

giudizi, stereotipi, discriminazione ed esclusione ?6. Perchè si ostacola la partecipazione attiva e professionale

dei rom? 7. Quali sono gli elementi per definire se una associazione è

rom oppure no?8. Perchè si continua a soffiare sul vento della divisione e

della disinformazione?9. Senza una evoluzione della cultura romanì è possibile mi-

gliorare le condizioni sociali e culturali della popolazione romanì?

10. E’ sufficiente limitarsi ad attribuire responsabilità “all’al-tro”, alla politica alle istituzioni, alla società civile, alle co-munità romanès ?

11. Denunciare è necessario, ma è sufficiente? 12. La denuncia costantemente ripetuta non conduce alla de-

legittimazione delle rivendicazioni?

Nel 2003, con la costituzione presso il Centro studi zingari di Roma della F.I.R.S.T. – Federazione rom e sinti tikanè - inizia un lungo percorso di partecipazione attiva dei rom finalizzato a stimolare consapevolezza politico/culturale e cittadinanza atti-va romanì.Un percorso che fino ad oggi si è rivelato pieno di ostacoli, cre-ati ad arte per impedire la partecipazione attiva e professionale di quei rom con conoscenze e competenze, capaci di ragionare con la propria testa.

Dieci anni fa nel 2003: • le associazioni/cooperative che si occupavano di rom era-

no più di un centinaio• le associazioni espressione delle comunità rom erano

meno delle dita di una mano• i mediatori culturali rom circa 50.

Oggi nel 2013:• le associazioni/cooperative che si occupano delle comuni-

tà romanès sono oltre n. 400 su tutto il territorio italiano (circa + 400%)

• le associazioni espressioni delle comunità rom sono circa n. 80 (circa + 800%)

• i mediatori culturali circa n. 1400, in gran parte disoccupati (circa + 1350%)

Nell’ultimo decennio alla crescita di partecipazione dei rom e di impegno della società civile Italiana verso le comunità rom, si aggiungono l’approvazione di una strategia nazionale per l’in-clusione della popolazione romanì e l’attivazione di tavoli nazio-nali, regionali, provinciali.

2° Congresso delle comunità romanès e delle associazioni

grande esperienza e professionalità, ci ha guidato nella costi-tuzione della Fondazione. Durante questo congresso avremo tutti il tempo necessario per intervenire e confrontarci, quindi in questa relazione introdut-tiva mi limiterò ad alcune considerazioni generali che saranno approfonditi durante il dibattito di queste due giornatePerchè un congresso?Potevamo organizzare un convegno o un seminario e mettere in mostra le attività che la Fondazione romanì Italia ha realizzato per esaltare il nostro personalismo, la nostra auto referenzia-lità.

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Tutto porta a pensare che siamo sulla strada giusta per migliorare le condizioni di vita della popolazione romanì, ma con un appro-fondimento attento di queste iniziative ho il timore che la causa rom possa “cadere dalla padella alla brace” per due ordine di motivi che rischiano di dare legittimità alla esclusione ed alla discriminazione della popolazione romanì:• l’assenza di partecipazione attiva a qualificata dei rom• l’assenza di una politica per la cultura romanì• errata lettura della realtà e dei bisogni delle comunità romanès

Oggi più grave di ieri si inibisce la partecipazione attiva e qualificata dei rom con il pretesto di promuo-verla.

Oggi si continua a legittimare i bisogni della popolazione romanì come “un problema sociale” e non si riconosce la cultura romani come base dei bisogni delle comunità romanès.Oggi si continua ad ignorare il patrimonio umano e culturale della maggioranza della popolazione romanì che NON vive in condizioni segregante.

E’ quindi evidente che oggi è peggio di ieri per la popolazione romanì perchè non è visibile, in Italia ed in Europa, la volontà politica ed istituzionale di un radicale cambiamento rispetto al passato.

Da questo dato di fatto nasce la Fondazione romanì Italia quale strumento gestionale di iniziative di community welfare e di comunicazione sociale e dirigersi verso “l’elaborazione di una nuova roma-nipè” per evitare il rischio di falsi modelli e una distorta conoscenza e coscienza dell’essere rom.

Una romanipè 2.0 (due punto zero) per rimuovere le convinzioni che hanno manipolato la realtà e la cultura romanì nel processo di percezione delle

informazioni, per passare dal multiculturalismo all’interculturalità.

Il 1° congresso delle comunità romanès si è svolto a Roma il 22 e 23 Aprile 2009 e si è concluso con la condivisione

di un documento unitario in cui si chiedeva: 1) il riconoscimento dello status di minoranza

linguistica2) passare dalla mediazione alla

partecipazione attiva3) una politica per la cultura romanì

Il riconoscimento di mi-noranza linguistica è un presupposto essenziale per qualsiasi futura politica cul-turale e di inclusione, ma da

sempre questo tema è stato posto con eccessiva superficialità

e falsità.E’ vero che sono state presentate alcune proposte di legge che non si sono trasformate in leggi dello Stato per la confusione e l’assenza di progetti culturali. In particolare per l’assenza di progetti per la diffusione tra la popolazione nromani della lingua

romanì standard, elemento fondamentale per costruire una unità delle comunità romanès.Senza la codificazione di un romanès standard e la sua diffu-sione nelle comunità romanès sarà mai possibile progettare l’unità nella popolazione romanì?Per esempio in Italia è la lingua Italiana che unisce le 20 comu-nità regionali italiane che parlano 20 diversi dialetti.Cosa è stato fatto per codificare un lingua romanì standard? Quali iniziative? Quale diffusione tra le comunità rom?La conoscenza della lingua romanì standard ed il riconosci-mento dello status di minoranza linguistica sono atti di libertà per la popolazione romanì“Un popolo ha la libertà per cui è disposto a lottare.”Spero che da questo congresso posso definirsi un percorso che conduca verso la realizzazione di azioni concrete affinchè la lin-gua romanì diventi patrimonio della collettività per un ricono-scimento reale della lingua romanì, prima ancora che politico e legislativo. La Fondazione romanì Italia sta lavorando in questa direzione.Passare dalla mediazione alla partecipazione attiva.

In Italia nell’ultimo decennio sono stati avviati corsi di formazio-ne per circa 1400 mediatori culturali rom, in gram parte disoc-cupati o utilizzati in modo strumentale e folcloristico.Nell’ultimo decennio è diventata consuetudine avviare percorsi di formazione per persone rom, in particolare mediatori cultu-rali, senza determinare prerequisiti di base minimi per poter svolgere con successo tale attività professionale. Tutto questo ha delegittimato la mediazione culturale ed ancora più grave-mente prodotto danni alla causa romanì ed alla partecipazione attiva. Durante il 1° congresso delle comunità romanès del 2009 erano emerse difficoltà per la mediazione culturale e si proponeva di investire nella promozione della partecipazione attiva dei rom. Quindi di passare dalla mediazione alla partecipazione attiva.

Passare dalla mediazione alla partecipazione attiva signifi-ca passare dalla multiculturalità all’interculturalità, ed è una scelta di libertà della popolazione romanì.

Una politica per la cultura romanìUna politica per la cultura romani è inesistente, tutto è ridotto a puro folclore che non modifica le immagini mentali ed identifica per cultura ogni manifestazione folcloristica.Gli errori del passato, di ostacolare l’evoluzione della cultura romanì o di male interpretare la cultura romanì, non sono stati ancora analizzati e compresi per i danni che hanno prodotto.

La “causa romanì” è innanzitutto una questione interculturale, quindi di ordine culturale: di evoluzione culturale, di conoscen-za e coscienza culturale.

Cosa è stato trasmesso negli ultimi decenni della cultura rom? Solo stereotipi e folclore che non hanno permesso all’opinione pubblica di interiorizzare informazioni di base sulla cultura del-la popolazione romanì.Questo è accaduto per l’assenza di partecipazione attiva di pro-fessionisti rom e per l’assenza di consapevolezza di una citta-dinanza attiva romanì.

NON E’ PIÙ’ TOLLERABILE QUESTO GRAVE ERRORE

E poi ci si meraviglia se alle comunità rom vengono affibbiate etichette estranee alla cultura romani oppure sospettati di ef-ferati crimini e rapimenti totale estranei alla cultura romanì.

L’eccessivo folclorismo rischia di distruggere la cultura romanì, la quale non è solo abbigliamento, cucina, musica e violino. La cultura romanì è composta di valori vissuti dalle persone rom nella loro quotidianità. Stanno distruggendo i valori della cultura romanì per arroganza, ignoranza, presunzione di supe-riorità, interessi personali.Se distruggono la cultura romanì cosa potrà rivendicare la po-polazione romanì?

LA CULTURA E’ LIBERTA’

Dr. Nazzareno Guarnieri

2° Congresso delle comunità romanès e delle associazioni2° Congresso delle comunità romanès e delle associazioni

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EDUCARSI ALL’ALTERITÀ IN UNASOCIETÀ MULTICULTURALEPer una approccio transculturale e inclusivoAlain Goussot-Università degli studi di Bologna

“C’è una via media fra l’assolutismo e il relativismo culturale: la relatività culturale. La filosofia interculturale cerca di seguire questa via di mezzo. Il suo metodo è il dialogo come apertura all’altro”( R.Panikkar, Pace e interculturalità, p 34)

“Quando un individuo arriva ad accettare se stesso, diventa automaticamente più disposto ad ascoltare , comprendere e compatire i guai degli altri. Come conseguenza di questa au-toaccettazione vediamo perciò svilupparsi in ciascuno una maggiore capacità di comprensione e di rapporto umano verso l’altro”(Carl Rogers, La libertà nell’apprendimento, p 30)

“Tale è dunque quest’uomo, inseguito, condannato a scegliersi sulla base di falsi problemi e in una situazione falsa, priva di senso metafisico a causa dell’ostilità minacciante della società che lo circonda, spinto ad un razionalismo della disperazione. La sua vita è una lunga fuga dagli altri e da se stesso”(J.P.Sartre, Riflessioni sulla questione ebraica, p 141)

“Colui che esercita una discriminazione nei confronti di un’al-tra persona tende sempre, implicitamente o esplicitamente ad attribuire una qualsiasi inferiorità alla vittima della sua discri-minazione. Pensa generalmente che questa inferiorità è una fatto provato”(G.Devereux,Saggi di etnopsichiatria genenrale, p 45)

“Sono cresciuto con l’idea di essere uno zigano. Volendo usci-re da quest’idea, mi pensai Rumeno (...) Ho riscoperto la mia identità (...). Voglio morire come una Persona Umana “( Nicolae Gheorghe)

Parlare di società democratica vuol dire affrontare i temi della cittadinanza attiva, della giustizia nei rapporti so-ciali e dei diritti. Ma le leggi e i quadri normativi, così

importanti come ce lo ricorda Norberto Bobbio nei suoi libri (Eguaglianza e libertà, L’età dei diritti) , non sono sufficienti poiché se la gente, le persone non le vivono nei loro rapporti diventano carte vuote. E’ purtroppo quello che accade con le numerose Costituzioni democratiche in Europa , ispirate dal-la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, scaturite dalle lotte contro le dittature nazi-fasciste; i principi di eguaglianza e libertà vi sono iscritti ma poco o solo parzial-mente rispettati. Per di più in una società come la nostra che basa tutte le relazioni tra gli esseri umani sui rapporti econo-mici, sul denaro e la ricchezza materiale non v’è dubbio che vi sono categorie di persone più eguagli di altri, cioè i ricchi e chi possiede il potere economico e finanziario finisce per avere più diritti, nei fatti, e chi non possiede niente o poco nei fatti a meno diritti o non ne ha alcuni. A questo si aggiunge il fatto che le diseguaglianze profonde che segnano la nostra socie-tà s’intrecciano con le diseguaglianze tra maggioranze e mi-noranze culturali; gli immigrati sono cittadini di serie B, sono per certi versi delle non-persone, dei non cittadini. La stessa condizione riguarda altre minoranze culturali come quella dei Rom che rappresentano oggi la vera ‘questione ebraica’ in Eu-ropa; è probabilmente il gruppo sociale e etnico-culturale più discriminato e perseguitato. Qui razzismo e classismo sono intimamente legati. Basta leggere quello che succede quotidia-namente in Italia ma anche in numerosi paesi d’Europa dell’est come l’Ungheria, la Slovacchia e la Romania dove rappresen-tano delle minoranze ampie e significative. Non basta parlare d’inclusione sociale e scolastica, di diritti eguali per tutti se poi la società nel suo corpo vivo non pratica e non sente questa pa-role ; anzi nei media, nella stampa, nella politica si assiste alla produzione di quello che il sociologo francese Pierre Bourdieu chiama una vera “violenza simbolica” cioè un linciaggio psico-logico a livello collettivo che prepara un nuovo senso comune che fa del povero, del Rom o dell’immigrato il capro espiatorio

di una situazione di crisi. Dalla ‘violenza simbolica’ si passa alla violenza fisica, dal linciaggio simbolico a quello reale. Discrimi-nazioni di vario tipo, repressione, esclusione, inferiorizzazione, ghettizazione nei ‘campi’ , disumanizzazione : questa violenza finisce per provocare uno stato di non possibilità di comunica-re e anche nel soggetto o il gruppo che subisce la violenza un voler confermare lo sguardo dell’oppressore e del dominatore. Spesso chi discrimina e agisce la violenza non si rende conto di agire anche la violenza verso stesso, di ferire e negare la propria umanità. Nel suo studio sulla violenza simbolica il fi-losofo francese René Girard parla di ‘vendetta mimetica’ cioè aggredisco l’altro non perché è diverso da me ma perché, pa-radossalmente, mi assomiglia, aggredisco in lui quella parte di me che rifiuto. Allora come fare per evitare questa violenza dif-fusa, questa aggressività discriminatoria verso l’altro che nella vittima dell’aggressione diventa rapidamente aggressività ro-vesciata verso se stesso e anche negazione di sé tramite l’iden-tificazione con lo sguardo dell’aggressore. La questione si pone purtroppo anche in un contesto come la scuola che dovrebbe fare tutto , tramite l’istruzione e l’educazione, per formare gli alunni all’ascolto e all’accoglienza dell’altro diverso da sé. La questione del riconoscimento delle differenze, dei diritti delle minoranze e delle politiche che favoriscono per davvero, e non solo a parola, dei percorsi d’inclusione è oggi urgente: inter-pella la politica, il mondo della culturale, la scuola e il mondo del lavoro. Ne va del futuro della nostra società e della tenuta e dell’arricchimento della nostra democrazia; dalla risposta che si dà alle minoranze etnico-culturali in generale, e a quella dei Rom in particolare, si può misurare lo stato di salute demo-cratica della società italiana. Non c’è dubbio che la società va anche educata ad accogliere le differenze e a concepirle come una risorsa per tutti; anzi come un bene comune.

IDENTITÀ E ALTERITÀ: L’IMPORTANZA DELLA RELAZIONE

Se si parla di differenza , di maggioranze e minoranze, di diritti di cittadinanza e di democrazia non si può non parlare di identità, ma è una concetto che va utilizza-

to con prudenza e sempre in rapporto con quello di alterità. Intanto l’identità si costruisce sempre nella relazione: basta pensare a ciascuno di noi, ci siamo costruiti una immagine di noi stessi, un ritratto interiore di quello che siamo, nel gioco di rispecchiamento avvenuto nei rapporti con i nostri genitori, i nostri fratelli, amici, insegnanti, colleghi di lavoro ecc. Ci siamo costruiti una immagine di noi sulla base di quello che abbia-

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mo visto o creduto vedere negli occhi dell’altro, questo fin dalla primissima infanzia. (vedi J.Lacan, la funzione dello specchio nella costruzione dell’io). Lo sguardo dell’altro, che ci domina, ci determina nel nostro modo di essere, è quello che l’intellet-tuale palestinese Edward Said ha dimostrato nel suo grande lavoro l’orientalismo a proposito dei popoli arabi e di come si sono costruiti l’immagine di sé nello specchio dei colonizzatori europei. L’identità è quindi sempre relazionale , ma è anche situata nel tempo e nello spazio: Jean Paul Sartre afferma giustamente che l’essere umano è un ‘essere in situazione’; per capire chi è occorre partire dalla sua situazione di vita, dal suo contesto familiare, sociale e culturale. L’identità è anche sempre dina-mica e plurale: non siamo mai una unica cosa ma più cose contemporaneamente: sono Rom italiano nato in Abruzzo, scolarizzato che parla sia italiano che romanes, vivo in un’altra regione d’Italia, sono amante di letteratura francese e lo parlo. Ecco sono diverse cose ; sono una realtà plurale e meticcia. L’identità è anche dinamica e evolve nel tempo: l’italiano di oggi non è quello di cent’anni fa, il Rom abruzzese di oggi non è quello dell’800’; di mezzo c’è l’evoluzione storica che trasforma e provoca spesso dei grossi mutamenti, vi sono aspetto della cosiddetta tradizione che subiscono dei mutamenti, altri che persistono, altri che vengono inventati. L’etnopsicologo e fon-datore della psicologia transculturale Georges Devereux spiega anche molto bene come nei processi di acculturazione conflit-tuale e antagonistica, cioè in una situazione in cui il gruppo minoritario viene in qualche forzato e assimilato alla cultura normativa dominante e discriminato se non si adegua, vi è una concezione ‘unidimensionale’ dell’identità etnico-culturale. Per cui, per esempio, il Rom viene identificato con una tratto rea-le o inventato , viene chiuso dentro una etichetta negativa (la-dro, delinquente...) oppure folkloristica- esotica (lavora il ferro, è nomade, vive nei campi) ; questa identificazione unilaterale inferiorizza il gruppo ma viene anche interiorizzata. Quindi il Rom etichettato e inferiorizzato o etichettato finisce per fare corrispondere i propri comportamenti a quella immagine che il gruppo dominante si è fabbricato di lui. E’ una situazione ti-pica delle situazioni coloniali dove il razzismo come compor-tamento sociale e culturale viene in qualche modo condiviso dall’escluso e dall’oppresso; Franz Fanon , il grande psichiatra afro-martinichese e teorico dei movimenti di liberazione nel cosiddetto Terzo Mondo, ha descritto molto bene questo mec-canismo sociale e psico-culturale: è l’introiezione dello sguar-do dell’oppressore che lo domina , che struttura la personalità dell’oppresso che finisce per costruirsi una immagine di sé e per essere come lo descrive lo specchio di chi domina. Nel suo libro I dannati della terra Fanon spiega il sentimento che prova

ne viene fatta con ‘buone intenzioni’: rispetto la tua cultura ma devi stare al tuo posto, nel tuo quartiere, nel tuo paese, nel tuo campo. La logica differenzialistica separa e inferiorizza; rende diseguale davanti al diritto , esclude dall’umanità. Altra cosa è il riconoscimento delle differenze che si basa sull’eguaglianza che significa che ti riconosco con le tue caratteristiche come parte dell’umanità. Era già il filosofo francese Jean Jacques Rousseau che affermava che l’altro è un altro io diverso da me. Voleva dire che l’altro è umano come me, prova le mede-sime emozioni, i medesimi sentimenti, ma lo fa attraverso un linguaggio, un codice e dei modi diversi da me. Similitudine e diversità non possono essere scissi l’uno dall’altro: è quel-lo che lo scrittore bulgaro di lingua francese Tsvetan Todorov ha mostrato molto bene nel suo libro dedicato a Rousseau. E’ quello che dimostrerà l’antropologia critica postcoloniale con F.Boas, Lévy-Bruhl, M.Mauss e Lévi-Strauss: siamo radical-mente diversi nei nostri modi di pensare ma siamo molto simili nel funzionamento. Georges Devereux afferma che al di là delle differenze esiste una unità psichica del genere umano, lui che lavorava con persone di culture diverse traumatizzate e amma-late. Ma il riconoscimento delle differenze passa anche trami-te la capacità dell’oppresso di liberarsi dall’oppressore che ha dentro di sé; è quello che descrive molto bene il grande educa-tore e pedagogista brasiliano Paulo Freire nel suo testo Peda-gogia degli oppressi. Per lui la persona o il gruppo in situazione di oppressione o esclusione finisce per aderire al mondo di chi lo domina: l’oppresso è insieme se stesso e un altro, fatalistico (non v’è nulla da fare, è sempre stato così) , aggressivo verso chi è più debole di sé, autostima molto bassa, paura della li-bertà, conflitto interiore che lo paralizza, assenza di fiducia in se stesso e nell’altro, dipendenza e vittimismo. Freire afferma che gli oppressi sono dei ‘dipendenti affettivi’. Solo attraverso la partecipazione collettiva al cambiamento della propria condi-zione ma anche della società nel suo complesso, solo tramite la presa di coscienza della propria condizione di oppressione ma anche del fatto che ne sono diventato complice posso pensare di liberarmi e ridiventare soggetto della mia storia. Per i Rom vuol dire anche prendere coscienza della propria condizione, rivendicare i propri diritti, la propria dignità , confrontarsi con tutti quelli che aspirano a promuovere dei processi di emanci-pazione per tutti, compresi per le minoranze culturali. Ma per fare questo occorre essersi riappropriato della propria storia, sapere farne una lettura critica e autocritica, sapersi proiettarsi verso il futuro presentandosi come agente di cambiamento non solo per se stesso ma per tutti. Nel processo di emancipazione vi è anche il recupero delle proprie radici; il grande scrittore e antropologo africano Amadou Hampaté Ba affermava che l’i-dentità è come il Baobab, il grande albero dell’Africa occiden-

l’escluso, l’oppresso: “sono colpevole. Non so di cosa, ma sento che sono colpevole e miserabile”, questo li fa dire che il coloniz-zato, l’oppresso, l’escluso è un “mutilato psico-affettivo”. Solo la partecipazione alla lotta per il recupero della propria dignità può cicatrizzare le sue ferite. Il filosofo e sociologo Albert Mem-mi nel suo libro Psicologia del colonizzato descrive il meccani-smo sociale di negazione continua degli aspetti positivi delle vita dell’oppresso nello sguardo della maggioranza che domi-na: il colonizzato, l’oppresso, l’escluso, il Rom sono definiti uni-camente con aggettivi negativi e svalorizzanti; questo sguardo , questa ‘violenza simbolica’ continua finisce per ridurlo a non soggetto e per provocare in lui un forma di ‘amnesia culturale’ che si traduce anche con la mistificazione di un passato mitico inesistente come forma di resistenza e anche all’autodistruzio-ne. Basta pensare, al dramma linguistico, di chi è sradicato al punto di non conoscere la propria lingua e sappiamo che una lingua è un elemento importante della costituzione dell’iden-tità, del chi sono io, della rappresentazione di sé. La lingua è un universo simbolico che funziona con dei codici che rappre-sentazione anche una concezione del mondo. Da questo punto di vista il Rom, il gruppo minoritario, viene come sradicato e continuamente annullato. Quindi il recupero della propria lin-gua vuol dire anche recuperare una parte di sé, recuperare le radici che rende vivo l’albero della nostra vita; senza lingua non v’è neanche più la memoria e la storia di quello che siamo stati , di quello che siamo diventati e di quello che siamo oggi. La re-azione di fronte a questa violenza negatrice dell’esistenza della soggettività storica è anche quella di volersi assimilare, negare se stesso, di assomigliare a chi domina, quindi di reagire con l’aggressione e la mistificazione o con il vittimismo continuo. In questo modo , come hanno dimostrato Amin Malouf, scrittore libanese di lingua francese, e Amartya Sen (economista e an-tropologo indiano), si rischia la distruzione reciproca o l’auto-distruzione; l’impossibilità dell’incontro diventa l’impossibilità di essere se stesso se non attraverso l’eliminazione dell’altro e di se stesso.

DIFFERENZIALISMO E RICONOSCI-MENTO DELLE DIFFERENZE: DALLE DISEGUAGLIANZE E L’EGUAGLIANZA

Assolutizzare la diversità dell’altro, metterlo dentro una casella vuol dire separarlo e rendere diseguale rispetto al resto della comunità e dal genere umano; è in fondo

quello che succede in tutte le situazioni coloniali, di apartheid e di razzismo sociale diffuso. Anche quando la categorizzazio-

tale, che ha dei rami che vanno in tutte le direzioni e che non viene sradicato dal peso di questi proprio perché ha delle radici profonde. Recuperare la propria storia in tutta la sua comples-sità e rivitalizzare l’albero della vita, della mia vita e esistere come soggetto consapevole e storicamente attivo vuol dire non essere spezzato.

IL RUOLO DELLA SCUOLA E DELL’EDU-CAZIONE

E’ evidente che in tutto questo discorso l’educazione ha una ruolo importante; quando parliamo di educazione intendiamo anzitutto la scuola ma non solo. La scuola

prima di tutto poiché tutti i bambini di qualsiasi provenienza, ceto sociale o cultura vi transitano in modo significativo. Già Maria Montessori che aveva vissuto le due guerre mondiali e gli orrori del nazifascismo scriveva in un libro intitolato Edu-cazione per un mondo nuovo :

“Il nostro mondo è stato lacerato ed ha ora bisogno di essere ricostruito: e in questo , un fattore di primaria importanza è l’educazione, di cui i pensatori d’oggi raccomandano general-mente una pratica più intensa(...). Ma l’umanità non è ancora pronta per l’evoluzione a cui così ardentemente aspira, ossia la costruzione di una società pacifica e armonica in cui la guerra sia eliminata”. (M.Montessori, Educazione per un mondo nuo-vo, p 11)

Per Maria Montessori il bambino essendo il ‘padre dell’adulto’ occorre partire dalla primissima infanzia per formare il bambi-no all’incontro con l’altro diverso da sé; i nidi e le scuole dell’in-fanzia sono dei laboratori relazionali dove s’impara a cresce-re con e nelle differenze. Il sentimento del rispetto dell’altro è qualcosa che s’impara; se il bambino cresce in un contesto in cui la varietà dei costumi culturali , delle lingue, del colore della pelle e delle religioni è la normalità diventerà un cittadino aperto al dialogo e pacifico, accogliente e capace di sentire l’al-tro come simile a sé pure nelle differenze irriducibili. Le attività didattiche saranno differenziate, terranno conto della varietà dell’universo infantile e delle storie. Non è un caso se le pe-dagogie attive e il movimento dell’educazione nuova nato nei primi del 900’ e in coincidenza con la prima guerra mondiale in-sisteva sull’educazione interculturale, sulla co-educazione, sul crescere insieme: basta pensare alle esperienze dello svizzero Adolphe Ferrière , uno dei fondatori del movimento della scuola nuova, che aprirà delle comunità educative multiculturale che accoglievano bambini europei di diverse nazionalità traumatiz-

Educarsi all’alterità in una società multiculturaleEducarsi all’alterità in una società multiculturale

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zati dal conflitto. La scuola deve essere una comunità educan-te e inclusiva; la classe un laboratorio interculturale in cui gli alunni di diverse provenienze crescono insieme e imparano a vivere insieme. L’approccio cooperativo in educazione, speri-mentato dal francese Célestin Freinet, fa dello spazio classe uno spazio di collaborazione dove tramite l’attività di gruppo gli alunni imparano a conoscersi reciprocamente e ad aiutarsi reciprocamente; uno spazio in cui tutti sono cittadini con gli diritti; dove non v’è il superiore e l’inferiore, dove il principio di eguaglianza viene praticato nel processo d’insegnamento-apprendimento. Lo spazio classe è anche uno spazio dove si favorisce l’apprendimento della democrazia e dove il maestro interviene come facilitatore della comunicazione e dello studio per tutti. L’insegnante è un mediatore che permette agli alunni d’imparare le regole della convivenza civile, della democrazia. Non è l’alunno che deve adattarsi ma è l’ambiente classe che viene adattato per facilitare gli apprendimenti di tutti e favorire in questo modo il successo di tutti, un processo educativo dove nessuno si sente escluso, stigmatizzato e inferiorizzato. Come dice Freinet occorre liberare il potenziale di vita, la curiosità che è presente in ogni bambino; la creazione di un clima coo-perativo e accogliente favorisce questo tipo di sviluppo; alla dif-ferenza del clima competitivo , giudicante e escludente di molte scuole oggi. Come dice Don Milani una scuola che esclude, che boccia è una scuola che non ha rispetto della propria missione: quella di permettere a tutti di riuscire a diventare e ad essere se stesso. Nella relazione pedagogica inclusiva e cooperativa vi è l’apprendimento del riconoscimento nell’altro di un altro se stesso e quindi una forma di dono di sé in uno scambio che arricchisce tutti.

Scrive a questo proposito il pedagogista francese Antoine de La Garanderie:“Nella relazione Io-Tu; l’accesso all’altro richiede l’oblio di sé. Ma attenzione l’oblio di sé é un atto del sé, che si sa sé, e che per dimenticarsi per comprendere il sé altrui , resta un sé che si dimentica cioè ce si comprende nel suo oblio”(A.de La Ga-randerie, la critique de la raison pedagogique, p45) L’esperienza del Tu nella relazione ci permette non solo di co-noscere l’altro ma di conoscerci meglio; il dialogo, la collabo-razione in classe, il lavoro di gruppo, l’imparare a riconoscere la grande molteplicità dell’umanità partendo dall’esperienza concreta dell’attività in classe fanno parte di una formazione che prepara il cittadino a sentirsi cittadino del mondo. Il diven-tare essere di dialogo capace di creare legame e di comunicare in modo costruttivo s’impara con la mediazione dello spazio del gruppo classe che diventa un luogo di esperienza uma-na, interculturale e transculturale. L’imparare un altra lingua

psicopedagogista statunitense Barbara Rogoff parla proprio nel suo lavoro con i bambini indios del Messico e del Guatemala di questa dimensione fondamentale per produrre una situazio-ne significativa di apprendimento ; che sia produttrice di senso e motivante per il bambino: partire dal rispetto del linguaggio che usa il bambino, partire dalla possibilità di potersi esprime-re con le proprie particolarità e d’imparare senza paura.In un testo scritto alla fine della sua vita e intitolato “Il pensie-ro dell’umanità” il grande scrittore Leon Tolstoj che era anche educatore presso la sua scuola di Jasnaja Poljana , aperta ai figli dei contadini, scriveva :“Un bambino accoglie l’altro a prescindere della sua classe, della sua religione o della nazionalità alla quale appartiene, con un sorriso benevolo che esprime la gioia. L’uomo adulto che dovrebbe essere più ragionevole del bambino, si chiede, prima di entrare in relazione con l’altro, qual’è la sua classe sociale, la sua religione, la sua nazionalità e lo tratta in funzio-ne di queste sue appartenenze. Ma il Cristo diceva: siate come i bambini”. (Tolstoj, La pensée de l’humanité, p 143)

UNA FILOSOFIA DELL’ALTERITÀ E DELL’INCONTRO

“Il problema della pace è complesso quanto difficile. Non basta la buona volontà. Con la buona volontà si sono fatte guerre cruente, non ultime tra le quali le cosid-

dette ‘guerre giuste’”(R. Panikkar, Pace e interculturalità, p 2)

L’educarsi all’alterità vuol anche dire acquisire e costruire una filosofia dell’incontro con l’altro, incontro che è sempre com-plicato, complesso, difficile, talvolta angosciante e scandaloso. Nella storia del pensiero filosofico recente troviamo delle indi-cazioni e delle riflessioni che ci portano a dare un fondamento insieme ontologico e metafisico alla costruzione di un mondo meticcio e aperto al dialogo. Pensiamo qui ai lavori di Paul Ri-coeur, Judith Butler, Raimon Panikkar, Martin Buber, Emanuel Levinas. Simone Weill , Edgar Morin e Alain Caillé. Ognuno dal proprio punto di vista , dalla propria angolatura filosofica e culturale ha affrontato la questione del rapporto con l’altro diverso da sé. Paul Ricoeur, il filosofo francese, sostenitore dell’orientamento ermeneutico che vede in ogni traduzione un processo interpretativo, si è posto la questione della costruzio-ne dell’identità nella relazione con l’altro e del riconoscimento delle differenze. In Me stesso come un altro e in Percorso di riconoscimento riflette sul come si arriva a riconoscere nell’al-tro un altro se stesso pure diverso da sé. E’ profondamente

, conoscere la grandezza e ricchezza della storia culturale di ogni popolo: tutto ciò fa della didattica viva un apprendimento a sentire la propria umanità. Era l’educatore svizzero Heinrich Pestalozzi che, nei primi dell’800’, affermava che l’educazione è l’imparare ad accedere alla propria umanità; questo è possibile se imparo a rispettare quella dell’altro. La questione dell’apprendimento delle lingue è una compo-nente non trascurabile dell’incontro interculturale nonché del rispetto e dell’affermazione delle diverse storie culturali: gli insegnanti potrebbero impostare dei laboratori linguistici plu-rali in cui i bambini siano i protagonisti imparando l’uno dall’al-tro. E’ quello che fece Célestin Freinet nel 1937 nel Sud della Francia con l’arrivo nella sua scuola dei piccoli rifugiati dalla Spagna: i piccoli francesi insegnavano il francese ai piccoli spa-gnoli e reciprocamente questi insegnavano la propria lingua ai piccoli francesi; venne anche stampato dagli alunni stessi un giornale bilingue francese-spagnolo. Quante attività di gioco linguistico potrebbero essere fatte nelle classi accompagnate dalla scoperta dei costumi e delle storie dei popoli. Insomma un vero viaggio nella varietà delle culture dell’umanità parten-do dal microcosmo della classe. Questo apprendimento è an-che importante per formare quello che John Dewey chiamava una ‘personalità democratica’ cioè una personalità abituata allo scambio, al dialogo, al confronto , al pluralismo delle idee e delle culture; un cittadino che impara che non esistono cul-ture superiori e culture inferiori grazie all’esperienza comune dell’apprendimento in classe. Un altro aspetto che ci sembra fondamentale sul piano pedagogico: occorre sempre partire, nell’attività didattica, dalle similitudini tra gli alunni poiché sono queste che creano lo spazio per l’incontro, lo scambio e quindi il riconoscimento costruttivo delle differenze. Inoltre quest’approccio educativo favorisce anche l’influenza recipro-ca, quello che Raimon Panikkar chiama la fecondazione reci-proca cioè la capacità di aprirsi alle altre culture e di esserne anche influenzato. Per esempio attraverso l’arte che costitui-sce quello che Lev Vygotskij, il grande psicopedagogista sovie-tico, chiamava una tecnica sociale dei sentimenti; la musica, la letteratura, il teatro, la pittura sono dei linguaggi universali dell’essere umano. Pure non essendo russi leggiamo Tolstoi e Dostoievski, pure non essendo rumeni leggiamo Ion Crean-ga, pure non essendo indiani leggiamo Rabindranath Tagore, pure non essendo marocchini leggiamo Driss Chraibi ecc..., leggiamo questi testi in traduzione che riescono a trasmetterci i sentimenti e le emozioni di questi uomini cresciuti e vissuti in altri mondi culturali e che, tuttavia, esprimono la dimensione universale dell’appartenenza all’umanità. Ogni apprendimento è mediato da una dimensione storico-culturale e lo sviluppo della personalità è socialmente e culturalmente formata; la

convinto che si tratta del cuore della questione dell’identità e dell’alterità: fa anche la distinzione tra identità e ipseità; il pri-mo concetto tende all’identificazione e quindi in qualche modo a chiudere l’individuo dentro delle categorie ristrette e rigide mente quello di ipseità che ha a che fare con l’essere se stesso come se narrativo e autobiografico apre all’altro e alla possibi-lità di riconoscersi in questo rapporto dialogico e relazionale. Il racconto di sé nella relazione con l’altro diventa essenziale nel fondare l’ipseità: questo approccio ha una dimensione for-temente pedagogica poiché solo se riesco a raccontarmi riesco ad aprirmi all’altro e a non essere prigioniero della scrittura dell’altro che mi domina. Il percorso del riconoscimento del-le differenze è anche un riconoscimento di se stesso. Judith Butler pone la questione nel contesto dei rapporti di potere tra gli uomini e i gruppi; nei suoi libri sulla Violenza psichica del potere e Strade che divergono affronta la questione del rappor-to tra riconoscimento delle differenze , eguaglianza e disegua-glianza. Per lei non vi può essere riconoscimento delle differen-ze dove vi è ingiustizia e dove le diseguaglianze sono palese e negatrici della dignità delle persone e delle minoranze e delle loro storie vive. Raimon Panikkar dice che prima dell’intercul-turale vi è l’intraculturale cioè l’accettazione e la conoscenza di sé, senza questo non è possibile l’incontro con l’altro. Il dialogo dialogale (che è dialogo con sé e con l’altro) favorisce la costru-zione di una Agorà e permette di uscire dall’Arena ; il confron-to dialogante non è lo scontro distruttivo e autodistruttivo. Ma questo presuppone il disarmo culturale cioé l’ascolto e nel non volere il proprio modo di pensare come norma. Scrive Panikkar :“l’interculturalità sorge dall’incontro esistenziale delle diverse visioni del mondo , le quali in realtà si incontrano quando non rifiutano l’incontro genuino , l’apertura del nucleo intimo delle rispettive culture”. Matin Buber parla del rapporto dialogico nella relazione tra l’Io e il Tu; l’Io non può esistere se non esiste e non viene ricono-sciuto il Tu; in un altro modo è quello che afferma Emmanuel Levinas quando in Totalità e infinito spiega quanto sia decisivo e impegnativo l’incontro con il volto dell’altro; in Tra Noi scrive: “è come se nella molteplicità umana , l’altro uomo si trovasse bruscamente (…) come colui che mi riguarda per eccellenza”. Il dialogo e l’incontro con l’altro volto implica la nostra stessa umanità, disumanizzare l’altro significa disumanizzarsi. Nelle riflessioni della filosofa francese Simone Weil troviamo il tema del rapporto tra i diritti e i doveri; nel suo libro sul radicamento sottolinea che sono gli obblighi verso l’altro che producono gli obblighi verso la società; se la società non sa di avere dei doveri non esistono diritti. Simone Weil scrive queste cose quando si annuncia il dramma del nazifascismo e la tragedia del razzi-smo e dello sterminio delle minoranze , quello degli ebrei, dei

Educarsi all’alterità in una società multiculturaleEducarsi all’alterità in una società multiculturale

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rom e dei disabili. Ma talvolta serva anche un ‘terzo istruito’, per riprendere l’espressione del titolo di un libro del filosofo francese Michelles Serres, cioè un mediatore che riesca ad aprire quelli spazi per una relazione costruttiva e feconda tra persone che sono anche prodotte di percorsi storici e culturali diversi . Infatti s’incontrano le persone e non le culture; nell’in-contro vi sono sempre elementi di mediazione che possono favorire lo scambio , l’apprendimento comune e l’accettazione reciproca. L’esistenza dell’altro con le sue specificità rappre-senta quindi una opportunità per tutti, un dono per l’insieme della società: il dono della presenza dell’altro con la sua dif-ferenza culturale, secondo l’antropologo francese Alain Caillé, permette di ricostruire dei nuovi legami sociali di solidarietà e comprensione reciproca, permette di aprire nuovi orizzonti di vita più rispettosi della giustizia e dell’umanità di tutte le com-ponenti della società. Da anni il filosofo francese Edgar Morin parla di unitas complex (di unità complessa) nei suoi studi e le sue riflessioni sulla società e la sua evoluzione; recentemente nel suo libro la via. Per l’avvenire dell’umanità, che la grande sfida dell’umanità è proprio ‘l’unità della molteplicità e della diversità umana’; pensa che bisogna collegare la nozione di pa-tria locale a quella di terra-patria che significa la presa di co-scienza planetaria degli esseri umani in tutte le culture e tutti i continenti. Bisogna affrontare il tema dell’eguaglianza senza distruggere le differenze, anzi proprio nell’unità della comples-sità delle differenze si può garantire uno sviluppo umano equo. Ci vogliono dei cambiamenti a livello economico (ridistribuzione equa della ricchezza materiale) , ambientale (non distruggere l’ecosistema) , culturale (formare gli esseri umani ad accettare le differenze) , politico (estendere la democrazia e la partecipa-zione dei cittadini ai processi decisionali) e politico (garantire i diritti di tutti e in particolare delle minoranze).

CO-EDUCAZIONE E AUTOEDUCAZIONE DELLE COMUNITÀ

Emmanuel Mounier, il fondatore del personalismo filoso-fico, spiega che occorre andare al di là della dicotomia Noi e Loro ; del dualismo, bisogna costruire un nuovo Noi

che sappia accogliere tutti i noi e le diverse singolarità storiche , culturali e personali. Per arrivare a questo la comunità deve mettere al centro di ogni azione e discorso la persona intesa come insieme di legami e di relazioni. Una comunità aperta , di-namica , plurale e accogliente considera le persone come cen-trali, le persone insieme come mistero e dignità. Per riuscire a modificare lo sviluppo delle nostre società che purtroppo vanno

particolare un problema per tutta la società perché riguarda il rispetto dei diritti umani e il futuro democratico della nostra società. Quindi i Rom devono imparare a presentarsi come sog-getto storico e agente di cambiamento e non come oggetti di assistenza oppure come pure vittime. E’ anche l’insegnamento che ha lasciato il grande intellettuale e studioso Rom rumeno Nicolae Gheorghe quando scrive:

“La politica romanì deve trattare dei diritti umani generali, deve collegarsi ai valori comuni e ai codici morali, e non focalizzarsi esclusivamente sull’etnia o sui problemi nazionali. Perciò pre-ferisco una linea di condotta che non passi per gli standard dei diritti umani internazionali o attraverso le loro istituzioni ed or-ganizzazioni “.

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sempre più nella direzione delle discriminazioni, della costru-zione del capro espiatorio (vedi i Rom ma anche immigrati e poveri in generale) e delle diseguaglianze bisogna riattivare dei processi costruttivi di partecipazione collettiva; superare ogni logica differenzialistica e comunitaristica. Logica che chiude e separa, logica che provoca lo scontro e non l’incontro. La logica della partecipazione attiva passa attraverso un agire comunica-tivo e non strumentale , per usare l’espressione del filosofo te-desco Jurgen Habermas, un agire che valorizza la persone, che fa della persona una finalità e non uno strumento di interessi ristretti. L’inclusione è possibile solo se c’è un rapporto dialogi-co rispettoso del valore di ognuno e se il principio di eguaglian-za si traduce concretamente in opportunità di accesso al lavoro, all’istruzione, alla cura , alla protezione sociale , alloggio; cioè ai diritti fondamentali della persona umana. La partecipazione attiva sensibilizza la società tutta; modifica le rappresentazioni sociali. Come lo scrive Raffaele Laporta nel suo libro Autoedu-cazione delle comunità, un libro dove per la prima volta in Italia si sente parlare d’interculturalità a proposito dei rapporti tra culture del Mezzogiorno e del Nord, ci devono essere dei me-diatori culturali consapevoli e formati provenienti dalle mino-ranze, dalle classi subalterne. Devono fare da ponte per cam-biare e educare la società e il punto di vista delle maggioranze. Ci vuole una vera azione di pedagogia sociale per educare la società ad accogliere e ad aprirsi al pluralismo delle culture e dei modi di essere come una ricchezza per lo sviluppo demo-cratico di tutti e la crescita umana di ognuno. Attualmente la possibilità di costruire delle reti partecipative costituisce una delle condizioni per autoeducare le comunità; la costruzione di una alleanza e cooperazione tra scuola, famiglie, attori sociali, associazioni e mondo della cultura rappresenta un passaggio fondamentale nel processo co-educativo e co.evolutivo verso una società effettivamente inclusiva e rispettosa dei diritti delle minoranze. L’idea della co-educazione come possibilità di rico-struire dei legami solidali basati sul riconoscimento reciproco e l’apertura di comunità di vita aperte va nella direzione di quello che sta indicando tutta l’approccio attuale della resilienza in ambito sociale e educativo. Le comunità Rom come tutte le co-munità oppresse, dominate e marginalizzate sono come sradi-cate e traumatizzate ; hanno bisogno di ricostruire le condizioni di un loro neosviluppo a livello comunitario e socio-culturale. L’apertura di spazi d’intervento, di ricerca azione partecipata dove i Rom stesso sono i soggetti della costruzione della co-noscenza sul proprio mondo e sulle sua presenza nella società italiana può fornire un enorme contributo allo sviluppo di una società democratica e effettivamente interculturale e metic-cia. Per questo la parte consapevole del mondo Rom deve su-perare la logica autoreferenziale e fare del proprio problema

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Educarsi all’alterità in una società multiculturaleEducarsi all’alterità in una società multiculturale

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RAGIONI, FORME E PORTATA DEL RICONOSCIMENTO DELLE COMUNITÀ LINGUISTICHE MINORITARIEGiovanni Agresti, Università degli Studi di Teramo

ROMA cultural magazine

Riassunto

Sono diverse le ragioni storiche che hanno portato, in particolare dal secondo Dopoguerra a oggi, in Europa e in Italia, a una qualche forma di riconoscimento delle

comunità linguistiche minoritarie. Tuttavia, non sempre tale riconoscimento de jure è stato accompagnato da un riconosci-mento de facto, e non sempre la messa in opera delle politiche in favore della diversità linguistica ha prodotto gli effetti sperati. In questo intervento, suddiviso in due Parti, cercheremo di chia-rire i punti-chiave del problema, da un canto precisando una terminologia troppo spesso frettolosamente confusa sia dai de-cisori sia dall’opinione pubblica (solo per fare un esempio, una “lingua minoritaria” non è esattamente una “minoranza lingui-stica” ed entrambe non sono necessariamente una “minoranza nazionale”), dall’altro proponendo una serie di osservazioni e argomenti a favore di un maggiore e più incisivo riconoscimen-to delle comunità linguistiche di minoranza, toccando aspetti controversi e generalmente poco frequentati:

1) l’alienazione del soggetto a causa della deprivazione della propria lingua materna e quindi le vie per una disalienazione attraverso il riconoscimento;2) il problema della conflittualità sociale legata al disagio lin-guistico e quindi le strategie di superamento di tale disagio;3) il problema “a doppio taglio” del riconoscimento delle comu-nità linguistiche minoritarie come patrimonializzazione.

La centralità “antropologica” del soggetto linguistico minori-tario impone infine una riflessione non più rimandabile circa lo stentato riconoscimento delle nuove minoranze (immigrati) e delle minoranze cosiddette “non territoriali”, tra cui natural-mente la minoranza rom.

Introduzione

L’urgenza del riconoscimento delle comunità linguistiche minoritarie (d’ora in poi CLM) è sempre più sostenuta a livello delle maggiori istituzioni europee1 a fronte di

un allentamento diffuso dei diritti linguistici sotto la pressio-ne della crisi economica e della globalizzazione. Colpiscono in particolare, da un canto l’imperialismo linguistico-economico delle potenze egemoni, dall’altro il mancato riconoscimento di alcune comunità minoritarie, su tutte i rom e le cosiddette «nuove minoranze», esito di recenti flussi migratori.In questa cornice vogliamo dare un contributo all’avanzamento del dibattito, cercando di mettere ordine in una materia deli-cata, certamente troppo poco frequentata, non di rado confusa e molto spesso oggetto di malintesi, forzature e, anche, stru-mentalizzazioni politiche. L’ampiezza della questione è tale che la svilupperemo in due Parti distinte.Nella Prima Parte (§§ 1-2-3), definiremo anzitutto uno scena-rio storico circa l’origine e la natura delle CLM, in particolare quelle del panorama linguistico italiano, prendendo in esame la terminologia che permette di individuarle - e quindi, eventual-mente, di riconoscerle - in rapporto con determinate rappre-sentazioni linguistico-culturali.Nella Seconda Parte (§§ 4-5-6), illustreremo l’origine e le con-seguenze dell’affermazione nell’Europa del primo Dopoguer-ra del principio di autodeterminazione inteso come forma di auto-riconoscimento da parte delle varie comunità etniche e nazionali, principi e conseguenze di cui dobbiamo tenere con-to per poter cogliere e analizzare il senso, le potenzialità e i limiti dei modelli europeo e italiano dei diritti linguistici, intesi come strumento per realizzare e premiare il riconoscimento. Infine, sulla base degli elementi emersi, faremo il punto della situazione circa l’istanza avanzata dalla comunità rom di ve-dersi riconosciuta come minoranza linguistica, fornendo alcuni

argomenti per superare le resistenze che ancora tengono in sospeso tale riconoscimento.

1. Origine e natura delle comunità lin-guistiche minoritarie

A partire da quando è corretto e sensato parlare, in senso po-litico oltre che sociolinguistico, di comunità linguistiche mi-noritarie nel nostro Paese? In Italia l’itinerario del loro rico-noscimento inizia probabilmente negli anni immediatamente successivi l’Unità, in quella particolare fase storica cioè in cui il nuovo Regno mise in atto le necessarie strategie di unificazione linguistica. Intervenendo nell’acceso dibattito circa tale spino-so problema, il glottologo friulano d’origine ebraica Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) prendeva posizione contro le tesi man-zoniane di universalizzazione del toscano fiorentino (Manzoni 1868) e contro la conseguente diffusione di manuali antidialet-tali. Soprattutto, in chiusura del «Proemio» al primo numero dell’Archivio Glottologico Italiano (1872), nel precisare la mis-sione della nascente rivista Ascoli indicava come, oltre allo stu-dio delle lingue dell’«antica Italia» e delle lingue «forestiere» utili alla comprensione di queste ultime, l’Archivio non avrebbe trascurato «quegli idiomi stranieri che sono ancora parlati da popolazioni italiane».Il panorama linguistico italiano, tratteggiato sin dal De vulgari eloquentia (1303-1305) di Dante, riceveva quindi una più cor-retta configurazione sullo scorcio del XIX secolo, quando la lin-guistica si era da poco costituita come disciplina scientifica e quando la plurisecolare Questione della lingua da argomento di dibattito letterario era divenuta infine un’urgente questione sociale e politica. In tale panorama - molto complesso perché costituito da un ricco mosaico di lingue municipali, locali, re-gionali, oltre che da isole e penisole linguistiche alloglotte -, la funzione discriminante, egemonica, sarebbe stata assunta da uno standard nazionale, ben poco utilizzato nel 1861 ma de-stinato a essere largamente maggioritario a valle di un inten-so processo di pianificazione linguistica. L’affermazione di tale standard avrebbe ragionevolmente permesso, in quanto riferi-mento sovralocale condiviso, se non proprio il riconoscimento, almeno una identificazione, corretta o distorta, delle diverse varietà linguistiche presenti sul nostro territorio.Ora, se la normativizzazione (standardizzazione) e la normaliz-zazione (diffusione e utilizzo in tutti i campi) della lingua italiana venivano a fine Ottocento unanimemente percepite come indi-spensabili per irrobustire l’unificazione politica in costruzione, le posizioni ideologiche circa i metodi per la sua propagazione e ancor più gli atteggiamenti nei confronti di quel complesso mo-

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saico di idiomi “minori” d’Italia variavano in modo talvolta marcato (Agresti, Bruni, Bruni 2010 e Agresti 2013), in consonanza con le rappresentazioni linguistiche circolanti: ora lingue municipali dense di storia, ora «malerba dialettale» da estirpare con ogni mezzo. Riconoscimento. Misconoscimen-to. Disconoscimento. Stigmatizzazione.

2. Rappresentazioni linguistiche e riconosci-mento

Benché dall’Unità a oggi il panorama linguistico d’Italia e i repertori locali e individuali siano con ogni evidenza profondamente mutati, a non cambiare è la natura circolare del rapporto tra qualità delle rappresentazioni linguisti-che e qualità del ri/mis/dis-conoscimento delle CLM. Si tratta di un modello circolare, in quanto è facile immaginare come la variazione di rappresenta-zioni, posizioni e ideologie sia al tempo stesso origine e conseguenza della diversificazione delle forme di riconoscimento, teorico e/o fattuale, o di non riconoscimento delle CLM. Di seguito proponiamo un modello generale di questo tipo di rapporto, che può evolvere qualitativamente (in ordinata) e diacronicamente (in ascissa) attraverso l’intervento di adeguate politiche linguistiche e/o attraverso iniziative di ordine socio-culturale non necessa-riamente istituzionalizzate:

Sarebbe sbagliato e ingenuo pensare di ottenere risposte preconfezionate, prevedibili, unanime-mente condivise in seno alle varie comunità lin-guistiche, a queste domande, che investono come detto la sfera psicologico-simbolica di ciascun membro di comunità linguistica e anche, in un cer-to senso, la comunità linguistica nel suo insieme. Ma se non possiamo sondare più di tanto questa sfera, a meno di inchieste sul campo molto mirate, possiamo sicuramente articolare, campionare le forme del riconoscimento facendo chiarezza sulla terminologia in uso o da adottare, in particolare sui designanti e glottonimi utilizzati o da utilizzare per indicare questa o quella CLM. In via preliminare e teorica, diremo che a un designante corrisponde in genere una specifica forma di riconoscimento.

3. Terminologia e riconosci-mento: «lingue minoritarie», «minoranze linguistiche» o «minoranze nazionali»?

Per riconoscere una data comunità linguistica, che si tratti di un riconoscimento culturale, sociale, giuridico, politico ecc. non possiamo prescindere dalla terminologia che la designa, categorizzazio-ne più delicata di quanto generalmente si pensi e normalmente densa di conseguenze a livello di rappresentazioni, politiche e comportamenti lin-guistici. Idealmente, un designante o un glotto-nimo corretto, scientificamente e culturalmente fondato, dovrebbe portare a un riconoscimento pertinente, mentre un designante o un glottoni-mo sbagliato, legato a pregiudizi e condizionato da ideologie della dominanza porta solitamente a un non-riconoscimento o a un mis-conoscimento.

3.1 Il problema del designantePer quanto riguarda il versante dei designanti, il recente declassamento del friulano da «lingua» a «dialetto», voluto dal Governo Monti per ragio-ni di ordine soi-disant economico e oggi in parte rientrato, non è un fatto marginale, accessorio, ma rischia di minare l’intero impianto di politica e pianificazione linguistica del friulano, spezzando il ciclo del Catherine Wheel Model (Strubell 1999) – il circolo virtuoso cioè che dal riconoscimento giuri-

dico di una data comunità linguistica porta a un cambiamento in positivo dei comportamenti linguistici individuali e collettivi nell’ambito territoriale della comunità stessa. Si tratta di qual-cosa di molto concreto: se un padre di famiglia pensa di par-lare una lingua, magari con uno status almeno localmente di co-ufficialità con la lingua di Stato, sarà certamente molto più motivato a utilizzarla e a trasmetterla ai propri figli, cosa che difficilmente accadrebbe se avesse la convinzione che quella che parla non è una lingua, bensì un triviale dialetto che non serve a nulla.

Un altro esempio di come un designante possa depotenziare un’intera comunità linguistica fino a privarla – in parte o del tutto – dei suoi diritti linguistici è l’aggettivo «nomade» attri-buito alle comunità rom e sinti, le quali, almeno in Italia, sono stanziali ormai all’80%. E tuttavia, l’etichetta di «comunità no-made» implica la deprivazione di un territorio d’insediamento rendendo la minoranza linguistico-culturale romanì «non ter-ritoriale», estromettendola così dagli strumenti di tutela propri del modello italiano dei diritti linguistici. Ne riparleremo nella Seconda Parte.

3.2 Il problema del glottonimoSul versante dei glottonimi, questi servono soprattutto a diffe-renziare varietà linguistiche altrimenti confondibili. Nel pano-rama delle comunità linguistiche minoritarie d’Italia abbiamo le coppie arbëresh / albanese, na-našu / croato, griko / gre-co, alguerés / catalano che servono a distinguere le varianti locali italiane dalle rispettive forme delle madrepatrie, nei cui confronti le prime conservano spesso tratti più arcaici oltre a prevedibili contaminazioni con le parlate romanze locali. C’è da dire però che i glottonimi “italiani” non sono regolarmente uti-lizzati, e una confusione diffusa permane nell’uso, ad esempio, di «albanese» in luogo di «arbëresh», di «croato» in luogo di «na-našu» e così via, con ricadute talvolta gravi (ad esempio, nell’insegnamento dell’albanese in luogo dell’arbëresh o del croato in luogo del na-našu nelle scuole dei rispettivi territori di minoranza).Se l’irregolare adozione dei glottonimi caratterizzanti le comu-nità linguistiche minoritarie nei confronti dei rispettivi standard nazionali (o Dachsprache nella terminologia di Kloss 1967) riflette la loro identità fragile, talvolta ambigua, e un debole accesso allo status di Ausbausprache (id.) al punto da essere agevolmente recuperate, assimilate a tali standard, il discorso è molto diverso per quanto riguarda i glottonimi riferiti a lin-gue nazionali ufficiali. È il caso ad esempio della separazione delle varianti croata, serba e montenegrina, separazione molto discussa perché poco fondata in termini strettamente lingui-

stici (tuttora è diffusamente in uso il glottonimo «lingua serbo-croata»), ma funzionale ad affermare e irrobustire l’identità e quindi l’autonomia politico-amministrativa dei tre Stati sorti dalle ceneri della Jugoslavia.

3.3 Quando il designante cancella il glottonimoRiassumendo, designante linguistico e glottonimo sono terre-ni su cui si gioca una partita molto importante nell’economia del riconoscimento delle comunità linguistiche in generale e minoritarie in particolare, e nelle loro relazioni e dinamiche di dominazione e controllo.Oltre che in sincronia, il problema va infatti affrontato anche in diacronia, nel senso che designanti e glottonimi, nel bene o nel male, non sono dati una volta per tutte ma possono evolvere a seconda di svolte e movimenti della storia, movimenti che de-cretano ora l’ascesa, ora l’affermazione, ora la decadenza, ora la scomparsa ecc. di una data varietà linguistica. Un esempio particolarmente emblematico in proposito ci è fornito dall’u-so del designante-glottonimo patois, ancora oggi frequentato nell’universo culturale francese, con alcune appendici oltralpe, termine culturalmente marcato al punto da non poter essere tradotto in altre lingue. Il patois indica infatti non una lingua o un dialetto particolare, bensì una sorta di sublingua, al tem-po stesso indefinita e iperconnotata in quanto lingua legata al mondo rurale, e rappresentata dall’opinione pubblica come “sgrammaticata”, ipervariabile di borgo in villaggio, esclu-sivamente orale, adatta per una comunicazione unicamente espressiva e popolare. Storicamente, dalla Rivoluzione in poi, si aprì grazie all’Abbé Grégoire (1790) la caccia ai patois, pensa-ti e sentiti diffusamente come un insulto all’unità nazionale, e quindi alla libertà individuale secondo l’ideologia repubblicana, anche se in realtà sotto questa etichetta opaca, sotto questo designante-glottonimo ideologicamente sbagliato e scientifi-camente ingiustificato si nascondono varietà linguistiche molto diverse e per storia e per status: da una lingua regionale come il bretone, fino a una variante diatopica di un dialetto d’oïl o dell’amazigh, tutte le differenze, tutte le identità linguistiche presenti sul territorio metropolitano e d’oltremare della Fran-cia (imperiale o repubblicana) venivano – e in parte vengono ancora – cancellate, immolate a un designante-glottonimo uni-co e vago.

Insomma, tra il nome della lingua e la comunità dei parlanti si può frapporre, e in genere si frappone, un filtro ideologico messo a punto dal potere costituito che esalta, depotenzia, af-ferma o nega la comunità stessa, a seconda del ruolo politico, del peso demografico, del prestigio culturale ecc. ricoperto o legato a tale comunità. Si consideri il caso della varietà roman-

Ragioni, forme e portata del riconoscimento delle comunità linguistiche minoritarieRagioni, forme e portata del riconoscimento delle comunità linguistiche minoritarie

Uso normale, trasmissione intergenerazionale della lingua, riconoscimento formale, status di prestigio = circolo virtuoso

Interruzione o decadimento dell’uso e della trasmissione intergenerazionale della lingua, stigma del codice inferiore = circolo vizioso

Rappresentazioni linguistico-culturali positive

Rappresentazioni linguistico-culturali negativeLingua X

Ruolo delle politiche linguistiche, inte-se come agente di riconoscimento e tutela, difesa, promo-zione delle comunità linguistiche minori-tarie, o come agente di erosione e/o loro eliminazione via la trasformazione delle rappresentazioni

Questo modello, se illustra astrattamente il rapporto tra rappresentazioni linguistiche, comportamenti sociolinguistici diffusi e ruolo delle eventuali politiche linguistiche da questi derivanti o volte a correggere tali comporta-menti, non fa luce su un parametro importante, decisivo nell’economia del nostro ragionamento circa la portata e il senso del riconoscimento delle CLM: la qualità del rapporto (psicologico, affettivo, simbolico) tra soggetto e lingua X, tra soggetto e comunità linguistica di appartenenza e tra co-munità linguistica e lingua X. Per semplificare, la qualità di tale rapporto è individuata dalle risposte a domande del tipo: “In che misura la lingua X costruisce l’identità del soggetto?”; “In che misura la lingua X veicola l’iden-tità “nazionale” del soggetto?”; “La lingua X è centrale o periferica nell’in-dividuare l’etnicità di un dato gruppo?”; “qual è il grado di lealtà linguistica del soggetto nei confronti della lingua X?”; “la lingua X è utile al soggetto? In che senso e misura?” ecc. Le risposte a queste domande decidono della divaricazione in rappresentazioni positive vs negative che si legano a una data lingua e quindi delle circolarità virtuosa vs viziosa che ne conseguono.

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za detta oggi occitano:

1) da Dante nominata lingua d’oc, la cui letteratura fu ritenuta un modello letterario di grande prestigio avendo conosciuto la fioritura dell’amor cortese che fece scuola in mezza Europa,2) progressivamente divenuta dialetto a seguito della Crociata contro gli albigesi (XIII secolo) che segnò la fine dell’autonomia politico-amministrativa del Midi e del grande canto cortese,3) quindi patois all’approssimarsi e successivamente alla Ri-voluzione,4) per risorgere in tempi molto recenti nella forma erudita e passatista veicolata dal designante occitanico, spesso confuso col provenzale dai filologi romanzi italiani anche grazie al pre-stigio della letteratura felibristica,5) fino ad arrivare alle forme più contemporanee di occitano o lingua d’oc, riferite all’insieme delle lingue di Francia (desi-gnante in uso dal 2003) per quanto riguarda le varietà regionali istituzionalmente riconosciute, pensate e sentite come lingue vive e non (solo) del passato.

3.4 Quando il designante è porosoNel momento in cui un designante “sovrascrive” e quindi can-cella un glottonimo, è la comunità linguistica che sotto quel glottonimo-bandiera si identificava che, più o meno progres-sivamente, perde o trasforma la propria identità sotto diversi punti di vista. Ma la cancellazione del glottonimo porta a un’al-tra conseguenza: la separazione dell’elemento strettamente “linguistico” da quello “etnico” o “nazionale”. In altri termini, parlare patois significa obliterare la comunità dei parlanti, colpirla con lo stigma del codice inferiore, svuotarla della sua irriducibile dimensione socio-culturale riducendola esclusiva-mente alla sua componente linguistica, portatrice non già di identità bensì di (dis)valori perché assoggettati al metro pro-prio delle comunità dominanti: ignoranza, trivialità, semplicità di spirito, indolenza, ruralità ecc. Ecco nascere allora l’etnotipo (Lafont 1976): un soggetto dai tratti stereotipi perché riferito a quello spettro di (dis)valori identificati nella lingua sovrascritta e perché mutilato della sua prospettiva storica. Ed ecco nasce-re il pregiudizio sociale ed etnico collegato, come un riflesso condizionato, a un accento, a una pronuncia, a un ritmo di elo-quio (Catricalà, Di Ferrante 2010).

In seno alle CLM, la separazione tra componente linguistica e componente etno-nazionale è molto importante e delicata e va senz’altro approfondita, anche perché può determinare distinti “trattamenti” a livello giuridico. Nel contesto italiano, parlava-mo in apertura di un mosaico costituito da comunità linguisti-che di natura anche molto diversa che l’unificazione politica e linguistica rese giocoforza tutte “minoritarie”. In proposito, va notato come, oltre che sul piano strettamente glottologico e di storia della lingua, la menzionata posizione di Ascoli fosse molto interessante anche in termini giuridico-politici. In effetti, nella chiusura del citato «Proemio» lo studioso separa, e quindi riconosce, l’aspetto patrimoniale (gli idiomi stranieri) da quello etno-nazionale («[gli idiomi stranieri] ancora parlati da popola-zioni italiane»), ponendo così le basi per la distinzione tra

a) minoranze linguistiche

b) minoranze nazionali

Tali designanti sono infatti legati da un rapporto non biunivoco: se le seconde sono generalmente anche comunità linguistiche minoritarie (ad esempio, i sudtirolesi o gli sloveni d’Italia), l’in-verso non è sempre vero: come non considerare pienamente italiani, oggi e forse già ai tempi di Ascoli, gli arbëresh, gli al-gheresi o gli occitani d’Italia? Per non mobilitare poi il concetto di plurilinguismo e pluriculturalismo nonché quello di identità

multipla, che consentono e di sfumare, e di articolare le appar-tenenze del soggetto a più comunità linguistico-culturali.

Quello che ci preme in questa sede sottolineare, è che la di-stinzione tra patrimoni e gruppi umani minoritari, introdotta – anche se non necessariamente esplicitata – dal ragionamento di Ascoli, non deve aver avuto molta fortuna se ancora oggi, almeno nel dibattito italiano intorno al riconoscimento delle «minoranze linguistiche», si fa non poca confusione tra i due designanti. D’altra parte, dobbiamo prendere atto del fatto che tali comunità minoritarie possono evolvere anche molto sulla strada dell’autocoscienza identitaria, perdendola o al contrario acquisendola, sia per fattori endogeni, più spesso per fattori esogeni:

a) Per quanto riguarda i primi - quasi mai del tutto separabili dai secondi - è lecito chiedersi a partire da quale momento le minoranze “nazionali” diventino minoranze soltanto “linguisti-che”. Alcuni casi di studio possono consentirci di avanzare su questa riflessione circa la porosità del designante, poco svi-luppata a nostro parere dalla comunità scientifica. Sappiamo ad esempio, da alcune ricerche d’archivio (Agresti e Francq in preparazione), che la colonia di origine albanese di Villa Ba-dessa di Rosciano, riconosciuta oggi come minoranza di lingua arbëreshe ai sensi della legge nazionale 482/99, mantenne una forte – e conflittuale – identità nazionale (matrimoni intraco-munitari, mantenimento del rito orientale e dei costumi alba-nesi ecc.) almeno fino a metà Ottocento per poi essere quasi del tutto assorbita dal tessuto sociolinguistico e culturale cir-costante. La comunità di Villa Badessa passò così da minoran-za etnica, nazionale, a minoranza linguistica, fino ad evaporare verso i primi anni ottanta del secolo scorso anche come mino-ranza linguistica mantenendo solo alcuni pur significativi trat-ti identitari in particolari contesti e attraverso specifici canali (Agresti e Pallini 2013);b) Per quanto riguarda i fattori esogeni, registriamo come spes-so le CLM acquisiscano o riscoprano la propria identità grazie allo sguardo di soggetti esterni alla comunità stessa. Ad esem-pio, se non fosse stato per l’azione pedagogica, divulgativa e militante dell’occitanista francese François Fontan, rifugiato-si in val Varaita (CN) negli anni Settanta del XX secolo, le valli occitane piemontesi non avrebbero forse ancora preso piena coscienza della loro storia e identità linguistica, ancora oggi in parte sovrascritta e opacizzata dal designante patois.Da questi esempi si vuole evidenziare l’importanza delle evo-luzioni storiche, la fluidità, anche, di certe realtà sociali e lin-guistiche, troppo spesso pensate e rappresentate come oggetti cristallizzati, immutabili. Tale complessità si riflette nella re-

lativa complessità del modello europeo dei diritti linguistici, e ancor più nel rapporto tra tale modello e quello italiano.

Riferimenti Prima Parte

Agresti, Giovanni. 2013. «Normativisation et normalisation de la lan-gue italienne: le rôle des langues locales et le modèle français dans le débat post-unitaire». Comunicazione presentata al Convegno interna-zionale Glottogenesis and Conflicts in Europe and Beyond, Università di Zara, 23-25 settembre. Atti in preparazione.

Agresti, Giovanni - Bruni, Micol - Bruni, Pierfranco. 2010. Le minoranze e l’Italia unita. Le radici, il Risorgimento, la Repubblica. Provincia di Foggia e Euromediterranea S.p.a.

Agresti, Giovanni - Francq, Gabriella. In preparazione. L’identità in di-sordine. Cronaca di un conflitto a Villa Badessa ai principi del XIX se-colo.

Agresti, Giovanni - Pallini, Silvia. 2013. « L’Italie, pays multilingue : de la protection des minorités linguistiques historiques aux enjeux des nouvelles minorités ». In : Brohy, Claudine - Du Plessis, Theodorus - Turi, Joseph-G. - Woehrling, José (ed), Law, Language and Multilingual State. Proceedings of the 12th International Conference of the Inter-national Academy of Linguistic Law (Bloemfontein, Afrique du Sud, 31 octobre-4 novembre 2010), Conference RAP, pp. 85-102.

Ascoli, Graziadio Isaia. 1872. «Proemio», Archivio Glottologico Italiano, I, 1.

Catricalà, Maria - Di Ferrante, Laura. 2010. «Pregiudizi in movimen-to: un’inchiesta di matched guise in Italia e i biasbusters», in Agresti, Giovanni e Bienkowski, Frédéric (ed). Les droits linguistiques: droit à la reconnaissance, droit à la formation. Actes des deuxièmes Journées des Droits Linguistiques. Teramo, 20-21 maggio 2008. Roma: Aracne, pp. 241-257.

Lafont, Robert. 1976. Introduction à l’analyse textuelle. Paris: Larousse.

Manzoni, Alessandro. 1868. Dell’unità della lingua e dei mezzi per dif-fonderla. Rapporto ministeriale.

Maurer, Bruno. 2013. Représentations sociales des langues en situa-tion multilingue. La méthode d’analyse combinée, nouvel outil d’en-quête. Paris: Éditions des archives contemporaines.

Kloss, Heinz. 1967. «Abstand Languages» and «Ausbau Languages», Anthropological Linguistics, 9, 7, pp. 29-41.

Strubell Miquel, 1999, «From Language Planning to Language Policies and Language Politics», in Weber Peter J. (éd), Contact + Confli(c)t. Bonn: Dümmler, pp. 237-248.

Ragioni, forme e portata del riconoscimento delle comunità linguistiche minoritarieRagioni, forme e portata del riconoscimento delle comunità linguistiche minoritarie

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CRESCERE DI MINORANZAPOLITICA DEL RICONOSCIMENTO E DIFFERENZE SOCIO-CULTURALI NELLE “SECONDE GENERAZIONI”, ROM E NON SOLOMaura de Bernart, Università di Bologna-Campus di Forlì

In memoria di Ceija Stojka e Gheorghe Nicholae, di Dragolijub, Marijana, Yosef, Myriam ed Enzo

Abstract: Basandosi su alcuni dati e storie di vita originali, e sulla comparazione tra l’ esperienza ebraica e quella Rom, l’intervento cerca di illustrare alcune problematiche relative al “crescere di minoranza”, ovvero alle condizioni e dinamiche oggettive, e ai significati dell’essere, dell’agire e dell’interagi-re in quanto membri di minoranze (Rom e non solo), cittadini o meno, attraverso le generazioni, con particolare riguardo alle generazioni più giovani. Viene suggerito di considerare le prospettive della lingua, della nazionalità, dei gruppi e delle credenze, delle competenze scolastiche e lavorative, e della socialità quotidiana e organizzata, in rapporto a quelle della cit-tadinanza, della cittadinanza sociale e della cittadinanza attiva.

ROMA cultural magazine

SOPRAVVIVERE E CRESCERE ROM, NELL’EUROPA DI IERI.

C’era una bambina, quinta di una famiglia di sei figli, di “Rom di Luwara”, minoranza nella minoranza, cattolici. Lei era nata nel 1933 a Kraubath, cittadina della Stiria, in Austria. Era nata austriaca, come Hitler, ma ad appena 9-10 anni cominciò a fare esperienza delle politiche di sterminio volute da

quest’ultimo, ed attuate con il consenso e il contributo fattivo di tanti, del suo paese e di tanti altri, in tutt’Europa.Quella bambina, Ceija – morta all’inizio di questo 2013, a 79 anni, benedetta sia la sua memoria – aveva testimoniato a voce più volte della sua storia. La ricordo di persona nel 2009 ad Auschwitz-Birkenau, lei sopravvissuta al Porrajmos, insieme al rabbino Israel Meir Lau, lui sopravvissuto alla Shoah, a un incontro interreligioso per la pace promosso dalla Comunità di S. Egidio. Poco tempo dopo, a Roma, in un incontro con il Papa, Ceija aveva detto:“Mi chiamo Ceija Stojka. Quando sono nata in Austria la mia famiglia contava più di 200 persone. Solo sei di noi sono sopravvissuti alla guerra e allo sterminio. Quando avevo 9 anni fui deportata con la mia famiglia prima ad Auschwitz, poi a Ravensbrück ed a Bergen-Belsen. Ero bambina e dovevo vedere morire altri bambini, anziani, donne, uomini; e vivevo fra i morti e i quasi morti nei campi. E mi chiedevo: perché? Che cosa abbiamo fatto di male? Sento gli strilli delle SS, vedo le donne bionde, le „Aufseherinnen“ (guardie/sorveglianti) con i loro cani grandi che ci calpestavano, sento ancora l´odore dei corpi bruciati. Come posso vivere con questi ricordi?! Come posso dimenticare quello che abbiamo vissuto?!

Non è possibile dimenticarlo! E l’Europa non deve dimenticar-lo!Oggi Auschwitz e i campi di concentramento si sono addor-mentati, e non si dovranno mai più svegliare. Ho paura però, che Auschwitz stia solo dormendoPer dire la verità: non vedo un futuro per i Rom. L’antigitani-smo e le minacce in Ungheria, ma anche in Italia ed in tanti altri posti mi preoccupano molto e mi rendono triste triste!Ma vorrei dire che i Rom sono i fiori in questo mondo grigio. Hanno bisogno di spazio e di aria per respirare. Se il mondo non cambia adesso, se il mondo non apre porte e finestre, se non costruisce la pace – la pace vera! – affinché i miei pronipoti (il quarto nascerà fra alcuni mesi) abbiano una chance a vivere in questo mondo, allora non so spiegarmi il perché sono sopravissuta ad Auschwitz, Bergen-Belsen e Ra-vensbrück.” (da: www.santegidio.org).

L’allora Ministro Riccardi, apprendendo della sua morte, l’ha ri-cordata così: «Una testimone del genocidio dei Rom e dei Sinti, il Porrajmos [“grande devastazione” in lingua romaní, ndr], un fenomeno spesso trascurato o rimosso dalla memoria colletti-va. Ceija è stata una dei pochi Rom a mettere per iscritto – nel libro “Forse sogno di vivere” – i suoi ricordi di bambina nei cam-pi di Auschwitz, Ravensbruck e Bergen Belsen. In questo libro ricordò tra l’altro che per ripararsi dal freddo, lei e i suoi piccoli amici si nascondevano sotto i corpi delle persone appena ucci-se nelle camere a gas».

Ecco cosa voleva dire per tanti crescere Rom, Rom di Luwara, minoranza nella minoranza, nell’Europa di allora. La condizio-ne oggettiva era quella dei condannati a morte, al pari degli Ebrei seppure con motivazioni e per vie diverse. In oltre un quarto dei casi, la condanna fu eseguita. Ci sono state vittime in quasi ogni famiglia e gruppo di Rom e Sinti. Nel caso di Ceija, la gran parte della sua stessa famiglia è stata uccisa lì, allora. Essere Ebrei, oppure essere Rom o Sinti – essere nati tali, par-lare lingue non maggioritarie, professare culti ed esprimere credenze non di maggioranza, avere abitudini quotidiane per cui si veniva riconosciuti come di minoranza, sia pure con tut-te le differenze tra le situazioni, e poi, con l’andare del tempo, semplicemente essere definiti di minoranza a prescindere da tutto – al tempo del nazifascismo voleva dire essere privati in profondità della libertà di agire e interagire che è degli esseri umani in quanto tali. Da un certo punto in poi, oltre che de-gli averi e della libertà personale, si veniva privati della pro-pria spontaneità e dell’intima e pratica libertà di fare scelte e di interagire con altri. La libertà di scelta comporta che ci siano

possibili corsi di azione alternativi tra i quali scegliere, rispetto ai quali valutare le conseguenze: agli Ebrei in un modo, ai Rom e Sinti in un altro, questo non era più dato. Qualunque fosse stato il corso delle azioni da loro intraprese da quel punto in poi, l’esito era di condanna delle loro stesse vite in quanto tali. Quindi per loro non erano possibili scelte, potevano solo affron-tare dilemmi – terribili, laceranti – in un contesto di interazioni spezzate da un lato, obbligate dall’altro.

Oltre alle sue specifiche tradizioni di antisemitismo, di razzi-smo, di antigitanismo, variamente coltivate e diffuse, l’Euro-pa di allora realizzava – in quell’oscuro connubio tra guerra e genocidio – una netta separazione tra quanti potevano ancora scegliere, fossero persecutori o complici, spettatori, giusti o anche vittime cui veniva riconosciuta un minimo di autonomia (come gli ex IMI o i “politici”), e quelle ampie minoranze di con-dannati privati già in vita di ogni residua possibilità di scelta, confrontati solo con assurdi dilemmi, spesso privati poi anche della loro stessa morte – della pietà di una data e di un luogo certo per ricordarli.

Questa situazione è stata riconosciuta abbastanza presto per quanto riguarda la distruzione degli Ebrei d’Europa, e all’ini-zio degli anni 1960 ci sono stati libri scritti, almeno in alcune lingue, come quelli di H. Arendt e R. Hilberg, che la rendeva-no nota al grande pubblico, o almeno a quanti volevano inte-ressarsene. Il libro di R. Hilberg sulla distruzione degli Ebrei d’Europa, pubblicato per la prima volta in inglese nel 1961 e tradotto in italiano solo al tempo della seconda edizione, nel 1985, racconta anche tante storie di Rom e Sinti: tra gli altri, mi hanno colpita i documenti che riporta sull’uccisione degli Ebrei e dei Rom, nelle fosse comuni, a Sabac, vicino Belgrado. Lo stesso centro da cui arrivarono a Bologna tanti profughi Rom negli anni ’90.

Ma in genere non si è scritto molto, specificamente, di quanto è avvenuto ai Rom e ai Sinti d’Europa. Ciò anche a motivo del perdurante equivoco che li voleva perseguitati in quanto “aso-ciali” e non perseguitati razziali: equivoco che si è protratto, in Germania e non solo, almeno fino alla fine degli anni 1970 (il Parlamento dell’allora Repubblica Federale di Germania ri-conobbe ufficialmente per la prima solo nel 1979 che si era trattato di persecuzioni “motivate razzialmente”).

Rita Prigmore, donna sinta, oggi 70enne, nata a Wurzburg, nel-la bassa Franconia, in Germania, e vissuta a lungo negli USA, racconta della sua storia, e di quella della sua gemella Rolan-da, appena nate: “nel 1942, quando la quasi totalità degli ebrei

Crescere in minoranza

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Crescere in minoranzaCrescere in minoranza

tedeschi era già stata deportata, la sorte degli zingari non era ancora chiara…tuttavia i nazisti volevano evitare che procreas-sero: Per questo su di loro vennero applicate le leggi per preve-nire la riproduzione delle persone affette da malattie genetiche, e così fu pianificata la sterilizzazione di tutti gli zingari della Germania” (da: www.santegidio.org). Rita e Rolanda furono portate via alla madre appena nate, e sottoposte ad esperimen-ti medici dal dr. Heyde, seguace di Mengele, come lui interessa-to ai gemelli. Rita ne riportò conseguenze permanenti, Rolanda morì neonata in seguito alle iniezioni di inchiostro che le fecero negli occhi per tentare di cambiarne il colore.

Qualunque le caratteristiche di sempre della socializzazione ebraica o Rom, e qualunque siano state le strategie messe in atto, per quanto possibile, da Ebrei e Rom e Sinti nel perio-do nazifascista, dovremmo forse approfondire di più e meglio se e quale libertà di azione e di interazione fosse lasciata loro, per meglio comprendere cosa vuol dire crescere di minoranza dopo, almeno in questi casi, ma poi purtroppo in altri ancora, da allora in poi.

Si tratta di un lavoro che andrebbe fatto insieme, in dialogo, tra chi se la sente, in piena libertà, perché in queste memorie di situazioni estreme, di estremo dolore, ci sono delle ferite, c’è qualcosa di intimo e profondo, che resta nel segreto del cuore di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni popolo, e che chiede estremo rispetto: chi può sollecitare, men che mai descrivere, da fuori, il modo in cui ogni persona, famiglia, popolo ha patito questo male estremo? Con quale autorità lo si potrebbe fare?

Io personalmente – seconda generazione dopo la guerra e la Shoah, con gran parte della mia famiglia materna composta da ebrei uccisi forse ad Auschwitz forse altrove, ancora non so – non mi riconosco tale autorità. Ho risposto all’invito della Fondazione Romani, e del suo Presidente, che ringrazio, solo perché si tratta di qualcosa che ho molto a cuore, e solo per-ché in tanti anni di amicizie con uomini e donne Rom, anziani e meno anziani, ne abbiamo parlato più volte, nel “pianissimo” dei rapporti personali. Vorrei notare sommessamente che, spesso, è capitato di parlarne con i più anziani quando erano ormai prossimi alla fine: e qui vorrei ricordare con grande af-fetto, stima e gratitudine Dragolijub e Marijana, l’uno e l’altra morti a Bologna di malattia, a distanza di pochi anni uno dall’al-tra, benedetta sia la loro memoria, che hanno voluto fare parte con me di tante loro memorie e preoccupazioni. E vorrei anche ringraziare il giovane Milan che una sera, a cena in tanti da lui, a me che lamentavo che si parlava troppo con i bambini dei gagè, e che mi sentivo a disagio perché ero anche io una gagé,

ha risposto che no, io ero jivrea, che i nostri sono spariti insie-me negli stessi tempi e luoghi, e che dunque eravamo lo stesso destino, lo stesso popolo.

Vorrei dunque solo fare due notazioni, che propongo anche come piste di ricerca:• da un lato c’è un’eredità di trauma sociale, non solo né

tanto psicologico, che segna la crescita di tutte le genera-zioni di minoranza del dopo, ma che non riguarda solo le minoranze, anzi, proprio per quanto detto, riguarda piutto-sto la società nel suo complesso (e le singole istituzioni e società anche locali), che è spesso in ritardo nel fare i conti con se stessa e con le sue scelte passate;

• dall’altro lato, c’è un problema culturale importante che riguarda il rapporto di tutti noi con chi è sopravvissuto, specie se di minoranza e di una minoranza condannata: posto che ne cerchiamo e ascoltiamo le testimonianze, cosa ci interessa di queste? Il racconto della sopravvivenza in se stessa, che comprensibilmente può giungere a farci sentire più liberi da tante nostre paure; oppure anche l’evi-denza della fiducia sociale che i sopravvissuti hanno inve-stito non solo nel sopravvivere ma nel dopo, quando hanno resistito e ricostruito le loro famiglie e la società intera? E quando, molto significativamente, in modi diversi ma tutti significativi, si sono ripresi la libertà – e la responsabilità – di agire e di interagire?

Aspetti, questi ultimi, che ci interpellano nella consapevolezza che abbiamo dell’oggi, e di quanto facciamo della nostra stessa libertà di agire ed interagire, dunque della nostra responsabilità di generazioni che non hanno patito quel male.

SOPRAVVIVERE E CRESCERE ROM NELL’ITALIA E NELL’EUROPA DI OGGI

ECCO UNA STIMA APPROSSIMATA DELLE PRESENZE DEI ROM NEGLI STATI D’EUROPA E LA PERCENTUALE SULLA POPOLAZIO-NE TOTALE (FONTE: ROMS EN EUROPE, ED. CONSEIL DE L’EUROPE, 2010)

E’ triste mantenere la parola “sopravvivere” parlando di una minoranza, quella Rom e Sinta, nell’Europa di oggi. Eppure Ceija Stojka aveva ragione quando si diceva “triste triste” pen-sando all’antigitanismo, alla situazione dei Rom in Ungheria, ma anche in Italia e altrove. Oggi la situazione complessiva in Italia e in Europa è certo mol-to diversa da quella dei tempi della seconda guerra mondiale, della Shoah, del Porrajmos. Ma sono rimaste delle ombre che si allungano, che portano di nuovo all’erosione dei diritti delle minoranze, particolarmente di Rom e sinti.“L’idea di sbarazzarsi degli zingari è rimasta nella psiche dei rumeni dalla guerra” diceva il compianto Nicholae Gheorghe, attivista Rom rumeno e caro amico. Lezione profonda, osser-vazione molto acuta: le guerre mondiali, che hanno covato in sé il genocidio, come ogni guerra hanno pure peggiorato tutte le cose e inasprito gli animi e le mentalità: e questo affiora e riaffiora anche malgrado i lunghi decenni di pace. Era la preoc-cupazione di Ceija, di Nicholae, di altri.Una preoccupazione, una paura, motivata, se è vero – tanto per limitarsi ad alcuni casi – che: Ancor oggi, a Roma, un bambino Rom su quattro nasce sotto-peso, e il 24% cresce denutrito (The Lancet, 2010)

e che nella stessa Roma, negli ultimi anni, più di 50 bambini Rom e sinti sono morti bruciati, o di freddo, annegati o talvolta travolti da una macchina, come il piccolo Mario, figlio di Ma-riam ed Emilia, morto nel 2010 nel rogo che ha distrutto la loro baracca, e poi Nadia, Sneza, Livia, Zvonko, Renko e altri (ww.santegidio.org, 2010).Era successo lo stesso, anni fa, ai piccoli Alex ed Amanda, alla periferia di Bologna; quella stessa periferia in cui la banda del-la Uno Bianca, nel dicembre 1990, aveva ucciso i giovani Ro-dolfo Bellinati e Patrizia Della Santina, e ferito altri, tra cui una bambina (Argiropooulos 2013).Se ci spostiamo in Ungheria, in questi stessi anni:- Poco dopo la mezzanotte del 21 luglio 2008,  a Galgagyörk, nella regione di Pest, hanno sparato a tre case abitate da rom. Parecchie pallottole sono entrate dalle finestre nelle pareti del-le camere.- L’8 agosto 2008 a Piricse nella Regione di Szabolcs-Szatmár-Bereg hanno buttato delle bottiglie ripiene di benzina, infiam-mate, su una casa rom, e hanno sparato alla donna scappata dalla casa ferendola ad una gamba.- Nella notte del 5 settembre 2008 a Nyíradony-Tamásipusztán sono stati attaccati 7 adulti e quattro bambini mentre dormina-

MacedoniaBulgariaSlovacchiaRomaniaUngheriaSerbia-MontenegroRepubblica CecaGreciaSpagnaFrancia RussiaItaliaGermania

230.000 11,5%750.000 9,3%500.000 9,2%2.000.000 9%600.000 6%400.000 3,8%250.000 2,6%190.000 1,8%700.000 1,7%350.000 0,5%450.000 0,4%140.000 0,2%150.000 0,1%

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vano in una baracca.- Nella notte del 29 settembre 2008 a Tarnabod hanno dato fuoco a piú case in cui abitavano donne anziane, una coppia malata, una donna anziana con suo figlio in una grande povertá.- Il 3 novembre 2008 a Nagycsécs vincino a Miskolc hanno sparato a due case. Sono morti Jőzsef Nagy di 42 anni e sua cognata, Éva, di 40 anni.- Il 15 dicembre 2008 nel quartiere rom di Alsozsolca hanno ferito gravamente un giovane di 19 anni, mentre nel cortile della sua casa stava tagliando la legna.- Il 22 febbraio 2009 a Tatárszentgyörgy nella regione di Pest hanno dato fuoco a una casa di rom; hanno sparato e ucciso Róbert Csorba e il figlio di 4 anni, hanno ferito gravemente una bambina di sei anni mentre provava a scappare tra le fiamme.- Il 22 aprile 2009 a Tiszalök hanno sparato e ucciso Kóka Jenő davanti alla propria casa mentre si recava al lavoro.- Nella notte tra il 2 e 3 agosto 2009 a Kisléta hanno ucciso nel sonno Mária Balogh, una donna rom di 45 anni e hanno ferito gra-vemente sua figlia di 13 anni (www.santegidio.org 2013).E così in altri paesi ancora….spesso con affermazioni di politici ed amministratori o con manifestazioni popolari e di parti politiche espressamente antigitane, prive di ogni vergogna e quasi mai sanzionate.So dalle mie ricerche, più che altro dai miei dialoghi, a Bologna e dintorni (de Bernart 2009) quanto sia difficile trasmettere la me-moria di questo passato a chi cresce di minoranza, tra i Rom e i Sinti: un po’ per una tradizione educativa molto attenta alla libertà dei più piccoli, un po’ per la difficoltà insita in queste memorie in se stesse. Come trasmettere la memoria senza trasmettere il male? E come farlo, quando si è ancora spesso circondati da tante difficoltà e incomprensioni, se non da vere e proprie violenze?Quali che siano le risposte, credo che possiamo lo stesso chiederci insieme come pensare/ripensare l’essere, l’agire, l’interagire crescendo di minoranza, Rom e Sinti e non solo, dopo questa storia, nelle nostre situazioni di oggi, e in particolare in rapporto alla cittadinanza, alla cittadinanza sociale, alla cittadinanza attiva.Se è vero che l’Europa è stata pensata come, ed è in larga parte, un’Unione di minoranze, non è tempo di denunce soltanto, o di scoraggiamenti, ma è invece il tempo per pensarsi e ripensarsi insieme, nei diversi luoghi, nei diversi Paesi, nell’Europa tutta e oltre, con tutta la dignità bella e la fermezza del proprio essere di minoranza e anche con tutta l’apertura cui questo può condurre sia noi stessi sia altri.E’ un esercizio che propongo qui, e che mi piacerebbe potesse proseguire insieme, provando a riflettere coralmente, in dialogo.

Questo schema forse può aiutare:

Resta da capire e vivere insieme cosa possa significare vivere e crescere tenendo presente tutto questo, maturando un senso solido dei propri diritti e doveri, da garantire, e al tempo stesso col-tivando la memoria, le memorie, e capendo insieme come la trasmissione della memoria possa aiutare un futuro migliore, per sé e per i propri come per tutti, e dunque come dalla memoria e dal far parte delle proprie memorie con altri possa venire non solo dolore quanto anche una speranza solida e che guarda lontano, ad una società di convivenza in cui l’essere di minoranza non sia mai più una condanna, quanto piuttosto un possibile arricchimento di vita e di senso della vita, per sé e per tutti.

Riferimenti bibliografici:Aassve, A., Iacovou, M., Mencarini, L., Youth poverty and transition to adulthood in Europe, in: Demographic Research, 15, 2, 2006, 21-50;

Argiropoulos, D., Zingari e Religioni. Vicinanze e lontananze di una minoranza, relazione al Convegno nazionale La religione come fattore di dis/integrazione sociale, Bologna, novembre 2008

Argiropoulos, D., Spigolare parole, rubare sguardi, Polistampa, Firenze 2013

Barany, Z. D., The East European Gypsies: Regime Change, Marginality and Ethnopolitics, Cambridge University Press, Cambridge, 2002

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de Bernart, M., Il senso della famiglia nella società tra una generazione e l’altra: mondi incomunicabili?, in: P.De Nicola, a cura di, Onde del tempo. Il senso della famiglia nell’alternanza delle generazioni, Angeli, Milano, 1998, 127-178

de Bernart, M., Shoah e coscienza europea, in: AA.VV. Gli Studi Europei nelle Facoltà di Scienze Politiche, CLUEB, Bologna 2008

de Bernart, M. Multiple Transitions. Growing up Gypsies…, relazione al Convegno internazionale “I giovani, l’Eu-ropa, il Mediterraneo. Territori, identità, politiche”, Forlì 2009

European Monitoring Center on Racism and Xenophobia, Roma Diplomacy: A Challenge for European Institu-tions? The Role of Diplomacy and International Action in Curbing Anti-Gypsyism in Europe, http://eumc.eu.int ,Brussels, December 2005

Hilberg, R., La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1985

Impagliazzo, M., a cura di, Il caso Zingari, Leonardo International, Milano, 2008

Lewy, G., The Nazi Persecution of the Gypsies, Oxford University Press, Oxford, 2000 (ed.it. 2002)

Morozzo della Rocca, P., La condizione giuridica degli zingari, In: Impagliazzo M., cit., 55-90

Prodi, R., Europa, Unione di Minoranze, 19 febbraio 2004, ww.politichecomunitarie.it/comunicazione/7322

Stojka, C., Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen-Belsen, La Giuntina, Firenze, 2007

Crescere in minoranzaCrescere in minoranza

TEMI

Cittadinanza

Cittadinanza Sociale

Cittadinanza Attiva

ESSERE

- Diritto alla vita- Libertà religiosa e di comunità- Lingua- Status (es: i figli apolidi di chi è arrivato dall’ex Jugoslavia)

- Minoranze: quali?

- Diritti civili, economici, sociali, culturali Minoranze: quali?

- Tutele specifiche

- Diritti politici

- L’informazione

- La memoria, le memorie con-divise, per la prevenzione delle discriminazioni e violenze, per la tutela dei diritti

- L’uso delle lingue: l’esempio di Fabien

- Le feste, lo sharing (il fare parte della propria storia e me-moria con altri)

AGIRE

- Tutela status e diritti- Rappresentanza

- Lingua: romanès, italiano

- Casa, scuola, salute, lavoro

- Interlocutori significativi

- Quartieri e città

INTERAGIRE

- Ritorno ad Haifa: cos’è la patria?

- Il diritto alla pace

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