Regia Nave Sebastiano Caboto di Andrea Garlinzoni

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Le nostre guerre - Volume II Da Ottobre del 1942 al 19 settembre del 1943

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ANDREA GARLINZONI

Regia nave Sebastiano Caboto

Le nostre guerre Volume II

ROMANZO

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE Edizioni

Regia nave Sebastiano Caboto

Le nostre guerre Volume II

di Andrea Garlinzoni Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l‟utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 - 8862964 | Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 9788897277583 Collana LE NOSTRE GUERRE Versione eBook http://www.ciessedizioni.it

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NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario. BIOGRAFIA DELL’AUTORE Andrea Garlinzoni ha 60 anni e finalmente ha iniziato a dedicarsi alla passione di scrivere. Laurea alla Bocconi nel lontano 1973, tenente dell‟aeronautica militare, ha poi lavorato in diverse aziende, occupandosi di vendita, marketing e formazione. Il lavoro l‟ha portato molto spesso in diverse nazioni europee e negli Stati Uniti. Ha letto molto, specialmente sulla storia della prima metà del secolo scorso. Il suo primo libro? E‟ stato uno dei regali della nonna materna: “Il giorno più lungo”. Aveva quindici anni. Le sue passioni lo hanno portato a collezionare minerali e quindi a passare giornate sulle montagne del Piemonte e della Lombardia. Spesso si è trovato nei luoghi che hanno visto le operazioni delle forze partigiane negli anni bui della guerra. La voglia di chiedere e di informarsi, di documentarsi gli hanno dato la possibilità di ascoltare ancora, da chi le aveva vissute, tanti episodi di quello che è stato il secondo conflitto mondiale in diversi paesi europei. I luoghi dove ambienta le azioni nei suoi romanzi, infatti, li

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ha visitati e li conosce tanto da riuscire ad ambientare parecchi episodi delle sue opere. Per questa sua caratteristica e conoscenza, la CIESSE Edizioni ha dedicato ad Andrea una specifica collana intitolata:

LE NOSTRE GUERRE

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A Nadia

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1.

20 ottobre 1942

L‟ammiraglio di squadra Cesare Fasann era seduto alla sua scrivania e stava sfogliando lo stato di servizio di un ufficiale che di lì a poco avrebbe incontrato. Il suo compito era la valutazione e l‟approvazione finale, per l‟avanzamento degli ufficiali superiori e degli ufficiali generali delle tre Armi.

Il suo ufficio dipendeva direttamente dallo Stato Maggiore congiunto. Fasann aveva sotto di sé una decina di ufficiali subalterni, con il compito di preparare la relazione iniziale, raccogliere tutti i dati del candidato e fornire un commento preliminare sulla posizione raggiunta nella graduatoria generale.

Di solito non incontrava mai coloro che aveva in valutazione, ma questa volta aveva un interesse particolare nell‟ incontrare il maggiore Umberto Pizuto.

Aveva sentito parlare della famiglia Pizuto e del padre, capitano di vascello, morto in battaglia nel 1917. Orfani anche di madre, i due fratelli Umberto e Romano erano stati allevati dagli zii, ed erano diventati: uno maggiore della Regia Aeronautica e l‟altro capitano di corvetta, reduce solo due mesi prima dal naufragio della sua nave, la Perseo. Romano Pizuto, mentre cercava di proteggere una imbarcazione del convoglio che scortava e che non

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poteva più mantenere la velocità, prima di far naufragio aveva abbattuto 3 dei 4 aerosiluranti che li avevano attaccati.

Il contrammiraglio Caracciolo del Monte, con cui Fasann divideva tante passioni e una lunga e profondissima amicizia, gli aveva parlato del recente matrimonio della figlia Elena con il capitano di corvetta Pizuto. Lui si ricordava di Elena ragazzina, che giocava nel labirinto del loro giardino, mentre lui e la defunta moglie chiacchieravano con Giancarla e Giovanni.

Le parole di stima nei confronti del giovane comandante del Perseo avevano destato la sua attenzione e aveva voluto approfondire. Aveva richiesto lo stato di servizio del comandante e ciò gli aveva permesso di leggere le note di merito e la menzione speciale sul bollettino della Marina Militare, oltre alla motivazione di una promozione del comandante dell‟incrociatore Zara, che lo avevano interessato e colpito molto favorevolmente. Aveva quindi voluto questo incontro.

L‟ammiraglio aveva fatto accomodare il maggiore Umberto Pizuto e aveva iniziato a parlare della guerra e di quanto gravoso fosse il peso che i soldati dovevano sopportare, considerando la scarsa disponibilità di mezzi bellici competitivi rispetto a quelli degli alleati. Anche i tedeschi, con la loro superiorità tecnologica, non avevano sempre la supremazia sui campi di battaglia.

Umberto si rese conto che il taglio dato dall‟ammiraglio alla conversazione era più simile a

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una chiacchierata tra vecchi commilitoni che a un colloquio tra un ufficiale generale dello Stato Maggiore e un maggiore dell‟Aeronautica.

Si stupì della conoscenza che aveva della carriera del fratello Romano e degli accenni, neanche tanto velati, alla fedeltà della Marina al Re e alla Patria, senza mai nominare il fascismo.

Era d‟altra parte risaputo che gran parte dell‟Aeronautica e dei suoi ufficiali era cresciuta seguendo l‟esempio delle grandi gesta di Italo Balbo, Maresciallo dell‟Aria e Governatore della Libia, fedelissimo del Duce. Al contrario dell‟Aviazione, la Marina si era rivelata refrattaria all‟ideologia fascista e tuttora era difficile trovare ufficiali che ne condividessero lo spirito e i dettami.

“Maggiore, mi creda, ho letto il suo stato di servizio e lo ritengo già più che sufficiente al suo passaggio di grado, ma sarei contento se lei, così come le vengono in mente, mi raccontasse gli episodi della sua carriera militare. Quelli che ritiene importanti e a cui tiene di più.”

“Mi piace conoscere gli ufficiali che ritengo abbiano una marcia in più rispetto alla media e, se sangue non mente, anche lei, come suo fratello Romano, dovrebbe averla. Si dilunghi pure sui particolari e mi faccia sentire quello che lei provò nei momenti chiave del suo servizio in Aeronautica.”

Pizuto decise che, senza esagerare, avrebbe potuto far trapelare le sue convinzioni, che condivideva con il fratello.

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“Ammiraglio, se a voi non dispiace, comincerei dal 1933, l‟XI del Littorio, quando ...”

Non riuscì a continuare.

“Maggiore, le ho chiesto i punti salienti della sua carriera in Aeronautica. Non credo che il fascismo sia riuscito a farle eseguire per la prima volta un tonneau senza istruttore o a farle centrare meglio il suo primo bersaglio con una bomba. Tra noi, lei potrà sempre tralasciare la numerazione fascista degli anni e potrà sempre usare il lei e non il voi. Sono stato abbastanza chiaro o vuole che glielo ordini?”

“Ammiraglio, lei si deve mettere nei miei panni. Sono a rapporto da un ammiraglio e devo comportarmi come detta il Codice Militare. Lei è stato chiarissimo e non necessita un suo ordine.”

“D‟accordo Pizuto. Cominci di nuovo.”

“Inizierei dalla Trasvolata del Decen… cioè la Trasvolata Orbetello-Chicago del „33. Siamo partiti con 24 idrovolanti Savoia-Marchetti S.55 X, divisi in 8 squadriglie, più un velivolo di scorta. Ero il secondo pilota di un velivolo della Squadriglia Verde Stellata.”

“Nelle precedenti crociere si volava da continente a continente, questa volta avremmo dovuto ammarare in Islanda e, al ritorno, alle isole Azzorre. Per questo fu molto curata la preparazione al volo, basato solo sugli strumenti di bordo, come se volassimo nella nebbia più completa.”

“Nella tratta fino a Reykjavik, avevo il mio turno di comando della Squadriglia, quando in un improvviso

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squarcio delle nuvole mi ritrovai involontariamente a controllare la posizione delle stelle. La stella Polare invece di essere sul rilevamento di 60° a destra della nostra rotta, era orientata dritta con la nostra prua. Stavamo volando verso il Polo Nord! Corressi la rotta orientandomi sulle stelle e feci virare a sinistra la mia squadriglia. All‟arrivo, constatammo che la girobussola, su cui mi ero basato fino al momento in cui mi ero reso conto che qualche cosa non andava, era inservibile e fu sostituita.”

“Il comandante Balbo citò questo episodio e mi propose per l‟avanzamento di grado, ebbi in questo modo la seconda barretta.”

“A Chicago, il generale Cesare Balbo mi chiese se preferivo continuare a volare su grossi velivoli o se avrei preferito gli aerei da caccia. Scelsi questi ultimi e mi ritrovai in uno squadrone di Fiat CR 42.”

“Il grado di capitano arrivò dopo la guerra di Spagna. Il contributo degli aerei e dei numerosi equipaggi addestrati costituenti la componente aerea del “Tercio”, diedero vita all'Aviazione Legionaria, che fu fondamentale per la supremazia aerea nazionalista.”

“L'Aviación Legionaria, come la chiamavano gli spagnoli, era il corpo di spedizione della Regia Aeronautica che venne creato per fornire supporto logistico e tattico alle truppe franchiste durante la guerra civile spagnola.”

“Ero in Spagna, già dal ‟36, con dodici piloti prima sui CR 42, dal marzo del „39, venni dislocato con il mio squadrone e nuovi caccia monoplani Fiat G.50-

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Freccia, presso la base di Ascalona. Avremmo dovuto solo istruire i piloti spagnoli sul migliore utilizzo dei Fiat G50 e non prendere parte ai combattimenti.”

“Ci fu però un triste episodio: il mitragliamento del campo da parte di un gruppo di velivoli francesi tipo Dewoitine, della República Española.”

“Erano scesi contro sole, mitragliando tutto il campo. Uccisero cinque avieri, due piloti e decine di operai civili e di persone che non c‟entravano niente. Il campo non era di prima linea, ma solo di rischiaramento e di addestramento! Non eravamo lì per attuare azioni di guerra!”

“Alcuni di noi corsero ai rifugi. Io mi precipitai, invece, verso il mio aereo, seguito da un paio di altri piloti. Intanto gli aerei della Repubblica si erano allontanati per compiere una stretta virata e stavano tornando. Ricordo che cercavo di far avviare il motore, pompando violentemente sulla manetta, per iniettare carburante nella camera di scoppio dei cilindri.”

“Fortuna volle che non venissi colpito, come invece successe agli altri due: uno esplose, il suo velivolo fu centrato in pieno e l‟altro falciato mentre percorreva gli ultimi metri fino al suo aereo, l‟ultimo della fila.”

“Decollai e ingaggiai un furioso duello con i nemici. Erano miei nemici: avevano ucciso 7 uomini del mio reparto e decine di innocenti. Riuscii ad abbattere tre di quegli assassini: la furia cieca che mi colpì era tale che non mi resi conto di avere violato le regole non interventiste.”

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“L'intervento militare italiano non doveva essere ufficiale, ma basato su volontari-mercenari per compiacere le decisioni della comunità internazionale. In realtà si trattò di un presenza massiccia di uomini e mezzi: non avrei dovuto attaccare quegli aerei.”

“Ammiraglio, deve considerare che la sola entità del Corpo Truppe Volontarie era pari a un grosso Corpo d'Armata, costituita da truppe regolari italiane. Io sono convinto che l'Italia sia intervenuta illegalmente, anche con il dispiegamento di forze navali corsare che attaccarono navi repubblicane, arrivando perfino a bombardare nottetempo le coste catalane e la città di Barcellona.”

“Grosso errore, non trova maggiore?”

Disse l‟ammiraglio.

“In effetti, le proteste delle altre potenze interruppero una vera e propria guerra navale non dichiarata.”

“E le risorse usate in Spagna, secondo lei, furono sprecate o servirono per saggiare e migliorare le nostre armi?”

“Ammiraglio, a suo tempo ci riflettei parecchio e penso che la guerra civile spagnola abbia tolto ingenti e preziose risorse all'Italia, che avremmo potuto impiegare per migliorare i nostri mezzi e la nostra preparazione, apportare modifiche. Visti i risultati laggiù, ben poco fu fatto dopo.”

Tombola! Pensò in un lampo Umberto, rendendosi conto di essersi lasciato andare e che ormai era chiaro come la pensava.

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Aveva criticato il fascismo e il suo intervento a fianco del Caudillo, il Generalissimo Franco.

“E‟ chiaro ammiraglio che posso sbagliarmi. Vede, mi sono lasciato trascinare dal ricordo di quei momenti, dei miei morti, della rabbia di quegli istanti.”

Tacque attendendo un secco rimbrotto o peggio ancora il veder andare in fumo quella nomina a cui teneva tanto.

“Maggiore Pizuto, sono impressionato dal suo racconto e condivido le sue opinioni e le sue valutazioni. Continui, prego.” Rispose sorridendo l‟ammiraglio.

Umberto rimase un paio di secondi attonito.

Era una trappola così ben congegnata che ci stava finendo dentro a testa in giù?

Oppure l‟ammiraglio gli stava realmente parlando in modo sincero?

Decise di continuare, preferendo vivere un giorno da leoni che cento da pecora, come si diceva in quel periodo.

“Venni poi destinato in Belgio, con il Corpo Aereo Italiano, il CAI, fino all‟inizio del 1941. L'integrazione delle nostre forze aeree con quelle tedesche fu difficile; i nostri bombardieri, privi di attrezzature antighiaccio, non potevano operare con continuità, mentre i caccia erano inferiori per quota raggiungibile, armamento e velocità rispetto ai temibili Spitfire inglesi.”

“Diverse volte ho rischiato di morire mentre, per decollare, cercavo di far muovere gli impennaggi e gli

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alettoni bloccati dal ghiaccio. Decollare e affrontare gli aerei inglesi che mitragliavano il campo, a pochi metri dalla mia carlinga, come avevo fatto in Spagna.”

“Anche in volo i nostri piloti hanno dato prova di coraggio, ma il nostro aiuto nel mitragliamento a bassa quota dell‟Inghilterra meridionale e di scorta dei bombardieri tedeschi, fu molto limitato e neppure degno di una nota ufficiale.”

“Da parte mia, posso dire che vidi i miei operare in un teatro sfavorevole ai nostri mezzi, senza strutture valide di supporto a terra e con solo le nostre braccia e la buona volontà per far volare, riparare, rattoppare i velivoli delle nostre formazioni.”

“Operai fino al marzo del „42 nel mar Mediterraneo, nei Balcani e sul territorio italiano. Dal marzo del 42, con il grado di maggiore sono di stanza in Libia. In totale mi vengono riconosciuti dodici aerei nemici abbattuti a cui io, però, aggiungo i tre abbattuti in Spagna.”

“Che dirle d‟altro. Dal „42 il mio aereo è un Macchi C.202-Folgore, stupendo! Ha solo una nota quasi comica: questo aereo ha 4 mitragliatrici ed è capace di montare anche 2 cannoncini da 20 mm; un aereo che porta morte e distruzione, in volo. In rullaggio a terra, però, devono esserci due avieri seduti alle estremità delle ali per dirmi dove dirigermi e a cosa stare attento: la visibilità a terra, a causa del lungo muso è, infatti, quasi nulla.”

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“Ah, sì. Questa è la prima licenza da 20 mesi, sono solo dieci giorni di sospirata sosta da tutta quella sabbia e quel sole.”

“Questo è tutto signor ammiraglio.”

“Complimenti maggiore Pizuto. Un curriculum degno di nota e di essere sostenuto conferendole il passaggio al grado di tenente colonnello.”

“Avevo già in animo di firmare la sua nomina, ma volevo essere certo di poter contare su di lei un domani. A me piace avere un quadro preciso di alcuni degli ufficiali delle tre Armi. Ufficiali di cui mi possa fidare, di cui io abbia potuto valutare personalmente la fedeltà al Re e all‟Italia.”

“Mi interessano uomini che in futuro io possa coinvolgere per particolari missioni e per compiti di grande responsabilità, ma che, al contempo, abbiano ben chiari cosa siano l‟onore e il valore di una vita umana, da sacrificare solo se indispensabile e per un ben più alto obiettivo.”

“Sono contento di averla conosciuta e di poter firmare la sua nomina.”

Umberto Pizuto pensava che il colloquio fosse terminato e si preparava ad alzarsi per mettersi sugli attenti, quando l‟ammiraglio riprese a parlare.

“Mi dica ora, dopo il naufragio della sua nave come sta suo fratello Romano? Cosa vi accomuna nell‟arte delle armi? Quali ideali condividete?”

Per Umberto fu difficile parlare del fratello senza mai lasciare trapelare le sue frasi e le sue parole, che gli tornavano alla mente. Di quell‟ammiraglio si fidava, ma per il fratello si tenne sulle generali, ne

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descrisse però, l‟umanità, la rettitudine, l‟alto senso del dovere e dell‟obbedienza e la capacità di non chiedersi se gli ordini avevano un senso o no, purché non mettessero a repentaglio inutilmente la nave e i suoi uomini, la cui vita gli era molto cara.

Quando riuscì ad alzarsi, salutò l‟ammiraglio e, uscito dall‟ufficio, tirò un profondo sospiro di sollievo. Dovette confessare, in seguito, che era stato il confronto verbale più difficile della sua vita.

Il fatto strano era che l‟ammiraglio aveva usato solo parole positive, di stima e di considerazione nei confronti suoi e del fratello, nonostante questo, avrebbe dovuto far portare in lavanderia la divisa: la sudata che aveva fatto era molto umana, ma l‟alone sotto le ascelle e il profumo, non si addicevano ad un ufficiale superiore.

L‟ammiraglio Fasann restò a lungo seduto alla scrivania pensando al compito che aveva affidato al figlio Arnaldo, alla sua giovane età e a quanto era riposto su quelle giovani spalle.

Per l‟ennesima volta riconsiderò le caratteristiche del comandante della nave su cui si sarebbe imbarcato Arnaldo. Romano Pizuto era l‟inconsapevole artefice, almeno per ora, di un piano complicato e difficile ma vitale per il destino dell‟Italia.

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2. 24 ottobre 1942

Sembrava quasi morta, inanimata com‟era, lì nel bacino di carenaggio. Eppure, con i suoi 107 metri di lunghezza era pur sempre uno spettacolo, difficile da vedere e da comprendere. Le due eliche bronzee, ad alcuni metri dal fondo asciutto, davano una strana sensazione di forza, ma anche di obbligata impotenza.

Non era una nave particolarmente bella o potente, non era la corazzata Roma o la Littorio, non era l‟incrociatore Zara o il Gorizia, era un Avviso del 1931, Classe Naviganti, dal 1938 classificato cacciatorpediniere. In quella grigia mattina di ottobre emanava un‟energia cui il nuovo comandante, il capitano di corvetta Romano Pizuto, non riusciva a sottrarsi.

Aveva già visto altre navi in bacino di carenaggio, camminando sul penultimo gradone di cemento del bacino. Una vista particolare, l‟ammirare la carena di una nave: la parte vulnerabile ai siluri e alle mine. Questa considerazione però, non poteva valere per il comandante, che di una nave deve conoscere ogni parte e i rischi cui può essere esposta.

Pur restando e vivendo al suo posto di comando, dieci metri sopra la linea di galleggiamento, il comandante deve conoscere e considerare tutte le implicazioni e le conseguenze di una sua decisione, prima di dare l‟ordine.

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Questa volta, però, anche per Pizuto era diverso. Era la sua nuova nave, il cacciatorpediniere Sebastiano Caboto.

“Salve comandante.”

La voce, ferma e sicura, proveniva dalla plancetta di dritta del ponte di comando.

Alzati gli occhi, il comandante riconobbe il capo di 1a classe che conosceva bene, Gennaro Locascio, che chiamava cont-cala, cioè il contabile alla cala. Quell‟uomo di lunga esperienza sovrintendeva all‟equipaggio e ai rifornimenti di bordo, esclusi il munizionamento e il carburante, responsabilità di due suoi colleghi.

Raggiunta la scaletta, Pizuto salì la rampa e si affacciò al parapetto. Stava salutando la bandiera, quando il cont-cala, pur in tenuta da lavoro, lo accolse con i classici sibili modulati del fischietto, che vengono riservati al comandante, quando sale a bordo.

“Ehilà, Cont-cala” lo salutò Pizuto, chiedendogli poi:

“Quanto tempo è passato?”

“Ehm… comandante … due mesi e ventidue giorni.”

Tra le tante cose, che a Pizuto piacevano di Locascio, la precisione e la sintesi erano quelle che preferiva. Le stesse qualità che esigeva dagli altri due “contabili” dell‟equipaggio: il cont-nafta e il cont-pro.

Navigando a 32 nodi, con 5° di sbandamento, se si deve accostare improvvisamente o farsi sotto per il

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lancio dei siluri, ogni istante può rappresentare la differenza tra la vita e la morte. Il fatto di avere tre Capi nei punti chiave della nave, in sintonia perfetta tra di loro e soprattutto con la linea di comando, era il desiderio di ogni comandante.

“Due mesi e ventidue giorni! Trentadue uomini persi, una bella corvetta in fondo al mare, che ne è diventata la silenziosa tomba, povera Perseo. Ma anche tre aerosiluranti Swordfifh in meno a silurare i convogli per l‟Africa.”

L‟accento e il tono del comandante si erano fatti più cupi, nominando i suoi 32 morti, tutti bravi marinai, di cui Pizuto ricordava ancora a memoria i nomi di battesimo.

Per interrompere questi pensieri Gennaro, sempre rivolto al presente e al futuro e mai al passato, fece sentire la sua forte, calma voce.

“Comandante, per quanto tempo dovremo stare ancora qui, con tutto quello che una brava nave non dovrebbe mai fare vedere: la chiglia, gli alberi motore, le eliche?”

“Credo pochi giorni, in fondo è parecchio tempo che quelli del Genio Navale stanno lavorando alle nuove mitragliere e al radiotelemetro.”

“Questo nuovo strumento ci consentirà di vedere anche di notte e con la nebbia, ben più in la di quanto possa fare la vedetta con la vista più acuta, in cima all‟albero.”

“Sono contento di questa nave, potrà sviluppare una velocità di ben 38 nodi, ma avremo anche molta

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stabilità e una grande autonomia che ci farà comodo per la scorta ai convogli.”

“Quando è previsto l‟arrivo degli ufficiali, degli altri capi e dell‟equipaggio?” Chiese Pizuto.

“Ci siamo quasi tutti ormai, i pochi che mancano arriveranno tra oggi e domani.”

“Andiamo a prua ora, diamo un‟occhiata insieme a cosa c‟è ancora da fare.” Disse Pizuto, avviandosi sul grigliato d‟acciaio verso prua.

Il ponte di coperta aveva l‟aspetto di un campo di battaglia: gomene, cime, cassette per gli attrezzi, bidoni di vernice, cavi elettrici, manichette antincendio, meccanismi di alzo e brandeggio smontati, a fianco dei pezzi d‟artiglieria. Tutta una serie di strumenti e di attrezzi dominavano, con il loro disordine, ogni angolo del ponte non occupato dalle sovrastrutture.

Qua e là, gli ufficiali in divisa bianca e berretto saltavano all‟occhio, tra i sottufficiali e i marinai che avrebbero fatto rivivere, di lì a poco, le oltre 2000 tonnellate di ferro e acciaio, ora inanimate.

“A tutti! Attenti!”

L‟ordine del cont-cala fece scattare gli uomini sull‟ attenti, ma dopo un rapido e sorridente:

“Comodi, comodi.” Del comandante, ecco tutti fargli ressa intorno.

Molti uomini dell‟equipaggio erano già imbarcati sulla corvetta Perseo, altri erano nuovi, ma la fama di Pizuto lo aveva preceduto.

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Comandante risoluto e giusto, ma che prendeva le distanze dal regime. In effetti, neanche uno si era azzardato, anche solo ad accennare il saluto romano.

Raggiunse il pezzo d‟artiglieria di prua e proseguì fino agli argani delle ancore e oltre, fino a sporgersi dall‟estrema prua per guardare di sotto, dove un‟ora prima aveva ammirato dal fondo del bacino l‟affilata linea della prua di tipo oceanico.

L‟arrivo di una camionetta lungo la strada sul bordo del bacino di carenaggio, interruppe i discorsi, le domande e la gioia che i marinai provavano a ritrovarsi insieme al loro comandante.

“Locascio, salgo nella mia cabina, credo che siano arrivati alcuni degli ufficiali. Li accolga a bordo, li faccia sistemare e poi me li mandi a rapporto.”

Con passo svelto salì le scalette che portavano in plancia, passò nel quadrato e poi nella sua cabina. Il cont-cala aveva già provveduto a far salire le sacche del comandante e ora la cabina aveva qualcosa di più umano rispetto al mattino quando, entrandovi, aveva trovato solo mobilio in ferro e pareti nude.

Adesso il vecchio sestante era appeso vicino all‟unico oblò e, sullo scrittoio, le fotografie della moglie Elena e quella del fratello Umberto, tenente colonnello della Regia Aeronautica, erano lì a ricordargli le due persone più care che aveva.

Si soffermò sul grosso faldone di documentazione che aveva avuto dal comandante dell‟Arsenale. In quelle pagine, ben cinque centimetri d‟altezza, tutto quello che riguardava la nave era spiegato

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tecnicamente e sarebbe stata per lui una lettura obbligata, anche se non particolarmente eccitante.

I primi quattro fogli riportavano le caratteristiche della classe di cacciatorpediniere, a cui apparteneva il Sebastiano Caboto e di quell‟unità in particolare, ancora in allestimento.

Comando dell’Arsenale di Genova

CLASSE NAVIGATORI Esploratori – Cacciatorpediniere

La classe Navigatori è costituita di tredici esploratori. Le prime dodici unità sono state impostate nel 1926. Il Sebastiano Caboto, impostato il 1-9-1941 era la prima nave di una seconda serie di caccia. Tale serie, però, è stata cancellata, il 18 gennaio 1942 XXI E.F. La costruzione di tutte le 13 unità è stata effettuata presso i cantieri:

del Quarnaro (Fiume)

del Tirreno (Riva Trigoso)

Ansaldo (Genova Sestri)

Navali Riuniti (Ancona)

Odero (Genova Sestri)

Grandi Navi (Genova Sestri)

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Nel 1930-31 tutte le unità sono state sottoposte a un primo ciclo di grandi lavori di ristrutturazione.

Dal 5-9-1938 tutte le unità sono state riclassificate come cacciatorpediniere.

Negli anni 1939-40, undici unità, tranne il Nicoloso da Recco e l‟Antonio l‟Usodimare, sono state allargate di circa un metro e dotate di prua di tipo oceanico.

Elenco delle unità impostate e varate

ALVISE DA MOSTO affondato nel 1941

LUCA TARIGO affondato nel 1941

GIOVANNI DA

VERRAZZANO affondato nel 1942

ANTONIO USODIMARE affondato nel 1942

EMANUELE PESSAGNO affondato nel 1942

ANTONIO PIGAFETTA in servizio

ANTONIO DA NOLI in servizio

LANZEROTTO MALONCELLO in servizio

UGOLINO VIVALDI in servizio

NICOLO‟ ZENO in servizio

LEONE PANCALDO in servizio

NICOLOSO DA RECCO in servizio

SEBASTIANO CABOTO in allestimento

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Cacciatorpediniere

SEBASTIANO CABOTO

CARATTERISTICHE TECNICHE DEL PROGETTO

DISLOCAMENTO

- Standard 1.900 Ton.

- Normale 2.425 Ton.

- Pieno carico 2.600 Ton. circa

- Sovraccarico 2.650 Ton. circa

DIMENSIONI

- Lunghezza f.t. 107,28 mt.

- Larghezza 10,20 mt.

- Immersione media 3,63 mt.

APPARATO MOTORE

- 4 Caldaie a tubi d‟acqua. Surriscaldatore Odero-Yarrow

- 2 Gruppi turboriduttori Parsons, Belluzzo e Tosi

- Potenza 55.000 HP su 2 assi

- Velocità 38 nodi

- Combustibile: nafta

Carico normale 450 Ton.

Pieno carico 580 Ton.

Sovraccarico 630 Ton.

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- Autonomia: 3.800 miglia - velocità 18 nodi

800 miglia - velocità 36 nodi

ARMAMENTO

- 6 pezzi binati da 120/50

- 2 pezzi da 40/39 - antiaerea

- 4 pezzi da 13,2 - antiaerea

- 6 lanciasiluri da 533 mm.

- 54 mine

- 50 bombe di profondità

EQUIPAGGIO

- 9 ufficiali

- 164 tra sottufficiali, graduati, comuni e marinai.

R.N. S. Caboto - Ottobre 1942 XXI EF

Uno di quei nove sono proprio io, pensò Pizuto e si distese sul letto, lasciando vagare i pensieri fino a formulare quello di sempre: finalmente su una nave e tra poco in mare. Quanti anni erano che navigava? Dodici anni! L‟Accademia, poi aspirante, poi una dopo l‟altra quattro navi diverse, fino ad avere il comando della Perseo, affondata dal nemico.

Ormai Pizuto si era assuefatto alle strette, spoglie, essenziali cabine delle navi da guerra, con i tubi di metallo verniciato, l‟oblò fermato dalle viti a galletto, gli armadietti di metallo, il piccolo tavolino, le due sedie, la cassaforte e la targa d‟ottone con il nome della nave, oltre ai tappi rossi trattenuti da una

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catenella che chiudevano i tubi portavoce, con cui poteva comunicare con i punti nevralgici della nave. Proprio da quello collegato alla plancia, fu interrotto il silenzio.

“Plancia a comandante. Il primo ufficiale e i tre guardiamarina sono nel quadrato ufficiali.”

“Grazie Locascio, li raggiungo subito.”

Entrando nel quadrato, Pizuto si trovò davanti i quattro ufficiali, li osservò per un po‟, fissando alla fine lo sguardo su Greco.

Era il tenente di vascello Rosolino Greco, un viso aperto color mattone, cotto dal sole e dal mare, doveva avere trent‟anni e forse già a tre anni pescava con il padre intorno ai faraglioni d‟Acitrezza.

Con un saluto impeccabile Greco si presentò e strinse la mano che il comandante gli porgeva. Il suo precedente imbarco era stato, come ufficiale in plancia, sulla corazzata Roma: si sarebbero intesi bene.

“Tenente Greco, benvenuto a bordo, ho la massima stima di chi è cresciuto sul mare e, dopo la gavetta, arriva a sedersi in plancia.”

“Grazie, comandante, non la deluderò.”

Uno dei guardiamarina preferì attenersi alle regole vigenti e con uno sbattere di tacchi, salutò a braccio teso. Si accorse subito della lieve ma inequivocabile increspatura, comparsa sulle labbra del comandante.

“Comandi! Guardiamarina Fasann, agli ordini.” Si presentò.

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“Senza dubbio voi conoscete mio padre, l‟ammiraglio Fasann, addetto militare a Londra dal 1936 al ‟40, ma io, le ossa me le sono fatte su un gozzo veneziano che…..”

“Guardiamarina!” La voce di Pizuto aveva perso tutta l‟affabilità di poco prima.

“Primo, non m‟interessa nulla della polemica del voi e del lei, sulla mia nave ci si darà sempre del lei. Secondo, non tollero il saluto romano, siamo marinai e abbiamo giurato fedeltà al Re e alla Patria, non alla politica e a tutte quelle belle invenzioni del Min.Cul.Pop. Sono stato Chiaro?”

Pizuto in segno di spregio nei confronti del regime fascista, aveva usato l‟acronimo utilizzato dal popolino per definire il Ministero della Cultura Popolare.

“Signorsì, signor comandante, non succederà più.”

La voce era ferma e la risposta pronta, ma negli occhi era passata come un‟ombra, difficile da definire, anche per chi l‟avesse notata.

Si poteva vedere la cura che Fasann riservava a sé stesso e alle sue cose, la divisa e il berretto impeccabili, le mani curate, più da letterato che da marinaio. Tutti particolari che indicavano, all‟occhio esperto di Pizuto, la provenienza da una famiglia se non ricca, almeno benestante.

Dopo l‟infelice approccio di Fasann, gli altri due guardiamarina, Umberto Caruso addetto al tiro e Salvatore Lorusso a disposizione del primo ufficiale, si uniformarono a quanto il comandante aveva così

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chiaramente ed esplicitamente spiegato, presentandosi normalmente, da ufficiali di marina.

“Se non vado errato questo è il vostro primo imbarco dopo l‟Accademia,” riprese Pizuto rivolgendosi ad entrambi, “ne avrete di cose da valutare e da imparare. Non solo dagli ufficiali, ma soprattutto dai capi, dai graduati e dai comuni. Ricordatelo sempre!”

“Adesso andate a fare un giro della nave, prendete contatto con l‟acciaio e il ferro che saranno la vostra nuova casa.” Pizuto li congedò quindi con un gesto.

Nel corso di quella giornata arrivarono quasi tutti gli altri membri dell‟equipaggio. Erano stati sistemati nelle vicine caserme, nelle locande e negli alberghi, a seconda del grado, in attesa che, terminati i lavori, si procedesse all‟allagamento del bacino e all‟ormeggio del Caboto al molo designato.

Pizuto, come d‟abitudine, dopo le 18 iniziò il giro della nave, da prua fino ai lanciatori delle bombe di profondità situati a poppa. Passò, poi, il comando a Greco e lasciò la nave, incamminandosi lunghi i moli e fermandosi di tanto in tanto ad osservare le navi alla fonda. Ogni nave gli ricordava qualcuno dei molti amici che aveva tra gli equipaggi e dedicò alcuni minuti ai ricordi che si affacciavano alla memoria.

Intanto, all‟interno del Caboto, alla luce delle fotoelettriche, il lavoro continuava. Era indispensabile ridurre al minimo i periodi di sosta in porto, specie per quelle navi di scorta, che lungi

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dall‟essere un pericolo per la flotta inglese dell‟ammiraglio Cunningham, costituivano l‟ultimo baluardo contro i sommergibili e gli aerosiluranti alleati per i nostri convogli destinati in Africa.

Alle sette di sera, a causa delle severe norme che riguardavano l‟oscuramento, era buio pesto e le navi alla fonda presentavano alla luce della luna, quasi piena, uno spettacolo grandioso di lamiere illuminate, solcate da nere ferite: le ombre e il buio delle incastellature dei ponti.

C‟era vento e un bel po‟ di mare; anche nel porto c‟era maretta e, a perdita d‟occhio, una foresta d‟alberi d‟acciaio, antenne, coffe e stralli seguiva il moto delle onde, piegandosi di pochi gradi pigramente da una parte o dall‟altra, senza nessuna sincronia.

Era una vista affascinante e Pizuto si deliziava a guardare, ascoltando i suoni metallici del sartiame attraversato dal forte vento, i sibili e gli stridii del ferro delle catene che entravano in tensione, per poi rilasciarsi con sinistri cigolii.

Alle 19 e trenta, salutato dalla guardia, fece il suo ingresso nel palazzetto della mensa ufficiali. Quella sera, il 22 ottobre del 1942, non c‟era la classica atmosfera sfavillante e vivace di prima della guerra. Solo uomini di mare: allegri sì, vogliosi di quei rari momenti di tranquillità, ma anche consci che di lì a poco, l‟allarme antiaereo o un ordine di Supermarina, come ormai veniva comunemente

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chiamato il Comando Supremo della Regia Marina Militare Italiana, li avrebbe rivisti in azione.

Alcuni tavoli erano occupati, ma Pizuto cercava delle vecchie conoscenze, aveva visto le loro navi ormeggiate nel porto. Salvo nuovi tributi di vite, che il mare non si stancava mai di esigere anche durante le operazioni definite “più tranquille”, era quasi certo di trovarli.

Eccoli, infatti, tutti e tre i suoi amici. Pizuto allungò il passo per raggiungerli, erano proprio loro: i capitani di corvetta Umberto Salvatori, Enrico Scarciotti e Vittorio Carnielli, comandanti di cacciatorpediniere delle classi Navigatori o Soldati, quasi sempre in azione con le grosse unità della flotta.

Le calorose strette di mano, i saluti e le tante domande, appena Pizuto si fu seduto, si condensarono subito su un solo argomento: l‟affondamento della Perseo.

“Se qualcuno si decidesse a varare in Italia qualche portaerei, avremmo maggiore copertura aerea e qualche speranza in più.” Esordì Enrico Scarciotti, continuando:

“E‟ vero che qui a Genova c‟è in fase d‟approntamento la nostra prima portaerei, l‟Aquila. Ma quando sarà pronta?”

Gli fece subito eco Carnielli.

“Anche se fosse già in servizio, non basterebbe averne una sola, succederebbe come per le corazzate, spesso in rada o con rare uscite massicce di tutte le

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grandi unità. La terrebbero nell‟ovatta per paura che venga affondata.”

“E poi, diciamolo una volta per tutte, la soluzione avrebbe potuto essere lo sviluppo di un valido aerosilurante e di una squadra di almeno tre o quattro portaerei, ma a partire dal 1937, se non prima.”

Enrico riuscì a frenare tali considerazioni che criticavano, alla fin fine, l‟operato del comando supremo, riportando il discorso sulla corvetta Perseo e lasciò che Pizuto potesse raccontare loro cosa era successo.

Pizuto li accontentò subito:

“Era il 12 agosto, come mi ricordava stamattina il mio cont-cala Locascio. Il convoglio per Tripoli viaggiava tranquillo a nove nodi e avevamo al traverso di sinistra l‟isola di Pantelleria, quando un trasporto truppe da dodicimila tonnellate segnalò un‟avaria a uno dei due alberi motore, stavano facendo non più di cinque nodi. Il comandante la scorta, lasciò la Perseo a protezione del trasporto e proseguì con il resto delle navi.”

“Saranno state le sedici e trenta e Locascio avvistò i tre Fairey Swordfish. Eravamo affiancati al trasporto, ma riuscimmo a rivolgere l‟antiaerea prima sulla coppia che arrivò da dritta e poi sull‟altra che scese a silurarci da sinistra. Centrammo il primo, ma gli altri tre ebbero la possibilità di sganciare i siluri. La seconda coppia fu abbattuta dal tenente Arduino in persona e precipitò in mare, ma i due siluri ci colpirono in pieno.”

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“Macabro bilancio: 32 morti, 30 marinai 1 sottufficiale e un ufficiale. Uno squarcio a prua e uno a mezza nave, a dritta, con uno sbandamento di 15°. Detti l‟ordine di abbandonare la nave e fummo raccolti da due dei nostri motoscafi della guardia costiera, partiti da Mazara del Vallo, dove avevano ricevuto un SOS che deve aver lanciato l‟ultimo pilota inglese.”

“E la nave trasporto?” Chiese Scarciotti.

“Fu colpita da una sola bomba e seppi poi che la saletta radio era stata devastata dal mitragliamento. Nessuna perdita a bordo. Credetemi, questo fu per me motivo di enorme sollievo.”

Vittorio propose un brindisi alla memoria di una nave, ora in fondo al mare.

“A quelli che ci hanno lasciato e alla Perseo, una nave tra le migliori, con un comandante d‟eccezione.”

“Ma smettila,” rispose Pizuto “speriamo piuttosto che continuino a costruirne di altrettanto buone. Ora, però, raccontatemi di voi e delle vostre azioni di guerra.”

I racconti iniziarono e accompagnarono la cena dei quattro amici. Pur con il razionamento, il pasto fu ottimo, soprattutto per la compagnia e per l‟intrecciarsi di ricordi vicini e comuni, e di quelli, ormai lontani, dell‟Accademia: quelli che cementano i rapporti tra chi l‟ha frequentata.

Umberto Salvatori parlò dei suoi uomini, annunciando a Pizuto che uno dei suoi ufficiali, durante la battaglia del 13 giugno, aveva sostituito

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così egregiamente l‟ufficiale di macchina, gravemente ferito, da essere citato sul Bollettino di Guerra e da ricevere la promozione a capitano del Genio Navale e un nuovo incarico. Pizuto l‟avrebbe avuto a bordo sul Caboto, si trattava di Benito Carammani, napoletano “verace”, intelligente e di un‟allegria contagiosa.

Quando uscirono dalla mensa ufficiali, in cielo brillava la Via Lattea, una miriade di stelle nel buio quasi completo di una città con l‟oscuramento. Più con la fantasia che con la vista, i quattro amici avrebbero giurato di vedere la Lanterna, i vicoli e le strette strade di Genova.

Certamente li aiutava l‟inconfondibile odore salmastro dell‟acqua e il recente ricordo di qualche conoscenza femminile, che avevano fatto in città. Camminando, erano ormai giunti ai moli e si stavano salutando, quando risuonò il lugubre suono delle sirene dell‟allarme antiaereo.

Subito dopo, quattro accecanti bagliori illuminarono il cielo di Genova: erano i bengala illuminanti, lanciati dell‟avanguardia della formazione in arrivo e destinati a segnalare alle successive ondate di aerei il perimetro da bombardare.

Centrarono esattamente Piazza Caricamento.

Pur correndo verso le navi, poterono vedere all‟opera un centinaio di bombardieri che riuscirono con gli scoppi e gli incendi provocati dalle bombe a illuminare quasi a giorno parecchi quartieri della città.

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In Egitto, l‟8a Armata inglese stava preparandosi a sferrare l‟offensiva e a meno di 24 ore dall‟ora “X”, il comando bombardieri inglese era stato chiamato a supportare l‟azione, colpendo il porto di Genova, congestionato da navi trasporto in attesa di essere caricate e partire per la Libia.

Trasporti truppe, petroliere e mercantili destinati a trasferire oltre mare i rifornimenti in uomini e mezzi attesi da tempo e ormai indispensabili per le forze italiane e tedesche operanti nel nord Africa.

Le bombe scendevano a ventaglio sui quartieri vicino al porto, sulle infrastrutture del porto stesso e sulle navi alla fonda.

Genova ancora una volta sotto le bombe! Pensò Pizuto.

Di colpo il bombardamento del 9 febbraio dell‟anno precedente, seppur impressionante, divenne un ricordo sbiadito davanti a tanto accanimento.

Erano quasi un centinaio di quadrimotori Lancaster e fecero un lavoro di precisione: le bombe devastarono le darsene, spazzarono i capannoni e crearono tali ondate da sballottare i piroscafi e i trasporti ancora a galla come fuscelli in un torrente in piena.

Sulla città, gli spezzoni incendiari cadevano come grandine e non erano pochi i coraggiosi che ritenevano minore il rischio di restare sui tetti, per gettare subito in strada gli spezzoni, piuttosto che restare in cantina, con tutta la casa che pian piano bruciava sopra le loro teste.

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Il porto mostrava i danni ricevuti con alte colonne di fumo nero, capannoni sventrati e incendi che continuavano a essere alimentati dai materiali più infiammabili.

Il senso di impotenza del comandante e del cont-cala, che avevano raggiunto la plancia del Caboto nonostante la nave fosse ancora in bacino, era enorme. Non avrebbero potuto fare niente, forse solo sparare con le Beretta calibro nove d‟ordinanza o con quelle poche armi di bordo già attrezzate e funzionanti, ma avrebbero attirato l‟attenzione proprio su quel bacino di carenaggio.

Finalmente, quando gli ultimi bombardieri virarono facendo rotta verso Nord Ovest per riunirsi, forse, a quelli che avevano visitato Torino, la tensione si dileguò.

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3. 23-24 ottobre 1942

Venne l‟alba, grigia, livida, con una larga e spessa cappa di fumo nero dovuta agli incendi non ancora del tutto spenti e che segnalavano la tragedia appena consumata. Pizuto, dopo qualche ora di sonno e una frugale colazione, aveva comandato a Greco di recarsi all‟Arsenale per informarsi sui tempi di completamento dei lavori previsti per il Caboto.

Nella notte, dopo la fine del bombardamento, gli ultimi uomini dell‟equipaggio erano arrivati alla spicciolata e l‟organico era al completo.

L‟atmosfera d‟incertezza che regnava tra l‟equipaggio, non ancora amalgamato, indusse Pizuto a far schierare sul molo ufficiali e marinai, non per fare il solito discorso di circostanza, quanto per scuotere gli animi e dare qualche buona ragione per darsi da fare con ancora più impegno, per il definitivo completamento dei lavori in corso a bordo.

Ciò che aveva visto e vissuto nella notte, gli aveva messo l‟argento vivo addosso e voleva prendere il mare il più presto possibile.

Il guardiamarina Lorusso aveva già fatto schierare l‟equipaggio sul molo e Greco diede l‟attenti presentando la forza al comandante:

“Equipaggio al completo e schierato: 171 uomini più uno, presenti.”

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“Sono Romano Pizuto, il comandante del Caboto.” Iniziò Pizuto che, dopo aver dato l‟ordine del “riposo”, continuò:

“Prenderemo il mare tra poco, per evitare che anche al Caboto succeda ciò che abbiamo visto questa notte. Più presto saremo un tutt‟uno con la nave, più presto potremo dare il meglio di noi stessi, com‟è nella nostra tradizione.”

Si incamminò lungo i ranghi, proseguendo:

“Poche sono le cose che veramente mi interessano. Per prima cosa: la disciplina. Se l‟equipaggio è di 173 uomini è perché ognuno di noi ha un compito preciso. Ricordatevi: una catena, per quanto robusta, lo è soltanto quanto il suo anello più debole.”

Lasciò scorrere lo sguardo sui marinai, alcuni già veterani, altri giovanissimi, visi duri, ma anche volti timorosi, quasi impauriti, forse al primo imbarco, forse reduci dall‟affondamento di un‟altra unità.

“Precisione, tempestività di esecuzione, obbedienza ai superiori: non è un imbarco con “diritto di mugugno” e per il quale, un tempo, l‟equipaggio aveva la possibilità di lamentarsi. Qui, no! Noi combattiamo per il Re e per l‟Italia. Per me vale solo questo giuramento. Viva il Re!”

“Viva il Re!” Gli fece eco l‟equipaggio.

“Tutti gli ufficiali e i sottufficiali a rapporto nel quadrato, tra dieci minuti. Greco, faccia rompere le righe.”

Quell‟accenno al contratto con mugugno aveva stemperato il tono formale e severo di quanto Pizuto aveva detto. Era piaciuto, in particolar modo, a chi

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proveniva dalla marina mercantile, specie a quelli che non conoscevano il comandante.

Dieci minuti dopo, nel quadrato, erano tutti presenti e Pizuto, con il suo stile molto personale, salutò con una pacca sulle spalle il tenente di vascello Vittorio Arduino, l‟ufficiale addetto al tiro.

“Arduino, ancora si parla dei tre Swordfish che hai tirato giù, prima che affondassimo con la Perseo. Ti meriti ancora un bravo!”

Salutò con un cenno Greco, Fasann e Locascio e si sedette.

“Signori accomodatevi, farò le presentazioni. Avrete poi modo di conoscervi meglio mentre saremo in addestramento.”

“Ecco il primo ufficiale, il tenente di vascello Rosolino Greco di Catania, che si è guadagnato l‟ultima sbarretta d‟oro sulla più bella corazzata che abbiamo: la Roma.”

“Alla mia destra invece,” disse rivolgendosi dall‟altra parte, “il sottotenente di vascello Italo Bacigalupo di Genova, ufficiale di rotta. E‟ al suo terzo incarico: prima motosiluranti, poi su un altro cacciatorpediniere e ora con noi. Mi auguro che il bombardamento di questa notte non abbia avuto ripercussioni per lei e per la sua famiglia.”

“Grazie comandante, fortunatamente la mia famiglia è già da tempo sfollata a Monterosso.” Gli rispose Bacigalupo.

“Sempre alla mia destra,” continuò Pizuto “il capitano del Genio Navale Benito Carammani di

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Napoli. Il suo regno è la sala macchine, si è recentemente distinto durante uno scontro navale su un altro caccia.”

“Poi abbiamo Vittorio Arduino, anche lui di Genova, le sue cure andranno a tenere sempre alta l‟affidabilità e la precisione del nostro tiro. Vittorio, i tuoi sono ancora a Ovada ?”

“Sì certo, comandante.” Gli rispose Arduino, con un lampo negli occhi e un largo sorriso di ringraziamento per quell‟accenno alla sua famiglia.

“L‟ultimo alla mia destra è il tenente del Genio Navale Demetrio Paternò, il vice di Carammani. Alla mia sinistra, freschi d‟Accademia, il guardiamarina Arnaldo Fasann, addetto alla radio, al radiotelemetro EC3/ter, che chiamiamo “Gufo”, all‟ecogoniometro subacqueo e alla rotta.”

“Gli altri due guardiamarina sono: Umberto Caruso, addetto all‟armamento e Salvatore Lorusso a disposizione del primo ufficiale. E per finire ecco i nostri tre Capi: Gennaro Locascio, cont-cala, con me sulla Perseo, Mario Macaluso, cont-nafta e Francesco Cortese, cont-pro.”

Pizuto, guardando verso Greco, gli chiese cosa aveva appurato all‟Arsenale. Greco, con prontezza rispose.

“Oggi completeranno il controllo dei cardini del timone e, proprio a causa dell‟incursione di questa notte e del fatto che siamo proprio un bel bersaglio fisso, prevedono di lasciarci uscire dal bacino domattina.”

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Greco si dilungò su altri particolari tecnici e sulle varie prove che sarebbero state effettuate. Terminato il rapporto, il comandante riprese la parola.

“Mancano alcuni controlli sui pezzi principali e sulla contraerea ma, ora che abbiamo Arduino a bordo, sono più tranquillo. Ho ordini di riprendere il mare operativamente entro un mese da oggi, non è molto, ma voglio arrivarci con una nave di uomini affiatati, che siano un tutt‟uno con l‟acciaio che ci circonda: saremo noi i padroni e signori di questa nave e, ricordate, mai il contrario. In libertà.”

La giornata proseguì tranquilla, senza fatti nuovi e, come da programma, i lavori al timone vennero completati. Anche Pizuto avrebbe giudicato quella una giornata normale se non ci fosse stato il bollettino N° 880, trasmesso dalle radio alle 13 in punto, che minimizzava l‟incursione della sera prima, che però era stata senza precedenti per l‟Italia.

Chi era a Genova aveva visto, ma gli altri italiani come avrebbero potuto immaginare il dramma vissuto dalla città?

Pizuto sentiva che non era finita: era una sensazione strana, come quella che lo aveva pervaso incontrando per la prima volta il nuovo guardiamarina Fasann.

A tarda sera, le sirene dell‟allarme antiaereo risuonarono ancora. Questa volta si trattava di bombardieri inglesi Halifax e Stirling che, sulla scia

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delle bombe illuminanti lanciate sui bersagli, sganciarono sul centro della città. Quando le prime bombe esplosero attorno a Piazza De Ferrari, un migliaio di persone cercò rifugio in una delle due gallerie delle Grazie, sul lato verso Porta Sovrana.

La folla impaurita, le urla, il buio, il terrore che induce a correre comunque, gli scoppi, il crollo delle case vicine, fecero più vittime di quanto i bombardieri inglesi avrebbero potuto fare colpendo ancora più intensamente case e quartieri.

I morti e i pochi rimasti in vita furono estratti dalle macerie il giorno dopo, ma i genovesi, con un disperato altruismo, cercavano di aiutare dove e come potevano quelli che avevano bisogno.

Il bisogno estremo di salvezza di chi, sepolto nelle cantine con tutto il palazzo crollato, invocava invano aiuto dalle sottili fessure per il ricambio d‟aria, che davano sui marciapiedi.

C‟era chi prometteva cifre da capogiro, senza capire che neanche con decine di uomini e ore a disposizione, sarebbe stato possibile aprire un varco per liberarli dalle macerie, considerando il rischio di ulteriori crolli e le possibili esplosioni di gas.

Purtroppo accadde che qualcuno accettò, da chi era rimasto sepolto, l‟oro, l‟argento e i contanti portati al sicuro nel rifugio in cantina, senza però poter fare molto di più che continuare a parlare con i sepolti vivi.

Il bollettino radio, dell‟una pomeridiana del 24 ottobre diede un freddo e arido resoconto:

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“Stanotte l’incursione nemica su Genova non ha fatto vittime.

Un eccessivo, incontrollabile e incomprensibile affollamento

davanti all’ingresso di un rifugio ha causato deplorevoli decessi.”

A Genova si diceva che le vittime fossero state 3.000, in effetti si trattò di 354 vittime civili.

Alle 7 e trenta, dopo un ultimo sopralluogo degli ingegneri navali dell‟Arsenale, furono aperte le valvole di carico dell‟acqua e lentamente gli invasi di legno che sorreggevano la chiglia del Caboto vennero coperti dall‟acqua, scomparvero alla vista le due eliche tripala, fino al momento in cui la linea di galleggiamento riacquistò la sua funzione di separare ciò che deve stare sotto da ciò che deve stare sopra il livello dell‟acqua.

Venne fatta ruotare la grande paratia d‟acciaio che aveva chiuso fino a quel momento il bacino e due rimorchiatori manovrarono fino a ormeggiare la nave al molo E, dove fu assicurata alle grosse bitte infisse nel cemento.

Il più era fatto, restava ora da controllare ogni più piccolo apparato o meccanismo e verificare che tutte le funzioni della nave fossero assicurate alla perfezione: questo sarebbe stato compito dell‟equipaggio.

Furono gli ufficiali e i capi a dare agli uomini le opportune istruzioni, occupandosi personalmente degli organi più delicati o preferiti.

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Arduino riunì i capi-pezzo dei tre complessi binati da 120, i cannonieri e i serventi, per conoscerli e spiegare quello che intendeva con precisione e tempestività di esecuzione degli ordini. Lasciò al suo vice, il guardiamarina Caruso e al cont-pro Cortese, l‟esame e i controlli da effettuare sui servomeccanismi e sugli apparati di sicurezza delle santabarbare.

Riservò a sé i sette pezzi da 20 della contraerea, provando e riprovando per ciascuno: l‟alzo, il brandeggio, l‟armamento e l‟afflusso del munizionamento.

Sotto coperta, il cont-cala Locascio era alle prese con la sistemazione dei comuni e dei marinai, cosa che richiedeva parecchia cura e attenzione. La sistemazione andava fatta e subito, lui lo sapeva bene. Oltre che occuparsi d'ormeggi, manovre, timone, cime e catene e saper tracciare e seguire una rotta, da tempo Pizuto lo aveva incaricato della sistemazione a bordo e della supervisione dell‟equipaggio.

Pizuto voleva avere un parere in più, ma anche impiegare al meglio le qualità personali e di conoscitore d'uomini che Locascio aveva, di natura, molto sviluppate.

In mare ogni discorso, reazione o atteggiamento degli uomini poteva esplodere in modo improvviso, in drammatici episodi da controllare severamente.

Le cause?

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I fattori principali erano la ristrettezza degli alloggiamenti, la promiscuità obbligata, la stanchezza per i turni di guardia, gli allarmi, i prolungati posti di combattimento senza pasti caldi, i combattimenti e purtroppo la vista di compagni morti e feriti, a cui si doveva aggiungere la continua incertezza del futuro.

La lunga esperienza del cont-cala con gli equipaggi aveva già dato i suoi frutti, facendogli individuare i tranquilli e quei pochi che sarebbe stato meglio che lo fossero. Locascio non aveva niente nei confronti di quei nomi, di quelle città di origine, ma il fatto di avere a bordo alcuni aderenti al partito e altri che erano stati in galera, magari per piccole cose, non lo faceva stare sereno.

Il suo sistema era non badare affatto che i più irrequieti fossero vicini di amaca, quanto lo studiare che i turni di guardia e riposo, in pratica, non consentissero loro di fraternizzare facilmente.

Forse la prudenza che usava era troppa, ma da Pizuto aveva imparato che molti guai si possono evitare, anche solo prevedendoli e che guasti o eventi strani difficilmente capitano senza una ragione. C‟era del vero, quando i giornali riferivano di atti di sabotaggio, di guerra non sentita, d'incuria e inefficienza. Su una nave da guerra, questo era impensabile per Locascio, figuriamoci poi su quella di Pizuto.

Carammani aveva il suo da fare tra le caldaie e le altre attrezzature della sala macchine; aveva un vice

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in gamba, Demetrio Paternò, che conosceva a memoria ogni segreto di quel tipo di caccia.

Pizuto volle essere presente, insieme a Bacigalupo e Fasann, ai controlli delle apparecchiature radio, del radiotelemetro e del rilevatore subacqueo. Una cosa che lo stupì, fu la competenza di Fasann. Lo vide sintonizzarsi con estrema facilità sulle più lontane stazioni radio e perfino su radio Londra e all‟opera con il rilevatore subacqueo, con cui individuò correttamente quote e distanze degli ostacoli sommersi, interpretando correttamente i segnali di ritorno del radiotelemetro.

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4. Ottobre - Novembre 1942

Da oltre tre ore a Milano era risuonata la sirena del cessato allarme aereo ed Elvira, con la divisa sporca di sangue, sudore e polvere di calcinacci stava raggiungendo l‟ufficio del marito in Corso Venezia, camminando come in trance.

Mentre percorreva i marciapiedi, si rallegrava che avrebbe trovato Renato in studio. Aveva bisogno di confidarsi con lui e sfogarsi per tutto l‟orrore che si sentiva dentro e che la obbligavano a rivivere i momenti in cui, poche ore prima, era arrivata sul luogo del bombardamento.

Renato sarebbe riuscito a rasserenarla. Era certa che il suo abbraccio, forte e calmo, le avrebbe ridato il sorriso, come quando le aveva chiesto se voleva sposarlo. Ricordava bene la prima volta che aveva visto l‟appartamento in Corso di Porta Romana, quello dove adesso abitavano. La cara signora Rina Nibbio che l‟aveva affittato loro, ritornando a vivere a Broni con i genitori, era proprio una brava persona e lei era felice che poco a poco fossero diventate amiche, scrivendosi ogni tanto lettere piene di affettuosa stima e di condivisione di tutte le brutture che la guerra imponeva loro.

Aveva bisogno dell‟incrollabile fiducia di Renato nel loro sereno futuro, nel fatto che mai e poi mai avrebbero lo richiamato alle armi; “sono troppo vecchio” diceva ed aveva la capacità di calmarla e rasserenarla quando gli raccontava le orribili cose

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che vedeva intervenendo come capo squadra della croce Rossa, dopo un bombardamento.

Alcune ore prima, verso le due del pomeriggio, era a Niguarda nella sede di Milano della CRI, nel suo piccolo ufficio, quando lugubri si udirono le sirene dell‟allarme aereo. Preso il tascapane con la maschera antigas e il pronto soccorso d‟emergenza, era rimasta a fianco del telefono, pronta a ricevere le informazioni sui quartieri colpiti.

“Pronto, tenente della Croce Rossa Elvira Vanti, avanti con le informazioni. Dove?”

“Qui comando avvistamento regionale. Si tratta di una formazione che ha virato sopra Serravalle Scrivia circa dieci minuti fa. Probabilmente hanno bombardato Genova. Alcuni velivoli hanno continuato con rotta che li ha portati sui quartieri a sud di Milano: corso Lodi o lo smistamento ferroviario di Rogoredo. Uno dei velivoli aveva un motore in fiamme ed è caduto sulle case.”

“Ho capito. Raduno le mie tre squadre e ci dirigiamo subito in zona.”

Elvira schiacciò il segnale d‟allarme e al microfono disse:

“Allarme per le squadre 1, 12 e 13. Allarme, tutti a bordo degli automezzi.”

Detto questo, corse giù dalle scale e salì a bordo del primo automezzo. Le ambulanze uscirono a sirene spiegate dal recinto dell‟ospedale dirigendosi verso Milano sud.

Arrivati presso lo scalo ferroviario di Rogoredo ebbero davanti agli occhi gli effetti del

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bombardamento. Binari divelti, carri ferroviari in fiamme e locomotive ridotte ad ammassi di ferraglia. Più in là il vero dramma era tra le palazzine a cinque piani: quelle costruite per il personale ferroviario. Una era letteralmente esplosa.

Avvicinandosi si vedevano per terra pezzi delle colonnine dei balconi e diversi architravi delle finestre. Elvira si stava avvicinando dove c‟erano macerie alte fino a una decina di metri, quando vide qualche cosa e si fermò a guardarlo meglio. Riconobbe nella struttura metallica accartocciata un pezzo di elica d‟aeroplano.

Comprese che un bombardiere carico di bombe, probabilmente quello che le avevano detto esser stato colpito, si era schiantato sulla casa con tutto il suo carico esploso con l‟aereo.

Cercò di dividere i suoi tre gruppi in modo da effettuare una scrupolosa ricerca degli eventuali superstiti. Una delle crocerossine la raggiunse e le indicò uno stretto cunicolo, al termine del quale si vedeva una stretta fessura orizzontale, che dava aria alle cantine. Alcune mani si agitavano, le braccia che uscivano dall‟ apertura.

Flebili voci venivano da là sotto. Elvira quasi si distese per terra, per ascoltare. Tolse dal tascapane la borraccia d‟acqua e la passò a una di quelle mani.

“Grazie! Feriti, siamo feriti, alcuni morti …”

Passò attraverso la fessura, alta più di venti centimetri, alcuni pacchetti di bende, garze, disinfettante e la borraccia d‟acqua.

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“Chi comanda qui?” La voce veniva dall‟esterno del tunnel ed Elvira strisciò all‟indietro fino a ritrovare la luce del giorno.

“Tenente Vanti, agli ordini.” Rispose al comandante del Servizio Civile di Milano, che le stava davanti.

Lo conosceva di vista e aveva sentito dire che era un uomo capace, che cercava sempre di portar soccorso durante i bombardamenti più pesanti, talvolta mentre erano ancora in corso.”

“Mi dica cosa ha trovato.”

“Nelle cantine ci devono essere una dozzina di feriti, alcuni indenni e diversi morti.” Rispose Elvira.

Stava per riprendere il rapporto, quando un cupo boato provenne dalle macerie sopra il cunicolo. Si videro i blocchi di mattoni e pietre abbassarsi di un mezzo metro, mentre un denso polverone bianco si alzava.

Il comandante trattenne Elvira, urlò di fare silenzio e attese qualche minuto perché la polvere si posasse, poi strisciò dentro il cunicolo.

Ne uscì dopo un paio di minuti, con la divisa lacerata e sporca, con gli occhi rossi per la polvere, che tentava di togliersi con un fazzoletto, una volta di color blu.

“Si vedono ancora le braccia spezzate dal crollo, in un punto c‟è ancora abbastanza spazio perché si possano sentire deboli lamenti, colpi di tosse per l‟aria che penso sia ormai quasi irrespirabile e gemiti di dolore. Non possiamo fare molto.”

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“Ci vorrebbero due giorni e decine di uomini per spostare tutte le macerie, con il rischio di mettere a repentaglio la vita di chi lo dovesse fare e ci vorrebbero le macchine, le gru, gli scavatori, le benne e gli autocarri, ma non abbiamo tutto questo.”

“Purtroppo non ci resta nessuna soluzione se non quella di porre termine alle loro sofferenze.”

“Cosa intende dire?” Esclamò Elvira.

“Niente. Le ordino di rientrare a Niguarda.”

“Sì, ma lei ha detto…..”

“Ha capito! Le ordino di rientrare a Niguarda!”

“Ma…”

“Le ho già ordinato di rientrare a Niguarda!”

“Va bene.”

Elvira suonò il fischietto due volte, radunò le sue crocerossine e gli autisti e tutti risalirono sulle ambulanze. Mentre avviavano il motore, senti che il comandante stava dando degli ordini.

“Non possiamo fare altro che alleviare le sofferenze. Secondo reparto, avanti con il gas.”

Mentre le ambulanze facevano manovra per riprendere la strada verso Niguarda, con raccapriccio, vide svolgere dal retro di uno degli autocarri cassonati, alcuni tubi che furono disposti vicino all‟imboccatura dove si era sdraiata pochi minuti prima ad ascoltare i lamenti di quegli sventurati e ricordò le parole del comandante “Purtroppo non ci resta nessuna soluzione, se non quella di porre termine alle loro sofferenze”.

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Di colpo comprese l‟assurdità del compito che, quella volta, i reparti di salvataggio avrebbero avuto: saturare di gas gli ambienti sotto le macerie, in modo da soffocare chi era rimasto intrappolato e non poteva essere salvato in nessun modo.

Era una decisione difficile e dura, ma doveva essere presa. Far sì che quei deboli lamenti cessassero subito, invece di protrarsi per giorni, con le vite di quei disgraziati che lentamente si spegnevano per inedia, per la sete, per le ferite e i traumi subiti che nessuno al mondo avrebbe potuto alleviare o curare.

Nella zona del porto di Genova, riservata al naviglio militare, il cacciatorpediniere Sebastiano Caboto era stato controllato in ogni suo apparato, in modo che tutto funzionasse a dovere. Il quinto giorno, con tutto l‟equipaggio in guardia franca schierato sul ponte, risuonarono gli ordini tanto attesi.

In plancia, Locascio raccolse il cenno di Pizuto e del primo ufficiale e con voce ferma e forte ordinò:

“Molla a prua. Molla a poppa.”

“Macchine avanti adagio, timone 20° a dritta.”

Lentamente il Caboto si staccò dal molo e tra i colpi di sirena delle navi ormeggiate, sfilò davanti alle prue alla fonda, con la bandiera di combattimento che garriva sul pennone.

“Parla il comandante, stiamo uscendo in mare per la prima volta. Faremo prove di velocità, con accostate rapide. Alle ore 16 ci aspetta un traino

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bersaglio, per vedere cosa sappiamo fare con l‟armamento. Buon lavoro a tutti.”

Chiuse l‟interfono che diffondeva la voce in tutti i locali della nave e diede l‟ordine di far rotta per uscire dal porto. Appena in mare aperto, passò il comando a Greco e si diresse verso il portello della plancia per raggiungere la sua cabina. Aveva quasi chiuso il portello, quando, riaprendolo di poco, si rivolse di nuovo al primo ufficiale.

“Greco sono le 7.23. Alle 12.23, faccia battere il posto di combattimento e vediamo come se la cava l‟equipaggio. Lei stesso fingerà di aver avvistato un periscopio: decida su che rilevamento e a quale distanza.”

“Voglio vedere quanto ci vuole perché esploda la prima bomba di profondità. Gestirà lei tutta l‟azione, io resterò nella mia cabina, a più tardi.” Chiuse del tutto il portello e si diresse verso la cabina.

In plancia erano presenti tutti gli ufficiali e il cont-cala; i commenti si intrecciarono sull‟astuzia del comandante. La sua assenza avrebbe obbligato ogni ufficiale e sottufficiale a trarre le più attente considerazioni su come si era comportato l‟equipaggio.

Questa era effettivamente l‟intenzione di Pizuto: poter confrontare i rapporti che avrebbe ottenuto da ufficiali e sottufficiali con i suoi personali giudizi durante l‟esercitazione di posto di combattimento.

Avrebbe avuto un quadro completo sullo stato della nave e dell‟addestramento dell‟equipaggio, oltre che validi elementi di giudizio sulle capacità di

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valutazione degli uomini più vicino a lui, che ancora non conosceva.

Erano quasi a cento miglia da Genova, mare forza 3 in rinforzo, quando Fasann, osservando il cielo dalla plancetta di dritta, diede l‟allarme: erano le 11 in punto.

“Allarme! Tre aerei nemici, alti, a ore due. Aerosiluranti, probabilmente Bristol, distanza 7-8.000 metri. Comandante in plancia.”

Automaticamente Lorusso tirò la leva e per tutta la nave risuonò la cupa sirena cadenzata del segnale di posto di combattimento. Pizuto, dopo pochi secondi, entrò in plancia e avvertì il pericolo. Arduino era già vicino al portavoce della direzione di tiro, dando ordini secchi, precisi, quasi rassicuranti.

I tre aerei scendevano lentamente di quota e il quadro tattico era chiaro per il primo ufficiale, che stava già dando l‟ordine al timoniere di “tutto a dritta”, seguendo l‟imperativo: “siluri di prua, dagli la prua; siluri di poppa, dagli la scia”.

Per gli inglesi, l‟elemento sorpresa era sfumato, ma l‟idea di voler sganciare così da lontano e di parecchi metri troppo alti sul livello del mare era molto discutibile, in termini di efficacia d‟attacco.

Quei tre neri, mortali sigari avevano l‟aria ineluttabile, definitiva e funerea di qualcosa che sarebbe per forza successo; per far virare le 2000 tonnellate di ferro del Caboto ci sarebbe voluto tempo, tanto tempo e sudore freddo, raffrontato a

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quelle poche manciate di secondi che restavano, prima che…

In guerra non c‟è tempo per pensare troppo, i traccianti degli aerei che attaccavano quasi da prua, con il classico rumore cadenzato delle armi antiaeree di bordo, fecero capire a Pizuto che stavano reagendo al meglio, mentre si buttavano a terra e la plancia veniva spazzata dalle raffiche dei tre aerei che mandarono in frantumi diversi cristalli.

I primi due siluri avevano ormai rotte pressoché parallele a quella della nave, ma il terzo, sbucando da un‟onda un poco più alta delle altre, deviò di pochi gradi dalla direzione e avrebbe tagliato la loro rotta. Pochi secondi ancora e i primi siluri, correndo come treni lungo i fianchi della nave, la oltrepassarono, perdendosi verso il mare aperto.

Il terzo siluro mancò, forse di un metro, la prua del Caboto, ma il suo potere, quasi ipnotico, spinse i più vicini a sporgersi oltre il tientibene, per vederlo colpire la nave o lasciarla indenne.

Non c‟era da tirare nessun sospiro: i Bristol, dopo aver effettuato una larga virata, stavano ora arrivando da poppa e questa volta incontrarono il tiro dei quattro complessi antiaerei.

Erano attesi. A uno dei pezzi era seduto Arduino: la lunga scia nera, che uno degli aerei poco dopo lasciò, era il suo personale risultato. La squadriglia si allontanò virando e riprendendo la rotta di ritorno, ammesso che tutti e tre riuscissero a ritornare alla base, cosa di cui Arduino dubitava molto.

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Il ponte non era più pulito, ordinato e tirato a lucido, come al momento della partenza da Genova. Ora sapeva di morte: due mitraglieri, tre serventi e il personale dei tubi lanciasiluri di poppa giacevano riversi sulle paratie di protezione, ancora aggrappati ai tientibene.

In plancia, il sangue era dappertutto, le schegge dei cristalli avevano spazzato tutto quello che c‟era sulla loro traiettoria. Le divise degli uomini non erano più bianche, fortunatamente alcuni erano già in piedi e gli altri si stavano rialzando.

“Locascio, faccia suonare il cessato allarme.”

Disse al cont-cala a poi, prendendo il microfono, attivò la diffusione su tutti gli altoparlanti della nave.

“Comandante all‟equipaggio: se ne vanno. Rapporto immediato su danni e avarie dalle squadre d‟emergenza.” Disse Pizuto. Si rivolse, poi, a Greco.

“Rapporto perdite al più presto. Faccia portare i feriti in infermeria. La rivoglio qui tra dieci minuti, per il rapporto e per raccontarmi quello che è successo in plancia dal momento dell‟avvistamento.”

Il rapporto di Greco fu crudo e preciso:

“Sei morti, due feriti gravi e una dozzina leggeri, per lo più ferite di striscio e da vetri, soprattutto gli uomini presenti in plancia.”

Questo lo si poteva vedere dalla mano sinistra di Pizuto, fasciata alla meglio in un fazzoletto, dalla larga ecchimosi sulla fronte del timoniere e dalle divise macchiate di sangue di Locascio e degli altri.

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Dopo gli uomini, la nave. Un po‟ di fori slabbrati e scheggiature sul ponte, nelle lance, i cristalli della plancia andati. Le varie antenne, comprese quelle radio e del radiotelemetro, miracolosamente senza danni. Vennero poi i racconti di cosa era successo: l‟avvistamento, gli ordini dati, insomma chi aveva agito e reagito all‟improvvisa apparizione del nemico.

“Abbiamo qualcuno che riesce ad avvistare aerei a diversi chilometri di distanza e identificarli subito, come nemici. Buon per noi. Evidenzierò nel rapporto questo colpo di Fasann.” Fu il commento di Pizuto.

Prese poi l‟interfono e parlò ancora ai suoi uomini.

“Era mia intenzione far battere posto di combattimento più tardi, ma il nemico mi ha preceduto. Vi siete comportanti bene. Da quanto ho potuto vedere, siamo sulla strada giusta per diventare una nave che si farà onore.”

“Bacigalupo, chiami il comando operazioni a Genova e riferisca l‟accaduto. Continueremo le operazioni in mare come previsto, la nave è in stato soddisfacente e non vedo motivo di rientrare.”

Pizuto, durante il pranzo, parlò con tutti, fino al momento del caffè, allora si indirizzò a Fasann.

“Non è da tutti scorgere così da lontano tre aerei, identificarne immediatamente la nazionalità, la pericolosità e far guadagnare tempo prezioso alla nave. Complimenti.”

Fasann non attese neanche un secondo per rispondere:

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“Il Duce ha fatto in modo che l‟Accademia mi addestrasse e mi fornisse tutte le conoscenze, per fare del Mediterraneo il mare nostrum.”

L‟espressione sul viso di Pizuto cambiò impercettibilmente, gli spiaceva tanta retorica in bocca a un valido giovane, ma non ci furono commenti. La Marina Militare e quasi tutti i suoi ufficiali, avevano sempre voluto tenersi distanti dal regime, cercando di avere come unico punto di riferimento l‟antica tradizione di servire la Patria e il Re.

Fino alle 15, si proseguì con numerose e improvvise accostate e ordini di motori avanti tutta. Le macchine ebbero modo di sviluppare la loro potenza e alle 16, quando apparve la nave trasporto bersaglio, anche gli uomini ai vari armamenti dimostrarono la loro affidabilità, sia ai cannoni sia ai siluri.

Il cacciatorpediniere Sebastiano Caboto stava diventando un temibile avversario. Non aveva punti deboli, anzi aveva molta stabilità anche oltre i 38 nodi, la sua massima velocità e rispondeva bene al timone nelle accostate. Nessuna infiltrazione fu rilevata nello scafo e tutte le apparecchiature elettriche e meccaniche di bordo furono provate e riprovate con successo.

Erano sulla rotta di ritorno a Genova, in plancia c‟erano il cont-cala e il primo ufficiale. Una frase mormorata da Greco, come se parlasse a sé stesso, colpì Locascio.

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“Cosa ci faceva qui, alle undici in punto? Fasann era in turno di riposo!”

E Locascio, quasi casualmente, disse:

“Aggiungerei: sulla plancetta di dritta e proprio con il binocolo d‟avvistamento. L‟allarme e il posto di combattimento avrebbe dovuto ordinarlo lei, oltre un‟ora dopo.”

Si guardarono negli occhi, come due vecchi lupi di mare: era stato detto tutto, altre parole non sarebbero servite, il concetto era chiaro a entrambi.

Il comportamento e la precisione di Fasann, anche se appena uscito dall‟Accademia, non erano cose da passare inosservate, ma nemmeno tanto ovvie.

Non erano i soli a parlare dell‟attacco subito.

Al di fuori dei soliti commenti, osservazioni e considerazioni che tutto l‟equipaggio faceva, c‟erano altre due persone che stavano esaminando i fatti da un‟ottica diversa, ma con la stessa curiosità.

Pizuto e Arduino erano nella cabina del comandante e stavano finendo di bere una tazza di quel surrogato che veniva chiamato eufemisticamente caffè.

“Senti Vittorio, tu hai già abbattuto tre aerei in passato e un altro questa mattina. Secondo te, perché gli inglesi hanno lanciato i siluri così lontano, alti sul mare e soprattutto con il sole di fronte e non alle spalle?”

“Comandante, se fossi stato io il caposquadriglia, lo avrei fatto solo se avessi avuto ordine di effettuare un attacco, con la completa certezza di provocare

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pochi danni; mi rendo conto che questa affermazione è assurda, ma è la sensazione che provo.”

“Ci sono altre due possibilità che potrebbero essere verosimili. Il caso ha voluto che, durante la nostra prima uscita in mare, ci sia stato l‟incontro con una squadriglia ancora in addestramento. L‟obiettivo previsto doveva essere attaccato sì, ma con una certa sicurezza: insomma potrebbe essere stato uno scontro tra novellini.”

“Altra possibilità è che abbiamo fatto da cavia a un esperimento: magari un nuovo tipo di siluro o un nuovo meccanismo di guida, che ne so, forse un nuovo tipo di giroscopio. Se è così, credo proprio che ci sia andata bene.”

Il comandante lo guardò in silenzio, a lungo, poi come riflettendo ad alta voce:

“Forse c‟è anche una quarta ipotesi. Grazie per avermi dato il tuo parere, vai pure a riposarti.”

Stavano entrando in porto. Per la prima uscita in mare, l‟aspetto del Caboto non era dei migliori: era stato battezzato con il fuoco. Nulla che nei giorni successivi non potesse essere sistemato con la collaborazione dell‟equipaggio, che cooperò attivamente con le squadre dell‟Arsenale.

Gli uomini, lavorando insieme, iniziarono a intrecciare rapporti più approfonditi: l‟azione di guerra cui avevano preso parte, il fatto di aver toccato con mano cosa significassero la disciplina, la tempestività e purtroppo la morte, li stava forgiando a essere un tutt‟uno con la nave.

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Per essere la fine di novembre, quel giorno aveva regalato ai degenti del sanatorio di Cuasso al Monte una calda giornata con un‟aria tersa che rendeva i colori autunnali in tutta la loro tavolozza di sfumature.

Nel salone con le ampie vetrate alcuni ammalati, seduti sugli ampi e comodi divani, potevano godere di quel meraviglio spettacolo.

Carla Boni nella sua calda vestaglia da camera, era assorta e fissava lo splendido giardino dell‟istituto.

Il corso dei suoi pensieri vagava dall‟infanzia agiata nella grande villa dei genitori sul lago d‟Orta, al piccolo appartamentino di via Curtatone a Milano, dove con il marito Carlo si erano rifugiati subito dopo la cerimonia di nozze.

Gli sfarzosi balli che si tenevano nella villa di famiglia, le faraone, i cervi, i cinghiali dei banchetti e i conti che con Carlo doveva tenere per non sforare le spese durante i primi mesi di matrimonio.

Ricordava le sontuose tavole imbandite dell‟hotel Excelsior al lido di Venezia, dove aveva soggiornato per tre mesi e dove aveva conosciuto Carlo. Quel giovane che stava seguendo il corso della scuola alberghiera e che sarebbe di lì a poco diventato suo marito.

Tanto lusso per tanti anni, poi il padre l‟aveva diseredata a causa della sua volontà di sposare Carlo.

Il pacco dei vestiti che aveva indosso il giorno del matrimonio e lei che rimaneva nuda, nella loro camera da letto, mentre Carlo correva all‟ufficio

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postale e rimandava al padre tutto quanto. Un pacco di indumenti e biancheria intima ancora caldi di lei.

La libertà che aveva provato in quel momento, il viaggio di nozze sul lago Maggiore, il primo figlio Umberto e poi il secondo e quel maledetto forcipe che aveva reso invalido Guido: costretto a restare immobilizzato per tutta la vita su una carrozzella o a letto.

Il lavoro di traduttrice dal tedesco per la casa editrice del conte Valentino Bompiani, le sue paterne raccomandazioni e l‟aiuto che sempre le aveva dato.

Le corse che Carlo faceva per poter lavorare di giorno all‟hotel Gallia e di sera alla torre Littoria del parco Sempione, dietro al castello Sforzesco. L‟assunzione presso la Riunione Adriatica di Sicurtà e la relativa tranquillità di un lavoro sicuro e di un‟azienda dove era stimato e considerato.

La tosse, quella dannatissima tosse che aveva cominciato a squassarle i polmoni e che il caro dottor Retta aveva diagnosticato come tubercolosi, per curare la quale era riuscito a farle avere un posto lì, a Cuasso al Monte.

E ora eccola lontana dai figli che Carlo aveva dovuto mettere in due istituti. Guidino era stato ricoverato all‟istituto Pia Casa di Abbiategrasso e Umbertino, invece, continuava gli studi presso il collegio dei salesiani a Pizzighettone.

Carlo che ancora una volta aveva dovuto occuparsi di tutto e chiedere alla R.A.S. di assegnarli un lavoro che gli consentisse di guadagnare di più. Abbastanza

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da poter pagare le cure a Guido, il sanatorio per lei e la retta del collegio di Umberto.

L‟ultimo pensiero che riuscì a formulare prima di lasciarsi andare a un tranquillo dormiveglia, al caldo dei raggi del sole, era che forse c‟era bisogno di uno sguardo da parte di Dio. La sua famiglia ne aveva già passati abbastanza di guai e aveva affrontanti tanti di problemi: un periodo di tranquillità sarebbe stato giusto e ben accetto.

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5. 19 novembre – 2 dicembre 1942

All‟ancora, a Genova. Il comandante Pizuto stava osservando i suoi uomini all‟opera. In quel momento, alla torre prodiera si stava simulando un incendio e alcuni stavano accorrendo con gli estintori a schiuma, mentre altri trasportavano fuori le cassette delle cariche esplosive.

Una motocicletta si fermò sul molo, all‟altezza dello scalandrone del Caboto; il portaordini, bloccata la moto sul cavalletto, salì a bordo e consegnò a Locascio una grossa sacca con la posta, chiedendogli di poter vedere il comandante per consegnargli personalmente un plico riservato di Supermarina.

Pizuto prese in consegna dalle mani del caporalmaggiore la grossa busta sigillata con ceralacca e il sigillo di Supermarina, rispose al saluto del portaordini e lo congedò. Stava pregustando il piacere di leggere, per primo, i sospirati ordini operativi. Era il 19 novembre ed era passato quasi un mese da quando aveva preso in consegna il Caboto.

Gli ordini giunti erano relativi alla prima vera missione di guerra della nave: far parte della scorta di un convoglio per Tripoli. Si trattava di quattro navi trasporto e la scorta sarebbe stata assicurata dal Caboto e da due torpediniere. La partenza del piccolo convoglio era prevista per l‟indomani alle 6 e mezzo del mattino.

Chiamò Locascio, dicendogli:

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“Mi rendo conto di interrompere la lettura della posta, ma voglio subito qui in plancia: il primo ufficiale, Arduino e Carammani e gli altri due capi, oltre a te ovviamente.”

Il momento della consegna della posta aveva sempre un che di magico, la chiamata nominativa evidenziava subito i fortunati e quelli che avrebbero dovuto attendere la volta successiva per sapere qualcosa della fidanzata, della moglie, della famiglia.

Anche per Pizuto c‟era una lettera e Locascio sapeva che il comandante avrebbe sistemato tutto secondo gli ordini ricevuti, poi si sarebbe lasciato andare un attimo, per poter ritrovare l‟atmosfera di famiglia che le lettere sapevano dargli.

La riunione si svolse, come sempre, in modo informale e tutto venne predisposto per la partenza. Il rapporto dei due Capi confermava che i rifornimenti di proiettili, siluri e bombe di profondità erano stati completati e quello della nafta avrebbe garantito, a 18 nodi di velocità, oltre due volte il quantitativo necessario per la traversata da Genova a Tripoli e ritorno.

Finalmente Pizuto poté aprire la busta. Era in cabina, con la sua fedele pipa di radica accesa, lesse con piacere la lettera del fratello Umberto e dell‟appuntamento che gli fissava alla mensa ufficiali per la sera del dieci dicembre. Tra le notizie che accennava, c‟era quella di un incontro con un ammiraglio riguardante non solo la sua nomina a tenente colonnello, ma altri motivi di cui lo avrebbe messo a parte di persona.

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Si sarebbe fermato a Genova una giornata, una di quelle brevissime licenze che venivano ormai date con il contagocce, specie agli scapoli.

Anche gli altri uomini stavano leggendo le notizie che arrivavano da casa: una madre si lamentava con il figlio che al loro cascinale erano state tolte tutte le inferriate di ferro, requisite per la raccolta dei metalli; una moglie informava il marito che per poter continuare ad andare in fabbrica aveva dovuto comprare una bicicletta e l‟aveva meravigliata il prezzo di 950 lire, oltre alle 20 lire che aveva dovuto pagare per la retina da donna, sulla ruota posteriore.

Altre lettere parlavano delle tessere annonarie, del duro razionamento alimentare, del mercato nero, delle sofferenze dei civili italiani, anche loro in guerra. Una guerra che non sentivano, che non condividevano, ma che scaricava un pesante fardello sulla popolazione civile, non solo per i bombardamenti, ma anche per la nuova e drammatica realtà di fame, sofferenza e stenti che colpiva soprattutto vecchi e bambini.

Notte fonda, il secondo turno di guardia, quello che piaceva di più al comandante, a tal punto che spesso voleva condividerne il silenzio e la solitudine con chi ne era comandato restando in silenzio, seduto sulla sua poltroncina in plancia.

Stava ripensando ai momenti belli e brutti dell‟ultimo mese: era riuscito ad affiatare un equipaggio che si era dimostrato all‟altezza rintuzzando gli attacchi simulati del sommergibile

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Onice, che aveva operato con il Caboto e altre navi di scorta in una esercitazione al largo di La Spezia.

Anche a 140 metri di profondità, con rotta parallela alla loro e motori a poco più di 7 nodi, il guardiamarina Fasann lo aveva ugualmente rilevato all‟ecogoniometro. Avevano attraversato un campo minato italiano al largo di Livorno, con motori avanti adagio e molte manovre a vista. Passando all‟altro ruolo, avevano posato alcune decine di mine per allargarne la superficie, senza alcun incidente.

C‟era una cosa che lo impensieriva o meglio su cui tornava col pensiero più volte di quanto avrebbe desiderato. Quella strana sensazione che provava nei confronti di Fasann. Adesso si era aggiunta la “scappatella” di un giorno senza permesso. Era vero che gli aveva fruttato 5 giorni di consegna nella cabina dei guardiamarina, ma dove era andato?

C‟era una spiegazione semplice?

Una donna?

Pizuto sentiva che non era quello il motivo, non quadrava con l‟impressione generale che aveva del giovane. Venne interrotto dall‟avvicendamento del turno di guardia. Guardando l‟ora sull‟orologio della plancia, Pizuto si disse che tanto valeva restarci fino alla partenza del convoglio.

La missione si svolse tranquillamente, sia per la prima parte, forse la meno pericolosa, fino alle isole Egadi, sia per il ben più temibile tragitto fino all‟altezza dell‟isola Lampione, a ovest di Lampedusa, dove arrivarono il 22 novembre alle 10

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del mattino e poi fin giù a Tripoli, dove giunsero nel cuore della notte.

Furono fortunati: non era cosa da poco non avvistare aerei o navi nemiche, né captare contatti eco di minacce subacquee. Una missione di tutto riposo, anche se in guerra accadeva estremamente di rado.

Le sorprese iniziarono nel porto di Tripoli, ormai ridotto a un ammasso di macerie. Le terribili devastazioni alle attrezzature del porto, causate dai continui attacchi aerei alleati, erano impressionanti. Non poterono avvicinarsi alle banchine e dovettero dar fondo alle ancore in rada: la sosta durò quasi un giorno e mezzo e dovettero far fronte a più di un attacco. Arduino e i suoi fecero miracoli abbattendo quattro aerei, senza che la nave subisse alcun danno.

Fu con un sospiro di sollievo che ricevettero l‟ordine di ripartire. La destinazione fino a Genova avrebbe voluto dire il ritrovarsi con tutti i pericoli esistenti nel triangolo compreso tra Biserta, Trapani e Pantelleria: aerei, sommergibili e la flotta inglese.

Ora i trasporti non erano più carichi di munizioni, carburante, carri armati e vettovagliamento, ma avevano a bordo feriti gravi che venivano rimpatriati. Il compito della scorta sarebbe stato ancora più delicato e tragico: un errore di qualsiasi tipo avrebbe potuto avere conseguenze tragiche su tante vite, già provate dalla guerra.

Bacigalupo si presentò da Pizuto con l‟ultimo bollettino della situazione meteorologica sul canale

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di Sicilia e il basso e medio Tirreno, non era dei più incoraggianti:

“Nucleo di bassa pressione in movimento dal medio al basso Tirreno, con forti venti di maestrale. Sul canale di Sicilia, venti da ovest. Evoluzione: venti intorno nord sul basso Tirreno, con raffiche fino a 100 km/ora. Previsione di tempesta – tempesta forte, onde: oltre i 10 metri.”

Pizuto si consultò con Bacigalupo e come commodoro della scorta del convoglio, decise di richiedere a Supermarina lo scalo intermedio a Napoli, per consentire lo scarico dei feriti, riducendone la permanenza a bordo dopo una navigazione in un Tirreno così ostile dal punto di vista meteorologico. Subito dopo fece segnalare ai comandanti delle altre navi di scorta e dei mercantili la convocazione per una riunione a bordo del Caboto.

Si presentava una non facile traversata con onde eccezionalmente alte che, per un terzo del viaggio, sarebbero arrivate da sinistra, con forte rollio. Onde così alte che la scorta avrebbe probabilmente perso di vista i mercantili, cui aggiungere l'ulteriore difficoltà dovuta alla polverizzazione delle creste da parte di venti forti. Il mare sarebbe stato completamente ricoperto da un bianco sudario.

Il convoglio salpò le ancore ed entrò in formazione appena ricevuta da Supermarina l‟autorizzazione a dirigere su Napoli. Mare calmo, appena qualche spuma lontana, dicevano le vedette. Dopo poco tempo però, i primi segnali di quello che sarebbe

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successo erano chiari e visibili a tutti, anche sui ponti inferiori per il personale in guardia franca.

Erano ancora nel tratto tra Lampedusa e il basso Tirreno, quando il mare cominciò a portare onde sempre più corte, con altezza più o meno costante, ma chi s‟intende di mare sa che da qualche parte è in corso o è appena finito un fortunale o una burrasca. Il barometro continuava a scendere e l‟impossibilità di contattare via radio le navi, o meglio l‟ordine di mantenere il silenzio radio, faceva basare solo sulla vista delle vedette il mantenimento di un certo ordine nel convoglio.

Le onde cominciavano a diventare più alte, più corte e bianche di schiuma in cresta, più caotiche e sempre più ravvicinate.

L‟anemometro indicava 40 nodi, cioè vento a quasi 60 chilometri l‟ora, in rinforzo, ancora da prua fortunatamente, ma fra poco avrebbe girato, investendo il fianco delle navi.

Pizuto fece ridurre la velocità del convoglio a 6 nodi, valutando remota la possibilità che sommergibili nemici potessero sferrare un attacco con quel mare e con quella visibilità in superficie. Il problema fu di trasmettere l‟ordine con i proiettori schermati: in certi momenti le navi scomparivano letteralmente alla vista, nascoste nel letto delle onde, per riapparire solo alcuni secondi più tardi.

Il buio era quasi assoluto, si distingueva appena una frastagliata linea all‟orizzonte e null‟altro che un andamento convulso di bianchi frangenti e muraglie d‟acqua. Il radiotelemetro, lo strumento messo a

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punto in Italia per rilevare la posizione e la distanza dei bersagli, non era più in grado di fornire informazioni utili.

Le eco rilevate, infatti, erano una rappresentazione luminosa dei tempi di rimbalzo delle onde elettromagnetiche emesse dal Caboto. Purtroppo, in quelle condizioni era quasi impossibile distinguere i segnali delle navi del convoglio da quelli ritrasmessi dalle creste di onde che avevano un‟escursione da otto a dieci metri.

Al largo dell‟isola Marettimo, quando cominciarono a puntare dritto su Napoli, il mare era completamente coperto di banchi di schiuma che si allungavano nel cavo delle onde. Le navi scomparivano alla vista per diversi minuti, si riuscivano a scorgere solo quando risalivano la valle di uno di quegli enormi marosi e sembravano in bilico sulla cresta dell‟onda, prima di ripiombare nel baratro di quella successiva.

Continuò così per tutto il 26 novembre. Il giorno successivo il tempo lentamente iniziò a migliorare, il vento di prua consentì di poter abbandonare la velocità ridotta a sei nodi e gradualmente riportarla a dieci.

A poche ore di navigazione da Napoli, il mare era finalmente ritornato a uno stato normale, sebbene esausti, gli uomini riuscirono a sorridere quando all‟orizzonte si stagliò il Vesuvio con il suo pennacchio di fumo: ce l‟avevano fatta.

Pizuto era in plancia, soddisfatto che tutto il convoglio, anche se un po‟ maltrattato dalle

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condizioni del mare che avevano incontrato, fosse arrivato a destinazione e fossero già in corso le operazione di trasbordo dei feriti e degli ammalati.

Stava godendosi la sua pipa e osservava l‟orizzonte attraverso le volute di fumo bluastro. Così lo vide Locascio mentre si avvicinava. Gli dispiaceva interrompere uno dei rari momenti di serenità del comandante, ma doveva farlo, doveva parlargliene.

“Comandante, mi dispiace disturbala, ma la devo informare di qualcosa che ho trovato, ho capito come funziona e a cosa serve, ma non capisco cosa può voler dire.”

Pizuto tolta la pipa dai denti, guardò Locascio inarcando leggermente le sopracciglia, era strana l‟espressione del cont-cala e quello che stava dicendo.

“Che cosa è successo, Locascio?”

“Appena calata l‟ancora, ho controllato le attrezzature relative alla manovra: è una cosa che faccio tutte le volte che diamo fondo in porto.”

“Ero nel compartimento della catena dell‟ancora di dritta, al di qua della prima paratia stagna, davanti al portello della cala del velaio, quando ho notato che il portello era socchiuso.”

“Mi saliva la rabbia, perdio! Con la pericolosa traversata che abbiamo avuto e il mare forza 10, qualche idiota aveva lasciato il primo portello stagno aperto.”

“Un problema a prua, un‟incrinatura, un bullone saltato, una lamiera che si schiodava e il mare

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sarebbe potuto entrare e riempire i primi quindici metri dello scafo.”

“Mi rendo conto della gravità .” Cominciò a dire Pizuto, ma non riuscì a continuare.

“No, no, comandante,” riprese il cont-cala, “Mi scusi, ma non sarei così preoccupato se si trattasse solo di questo.”

Pizuto si bloccò con la pipa a una decina di centimetri dalle labbra e fissò l‟uomo che gli stava parlando e che lo aveva interrotto. Ci doveva essere qualcosa di grave perché Locascio si comportasse in quel modo.

“Comandante,” riprese Locascio, “dal portello semichiuso, parzialmente nascosto da alcuni stracci, usciva un cavo elettrico che va a collegarsi alla centralina del locale della catena dell‟ancora.”

“Alla rabbia si era aggiunto un sudore freddo su tutta la schiena. E‟ questo che mi ha spinto ad aprire del tutto il portello e ciò che ho trovato non mi è piaciuto. Comandante, venga lei stesso a vedere. C‟è qualcosa che mi sfugge.”

Entrambi scesero le scalette e raggiunsero il portello della cala del velaio.

All‟interno, il cavo elettrico terminava su una piccola piastra di ferro ed entrava in una cassettina di dimensioni studiate perché si incastrasse perfettamente tra due supporti passacavi, saldati direttamente sul fasciame della nave. Nel compartimento non c‟era nessun rinforzo interno oltre ai 20 millimetri di acciaio del fasciame, al di là della sottile lastra c‟era il mare.

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Era il primo locale della nave, di pianta trapezoidale, si poteva anche intuire la curvatura che la carena aveva esternamente. Era uno dei compartimenti più bassi, sotto di esso un piccolo magazzino e poi direttamente le sentine. La carena che lo delimitava per metà emergeva, ma per un buon metro era sotto il livello del mare.

Lo strano aggeggio che stavano osservando produsse un rumore e qualcosa al suo interno si mosse, dando in rapida successione tre colpi sul fasciame della nave: ferro contro ferro.

In quel silenzio e con l‟animo frastornato dalla strana scoperta, ai due uomini chini ad osservare sembrarono tre fucilate. Il rumore si ripeté a distanza di qualche secondo per altre due volte, poi un ci furono due colpi più forti, più cupi e prolungati.

“Cosa diavolo è, Locascio?”

Locascio guardò smarrito il comandante: l‟aiuto per chiarire il mistero l‟aveva chiesto proprio a lui.

“Non lo so, comandante. Posso solo affermare che questo marchingegno, probabilmente durante tutta la traversata di ritorno, ha trasmesso suoni attraverso il fasciame. I suoni si propagano molto bene in acqua e quindi tutti i sommergibili che ci avessero incrociato avrebbero potuto udirli. La prima cosa che mi è venuta in mente è una trasmissione in alfabeto morse, molto lenta; si tratterebbe di tre punti, tre punti, tre punti e poi di due linee, cioè la serie di lettere: S S S M.”

“Posso dirle ancora che questo dannato affare è collegato sia al circuito elettrico principale sia al

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circuito d‟emergenza. Continuerebbe perciò a trasmettere anche con gravi avarie a bordo.”

Pizuto prese in mano la situazione.

“Scollega i morsetti dai due impianti elettrici. Non spostarlo, però. Chiudi il portello alla meglio e vediamoci tra dieci minuti con il primo ufficiale e Arduino nella mia cabina. Cont-cala, non una parola, con nessun altro, intesi?”

“Signorsì!”

Poco dopo i quattro erano nella cabina del comandante e Pizuto stava parlando.

“Ecco i fatti nudi e crudi. Non chiedetemi chi ha costruito, messo in opera e attivato un trasmettitore, se vogliamo semplice, ma che potrebbe aver fatto molto bene il suo lavoro.”

Pizuto, continuò.

“Vi ho riunito per avere da voi un parere: tutte le idee o le spiegazioni che vi vengono in mente su questa faccenda, sono bene accette.”

Arduino prese subito la parola.

“Se era un segnale per i nostri sommergibili, avremmo dovuto saperne qualcosa. Un nuovo sistema, un qualcosa inventato da Supermarina? No, non credo, lo escludo. E‟ troppo stupido non informarne il comandante.”

“Rimangono gli inglesi. Consideriamo che non siamo stati attaccati né all‟andata né al ritorno. Sì, c‟è stata tempesta, direi che un attacco non sarebbe stato possibile.”

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“Penso che sia azzardato il pensare che qualcuno dei nostri a bordo, volontariamente, inviti un sommergibile nemico, con un segnale chiaro, a lanciare sulla fonte del segnale un bella salva di siluri. No, sulla nave ci sarebbe anche lui. Mi sembra improbabile.”

“Un momento,” lo interruppe Greco “qualcuno ce l‟ha messo. Come fai a dire che non sia stato applicato e attivato a Tripoli?”

Locascio intervenne.

“Per quanto riguarda il viaggio da Genova a Tripoli, il controllo abituale è stato eseguito dal sottocapo elettricista, su mio ordine. Non si è messo a rapporto, né mi ha segnalato alcunché. Può darsi però, che non sia stato così accurato e magari non abbia visto il cavo elettrico a terra e il portello socchiuso.”

“A Tripoli, comunque, eravamo a due miglia dalla costa e non è salito a bordo né sceso nessuno. Non si sono avvicinate bettoline o imbarcazioni d'altro genere.”

Pizuto riprese la parola.

“Possiamo escludere che fosse attivo nel viaggio fino a Tripoli? Avremmo potuto sentire quei colpi? No, la cala del velaio è troppo distante dai locali abitualmente frequentati. No, non avremmo sentito nulla. Con l‟ecoscandaglio in funzione si dovrebbe sentire il suono del segnale morse propagato nel mare, o no? Comunque nel viaggio di ritorno non era in funzione.”

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La discussione nella cabina del comandante si prolungò per po‟, fino a che Pizuto cercò di raccogliere i tanti punti di vista in un logico ragionamento di sintesi.

“Primo, chi l‟ha installato o meglio chi l‟ha messo in funzione dovrebbe essere qualcuno dell‟equipaggio.”

“Secondo, può essere un segnale per qualche nave delle nostre, che non ha potuto essere all‟appuntamento, magari a causa della tempesta. Ma perché non ne siamo stati informati?”

“Terzo, se si tratta di un segnale a beneficio del nemico, dobbiamo ammettere che non ci sono stati attacchi: uno dei rari convogli a partire e tornare senza perdite. Non sappiamo se sia a causa della tempesta incontrata o del fatto che non vi fossero sommergibili o navi inglese a raccoglierlo.”

“Quarto e tenetelo per voi! Anche se è pazzesco da dire e potrebbe farmi togliere i galloni: se era per tenere lontano gli inglesi, dovremmo ringraziare chi ha piazzato e attivato il congegno. Ma torniamo al punto due: al perché non ne siamo stati informati.”

“C‟è qualcos‟altro che mi ha detto Locascio: riguardava le conseguenze di quanto aveva trovato. Ecco il punto, uno strumento non così complesso, non così ben nascosto e per quanto ne sappiamo, magari neanche efficace. Forse stiamo perdendo tempo, cercando di capire lo scopo di ciò che abbiamo trovato.”

“Voglio dire, forse stiamo guardando dove qualcuno vuole che guardiamo. Potrebbe essere una

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falsa pista, messa lì per non farci scoprire qualcos‟altro. Mi viene in mente un particolare: il controllo che il cont-cala ha ordinato di fare al sottocapo Carmelo.”

“Locascio, cosa ti ricordi di lui, così senza andare a controllare nel suo fascicolo personale?”

Locascio diede rapidamente i particolari più importanti di Carmelo: quelli che ricordava.

“Carmelo è di Forlì, ha fatto la marcia su Roma, ma nel ‟35 si è tolto dall‟attivismo. Sembra abbia cambiato vita e amicizie, anche se è ancora iscritto al partito, come moltissimi altri italiani del resto.”

“A proposito,” continuò il cont-cala, “nelle prime ore dopo la partenza da Tripoli, deve essere successo qualcosa al circuito elettrico. Per due volte, a distanza di una ventina di minuti, ho visto abbassarsi la tensione delle luci per alcuni secondi e deve essere entrato in azione il circuito d‟emergenza. Tutte e due le volte non sono riuscito a trovare Carmelo.”

“Se posso dire qualcosa di conclusivo, pur nella confusione di elementi che abbiamo,” intervenne Pizuto, “direi di tenere gli occhi aperti, almeno due volte di più del normale. Abbiamo una prova, non sappiamo a favore o contro chi. Cerchiamo di capire di cosa si tratta e di scoprirne il perché.”

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6. 2 - 9 dicembre 1942

All‟attracco a Genova, le sirene di saluto delle navi alla fonda testimoniavano quanto gli uomini di mare fossero contenti di rivedere il Caboto e le due torpediniere di un convoglio ritornato da Tripoli senza incidenti e senza perdite.

Il giorno dopo, il 3 dicembre, ebbero una triste conferma: la guerra dei convogli era guerra vera, anche se in certi ambienti della Marina veniva considerato compito da poco. Il bollettino relativo al convoglio H, partito il primo del mese, dava un resoconto freddo e distante, ma gli uomini del Caboto lo lessero, vedendosi al posto dei compagni incappati in tanta disgrazia: quasi 2200 morti su oltre 3300 uomini imbarcati.

“Il convoglio H, con i mercantili

Aventino, Monte Amiata, Puccini, KT 1 e Aspromonte,

scortato dai caccia Da Recco, Camicia Nera, Folgore

e dalle torpediniere Clio e Procione,

si è scontrato con la forza Q, di base a Bona:

due caccia e tre incrociatori leggeri inglesi.

Il convoglio è andato completamento distrutto.

Della scorta: il Folgore con il suo comandante è affondato

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e il Da Recco, pur incendiato,

ha fatto fronte alle soverchianti forze nemiche.

Il Comandante del Da Recco è rimasto gravemente ustionato.”

Anche in guerra, la vita deve continuare. La sera stessa i due fratelli Pizuto si ritrovarono, dopo molto tempo, alla mensa ufficiali. Nel grande salone quasi tutti tavoli erano occupati: molte divise della Marina, qualche uniforme dell‟Esercito e un paio dell‟Aeronautica. Molte le dame in abito lungo, diversi gli uomini in abito da cerimonia, probabilmente personale delle Ambasciate o rappresentanti di illustri famiglie genovesi.

Una serata di allegria e di baldoria, uno scambio continuo di notizie sulla famiglia. I brutti momenti che stavano vivendo presto li riportarono a parlare della guerra.

Umberto, che veniva da Roma, era stato appena nominato tenente colonnello della Regia Aeronautica e ricopriva ora l‟incarico di capufficio operazioni del Capo di Stato Maggiore.

Umberto iniziò a raccontare al fratello quello che non si era fidato a scrivergli.

“Un giorno mi è arrivata la convocazione presso il Ministero della Guerra da parte dell‟ufficio dell‟ammiraglio Cesare Fasann.”

“Fasann? Sei sicuro?”

“Ti ripeto: ammiraglio di squadra Cesare Fasann.”

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“Te lo chiedo perché ho un guardiamarina che si chiama Fasann, Arnaldo Fasann.”

“Magari sono parenti. Non so. Non ha accennato a un figlio o a un nipote.”

Umberto continuò cercando di raccontare come era andato quello strano incontro con l‟ammiraglio, a cui piaceva conoscere gli ufficiali con una marcia in più rispetto alla media.

“Mi disse che voleva essere certo di poter contare su di me, come su altri ufficiali di cui si fidava, avendo potuto valutarne personalmente la fedeltà al Re e all‟Italia. Tutto ciò per poter disporre di uomini che un domani possano essere coinvolti in particolari missioni e per compiti di grande responsabilità.”

“Poi mi ha chiesto di te.”

“Di me?” Gli rispose un Romano con due occhi spalancati dalla sorpresa.

“Mi è stato molto difficile parlare senza mai lasciare trapelare le tue frasi e le tue parole. Mi fidavo di quel Fasann, ma mi sono tenuto sulle generali. Gli ho però descritto la tua umanità, la rettitudine, l‟alto senso del dovere e quanto sia importante per te l‟obbedienza agli ordini.”

“Lo fanno tutti gli ufficiali!” Ribatte Romano.

“Non come te. Credimi.” Lo rintuzzò Umberto.

Umberto continuò, dando al fratello un quadro reale e distaccato dell‟andamento della guerra e dei probabili sviluppi futuri. Un racconto dettagliato, anche grazie al recente incarico e al fatto che la famiglia Pizuto aveva le proprie origini nell‟ambito del vecchio Stato Pontificio, cosa che consentiva loro

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di avere moltissime conoscenze e amicizie nella Città del Vaticano.

Accennò anche ad alcune voci, secondo le quali le settimane del fascismo erano ormai contate e si aspettava l‟occasione giusta per mettere da parte il Duce e i suoi accoliti.

Una persona molto in vista nella diplomazia vaticana gli aveva assicurato che un nobile italiano e alcuni alti ufficiali legati a Badoglio avevano preso contatti con gli angloamericani.

La notizia non stupì Romano. L‟unica delle tre Armi pronta a entrare in guerra nel ‟39 e sostenerla con mezzi adeguati, era la Marina. Per il resto si poteva contare solo sulla propaganda: otto milioni di baionette e pochi validi reparti, sia nell‟Aeronautica sia nell‟Esercito. Pizuto ripensò però, ai validi ufficiali e sottufficiali che vantavano le forze armate italiane e al valore di tanti giovani su tutti i fronti.

Quello che veniva mostrato dall‟Istituto Luce nei Cinegiornali, prima della proiezione dei film, era un Mussolini da propaganda, che visitava aeroporti, basi navali e caserme e passava in rivista squadroni aerei e reggimenti corazzati a Milano, Firenze, Roma, Napoli e Bari, nella speranza che gli italiani credessero in tanta potenza di fuoco e che ci credessero anche gli alleati.

“L‟unico problema,” concordarono i fratelli Pizuto, “è che gli aerei e i carri armati sono sempre gli stessi, che vengono spostati di città in città. Logisticamente, dicono che sia molto complicato stare dietro a tutte

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le tappe dei viaggi del Duce e a preparare le riviste dei mezzi di guerra.”

La serata proseguì riscoprendo il piacere di parlare degli affetti comuni, dei parenti più stretti e ricordando tutti quegli episodi della loro gioventù che riuscivano a farli sorridere e a far loro riassaporare tempi sereni, tranquilli, allegri e spensierati.

Carla Boni aveva appena terminato la prima colazione, il Direttore le si era avvicinato e le aveva porto una lettera dicendole:

“Ho voluto consegnargliela personalmente, perché so che i suoi occhi si illuminano e si riempiono di gioia tutte le volte che ne riceve. Il suo viso emana un calore che riesce a scaldare qualsiasi cuore, anche quello di questo direttore d‟istituto.”

“Lei è una gioia per gli occhi, signora Carla. Invidio sinceramente suo marito, anche se so quanto sia dura la sua vita in questi frangenti.”

“Si goda la lettera e passi una bella giornata. Buona giornata, signora Boni.”

Carla avrebbe voluto ringraziarlo, dirgli qualche cosa. Era un complimento molto bello e le frasi erano state di una sensibilità profonda, ma era già sparito e lo vedeva che saliva lo scalone a due gradini alla volta, verso il suo ufficio al secondo piano.

“Ciao Carla, fatte conquiste?”

“Ciao Bice. Cosa vuoi dire?”

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“Non hai visto il Direttore che occhi ha per te? Si è anche scomodato per darti di persona quella lettera.”

“Non credo, amica mia, che un uomo possa innamorarsi di una paziente tubercolotica.”

“Sì, hai ragione: qui siamo tutti ammalati e ammalate: lui deve saperlo bene. Però un pochino di sano pettegolezzo ci tira su di morale!”

“E‟ vero, Bice. Hai ragione. Allora parliamo del colonnello in pensione che cerca sempre di offrirti il caffè, dopo pranzo.”

Scoppiarono a ridere e, continuando a godere di quel momento di spensieratezza, raggiunsero il salone con i divani e si accomodarono su quello d‟angolo, dove il sole batteva attraverso le tendine delle finestre.

Presa la busta, Carla guardò il timbro di Milano. La scrittura, leggermente inclinata, era quella di suo marito.

Milano, 5 dicembre 1942 XXI EF

Amore mio,

sono rientrato a casa cinque giorni fa. Un giorno l’ho impiegato con la signora Angela, la portiera, a fare le pulizie nel nostro piccolo nido. Non è un grande appartamento, ma sapessi quanta polvere c’era.

Un giorno è andato per un po’ di spesa e per il bucato di tante camicie e altro, poi sono andato a trovare Guidino ad Abbiategrasso e ieri a

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Pizzighettone al Convitto di Umbertino. Oggi ho stirato e ora, dopo cena, eccomi a scriverti.

Appena arrivato, ti ho chiamato e ci siamo parlati. Ricordi che mi hai passato il Dottor Savoldi?

Si è dilungato sui tuoi progressi e su come il tuo fisico stia combattendo la malattia. Mi ha detto che dobbiamo ritenerci fortunati per averti fatto ricoverare appena conosciuto l’esito degli esami. Mi diceva che due mesi in più e non sarebbero riusciti a ottenere gli stessi risultati: sarebbe diventata una forma molto più grave. Invece ancora sei, otto mesi, magari fino a che la bella stagione non arriva e potrai tornare a casa. Potremo tenere i nostri ragazzi perché non esisterà più alcun pericolo.

Come avevo sperato, la Pia Casa di Abbiategrasso ha accettato il ricovero di Guido “sine-die” e mi ha fatto conoscere il signor Battista Rossi. Un ricoverato ancora giovane, circa 40 anni, robusto e autosufficiente che soffre di una forma acuta di nevrite che lo ha reso inabile al lavoro.

Fin dal primo giorno lui e Guido hanno legato e fanno coppia fissa e stanno proprio bene insieme: Battista ha una lunga falcata e Guido si tiene come può alla carrozzella, mentre sente la velocità e ride come solamente lui riesce a fare.

Con il permesso del direttore abbiamo fissato un piccolo compenso per le cure che presta quotidianamente a Guido. Serve per le sigarette e qualche cicchetto, che non potrebbe permettersi.

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Guidino sta bene e mangia con appetito. Il signor Battista che lo accudisce mi ha dato un’idea: quella di descriverti questo benedetto istituto di cui ti parlo spesso, ma che non hai mai visto.

Abbiategrasso è un grosso paesone agricolo. Ha moltissimi portici, molto utili quando piove e d’inverno perché sono bassi e mantengono un poco del calore che viene dai negozi e dalle abitazioni del primo piano.

Per raggiungerlo da casa nostra prendo, in viale Monte Nero, il tram numero 29 che mi porta fino alla darsena del Naviglio. Proprio nella grande piazza, c’è la fermata del torpedone che fa servizio Milano-Corsico-Abbiategrasso. In un paio d’ore riesco ad arrivare fin quasi davanti all’ingresso della Pia Casa.

Quasi nel centro del paese c’è una piazzetta triangolare con un trivio: sul lato lungo si apre un altissimo portone da cui si accede alla Pia Casa, a destra la strada porta al centro del paese e a sinistra invece conduce fuori.

Il palazzo della Pia Casa avrà un paio di secoli, ma nonostante questo, la facciata e gli esterni sono molto ben tenuti. Passata la grande portineria ci si ritrova in una grande chiostro, le colonnine a torciglioni tutte intorno e all’interno alcune aiuole con palme e magnolie.

Per arrivare da Guido costeggio tutti e due i lati a sinistra del chiostro, fino in fondo, dove c’è una piccola porta e subito dopo un lungo corridoio, con

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le scale che portano ai piani superiori. In fondo al corridoio una porta sbuca in un secondo chiostro, più piccolo del primo e con colonne semplici e meno ricche.

Percorro ancora i due lati di sinistra, fino in fondo, dove c’è un’altra piccola porta e un corridoio che sbuca in un cortile rettangolare con un colonnato coperto.

Sulla destra, si apre una porta e trovo la camerata di Guido; viene usata solo per dormire in quanto tanti ampi spazi fanno sì che ci siano grandi sale per leggere, sentire la radio, giocare a carte ecc. ecc.

I tre chiostri accolgono: i deboli di mente nel primo, i reparti femminili nel secondo e quelli dei ragazzi nel terzo.

In fondo alla grande camerata, una porta dà su grandissimo giardino, con alcuni gazebo dove a volte suona un’orchestrina, un piccolo bar e tante panchine all’ombra di secolari alberi. La pace è veramente grande e l’unico rumore che si sente sono i muggiti delle mucche e i belati delle pecore che pascolano nei prati oltre il muro di cinta.

Ci sono forse tante suore quanti sono i ricoverati e a volte ti fermano e ti chiedono se hai bisogno di trovare qualcuno o se possono esserti utili.

Quando vado a trovarlo, mi capita di fermarmi a mangiare con loro nella Pia Casa o in qualche trattoria del paese. Forse non ci crederai, ma a volte è più buono quello che ti servono le suore che quello che paghi in trattoria.

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Guido ti manda un grosso bacio e Battista ha detto che ti stringe la mano con affetto.

Veniamo ora a quello che faccio a Roma e dintorni.

Quando sono in giro per l’Italia i miei genitori rispondono al telefono e sbrigano la corrispondenza trascrivendo a macchina quanto ho buttato giù in minuta.

Tengono un registro delle chiamate e del motivo delle stesse. Se possono, danno direttamente una risposta, altrimenti avvertono che mi metterò in contatto con il chiamante al più presto e comunque entro una data precisa.

Papà ci tiene tanto a questa formula e ha ragione.

Ormai sono diventati quasi degli esperti e mi tolgono veramente molto dell’impegno che mi aspetta al rientro a Milano.

La salute è buona e la voglia di venirti a trovare moltissima. Conto di sbrigare alcune faccende a Torino, Alessandria e Novara e, alla fine della prossima settimana, sarò da te a Cuasso.

Un abbraccio fortissimo e tanti baci,

Carlo

P.S. In una delle prossime lettere ti racconterò di Pizzighettone e del Convitto di Umberto.

Per Carla era sempre un sollievo leggere le lettere del marito. Un sollievo che però le lasciava il

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rammarico di sapere quanto Carlo stava facendo con il suo lavoro, i suoi sacrifici e il suo sbattersi su e giù per l‟Italia, per far fronte a quanto che era necessario a lei e ai loro due figlioli.

Quello che le dispiaceva di più era il saperlo sempre in un letto diverso, tutte le notti e andava bene se lo trovava. A volte le aveva confessato che, a causa dei bombardamenti, si trovava a dover dormire in una canonica o nei locali del mercato o nel salone dell‟anagrafe di un comune della Toscana.

Anche mangiare due volte al giorno era difficile. Non era un problema di soldi, ma di trovare un‟osteria, una locanda o una fattoria dove chiedere del salame, del pane.

Il cruccio di sapere che lei aveva assistenza, calore, tranquillità mentre Carlo, viaggiando così tanto, era sempre alla mercé di quello che il destino gli faceva trovare e non erano sempre rose e fiori.

Due giorni dopo, nuovi ordini operativi portarono il Caboto ancora una volta in azione. Il caccia si unì ad altri due della stessa Classe: all‟Antonio da Noli e al Lanzerotto Maloncello, oltre a una mezza dozzina di dragamine, per un‟azione particolarmente pericolosa.

Si trattava di mettere in opera un esteso sbarramento minato che a ovest di Biserta, doveva estendersi per circa otto miglia verso nord-est, in direzione parallela a quello già esistente fra Capo

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Bonn e l‟isola Marettimo. Il comando dell‟operazione era stato assegnato a Pizuto.

Romano conosceva la pericolosità di questo tipo d‟operazione: le mine, sferiche e piene di spolette a contatto che fuoriuscivano come gli aculei di un riccio, venivano armate prima di essere messe in mare. Non era simpatico il pensiero che un urto, una cima o catena che s‟impigliava o si spezzava, potesse portare la mina a esplodere contro il fianco della nave da cui la si calava in mare.

La fortuna non abbandonò le tre navi e le operazioni vennero eseguite nei due giorni stabiliti, posizionando le centinaia di mine alla profondità indicata dal piano, secondo uno schema complesso e studiato per evitare che le navi inglesi potessero attraversarlo impunemente. Lasciarono, però, un solo strettissimo corridoio segreto e sicuro per il completamento della posa e il successivo periodico controllo del campo minato.

Avevano appena terminato di fissare le ultime mine, le più a est, quando sulla plancia del Maloncello iniziò a lampeggiare il telegrafo ottico: un rapido succedersi di lampi di luce schermata. Pizuto si rivolse verso il sottocapo segnalatore presente in plancia per avere la versione in chiaro del messaggio.

Il sottocapo, terminato di scrivere le ultime parole, passò la tavoletta al comandante con un unico commento:

“Mi auguro che per lei abbia qualche significato.”

Mentre lo scorreva Pizuto sentì i peli sulle braccia che si rizzavano. Il corto messaggio diceva:

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“Al Comandante delle operazioni

Capitano di Corvetta Romano Pizuto

E p.c. al Comandante del caccia Da Noli.

Riceviamo un segnale radio continuo, trasmesso

sulla lunghezza d’onda della Marina Inglese, X37.

Il messaggio è costituito da quattro lettere,

ripetute in continuazione: S S S M.

Chiediamo istruzioni.”

Pizuto fece chiamare in plancia Bacigalupo e insieme si diressero alla sala radio. Fasann era al suo posto e stava leggendo una lettera, con i segni delle piegature e ripiegature e alcune macchie, quasi sudicia.

Fasann salutò, alzandosi e ripiegò velocemente la missiva, ma con cura e la infilò nella tasca della giacca. Quella lettera doveva avere un valore particolare per lui, portava i segni del valore: le pieghe, come i militari portano i nastrini delle campagne fatte.

Bacigalupo, senza una parola e con mano esperta, girò la manopola della sintonia e con un unico movimento centrò la frequenza inglese X35, solo qualche scarica elettrica. Un altro secco e preciso movimento e si sintonizzò sulla X37. Subito, forte e chiaro, si sentirono: due punti, tre punti e due linee. Una pausa di due secondi e poi: tre punti, tre punti,

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tre punti e due linee, due secondi e ancora tre punti, tre punti.

Rivolgendosi a Fasann, Pizuto disse:

“Fasann, ha qualche idea di cosa significhi un segnale di questo tipo?”

Con la classica prontezza, il guardiamarina rispose:

“Non ho mai sentito questo segnale. Non ho la minima idea di cosa possa voler dire, si tratta di morse: le lettere sono: S S S M, ripetute a pochi secondi di distanza. Posso fare delle ipotesi: una nave inglese che trasmette un messaggio di soccorso, forse in avaria.”

“Oppure, una boa-segnale di qualche relitto o di un campo minato inglese, ma di recente posizionamento. Non tutte le navi anglosassoni hanno le carte aggiornate, ecco il perché del segnale.”

Ancora quel segnale. Bacigalupo rilevò Fasann in sala radio e segnalò che avrebbe continuato l‟ascolto ogni minuto, cercando di effettuare un rilevamento con il radiogoniometro. L‟idea era triangolare con i rilevamenti degli altri due caccia e trovare l‟origine del segnale. Pizuto formulò la laconica segnale risposta al Maloncello.

“Da Comandante operazioni Pizuto a tutte le navi.

Nessuna interpretazione possibile al momento.

Effettuare rilevamento trigonometrico e segnalarne i dati.”

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Dopo una decina di minuti Pizuto, con i due rilevamenti degli altri caccia, scese in sala radio e ascoltò da Bacigalupo il rapporto.

“Comandante, trasmettono sempre, ma non riesco a determinare un rilevamento esatto. Sembra che il segnale provenga da ogni direzione.”

“Immaginavo.” Disse Pizuto, controllando le coordinate.

“Il problema è che gli altri rilevamenti si intersecano sulla nostra posizione. Può essere solo un‟emissione radio che parte dal Caboto e così vicina all‟antenna di ricezione da impedirne un qualsiasi rilevamento.”

Uscì in fretta e si recò in plancia, dove chiese a Greco, Arduino e al cont-cala di seguirlo nella sua cabina. Mettendoli al corrente degli ultimi sviluppi, divise la nave in settori, li assegnò e ordinò una scrupolosa ispezione di tutti i locali, raccomandando di coinvolgere solo gli altri due capi di 1a classe e i sottocapi: nessun altro e con la massima discrezione.

Greco si trovò a seguire Carmelo, il sottocapo elettricista. Non sapeva perché, ma osservandolo notò che c‟era qualcosa che non andava nel suo modo di muoversi. Lentamente e attentamente scrutava intorno con gli occhi, soffermandosi su ogni possibile luogo, dove trovare qualcosa che non avrebbe dovuto esserci. Era sospetto che si girasse a guardare indietro troppo spesso, obbligando il primo ufficiale a nascondersi, ogni pochi passi, dietro

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paratie, mobiletti, rastrelliere di condotte d‟acqua e ogni altro riparo che trovava.

Continuò a seguirlo, sempre più da lontano. Non gli piacque vederlo entrare nella santabarbara dei proiettili del pezzo di poppa e restarci quasi dieci minuti. Ancora meno fu contento della sosta, altrettanto lunga, che Carmelo fece nel deposito mine, ormai vuoto. Protetto dalla scaletta di ferro che dal ponte superiore conduceva davanti al portello del locale mine, Greco attese che Carmelo uscisse e risalisse le rampe di scalette che portavano al ponte di coperta.

Il locale mine era buio, Greco non accese la luce, ma con la torcia elettrica illuminò sistematicamente ogni paratia, ogni angolo del pavimento e del soffitto. C‟era qualcosa fuori posto: un telo catramato appoggiato disordinatamente su una cassa di legno.

Catramato era dir poco, infatti scostandolo, si ritrovò la mano letteralmente coperta di grasso. Non se ne preoccupò perché ai suoi piedi, sotto il telone, non c‟era una cassa di legno, ma un moderno apparecchio radio con le spie accese e il quadrante delle lunghezze d‟onda illuminato. Dietro si vedeva un grosso cavo elettrico d‟alimentazione che si univa a un grosso fascio che saliva verticalmente fino al soffitto, per scomparirne al di sopra.

Cominciava a diventare un‟abitudine la riunione nella cabina di Pizuto. Ma lì, abbastanza liberamente, potevano parlare di quanto succedeva, fare congetture e tracciare una strategia d‟azione. C‟è il tempo dell‟attesa e quello dell‟azione e Pizuto

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aveva deciso di cominciare a torchiare un po‟ Carmelo.

Con una buona chiave fissa del 24, trenta centimetri d‟acciaio circa, Locascio si sarebbe appostato sotto la scaletta che portava al portello del locale mine. Doveva svitare una delle due lampadine che illuminavano il piccolo spazio, la più vicina alla scaletta, in modo da renderlo un‟ombra tra le tante.

Arduino, invece, dopo aver tolto il fusibile dell‟illuminazione, avrebbe atteso all‟interno, al buio, che qualcuno si facesse vivo per spegnere la radio.

Non fu con gentilezza e tatto che Greco spinse Carmelo all‟interno della cabina del comandante.

“Carmelo!” Lo apostrofò Pizuto.

“Che cosa te ne fai di una mina o di un proiettile dei nostri cannoni?”

Il sottocapo strabuzzò gli occhi, continuando a fissare ora Pizuto ora Greco, l‟unica cosa che riuscì a chiedere, era se poteva sedersi.

“No!” La risposta del comandante fu come una sferzata.

“Adesso ho capito, ho capito tutto. Solo perché ho la tessera del partito, non ho gli stessi diritti degli altri marinai.”

Carmelo continuò:

“Cosa volete da me? Perché domandate se mi servono una mina o un proiettile? Ci devo andare in quei locali, devo fare il mio dovere, o non va bene

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neanche questo? Chi controlla i circuiti elettrici su questa nave? Lei, comandante o Greco?”

Mise la mano in tasca e sbatté sul tavolino due piccoli oggetti.

“Le avete trovate voi, queste? Sapete perché dovevo sostituirle?”

Il tono non piacque a Pizuto, ma gli rivelava che aveva davanti un uomo che parlava chiaro, che aveva delle ottime note tecniche personali e che, per la specializzazione che aveva conseguito, stava parlando in modo professionale.

“Avanti, siediti Carmelo e spiegaci questo gesto.” Pizuto gli fece cenno con la mano verso la sedia.

“Non ci si rivolge così a un ufficiale, sbattendo sul tavolo due valvole. Credo che questi oggetti siano valvole elettriche, o no?”

Carmelo, rinfrancato dal calmo tono di voce del comandante, si sedette e spiegò con voce prima malferma e poi sempre più tranquilla, che all‟inizio di ogni missione di guerra verificava di persona tutte i componenti dei circuiti elettrici, specialmente quelli più soggetti alla corrosione della salsedine e della ruggine.

Continuò svitando i cappellotti delle valvole e mostrando come il rame avvolto intorno alle viti dei due terminali fosse quasi completamente corroso e ricoperto dal verderame.

“Comandante, questo significa che in poco tempo o al primo scossone, i fili si sarebbero spezzati. Si tratta del sistema di sicurezza della santabarbara di poppa e di quello del locale mine.”

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“Se saltano questi circuiti, dalla plancia nessuno sarebbe più in grado di rilevare lo stato di pericolo nei locali: nessuna spia si accenderebbe sul quadro di controllo. Dato che ci sono anch‟io su questa nave, ed è il mio lavoro, perdio, cerco di farlo bene e non voglio che venga messa in dubbio la mia competenza e tanto meno che mi si venga dietro a controllarmi.”

“Se volete cercare qualcosa che non va, sarebbe meglio che controllaste di più la cala del velaio e certi collegamenti elettrici di fortuna che avete fatto senza nemmeno avvertirmi, diavolo è il mio lavoro!”

L‟occhiataccia che diede al primo ufficiale era il massimo che poteva fare, senza incorrere nelle rigide maglie del regolamento.

Greco, che non voleva lasciar senza replica l‟occhiataccia ricevuta, chiese.

“Dato che ci siamo, vuoi spiegare perché era impossibile trovarti, appena partiti da Tripoli, quando il circuito elettrico è andato in avaria due volte?”

Pizuto voleva evitare uno scontro diretto tra il sottocapo e il primo ufficiale; c‟erano le prime avvisaglie che stesse per esplodere e l‟atteggiamento di Carmelo e le sue risposte lo spingevano a propendere che non c‟entrasse nelle strane cose avvenute a bordo.

“Greco, le note caratteristiche di Carmelo ci dicono che è uno che sa cosa fare, l‟abbiamo visto all‟opera anche sotto attacco e sempre con successo. Credo che le due valvole che aveva in tasca abbiano realmente a che fare con gli episodi di Tripoli.”

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“Inoltre, è ovvio che abbia visto ciò che abbiamo visto noi. Suppongo che, se non si è messo a rapporto, è perché ha pensato fosse una cosa segreta, realizzata da noi ufficiali e da tenere per sé.”

“E‟ così comandante, ci sono tante cose che vengono fatte in tempi come questi e non sempre si può avvertire un sottocapo elettricista, con la tessera del partito poi. Comunque state tranquilli, non ho fiatato sul congegno e nemmeno sulla radio.”

“Le valvole me le ero scordate in tasca, sedendomi le ho sentite contro la gamba. Sono quelle che ho sostituito poco dopo la partenza dall‟Africa.”

Pizuto con calma si rivolse all‟elettricista.

“Carmelo, non sempre tutti sanno tutto. Hai fatto bene a non parlarne e considerate le circostanze, il mettersi a rapporto poteva essere male interpretato. Io ho fiducia in te e abbiamo bisogno di averti come alleato piuttosto che come nemico, in questa faccenda.”

“Dal mio punto di vista è tutto chiarito, adesso vai pure, ma presentati da me un‟ora prima dell‟arrivo a Napoli: ho un compito particolare da affidarti e credo che, al momento, tu sia il miglior alleato che abbiamo a bordo e l‟uomo in cui tutti noi riponiamo la nostra fiducia.”

Carmelo, rasserenato in volto e quasi sorridendo, si rivolse a Pizuto dicendo: “Comandante, come alleato.”

Salutò e con un perfetto dietro-front, usci dalla cabina.

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Giusto per far sbollire eventuali risentimenti, il comandante prese dal suo stipetto una bottiglia d‟acquavite dicendo:

“Penso che ci meritiamo un po‟ d‟alcol terapeutico. Questa faccenda del segnale, della radio l‟affronteremo meglio con una piccola dose di stimolante.”

“Vede Greco, ho osservato bene Carmelo, mentre parlava. Mi guardava dritto negli occhi, non aveva paura, non aveva le mani umide quando ha messo le valvole sul tavolo e le ha sistemate e spostate diverse volte. No, secondo me, non c‟entra nella faccenda.”

Mentre il comandante parlava, Locascio stava annuendo, neanche a lui erano sfuggiti quei piccoli particolari: il corpo è difficile da controllare a proprio piacimento, specialmente i tremori, il rossore in viso e le mani sudate. Pizuto aveva ragione, anche secondo lui Carmelo non c‟entrava.

Pizuto riprese:

“Quasi cento chili di peso, uno spirito vivo, iniziativa, capacità di ragionare e di decidere, agendo tempestivamente se serve, anche in autonomia.”

“Credo che Carmelo sia un buon alleato in questa faccenda. Se Arduino, durante le fasi dell‟avvicinamento al porto e dell‟attracco resterà vicino alla radio nel locale mine, nessuno se n‟accorgerà.”

“Locascio, no, Locascio deve restare in plancia o sul ponte durante la manovra. Chi possiamo mettere di guardia dietro la scaletta?”

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Greco, che aveva già tirato le sue conclusioni e aveva definitivamente archiviato gli attriti con Carmelo, riconoscendo che non c‟era modo di pensare a un suo coinvolgimento nella faccenda dei segnali morse o radio, intervenne:

“Ci mettiamo il sottocapo Carmelo, con la grossa chiave fissa del 24.”

“Ottima scelta, Greco.” Disse Pizuto e finì il suo bicchiere di acquavite.

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7. 10 - 20 dicembre 1942

Caterina Giusti era nel suo appartamentino torinese, all‟ultimo piano di una delle case all‟ombra della Mole Antonelliana, in via Gaudenzio Ferrari al numero 12.

Era sera, in quella fredda e piovosa giornata di dicembre. Dopo essersi fatta scaldare un minestrone molto ricco d‟acqua e molto povero di verdure, si mise a scrivere al suo Arnaldo.

No! Le mancava qualche cosa. Poteva fare a meno di molte cose, ma un piccolo sorso del barbera di suo papà ci doveva essere sempre sulla tavola, almeno fino a che durava la piccola scorta di bottiglie che aveva. A maggior ragione ci voleva quella sera, per scrivere la notizia al suo Arnaldo.

Voleva dirglielo, ma anche farlo sorridere e, se possibile, farlo ridere. Lo immaginava in mare, sul ponte di comando, davanti a quelle onde colme di vento che si frangevano sui vetri. Ma lei sentiva solo la sonora risata del suo Arny.

“Eccomi a te, amore!” Disse e cominciò a scrivere di getto.

Torino, 12 dicembre 1942 XXI EF

Caro amore, futuro ammiraglio?

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La tua pazza mogliettina è qui che ti pensa e ti scrive. Oh mamma mia, me l’ero dimenticata che ci siamo sposati in segreto e che nessuno lo deve sapere!

Sempre pazza, pazza di te e pazza per questa Italia che vogliamo salvare. Tu e io.

L’offerta di tuo padre al precipitoso rientro da Londra, per via della dichiarazione di guerra dell’Italia, era dettata dai sentimenti più puri, ma io mi trovo sempre meglio, man mano che passa il tempo, qui nella nostra vecchia capitale del Regno d’Italia.

Ti ricordi senz’altro quello che dicemmo seduti sulla panchina dei giardini di Kensington. Ebbene, tu sulla tua nave cercherai senz’altro di mettere in pratica quella promessa che ci facemmo, ma anche io sto cercando di fare la mia parte.

Riesco a rendermi utile, continuo a lavorare come bigliettaia sulla linea 13 del tram. Non solo, riesco ad aiutare quei poveri uccellini che a volte cadono e che io nascondo ai gatti. Soprattutto i Martin pescatori: li nutro, li curo se feriti e poi, quando tutto è tranquillo, faccio in modo che ritornino da dove sono venuti.

Ci stiamo organizzando per quando saremo riusciti a ripulire il Valentino da tutti quei gatti randagi: bianchi/neri e rossi/ neri, con tutte quelle S e con quei baffetti …..

Stiamo cercando di coordinare tutti gli amici che abbiamo da Casale, Cuneo e Alba fin alla Val

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d’Ossola. Sono molti che vogliono salvare i Martin pescatori. Siamo proprio in tanti, sai!

Non è che siamo contro la caccia, ma vorremmo che non dovesse essere una lotta impari. Vorremmo, come sai, aiutare tutti gli uccellini che troviamo a non finire strangolati nelle reti dell’uccellagione.

Alcuni dei più anziani e saggi tra noi, vogliono che mi occupi degli amici di Roma e che prepari il terreno perché si possano liberare i nidi e i campi anche lì, in modo che tanti uccellini possano arrivare e tutti possano mangiare, razzolare e andare in giro liberi da qualunque minaccia.

Credo che dovrò accettare di trasferirmi a Roma, anzi mi parlano di Anzio, sulle rive sabbiose del mare Tirreno: a due passi dalla città eterna. Ora ti lascio. Mi auguro che tu stia bene e che i tuoi compiti da marinaio siano facili e ti diano tanta soddisfazione.

Continua a parlarmi dei tuoi amici che possono aiutare i Martin pescatori.

Ti bacio sulle labbra,

Caterina, detta Cate

P.S. Se te ne sei dimenticato, la livrea del Martin pescatore ha questi colori: le parti superiori sono azzurro metallizzato/blu cobalto, inferiormente invece il colore è arancione/rosso, la gola e il collo sono bianche.

Blu, Bianco, Rosso…

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Caterina appoggiò la penna e rilesse la lettera. Quanti ricordi le vennero alla mente.

Casale Monferrato e la cascina Passerotta dove aveva preso la decisione di andare ad aprire un ufficio a Londra per allargare il giro d‟affari della casa vinicola di famiglia. I giochi con fratelli e la grotta che avevano scoperto dietro la 6a botte. La mamma, il papà, i fratelli che aveva lasciato, l‟appartamento di Londra, i balli all‟ambasciata e poi la conoscenza di quel ragazzone, Arnaldo Fasann e del padre Cesare, ammiraglio.

L‟amore che era nato e il matrimonio segreto che l‟aveva unita a quel giovane che amava tanto. La dichiarazione di guerra e il precipitoso rientro in Italia tra il personale diplomatico, sotto la protezione dell‟ambasciata italiana.

Poi Arnaldo, che dopo l‟accademia di Livorno era stato imbarcato sul caccia Sebastiano Caboto da cui cercava, come lei, di rispettare quel giuramento che si erano fatti su una panchina dei giardini di Kensington, quando si erano detti che avrebbero lottato contro le tirannie e le dittature che avevano soffocato quasi tutta l‟Europa.

In effetti, specie nel poscritto, si era un po‟ lasciare andare, lo sapeva, ma che ridesse un pochino anche Arnaldo. In fondo era su una nave da guerra e da quel che aveva capito oltre ai soliti rischi, lui ne correva degli altri.

Lo aveva avvertito che il CNL, il Comitato di Liberazione Nazionale di Torino di cui faceva parte, la voleva ad Anzio. Volevano avere vicino alla

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capitale e al mare una persona di fiducia. Gli aveva anche accennato alle zone in cui iniziare gradualmente una guerra di liberazione.

Quelli che, come lei, volevano un‟Italia libera dalla guerra, stavano ragionando come mettere da parte Benito Mussolini e i suoi e chiedere agli alleati l‟armistizio, da lì si sarebbe potuto fare qualche cosa.

Le sarebbe spiaciuto non essere in Piemonte, nel momento di ribellarsi al regime e far nascere un movimento dalla base, cercando di far sollevare le regioni del nord contro il fascismo.

D‟altra parte, alcuni propendevano per arrivare a mettere in minoranza il governo dittatoriale e creare le condizioni per farlo cadere.

Lei si reputava una rotellina troppo piccola per questo genere di obiettivi, lei era per l‟azione immediata. Il Maestro Oletti glielo aveva detto, dopo neanche due giorni di permanenza nella palestra.

“Questa donna sa combattere. Ne ha l‟indole, ce l‟ha nel sangue.”

Che belle settimane a Roma, i Fasann le avevano preparato una strada in discesa: entrare nella diplomazia e, con la sua conoscenza dell‟inglese, entrare nel servizio cifra e decrittazione. Essere al corrente dei messaggi inglesi e americani e trascriverli, dandone immediato seguito alle truppe.

Non faceva per lei restare sempre dietro la scrivania. Lei doveva agire: telefonare, scrivere, andare a rendersi conto di persona, uscire con l‟abito scozzese per essere dei loro tra di loro.

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Voleva lottare per la pagnotta, come i tranvieri, rischiare l‟arresto della Milizia fascista, aiutando i piloti alleati caduti. Rischiare, portandoli fino al colle di Tenda o a Bardonecchia e farli uscire verso la Francia.

Lei doveva sentire nella mano sinistra il caricatore dello Sten che teneva nascosto sotto l‟ultimo gradino della rampa di scale che portava al suo abbaino.

Era fatta così. Esattamente come Arnaldo: non per nulla si erano ripromessi di lottare contro il nazismo e il fascismo quel giorno di tanti anni prima, nei giardini di Kensington a Londra.

Poco prima di arrivare in porto, il cont-cala lasciò il suo posto di guardia a Carmelo, passandogli la grossa chiave inglese del 24.

Durante l‟ingresso in porto, due cose erano ben chiare nella mente di quel pugno di uomini del Caboto: la manovra d‟attracco e la trappola che stava per scattare. Al comando di “fermare le macchine”, una piccola processione di uomini, con malcelata calma, scese fin davanti al portello del locale mine.

Questa volta qualcuno aveva colpito duro. Riverso bocconi, Carmelo stringeva nella mano la chiave inglese e cercava di muoversi mettendosi seduto. Lo aiutarono, rassicurati dal fatto che non c‟erano tracce di sangue, l‟unica cosa che si sentiva nel silenzio, era il borbottio d‟imprecazioni di Carmelo che, in un crescendo di voce, terminò con poche, precise e terribili parole.

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“Se lo prendo, gli spezzo il ginocchio destro.”

Pizuto aprì il portello del locale mine, ancora chiuso. Arduino si stava massaggiando la nuca, bofonchiando:

“Mi spiace, comandante, non l‟ho neanche visto, lui ha visto me. Avessi anche avuto un mitra, non sarei riuscito a usarlo e a tenergli testa.”

Della radio non c‟era più traccia, solo una striscia d‟unto che arrivava fino al portello dove un grosso straccio, sporco di grasso, segnalava quanto accorto fosse stato il loro nemico. Resosi conto della traccia che lasciava, aveva accuratamente pulito la cassa della radio, prima di farla sparire.

Nonostante fosse dicembre, il sole alto dava una piacevole anche se falsa sensazione di calore, gli uomini a prua della nave, comunque gradivano. C‟erano: Pizuto, il primo ufficiale Greco, Arduino, Carmelo e Francesco Cortese: il cont-pro. Era lui che aveva il controllo dei locali incriminati.

Per questo era stato messo a parte di tutta la faccenda e aveva confermato che Carmelo aveva agito da manuale, era un valido sottocapo e un elettricista professionista.

Il piccolo gruppo di uomini stava parlottando e cercava di chiarire gli ultimi sviluppi della situazione a bordo. Ormai si era passati alle vie di fatto, è vero che non c‟erano stati feriti, ma i colpi erano stati molto efficaci, pur senza lasciare definitive conseguenze.

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Un rumore di passi affrettati sul ponte di ferro fece volgere gli occhi verso il guardiamarina Lorusso, che stava correndo verso di loro.

“Comandante, un messaggio di Supermarina riservato per lei, in codice.”

Pizuto prese il messaggio e, mentre considerava se recarsi in cabina per decrittarlo, vide una cosa che lo colpì e tuonò:

“Lorusso, dove si è sporcato in quel modo le scarpe? Dove si è sporcato di grasso?”

“Siamo di ritorno da un‟azione di guerra, abbiamo posato delle mine e tutta la nave è lorda di grasso, proprio non so dove posso essermele sporcate, mi spiace comandante.”

Era un nuovo elemento.

Un indizio?

Nonostante l‟appassionato intervento del cont-pro, che aveva protestato che la nave era stata pulita al meglio da cima a fondo e il tempo a disposizione per poter effettuare una pulizia completa era stato poco, rimaneva comunque il collegamento logico tra le scarpe sporche di grasso, il telo catramato che aveva coperto la radio, lo straccio e la striatura di grasso lasciata nello spostarla. Lorusso poteva essere coinvolto?

Era lui che aveva piazzato e poi fatto sparire la radio?

Cosa lo spingeva a trasmettere quel messaggio?

Pizuto stava formulando nella sua mente tutte queste domande, che cozzavano contro una realtà

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indiscutibile. Le due ore prima dell‟attracco, Lorusso le aveva trascorse in plancia, quasi gomito a gomito con lui, come poteva avere colpito Carmelo e Arduino?

Decrittare un ordine d‟operazioni era cosa abbastanza complessa, ma le poche righe contenute nel dispaccio timbrato in rosso „SEGRETISSIMO‟, non furono che una piccola esercitazione per il comandante. Avrebbe dovuto presentarsi insieme a Fasann, a Roma. Un‟auto della Marina sarebbe stata a loro disposizione per condurli nella capitale.

Non era abituale che a un comandante fosse richiesto di presentarsi insieme all‟ultimo guardiamarina assegnato al suo equipaggio, all‟Ufficio Operazioni delle Stato Maggiore della Marina.

In quel momento, sul molo a fianco del Caboto, stava sopraggiungendo una Fiat 508 Balilla; non aveva molto tempo per pensarci su. Dovevano esserci delle buone ragioni per la convocazione, anche se lui non riusciva a vederle.

Pizuto passò il comando al primo ufficiale, ricordandogli di far passare visita ad Arduino e Carmelo e di provvedere alla franchigia dell‟equipaggio, discese insieme a Fasann lo scalandrone, salì sulla vettura di Supermarina e partirono per Roma.

All‟Ufficio Operazione dello Stato Maggiore della Marina, Pizuto aveva scambiato solo qualche frase con l‟ufficiale di servizio a proposito della loro ultima

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azione e delle difficoltà incontrate nella posa del campo minato. Aveva conosciuto l‟ammiraglio Cesare Fasann, padre del guardiamarina Arnaldo.

Il giorno seguente, in alta uniforme, parteciparono a una cena in casa Doria Pampini: le solite frasi, ma stranamente, pur tra i tanti importanti invitati, l‟ammiraglio lo aveva condotto in un angolo protetto del salone e, tra i convenevoli, una frase gli era rimasta impressa.

“Comandante Pizuto, sono al corrente delle difficoltà del suo compito, da adesso in poi sarà più arduo di quanto normalmente sia il compito del comandante di un caccia. Stia in guardia, ma aperto a vedere e capire tutto quello che capiterà a lei e alla sua nave.”

L‟ammiraglio lo coinvolse con alcune domande sul ruolo della Marina e sullo stato di preparazione. Romano seppe destreggiarsi bene, senza mai lasciarsi andare con frasi che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo e ringraziando con il pensiero il fratello per il racconto del suo incontro con l‟ammiraglio Fasann.

“Lei è come suo fratello Umberto e il contrammiraglio Caracciolo mi avevano detto. Un ufficiale tutto d‟un pezzo, che sa parlare, ma che sa anche agire, come sullo Zara. Complimenti ancora per quella decisione fulminea.”

“Venga con me. Desidero presentarla a mio fratello. Non si formalizzi, è un uomo veramente meraviglioso, ma è anche un diplomatico. Eccolo. Guido! Finalmente sei solo e riesco a parlarti.”

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“Ciao ammiraglio.” Gli disse il fratello, il cardinale Guido Fasann.

“Ciao, cardinale. Quest‟uomo, il comandante Romano Pizuto, è la persona di cui abbiamo parlato più volte. Adesso lo conosci personalmente.”

Il cardinale, invece di porgere l‟anello da baciare, tese la mano e Romano la strinse scoprendo una stretta energica, calda e asciutta, sincera.

Parlarono della Perseo, del Caboto, del suo equipaggio, dei convogli per l‟Africa, dei rischi e delle soddisfazioni dell‟andar per mare, finché l‟alto prelato gli disse:

“Sono onorato di averla conosciuta, comandante. Sento che mio fratello e altre importanti persone hanno correttamente individuato le doti che lei possiede. Doti nascoste, ma che si colgono nei suoi atteggiamenti. Nella diplomazia, noi cerchiamo sempre di avvisare il nostro interlocutore quando stiamo per intraprendere qualcosa.”

“Noi e l‟Italia puntiamo su di lei. E‟ tempo che qualcosa cambi, ma fino a ora cercavamo il braccio che agisse: l‟abbiamo trovato. Le do la mia benedizione e la accompagnerò sempre con le mie preghiere.”

Romano avrebbe voluto approfondire il significato di quelle parole, ma altre persone gli vennero presentate e più tardi non ebbe occasione di avvicinare né l‟ammiraglio né il cardinale Fasann. Gli rimase l‟impressione di essere stato sotto esame e di aver ricevuto qualche messaggio particolare. A dire il

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vero, non riusciva proprio ad individuarlo, figurarsi poi capirlo e metterne in pratica i suggerimenti.

Il giorno seguente, pranzo a palazzo Farnese. Quello successivo cena a villa Ada. Quello ancora dopo a casa Colonna, dai genitori di Elena.

Lo stesso fu nei giorni seguenti, incontrando nobili, membri dell‟aristocrazia europea e alcuni alti prelati: sempre vennero rivolti a Pizuto accenni alla situazione: “dovrebbe pur succedere che...” ,”se ci fosse la possibilità di ...”

Vennero anche accompagnati alla scuola d‟educazione fisica per le Forze Armate, alla Farnesina. Gli fece piacere vedere scorrere l‟isola Tiberina e passare il Tevere. Quello scorcio di Roma lo rimise in pace con sé stesso. In fondo la Città Santa, con la presenza di Pio XII, sarebbe stata certamente risparmiata dall‟orrore dei bombardamenti, come quelli subiti da Genova.

Alla Farnesina gli venne presentato un sottufficiale di marina: il Maestro Carlo Oletti, che Fasann conosceva molto bene. Dopo circa un‟ora aveva compreso il perché del titolo di Maestro. Con pochi allievi, Oletti mostrò cosa si poteva fare con le armi più naturali: le mani, i piedi, le ginocchia e i gomiti.

Si trattava di una delle primissime scuole in Europa in cui veniva praticata e insegnata un‟antica arte giapponese, il judo. La naturalezza delle posizioni, la potenza degli attacchi, la leggerezza delle proiezioni e delle cadute viste praticare dagli allievi, erano ricami che riempivano l‟aria.

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Pizuto colse l‟estrema pericolosità e sicurezza che poteva dare la conoscenza di quelle tecniche. Si soffermò con il Maestro Oletti e apprese come fosse possibile per un esperto dosare sapientemente i colpi, non lasciare tracce sul corpo dell‟avversario e ridurre anche più di un nemico armato all‟impotenza o alla morte.

Erano questi i due punti che Pizuto aveva cominciato a collegare. Da lui si aspettavano qualcosa e l‟ammiraglio Fasann glielo aveva fatto capire. Il figlio, invece, lo aveva portato e non casualmente, a conoscere il „suo Maestro Oletti‟ e a fargli vedere all‟opera uomini capaci di ridurre all‟impotenza un nemico, come era successo a Carmelo e ad Arduino.

Poteva bastare solo un colpo di taglio della mano, appena sotto l‟orecchio, per provocare lo svenimento senza lasciare tracce.

Ci fu l‟invito a casa Caracciolo del Monte: la casa dei suoceri e, per l‟ala che era stata messa a loro disposizione, la casa di Romano ed Elena. Questa volta fu Pizuto a tenere le fila della cena e della serata. Era con i suoceri Giovanni e Giancarla che avevano invitato alcuni degli amici intimi. All‟ingresso due maggiordomi li accolsero e Romano iniziò a mettere alla prova il guardiamarina Fasann: conosceva quella casa a memoria e sapeva quanto i suoi rapporti con i suoceri fossero amichevoli, profondi e saldi.

Attraversarono il grandissimo giardino con le palme, il labirinto di siepe sulla destra e la serra sulla

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sinistra. In fondo a un bellissimo gioco di strisce di prato, corsi d‟acqua e fontanelle, arrivarono alla scalinata che portava al palazzo vero e proprio.

Entrarono nell‟ampio ingresso e Pizuto fece accomodare Fasann nella biblioteca: metri e metri di vecchi codici miniati, di libri stampati secoli prima. Quadri, uno più bello dell‟altro: marine, ritratti e nature morte di alcuni noti pittori italiani, fiamminghi e francesi. Sui tavoli vicino alle ampie poltrone da lettura, vasi cinesi della dinastia Ming, oggetti provenienti dalla valle dei Re in Egitto e porcellane di Sèvres e di Capodimonte.

A fianco dei quattro camini, grandi finestre gotiche illuminavano lo splendido lavoro di ebanisteria del parquet che completava la biblioteca; al centro il grande tavolo realizzato presso l‟opificio delle pietre dure dei Medici di Firenze.

Romano pensava che tanto splendore avrebbe lasciato stupito il giovane Fasann che invece, con molta modestia, chiese di avvicinarsi ad alcuni degli splendidi tesori tentando in maniera goffa una progressiva stima della qualità e della rara fattura, riuscendo a definirne sempre origine ed epoca di fabbricazione.

Dopo circa mezz‟ora, Elena fece la sua apparizione dal fondo della sala. La bellezza del suo viso lasciò incantato Fasann che cercò di riprendersi con un inchino perfetto seguito da un baciamano, secondo i canoni. Romano ed Elena si sorrisero, commentando l‟imbarazzo del giovane guardiamarina.

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All‟infuori di questo momento, Fasann si comportò con eleganza e savoir faire. In effetti, a Pizuto ritornarono in mente le parole con le quali il Fasann aveva tentato di presentarsi al loro primo incontro. Immaginò l‟ambiente in cui doveva essere stato allevato e cosa poteva avere vissuto con il padre, ammiraglio e diplomatico al servizio del Re presso l‟ambasciata a Londra, fino allo scoppio della guerra.

Accompagnando i due coniugi e restando un passo dietro al suo comandante, Fasann li seguì nell‟ampio salone da cui una doppia scala portava ai piani superiori e dove si apriva un ampio passaggio con arco a schiena d‟asino che dava sulla sala destinata ai balli e alle feste. La attraversarono e la loro immagine fu riprodotta innumerevoli volte dai tanti specchi che, dal pavimento, arrivavano fino al soffitto.

Al fondo della sala i genitori di Elena attendevano di abbracciare, molto informalmente, Romano e di salutare il giovane guardiamarina.

La sala da pranzo si apriva dietro di loro e lo splendido tavolo imbandito per quattordici li attendeva. Gli altri invitati stavano chiacchierando in piedi vicino a uno splendido buffet di aperitivi e stuzzichini.

Appena Elena e Romano entrarono, tutti si fecero incontro alla giovane coppia, felicitandosi dell‟inatteso ritorno di Romano e raccontando i particolari più riservati di molti fatti di cronaca, ignoti alla stragrande maggioranza degli italiani.

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La cena, superba, si protrasse fino alle undici di sera, momento in cui Elena e Romano si ritirarono per la notte. Fasann venne ospitato nella dependance degli ospiti, in quella zona di Roma così lontana dalla realtà che viveva a bordo del Caboto.

L‟automobile di servizio stava macinando chilometri su chilometri e si stavano ormai avvicinando a Genova. Pizuto stava per porre alcune domande a Fasann, quando questi gli porse una busta e, con un tono d‟estremo rispetto, privo della solita arroganza, gli disse:

“Comandante Pizuto lei ha raccolto senza dubbio molte informazioni e forse vorrebbe pormi alcune domande, la prego, prima, di leggere questa lettera, è di mio padre.”

“Quanto vi leggerà viene da molto più in alto di un ammiraglio e comprenderà bene che non ci può essere firma. Dopo averla letta dovremo bruciarla qui, nel portacenere della macchina.”

Pizuto, dopo aver guardato l‟intestazione e il fregio della carta da lettera, con profonda emozione, lesse:

“Comandante, a lei e alla sua nave verranno

affidati dei compiti estremamente delicati.

Tanto delicati da sconsigliare contatti diretti

con nomi, indirizzi o particolari che potrebbero

far naufragare piani strategici che riguardano

l’Italia: la nostra Patria.

Non abbassi mai la guardia e si fidi solo di sé

stesso e del suo discernimento. Buona fortuna.”

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Il pezzo di carta che si stava consumando nel portacenere davanti al divanetto posteriore della Fiat era stato tangibile per neanche un minuto, ma ora Pizuto sapeva che la sua nave, lui e il suo equipaggio, erano parte di un ingranaggio che avrebbe dovuto operare nell‟ambito di un disegno più vasto di quella che era la abituale realtà di una nave da guerra. Ciò che non gli era dato sapere era: cosa, quando e perché.

Fasann, aperto il finestrino, lasciò che il vento disperdesse la cenere e i pezzetti di carta rimasti.

“Fasann,” iniziò Pizuto guardando fisso negli occhi il guardiamarina, “credo che noi due dovremmo parlare un po‟ e lei spiegarmi molte cose .”

“Forse sì, comandante, ma non qui e non ora. Anche a bordo del Caboto non saremo al sicuro. Lei verrà informato di tutto, stia tranquillo, ma fino ad allora, tenga presente che io continuerò a comportarmi come a lei non piace. E‟ necessario, mi creda.”

Pizuto voleva parlare, ma alla fine rinunciò e non gli rimase altro che sfruttare le ultime ore del viaggio per mettere ordine nei suoi pensieri, nel trovare tutti i collegamenti con quanto gli aveva detto Umberto, l‟ultima volta che avevano cenato insieme a Genova.

Durante l‟ultima parte del viaggio di ritorno, Pizuto cercò di ricollegare le poche frasi che l‟avevano colpito nei due giorni passati, durante gli incontri che aveva avuto insieme a Fasann. Sembrava, infatti, che tutto il viaggio fosse stato

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organizzato non già per fargli avere degli ordini operativi o informazioni e notizie per la condotta delle operazioni nel Mediterraneo, bensì per fargli “capire”, per metterlo a parte in modo non ufficiale di qualche cosa.

Il problema di Pizuto era che, a posteriori e a suo spassionato giudizio, nessuno gli aveva parlato chiaramente. Ora stava cercando di ricordare quanto era stato detto o aveva sentito e specialmente ciò che poteva essergli sfuggito di mente.

La prima cosa che il cont-cala comunicò a Pizuto, riguardava lo stato di salute sia di Carmelo sia di Arduino: erano in ottima forma. Nessun danno fisico permanente, una zona bluastra, tra l‟orecchio e la nuca, indicava che erano stati colpiti e il medico della base aveva ipotizzato “un corpo contundente morbido in superficie, ma molto duro”, ecco pensò Pizuto, come il lato di una mano.

Questo lo ricondusse alle dimostrazioni pratiche viste dal Maestro Oletti e la convinzione che, quanto emerso dal viaggio a Roma non potesse essere mantenuto segreto, lo indusse a disubbidire all‟invito di “tenere tutto per sè” condividendo le informazioni con alcuni dei suoi uomini.

Riunì i due soli uomini di cui si fidava ciecamente: Locascio e Arduino. Non raccontò tutto, ma disse abbastanza per far sì che sulla nave almeno quei due vecchi compagni d‟arme non lo avrebbero preso per matto, ma avrebbero capito che eventuali strane

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disposizioni che avesse dato, erano in rapporto con quanto voluto “in alto”.

Ovvio che tutto, a bordo, avrebbe dovuto continuare come sempre. Pizuto rimuginava che, se il suo atteggiamento negativo nei confronti di Fasann fosse cambiato improvvisamente dopo il viaggio a Roma, chi agiva indisturbato sulla nave se ne sarebbe accorto.

Ora c‟era la necessità di preservare la figura del guardiamarina e il suo non chiaro incarico. Un equipaggio che si fosse posto troppe domande, non poteva essere controllato, su una nave in guerra solo da loro quattro.

Dirlo ad altri?

Forse, ma quando e se si fosse presentata un‟emergenza.

Solo allora avrebbe pensato chi mettere a parte, di particolari o di tutti gli elementi, di cui era in possesso.

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8.

21 -27 dicembre 1942

Ancora qualche giorno e sarebbe arrivato il Natale. Per Carlo Boni non avrebbe significato nulla. La moglie Carla, ricoverata per tubercolosi a Cuasso al Monte, i figli uno a Pizzighettone e l‟altro ad Abbiategrasso. La sua famiglia sparsa per la Lombardia e i parenti più stretti a Roma.

Carlo lasciò libero sfogo ai suoi pensieri. I ricordi lo ricondussero al 1929 quando diciannovenne, con un colpo di testa, decise di lasciare la famiglia e, usando tutti i suoi risparmi, riuscì a vivere a Tripoli per oltre tre mesi. Gli venne in mente quando visitò Leptis Magna e la facilità con cui si adattò ai cammelli, alla sabbia e al sole cocente, uno dei rari europei che allora visitavano l‟Africa.

Ripercorse le esperienze di lavoro che dovette fare per riuscire a mantenersi: uomo di fatica, lavapiatti, cameriere, portabagagli, scaricatore di porto, conduttore di cammelli, fin quando, finiti i soldi, dovette ritornare a Milano. Riuscì a pagarsi il viaggio in nave solo con un biglietto di passaggio ponte, dormendo, le notti, sul legno del ponte del piroscafo.

Si era iscritto alla scuola alberghiera frequentando il primo anno presso l‟hotel Excelsior del Lido di Venezia. Gli tornarono alla mente le astuzie con cui riuscì a raggranellare, giorno dopo giorno, i soldi con cui pagare il viaggio di nozze con la sua Carla. I genitori di lei l‟avevano diseredata e lei gli aveva

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fatto fare un pacco di tutto quello che aveva indosso il giorno delle nozze, rispedendolo al padre.

Se la ricordava ancora, come fosse stato il giorno prima: nuda nella stanza da letto del loro appartamentino in via Curtatone, mentre gli sorrideva e lo incitava a recarsi all‟ufficio postale per spedire quel pacco di vestiti, ultimo legame con la sua famiglia.

La nascita del loro bambino Umbertino e poi del secondo, Guidino. Il dramma di sapere che, a causa dell‟uso maldestro del forcipe, Guido sarebbe rimasto bloccato tutta la vita su un letto e su una carrozzina. La forza che il destino richiese sia a lui sia a Carla, il cercare di sostenere le spese delle cure tentate e la stoica volontà di non abbandonare la speranza.

Non si era perso d‟animo e aveva fatto di tutto per ottenere dal Cavalier Ceretti, direttore del personale della Riunione Adriatica di Sicurtà, un incarico che gli desse la possibilità di guadagnare abbastanza per far fronte a tutte le spese della famiglia.

Da allora viaggiava per l‟Italia, curando i rapporti con le agenzie generali e sviluppandone il volume d‟affari.

La chiamata alle armi e il sotterfugio con cui riuscì a farsi riformare. Era fiero di quello che aveva fatto: la vita gli aveva già chiesto di affrontare troppe sventure, anche senza dover combattere per i sogni di grandezza del Duce.

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Anche per Riccardo Cortellazzi, testimone di nozze di Carlo e Carla Boni, scapolo impenitente, con tutti i parenti lontani laggiù in Romagna, sarebbe stato un Natale triste.

I due amici decisero di fare qualche cosa di diverso e di passare insieme la vigilia ad Abbiategrasso, il Natale a Cuasso al Monte e Santo Stefano a Pizzighettone.

Noleggiarono una Topolino in una grande autorimessa di Viale Sabotino e firmarono un contratto per 3 giorni di a 150 lire, comprensivi di 400 chilometri. Se avessero superato tale franchigia, ogni chilometro in più sarebbe stato addebitato a Lire 3 cadauno. Fissarono la data del ritiro dell‟auto il 23 dicembre dopo le ore 19 e la consegna entro le ore 12 del 27 dicembre. La limousine fornita era il successo della Fiat: la Topolino. Splendida vetturetta a due posti più uno, strettissimo e costretto nell‟angusto spazio dietro gli schienali.

Passarono un bellissimo pomeriggio della vigilia con Guidino e Battista, in una trattoria appena fuori della Pia Casa e riuscirono a far sentire un poco di calore umano a quel piccolo sfortunato, cui regalarono alcuni caldi capi di abbigliamento e un berretto con il pon-pon rosso.

Il giorno di Natale non incontrarono che pochissime macchine e raggiunsero agevolmente Cuasso al Monte.

Arrivati al grande salone, Carlo scorse sul divano d‟angolo la sua Carla insieme a un'altra donna.

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Anche Carla li vide e stava per indicare a Bice il marito, quando questa le disse.

“Quello mi piace proprio!”

“Quale?” Le chiese allarmata Carla.

“Quello biondo.”

“Meno male, l‟altro è Carlo, mio marito.”

I due amici si stavano avvicinando e Carla gli corse incontro.

“Non ci speravo più, amore mio. Che bello essere tra le tue braccia. Come stai? Come stanno i ragazzi? E il lavoro?”

“Ciao Carla, sei proprio in forma.”

Le disse Riccardo.

“Grazie, sì. Aspetta devo fare qualche presentazione. Lei è Bice, Bice Vantoni una mia carissima amica. Ci siamo incontrate qui e ci siamo piaciute subito. Lui è Carlo, mio marito, questo romagnolo biondo, è Riccardo, un nostro caro amico.”

Dopo poco sui due lati del divanetto si erano già accomodate le due coppie. Riccardo e la Bice si piacquero subito, forse per la loro comune origine romagnola; scherzarono, parlando in dialetto, fino a che Bice chiese a Riccardo se voleva fare il giro del giardino.

“Sì certo.”

Le disse lui.

Finalmente soli, con quel poco di intimità possibile, Carlo e la moglie parlarono di quello di cui parlano tutti gli innamorati e della speranza di poter

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ritornare a vivere insieme. Carlo si dilungò a raccontare dei momenti più belli passati il giorno prima con Guidino e il signor Battista.

“Domani andremo a trovare Umbertino e speriamo che non se la prenda per essere stato lasciato per ultimo, rancoroso com‟è.”

Le rispose Carlo un po‟ in imbarazzo.

D‟altra parte lui aveva dovuto scegliere chi vedere e in quale giorno e non sarebbe mai riuscito a incontrare i ragazzi nello stesso giorno.

Natale fu molto piacevole: nel salone era stata organizzato l‟arrivo di un grasso Babbo Natale che distribuì a ogni paziente un dono. Piccole cose che però fecero diventar calda e coinvolgente l‟atmosfera di quel meraviglioso giorno in sanatorio.

Riccardo mentre guidava, ritornando a Milano, si confidò con Carlo.

“La prossima volta che sei a Milano, ricordati di avvertirmi per tempo: telefonami. Noleggiamo la macchina e veniamo a trovarle.”

“Ti piace la Bice?”

“Certo e spero anche che guariscano insieme, così potranno continuare a vedersi. Saremo due felici coppie di innamorati che potranno frequentarsi tutte le volte che vorranno fuori da ospedali e sanatori.”

La visita a Umbertino fu dolorosa, nonostante i regali che Carlo gli portò. Il ragazzo si sentiva oppresso dai preti che lo facevano studiare e voleva tornare a casa. Papà cercò di spiegargli le ragioni, ma non si può pretendere che un ragazzino sia disposto

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ad accettare cose della vita che sono al di là della sua comprensione.

Venne fuori tutta la spigolosità del suo carattere e l‟intolleranza verso gli altri. Sentendoli parlare con un tono un po‟ troppo alto, il Padre Priore, che stava passando dalla sala di lettura, si avvicinò e con la sua esperienza e profonda serenità riuscì, infine, a strappare a Umberto un sorriso, ma dovette giocare con lui una partita a calciobalilla.

Nel viaggio di ritorno, Carlo pensò a lungo a Umbertino, alle sue esigenze e a quello che avrebbe potuto fare, rassegnandosi alla realtà di dover continuare a lavorare lontano da casa, per poter pagare le rette di Carla e dei ragazzi. Certo se i suoi fossero stati a Milano, se Edoardo invece che sposarsi in Spagna e stabilirsi là, fosse tornato, se Gigi fosse stato sposato, se … se … se …

Con i se e con i ma, non si va da nessuna parte, si disse e decise che il problema era più grande di lui e non avrebbe risolto nulla continuando a spaccarsi la testa alla ricerca di una soluzione che sentiva non esserci.

Riccardo si accorse dello stato d‟animo di Carlo, parlarono per quasi tutto il viaggio, si fermarono lungo la strada a mangiare un boccone e poi, con i fari ridotti dalle norme sull‟oscuramento notturno a due piccole fessure, arrivarono a Milano.

Carlo insistette perché l‟amico si fermasse a dormire da lui, perché l‟indomani avrebbero dovuto riportare la vettura al garage vicino a porta Romana, dove l‟avevano noleggiata.

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Arrivati in via Curtatone, scaricarono le poche cose che avevano caricato e lo sguardo di Riccardo corse al contachilometri. Con angoscia vide che avevano superato di 65 chilometri il limite di 400.

Tra tutti e due non avevano da buttare le quasi 200 lire di differenza e, chiusa la vettura, salirono in casa per trovare una soluzione.

Si misero a pensare a come funzionava il contachilometri e Carlo d‟improvviso ebbe un‟idea.

“Se andando in avanti le ruote fanno girare il meccanismo e i numeri aumentano, forse c‟è la possibilità che, andando in retromarcia, le rotelline dei numeri girino all‟indietro!”

“Carlo non dire sciocchezze.”

Lo redarguì serio Riccardo, continuando.

“Però, aspetta. Se gli ingranaggi fanno girare la rotellina dei numeri in un senso, può essere che girando al contrario, i numeri diminuiscano. Forse hai avuto l‟idea giusta.”

“Torniamo giù e proviamo.”

Carlo si mise alla guida e in retromarcia percorse via Orti, poi via della Commenda, dove all‟angolo con via Santa Barnaba, davanti alla chiesa dei padri Barnabiti, il 9 finale sul contachilometri divenne un 8.

“Funziona!” Esclamò.

Avevano trovato la soluzione. Ma dove potevano percorrere in retromarcia 65 chilometri?

Non potevano rischiare ancora quel giro, passando a poche decine di metri dalla caserma di Via

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Lamarmora; decisero di mettersi sulla circonvallazione di Porta Romana, percorrendola tutta e a mezzanotte iniziò il lungo giro intorno a Milano. Dopo due ore erano a quota 431 chilometri.

Avevano risparmiato 34 chilometri. Riccardo diede il cambio all‟amico e ricominciarono, nel cuore della notte, il loro giro in retromarcia.

Succedono tante cose strane in guerra e una di questa fu che, nelle ore in cui continuarono a percorrere in retromarcia le strade della circonvallazione di Milano, nessuna macchina dei vigili, nessuna guardia notturna e nessuna auto della Milizia fascista li incrociò.

Continuarono facendo il giro completo di Milano, fino a raggiungere un chilometraggio tale da risultare in credito: il contachilometri segnava 395 chilometri.

Parcheggiata la Topolino davanti all‟autorimessa di Viale Sabotino, rientrarono finalmente a casa: erano le 3 e mezza del mattino.

La passeggiata era breve e continuarono a ridere e pensare come avevano fregato il noleggiatore con un‟idea così elementare, ma così efficace che si ripromisero di raccontarla anche ai nipoti.

Questo fuori programma rimise Carlo in pace con il mondo e con sé stesso, fino al punto di decidere di scrivere subito a Carla per raccontarle la faccenda dei chilometri, prendendosi un po‟ in giro; senza dubbio lei avrebbe riso molto della disavventura, ma avrebbe anche apprezzato la soluzione che avevano trovato.

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9. Dicembre 1942 - Marzo 1943

Il Caboto e il suo equipaggio passarono il dicembre e buona parte del gennaio ‟43 in porto a Genova, quel terzo Natale di guerra portò qualche licenza e la possibilità di rilassare un po‟ i nervi tra un‟esercitazione e le poche uscite in mare, per le prove tecniche previste.

Per i quattro uomini che sapevano, quel periodo fu molto attivo. Locascio e Arduino, con discrezione, tennero sott‟occhio i marinai e i sottocapi, cercando di scoprire qualche cosa che potesse ricondurli ai segnali morse.

Le uniche informazioni da riferire durante le riunioni nella cabina del comandante, furono relative al guardiamarina Lorusso e al sottocapo infermiere Gerò. Furono sentiti parlare in tedesco, fatto non particolarmente strano: eravamo alleati dei tedeschi e dei giapponesi.

Nei quasi due mesi a Napoli avevano ricevuto tre o quattro lettere dal comando della Kriegsmarine di Roma, ma potevano aver conosciuto dei colleghi tedeschi durante i corsi di specializzazione o in Accademia. Cosa di poco conto, in fondo, che poteva essere un indizio valido solo se aggiunto a fatti più concreti.

Pizuto tenne sotto costante controllo Carmelo e poté solo riferire che i suoi turni di lavoro erano dettati da un‟estrema scrupolosità nel controllo e

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nella manutenzione, mentre durante i periodi di riposo dormiva o leggeva.

Fasann, dal canto suo, sfruttava le ore libere sparendo in città e rientrando solo pochi momenti prima dei suoi turni di comandata.

Il 20 gennaio, finalmente, arrivarono degli ordini operativi per il trasporto urgente di carburante a Biserta, ponendo termine per il momento a congetture, ipotesi e sospetti che, in mancanza di fatti nuovi, diventavano sempre più labili.

Insieme ad altri due cacciatorpediniere, il Caboto fu stivato di barili di nafta e di benzina avio, destinati ai mezzi dell‟Asse che operavano nel nord Africa; ogni locale disponibile venne riempito di quelle pericolose sostanze. Venne diramato l‟ordine tassativo di non fumare a bordo, fino al termine della missione, fatta salva la plancia e il locale mensa dell‟equipaggio.

Il Caboto era diventato una delle “petroliere più armate” di tutto il Mediterraneo.

Questa volta il mare fu clemente, solo una sottile ma persistente pioggia, accompagnò le tre navi in linea di fila per tutta la traversata effettuata a oltre 30 nodi.

Erano quasi a metà del viaggio e in plancia, tra gli altri, era di guardia Arduino che vide passare un‟ombra davanti a uno dei finestroni vetrati di sinistra: l‟ombra si dirigeva di soppiatto verso poppa. Non c‟erano motivi validi perché qualcuno si muovesse sui ponti, specie con quella pioggia. Il

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movimento era stato rapido, ma Arduino pensò che fosse meglio dare un‟occhiata.

Prese con una mano la pesante cerata e con l‟altra aprì il portello. Appena fuori la infilò subito, trovandosi immerso nella pioggia implacabile che li seguiva da tempo e che toglieva ogni visibilità, obbligandolo a poggiare saldamente i piedi sull‟acciaio scivoloso e a tenersi ben stretto ai cavi tientibene, sistemati in tutti i passaggi senza altre protezioni.

L‟ombra era a una decina di metri avanti a lui, raggiunse l‟albero di poppa e salì agevolmente fino alla piattaforma del riflettore. Arduino, in quel momento, era troppo allo scoperto e si chinò, nascondendosi alla vista sul fianco di uno dei tubi lanciasiluri, perdendo però la possibilità di vedere bene cosa succedeva.

L‟ombra stava armeggiando sotto la piattaforma del proiettore e i movimenti erano pochi ed essenziali. In un attimo ridiscese fino al ponte e si defilò verso uno dei portelli, sull‟altro lato del Caboto.

Era più importante seguirlo, cercando di non perderlo tra i tanti corridoi e scalette all‟interno della nave, o andare a vedere cosa aveva fatto vicino al proiettore?

Arduino decise per un controllo immediato e, salito fino alla piattaforma, trovò uno dei cavi elettrici, con i connettori stagni, staccato dalla scatola d‟alimentazione del proiettore. Dopo aver chiuso le alette del meccanismo di segnalazione del

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proiettore, per impedire che la luce lo tradisse, provò con l‟interruttore esterno ad accenderlo: funzionava.

Nessun sabotaggio quindi, ma perché c‟era un cavo scollegato?

A cosa poteva servire?

Prendendolo in mano, vide che era leggermente più scuro degli altri e scendeva verso la piattaforma; si chinò e guardò sotto di essa. Il cavo finiva in un piccolo oggetto quadrato di dieci centimetri di lato, con due flange parallele distanti un centimetro.

Il blocco di metallo era fissato a una zeppa di metallo con un bullone che era incastrata nella parte inferiore della piattaforma, tra due lamiere parallele.

Provò a collegare il cavo libero alla presa stagna del proiettore, al di sopra della piattaforma e una sottile, ma potente lama di luce cominciò a pulsare illuminando la pioggia che scrosciava dal cielo.

Dall‟inclinazione dell‟apparato, nella posizione in cui lo aveva trovato, la luce doveva essere visibile solo dal mare a una distanza difficile da valutare con quella visibilità, ma stimabile in centinaia di metri a poppavia.

E continuava a pulsare. Arduino prestò la massima attenzione e riuscì a interpretare la sequenza dei segnali: S S S M, ripetuto a due secondi di distanza.

Impiegò cinque buoni minuti, soppesando i pro e i contro e decise di lasciare collegato il proiettore. Lo rimise nella stessa posizione in cui lo aveva trovato, verso la poppa del caccia e scese dalla piattaforma, dirigendosi in plancia. Si tolse la cerata bagnata e, fradicio com‟era, bussò alla cabina del comandante.

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“Hai fatto bene a ricollegarlo.”

Gli disse Pizuto, continuando:

“Chi era comandato nel turno di guardia che è appena smontato?”

“Fasann, Lorusso, Greco e Locascio.”

Rispose Arduino.

“Bene, cercali e svegliali, se necessario. Vi voglio tutti qui, tra cinque minuti.”

Cinque minuti dopo i quattro uomini erano davanti al comandante.

“Voglio sapere chi di voi o dell‟equipaggio, senza nessun ordine, è salito sull‟albero di poppa, circa venti minuti or sono.”

Li apostrofò Pizuto, con un tono duro e inquisitorio.

“L‟uomo è entrato e uscito dal castello di prua, un‟ombra è passata davanti a uno dei finestroni della plancia. Da qualche parte ci devono essere un‟incerata e abiti bagnati fradici, visto che Arduino sta colando acqua a fianco della mia cuccetta.”

Nella penombra della stanza, nessuno aveva notato che Fasann, per un attimo, era sbiancato in volto. Decisero quali settori della nave perlustrare e si mossero uscendo dalla cabina. Pizuto posò la mano sul braccio di Fasann trattenendolo e gli disse:

“Credo che lei sia interessato a sapere che Arduino ha rimesso in funzione il proiettore.”

“Grazie, comandante. Sì, m‟interessa e vorrei sottolineare che ora comincio a capire perché lei è stato scelto. Capisco anche perché ha scelto alcuni

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particolari uomini del suo equipaggio, mettendoli a parte di notizie riservate. Grazie.”

I quattro uomini si divisero. Solo uno non si diresse verso il settore che gli era stato assegnato da Pizuto, ma prese la direzione di Lorusso cui erano stati assegnati, non per caso, i locali equipaggio, l‟infermeria e la parte poppiera della nave.

La ricerca del guardiamarina Lorusso fu frettolosa e superficiale, anche quando, davanti allo stipetto del sottocapo infermiere Gerò, abbassò lo sguardo e non poté non notare la larga pozzanghera d‟acqua. Fasann riuscì a cogliere il movimento del capo di Lorusso, si appiattì ancora di più contro la paratia che lo celava alla vista e, appena il giovane lasciò il locale, si avvicinò con circospezione all‟armadietto.

Trovò quello che sapeva avrebbe trovato: una cerata nera, lucida di pioggia, fradicia e in fondo un cambio di biancheria umida, buttata sopra gli stivali, anch‟essi bagnati. Richiuse lo stipetto e tornò verso la cabina del comandante.

Arrivarono anche gli altri e Pizuto, guardando i visi sconsolati, comprese.

“Così non avete trovato nulla, sarei stato sorpreso del contrario. Coraggio Arduino, tieni presente che la stanchezza gioca brutti scherzi, a volte.”

Arduino stava fulminando con lo sguardo Pizuto, tra l‟arrabbiato e il furioso. Preso un lungo respiro, stava per ribattere, quando il comandante congedò Lorusso.

Rimasti in quattro, Arduino iniziò subito:

“Comandante …”

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Fu zittito con un gesto, la mano indicava il portello della cabina del comandante.

Pizuto attese qualche secondo, si avvicinò al portello e lo aprì di scatto.

“Qualche cosa da segnalare, Gerò?”

Preso alla sprovvista, Gerò iniziò un improvvisato e caotico rapporto sul fatto che c‟erano due marinai che avevano marcato visita.

Pizuto fu glaciale:

“Al comandante lo vieni a dire? Non lo sai che devi fare rapporto a Locascio? Sparisci!”

Si sentì il rumore di passi che si allontanavano, Pizuto riaprì il portello e, soddisfatto nel trovare tutto libero, iniziò a parlare.

“Stai calmo, Arduino. Il guardiamarina Fasann ti ringrazia per aver riattivato il segnalatore luminoso. Era ovvio che nessuno di voi tre avesse trovato qualcosa, specialmente nei locali ispezionati da Lorusso. Fasann lo ha seguito e può affermare che ha mentito. Non ci ha detto che davanti allo stipetto di Gerò c‟era dell‟acqua e il vano era bagnato fradicio.”

“Inoltre, poco fa, chi abbiamo trovato? Gerò.”

Fasann intervenne:

“Quadra tutto, adesso. I due sono d‟accordo, hanno scollegato il segnale luminoso: Gerò è quello che si è arrampicato sull‟albero e Lorusso l‟ha scoperto, non segnalandoci nulla. Abbiamo trovato i nostri due uomini, tanto amanti della lingua tedesca.”

Continuarono a considerare i tasselli che cominciavano a unirsi e a dar forma a un quadro

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quasi completo. Quasi perché corrispondeva a tre quarti di quello che sapeva Pizuto, ma solo a una piccola parte di quanto sapeva Fasann.

Quello che Fasann stava rimuginando, durante un suo personale giro di controllo della nave, era come potevano essere così informati sull‟esatta ubicazione del trasmettitore. In effetti, solo chi lo aveva piazzato, cioè lui stesso, poteva conoscerne il punto esatto.

Era stato visto?

Oppure casualmente, si erano trovati nell‟unico punto della nave da dove si poteva percepire il debole chiarore, vale a dire all‟estrema poppa del Caboto?

In quel momento era là a controllare, sporgendosi oltre il tientibene che collegava le due tramogge di scarico delle bombe di profondità: un debolissimo chiarore illuminava, a tratti, il bordo della flangia superiore.

Effettivamente chiunque si fosse trovato a controllare le tramogge o si fosse diretto verso l'estrema poppa, magari a guardare la scia della nave, avrebbe avuto l'occasione di scorgere il chiarore sull‟albero di poppa.

Lorusso e Gerò, sicuri di averlo disattivato, stavano ora godendosi, distesi in cuccetta e al caldo, la loro piccola vittoria di Pirro: certi che nessuno avrebbe ricontrollato la zona di ricerca di Lorusso e pensando che nessuno avrebbe messo in dubbio il rapporto negativo.

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Lo sbarco dei fusti di carburante, a Biserta, fu effettuato senza problemi: un lavoro tranquillo prima di riprendere la navigazione per il ritorno, la temuta “Rotta della Morte.”

Pizuto aveva le sue idee su come rendere inoffensivo il guardiamarina Lorusso, pur sempre uno degli ufficiali della nave e prevenire le pensate di Gerò. Per quest‟ultimo fu sufficiente la necessità di imbarcare per il rimpatrio, alcuni gravi feriti. Ciò rese la piccola infermeria un locale troppo affollato e limitò il tempo libero dell‟infermiere a pochi minuti per fumare velocemente una sigaretta.

Per evitare sorprese, il sottocapo Carmelo simulò un continuo malessere, tale da permettergli di restare in infermeria, anche se solo su una delle sedie di ferro. L‟importante era tenere sotto controllo l‟infermiere, la cui eventuale assenza sarebbe stata notata.

Il cont-cala si sobbarcò l‟incarico di diventare l‟ombra di Lorusso. Arduino e Fasann avrebbero poi dato il cambio e fatto in modo che i movimenti dei due sotto controllo non potessero essere liberi da sguardi indiscreti. Greco si disse d‟accordo, anche se avrebbe preferito l‟azione, invece dell‟ attesa.

Erano all‟altezza della punta occidentale della Sicilia quando Lorusso, verso la fine di un turno di guardia in plancia, espresse l‟intenzione di sgranchire un po‟ le gambe.

Fasann fu pronto:

“Ottima idea, Salvatore, vengo anch‟io così possiamo iniziare a conoscerci un po‟ meglio.”

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Sul viso di Lorusso si dipinse un‟espressione non proprio soddisfatta, d‟altra parte come avrebbe potuto rifiutare? Lorusso si diresse verso poppa, per andare a controllare se, per caso, il segnalatore fosse ancora in funzione. Fasann, dal canto suo, con un pretesto lo invitò a sedersi su uno dei due lanciasiluri, gli offrì una sigaretta e al termine, con voce grave, gli ricordò i loro doveri in plancia.

Il desiderio di andare a controllare era forte, ma Lorusso constatò che non ne avrebbe avuto la possibilità e concluse che, in fondo, poteva essere inutile.

Quella decisione che sembrava la più saggia, si rivelò invece una concessione al nemico, infatti il trasmettitore continuava a svolgere il suo compito, lanciando il messaggio luminoso a chiunque fosse a circa un miglio dietro la poppa del Caboto, più o meno all‟altezza di un periscopio in osservazione.

Nonostante le precauzioni, durante la seconda notte di navigazione non fu possibile evitare che Gerò e Lorusso si incontrassero e che dessero il via a una lunga conversazione in tedesco. Si erano trovati quasi per caso. Gerò era la prima volta che usciva dall‟infermeria e nessuno avrebbe potuto ridire sul suo desiderio di salire sul ponte a respirare un poco d‟aria fresca.

Erano appoggiati alla torretta di uno dei pezzi da 120 di prua, sotto lo sguardo di Locascio che era in plancia e li osservava.

“Gli ordini sono chiari,” disse Lorusso, “non facciamoci scoprire. In fondo quel proiettore

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potrebbe essere un nuovo sistema di sicurezza di cui non conosciamo l‟esistenza. A Genova non c‟era niente di simile e, come ci hanno detto, dobbiamo contrastare ogni attività che sia contro l‟interesse dell‟Italia: noi lo abbiamo disattivato.”

“Stiamocene tranquilli e vediamo cosa diavolo inventa il nostro traditore.”

Anche quel viaggio di ritorno si svolse tranquillamente, nessun allarme, nessun avvistamento, unica novità la destinazione: Napoli. Pizuto lo sapeva, era solo merito del trasmettitore, ma questo non poteva dirlo ai suoi uomini. Era a disagio, sapendo che era inutile che gli uomini stessero giorno notte in stato di “posto di combattimento”, esposti al freddo e al vento, senza ragione.

Un messaggio cifrato di Supermarina attendeva il comandante del Caboto. Era chiaro, anche se redatto nel linguaggio ermetico con il quale gli ordini spesso venivano formulati. Il guardiamarina Fasann era comandato in missione a Roma per dieci giorni, a disposizione del Capo di Stato Maggiore della Marina.

L‟essere alla fonda a Napoli portava conseguenze negative e positive. Uno degli svantaggi erano i frequenti bombardamenti cui era soggetta l‟Italia meridionale e in particolare i grandi porti, come Napoli.

Tra i vantaggi invece: la franchigia per l‟equipaggio e la possibilità di tranquille scorrazzate in città, alla

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ricerca di nuove e ardenti conoscenze femminili e di ricevere la posta con una certa regolarità.

Una sera i due Guardiamarina tentarono inutilmente di coinvolgere Fasann in un giro delle case di tolleranza di Napoli, ricevendo solo una sgarbata risposta.

Quella stessa sera, in sala macchine, Benito Carammani teneva banco, raccontando le disavventure della sua famiglia che adesso riusciva a vedere spesso. Erano nove fratelli e due erano sotto le armi: entrambi in fanteria. Lui il più grande, sul Caboto, il secondo con l‟ARMIR, l‟Armata Italiana in Russia e il terzo in Africa.

Le notizie, dai due fronti, erano drammatiche: ormai la guerra era persa. In Africa le forze dell‟Asse, il famoso Afrika-Corp era in ritirata, mentre in Russia il nemico, con le sue durissime offensive, obbligava italiani e tedeschi a una ritirata simile a una completa disfatta, ancora di più di quella napoleonica.

Raccontando dei genitori e degli altri sei fratelli, quel simpatico e gioviale napoletano cercava di commentare le notizie, considerandone però i lati positivi e sottolineandoli con fragorose risate, in modo da rendere le novità più semplici da sopportare sia per sé sia per i suoi uomini.

Le lettere che aveva trovato in porto lamentavano la difficoltà a comprare qualsiasi cosa per i nipoti, le sue creature. Perfino le solite caramelline di zucchero che era un‟abitudine comprare sul sagrato

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della chiesa, la domenica dopo la messa, erano impossibili da trovare.

Il padre, siciliano d‟origine, deplorava di non riusciva più a trovare nemmeno il liquore d‟anice, merito della guerra e di quelli che comandavano, che ne avevano vietato la produzione e il commercio. Ma lui sapeva dove procurarselo, a Napoli si reperiva tutto e si poteva barattare tutto.

La sera prima, una notizia l‟aveva mandato in bestia: da qualche tempo non era più permessa la vendita di apparecchi radio ai privati, forse a causa dell‟abitudine della maggioranza degli italiani di ascoltare tranquillamente Radio Londra, nonostante il divieto. La radio non funzionava più, probabilmente a causa di una valvola, ma era vecchia e Carammani ne avrebbe voluto una nuova: al diavolo anche le valvole, aveva concluso con una risata.

Anche Locascio aveva parecchio da raccontare: aveva ricevuto molte lettere e tutte dal nord dell‟Italia. Rina, la cognata, che lo ammirava moltissimo, sia per il grado di Capo di 1a classe che come uomo, gli scriveva spesso e gli ricordava quella simpatia che era nata tra loro, appena il fratello gli aveva presentato la sua promessa sposa.

Locascio avrebbe voluto avere una figlia come Rina. Lei cercava sempre di raccontargli nelle lettere quello che le capitava di affrontare nella vita quotidiana. Questa volta il tema era il costo, fissato dal Ministero delle Corporazioni, per gli abiti e per le gonne femminili. C‟erano tre classi di prezzo e lei con

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le 500 lire che riusciva a risparmiare ogni trimestre, non avrebbe potuto comprare che un abito di seconda categoria, dando l‟addio a ogni speranza di aspirare all‟abito di prima categoria: lo sognava da così tanto tempo!

Anche Gerò aveva ricevuto posta dal fratello di Bologna, gli parlava di quanto fosse attivo il movimento degli operai e di quanto si cercasse di fare per porre un freno al potere fascista. I due fratelli avevano cominciato a non andare d‟accordo quando avevano abbracciato ideologie politiche diverse e le notizie colpivano profondamente Gerò nella sua fede incrollabile nel fascismo, pur riportandogli alla mente i bei tempi andati in cui giocavano insieme.

Romano Pizuto prese la lettera che, con sollecitudine, Locascio gli aveva consegnato, prima tra la corrispondenza che doveva distribuire.

Era inconfondibilmente della moglie Elena, quei tratti svolazzanti del corsivo, quelle “t” con il lungo tiretto, le maiuscole elaborate, erano come le decorazioni apposte su un regalo.

Salì in plancia e raggiunse la cabina; si mise comodo alla scrivania e caricò la pipa, l‟accese, prese il tagliacarte e lentamente tagliò uno dei bordi della busta, in modo da non sciuparla. Doveva costituire lo scrigno in cui l‟avrebbe conservata, letta e riletta durante le lunghe guardie notturne e per rilassarsi dopo l‟azione.

Iniziò a leggere la minuta calligrafia di Elena e si fece travolgere dalle emozioni dei ricordi. Il ballo

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della Croce Rossa, dove aveva visto per la prima volta la madre di Elena, la Contessa Gaetana Colonna, che l‟aveva accolto.

Quella splendida ragazza che ora era sua moglie. Il contrammiraglio Giovanni Caracciolo del Monte, papà di Elena e lo zio, monsignor Uberto della Segreteria di Stato del vaticano. Tre persone che aveva apprezzato e da cui aveva ricevuto stima e affetto.

Rivide la casa, i giardini, la loro camera, la camera di Elena in cui per la prima volta erano stati in intimità.

Roma, 2 marzo 1943 (XXII EF)

Caro amore mio,

ti penso, una volta tanto, tranquillamente seduto alla tua scrivania da combattimento, ma con il Caboto ben ormeggiato in uno dei nostri porti ancora sicuri.

Dall’ultima volta che ti ho scritto, ho dovuto partecipare ad alcune delle solite feste che diamo. Senza di te sono proprio le solite feste, quando ci sei, invece, sono un trionfo attribuito, non a Cesare, ad Augusto o a Traiano, ma al mio Romano, celebre conquistatore di Elena Caracciolo del Monte.

A parte gli scherzi, mi sono trovata a dover partecipare a queste serate e c’era tutta la solita Roma bene, civile, militare e religiosa. Non hai idea come siano informati i Monsignori e i Cardinali,

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quasi più dello “zio” Cesare, che mi sembra abbia a che fare con certi servizi segreti della Marina.

Ho avuto occasione di raccogliere riflessioni, confidenze e considerazioni che, se messe insieme, costituiscono una profonda, circostanziata e ponderata valutazione del tuo operato come ufficiale di Marina. Stai tranquillo, la valutazione è eccellente. Fidati di me: conosco il giudicato piuttosto bene, l’ho sposato! Sono, inoltre, figlia di un contrammiraglio e chiamo zio un ammiraglio di squadra.

La cosa mi è sembrata comunque strana ed ho deciso di raccontarti come sono andate le cose. E’ difficile per me ricordare le parole esatte, anche se alla fine di quella sera dedicata alla canasta, sola nella nostra stanza, ho cercato di scrivere quello che ricordavo.

L’ammiraglio Cesare Fasann, ti ho parlato spesso di lui, è un vecchio amico di famiglia che ha perso la moglie per una malattia fulminante e furono proprio i miei genitori che lo accompagnarono all’ospedale e gli furono vicini in quei momenti.

Dal servizio attivo al Comando di una Squadra navale, dopo essere rimasto vedovo, è passato nella diplomazia ed è rimasto diversi anni a Londra. Rientrato alla fine della guerra, ha a che fare con l’avanzamento di grado di tutti gli ufficiali superiori e generali, oltre che con le informazioni per la Marina.

Ebbene, mi ha visto e mi ha avvicinato dicendomi come sempre: “Ciao piccola Elena.” Dandomi un

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paterno bacio sulla guancia e continuando: “Mi è capitato di conoscere il tuo comandante. Abbiamo parlato di tante cose e devo dire che non potevi fare scelta migliore. Un uomo di spessore. Un ufficiale che ha già fatto capire di che pasta è fatto, con un’alta considerazione per il suo equipaggio, una rara umanità. A bordo delle sue navi, la disciplina è stata ed è spontanea e gli equipaggi lo hanno sempre stimato.”

Poi ha parlato di Umberto, tuo fratello.

“Ho conosciuto anche il fratello Umberto. Ora dovrebbe essere tenente colonnello dell’Aeronautica. Buon sangue non mente, anche lui un ottimo ufficiale.”

Continuando: “Vedi cara Elena, noi vecchi barbogi della Marina desideriamo sempre sapere a chi affidare le missioni impossibili. Gli obiettivi che richiedono cieca obbedienza, ma non perché vengano perpetrate nefandezze più o meno comandate, ma perché servono persone che sappiano capire che c’è qualcosa di molto più importante che, magari, non è stato detto loro.”

“E’ in quei momenti che servono uomini come i due Pizuto.”

Io gli ho detto: “Zio Cesare, non ho capito molto, ma lo prendo come un complimento a Romano.”

“Certo, certo, mia piccola cara. Voleva essere solo un complimento.” E si è allontanato raggiungendo papà.

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Qualche sera dopo, a un torneo di ramino organizzato qui da noi, ho incontrato mio zio, Monsignor Ubaldo, fratello di papà, quello che lavora in Vaticano, alla Segreteria di Stato.

Abbiamo cominciato a parlare del tempo, della guerra e da lì è passato a congratularsi con me per la scelta che avevo fatto sposandoti. Mi ha detto che il tuo nome è noto in Vaticano e passa come quello di un ottimo e valente ufficiale che condivide molte posizioni con la LORO diplomazia.

Non ho potuto approfondire perché il Cardinale Guido Fasann, fratello dello zio Cesare, è arrivato alle nostre spalle e zio Ubaldo si è inginocchiato davanti a Sua Eminenza, baciandone l’anello e mentre LO baciavo anch’io, mi ha detto: “Elena, figliuola mia, vieni, desidero dirti una cosa.”

“Ho incontrato tuo marito. Degnissima persona. Sarete felici insieme. Penso che avrà da affrontare i suoi quaranta giorni nel deserto. Certo lo dovrà fare, non come fece Gesù, per uno scopo spirituale, ma più terreno. Tieni saldo il suo cuore e i suoi cristiani propositi. Va’ ora ti chiamano al tavolo e sei tu che devi dare le carte.”

Mi ritrovai seduta al tavolo con papà, contro zio Cesare e un generale dell’Esercito. Forse è stato un bene perché non avrei osato chiedere qualcosa al Cardinale e sarei rimasta lì, in piedi come una stupida, confusa per quello che avevo appena sentito.

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Questo è tutto e può voler dire molto o niente. Non so decidermi, ma credo di avere fatto bene a parlartene. Tu, meglio di me, potrai giudicare e decidere per il meglio.

Tornando al mondo della donna Elena, quando ritorni in porto? Quando ti potrò rivedere? Una licenza degna di tale nome, almeno dieci giorni, quando l’avrai?

Non tenermi sulle spine e dimmelo nella tua prossima.

Mi manchi molto, sento la mancanza di quel tepore al mio fianco, la mattina quando apro gli occhi e non solo.

Ti amo, Elena.

Romano rilesse due volte la lettera e chiuse gli occhi. Anche quei tre amici e parenti di Elena avevano ribadito che avrebbe dovuto affrontare qualcosa e che lo ritenevano degno di tale incarico.

Lungi dall‟esserne lusingato e dal montare in cattedra, concluse che avrebbe valutato la situazione e agito, con coscienza, per il meglio. Era un uomo del presente e voleva restarvi legato fermamente. Se succederà qualcosa, la Divina Provvidenza mi indicherà la strada giusta, si disse.

Pragmaticamente accantonò il pensiero e uscì dalla cabina ritornando a essere il semplice comandante del Sebastiano Caboto.

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Nel libro di bordo vennero registrate diverse missioni abbastanza tranquille, se paragonate a quelle vissute nel recente passato. In gennaio si trattò di scortare dei convogli di truppe per la Corsica e in febbraio il Caboto pattugliò, senza sosta, il mare di Liguria.

Durante questo periodo di relative quiete, amicizie e conoscenze si intrecciarono ancora di più tra i membri dell‟equipaggio.

L‟unico grande escluso, per i suoi modi di fare, era Fasann. Pizuto lo capiva bene, ma non poteva far niente, se non invitarlo a cena nella sua cabina. Anche questo però, ammorbidiva soltanto l‟atteggiamento che Fasann in privato teneva con il comandante: il tono più rispettoso e le risposte più sincere e meno taglienti che dava erano il frutto di quella stima e di quell‟ammirazione che provava per Pizuto e che andavano crescendo sempre di più, senza fargli mai perdere di vista ciò che poteva e ciò che non poteva dirgli.

A bordo invece nulla era cambiato, nulla doveva trapelare.

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10. Marzo 1943

Il 17 marzo giunse una circolare che metteva in evidenza i rapporti tra gli alleati dell‟Asse: da quel momento, anche in Marina, i rapporti tra italiani e tedeschi sarebbero stati molto più collaborativi.

Il dispaccio parlava delle disposizioni relative all‟affiancamento di ufficiali tedeschi a quelli della Marina italiana, specie per le posizioni di particolare responsabilità, in particolar modo, delle navi da guerra e dei comandi dei porti.

Erano tornati dall‟ennesima missione di scorta per la Corsica e gli ufficiali erano riuniti in plancia. L‟unico che mancava, come spesso accadeva, era Fasann. A questo riguardo, la conversazione cominciò a prendere una brutta piega, uno dei più difficili momenti che Pizuto dovette affrontare.

Vennero fuori tutti i vecchi rancori contro Fasann e chi sapeva non poteva parlare: l‟unica possibilità era lasciar libero sfogo al risentimento che covava negli animi.

Era un ufficiale, figlio di un ammiraglio, diplomatico per di più, si era trovato la strada fatta, un atteggiamento da fascista convinto, appena in porto si imboscava, la comoda convocazione a Roma con il comandante: ecco i commenti che ricorrevano da un angolo all‟altro della plancia, sembrava che non piacesse a nessuno.

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Fu il momento che Pizuto aspettava, lui cercava sempre di applicare la leva al momento giusto e nel posto giusto: minimo sforzo e massimo rendimento.

“Lorusso, lei è sicuro di voler avere un ufficiale delle SS a bordo? Non le basta Fasann, un fascista convinto, come lo definiscono in molti?”

Lorusso rimase bloccato da quell‟attacco diretto e il silenzio scese in plancia. D‟altra parte in tutte le missioni effettuate dal Caboto, Fasann era sempre stato più che attivo, presente e coscienzioso nell‟eseguire e dare ordini, questo lo riconoscevano tutti.

Fu una fortuna che lo sfogo fosse stato riportato dal comandante su un terreno di razionalità e su quello che Fasann aveva realmente fatto per la nave, perché il giorno seguente arrivò un dispaccio „SEGRETISSIMO‟ da Roma, per Pizuto.

Il guardiamarina Fasann si doveva mettere a rapporto dal Capo di Stato Maggiore della Marina ai cui ordini avrebbe operato per i successivi 45 giorni.

Pizuto convocò Fasann e gli comunicò l‟ordine. Nello sguardo del guardiamarina ripassò quell‟ombra che aveva visto il primo giorno, quando lo aveva zittito. Sapeva di non poter porre domande, gli pesava soprattutto il fatto che se le avesse poste, la risposta sarebbe stata cortese, ma negativa. Anche se era solo un capitano di corvetta, era pur sempre il comandante di una nave cui non piaceva sentirsi dire: lei non può sapere.

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Ciò lo indusse a fissare a lungo lo sguardo negli occhi del guardiamarina, restando in silenzio. Fasann comprese lo stato d‟animo e gli disse:

“Comandante, apprezzo moltissimo che non mi rivolga tutte le domande che vorrebbe farmi. Lei sa che non potrei risponderle, ma verrà un giorno in cui potremo farci una lunga chiacchierata, senza remore e senza silenzi, nella sua cabina, mentre lei gusterà la sua pipa preferita.”

Quella domenica pomeriggio, a Casale Monferrato era festa grande. Da tutto il Piemonte erano arrivati camerati per essere presenti a quell‟importante avvenimento. In mattinata il podestà di Alessandria aveva inaugurato i due nuovi capannoni del campo d‟aviazione a sud della città; ora quel lungo campo erboso era diventato un vero e proprio aeroporto.

Davanti ai due capannoni: 6 Biplani CR42, 6 caccia Fiat 200 e 2 grossi Savoia Marchetti S79 luccicavano con le parti in acciaio sfavillante. Poco più in là la direzione di volo e radioassistenza, sormontata dalla grande antenna e la baracca dormitorio per i piloti. La manica a vento si muoveva, come una bandiera, nei suoi colori bianco e rosso.

Anche alla Cascina Passerotta era festa grande: la giornata serena e tersa, come solo all‟inizio della primavera può capitare.

I manifesti, affissi da almeno tre settimane, avevano avvertito che quel pomeriggio ci sarebbero state le evoluzioni degli aerei. Papà Giacomo e

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mamma Aurelia, Abramo, Isacco, Carletto, Piera e Ida, il fattore Claudio, la moglie e tutti e cinque i loro figli erano dietro la casa da dove la vista raggiungeva il campo d‟aviazione, Casale Monferrato e all‟orizzonte le Alpi con il Monte Rosa imbiancato.

Chi aveva preso una sedia, chi una sdraio, chi direttamente una panca. le avevano disposte come in teatro, in modo da non disturbare la visuale a chi stava dietro.

Prima partirono i quattro biplani e arrivarono fin sulla verticale della collina dove era la Passerotta, virarono e poi giù, a passare sul campo a volo radente. E via con le evoluzioni, scivolando d‟ala e riprendendo, volando in formazione a rombo, a freccia e poi singolarmente verso i quattro punti cardinali. Partirono anche i caccia e iniziarono i caroselli aerei, dove venivano simulati attacchi e sganciamenti.

I caccia cercarono di attaccare i biplani che dimostrarono con quanta agilità riuscivano a sottrarsi all‟inseguimento. Anche i due grossi SM79 si alzarono in volo e guadagnarono quota fino a quando si videro sbocciare dei fiori bianchi nel cielo: uno, due, cinque, dieci paracadute che dolcemente portarono gli uomini fin sul campo.

Uno dopo l‟altro gli aerei atterrarono tra le note di celebri marce suonate dalla banda militare e portate dal vento fin alla casa dei Giusti.

“Papà Giacomo, cosa ne dice dei nostri ragazzi dell‟aviazione, della loro bravura?”

Chiese Claudio al capofamiglia.

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“Per essere bravi, lo sono. Speriamo solo che la guerra non si porti via tanto ardimento e tanto coraggio.”

“La guerra è sempre guerra e le pallottole uccidono sia i bianchi sia i neri. Sia chi dice, è per una giusta causa, sia quelli che vengono definiti cattivi.”

La riflessione di mamma Aurelia riportò il silenzio nel gruppo.

Lentamente i ragazzi presero sedie, sdraio e panche e le rimisero a posto. L‟indomani una nuova giornata di lavoro li aspettava.

Il giorno successivo, nel pomeriggio, la primavera tentava ancora di scacciare dal suolo, dai tronchi, l‟inverno sempre difficile da allontanare. Alcune gemme erano comparse sui rami più piccoli, qualche tenero germoglio d‟erba e le chiazze di neve che si restringevano ogni giorno di più sotto l‟incalzare dei caldi raggi di sole, avvisavano che stava arrivando.

Mamma Aurelia era dietro la casa e stava stendendo i panni insieme alla moglie del fattore.

D‟un tratto, allungando la mano e indicando l‟inizio della stretta strada che conduceva alla loro casa, disse a voce alta:

“Chi è che solleva tanto polverone, neanche fosse Nuvolari a Monza?”

“Quel tipo di auto non lo conosco.”

Colta da un presentimento, si girò verso la casa gridando:

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“Carlo, attento. Presto, nasconditi insieme agli altri!”

Le due donne smisero di stendere e, girando intorno alla casa, si fermarono sull‟aia, attendendo l‟arrivo dei forestieri.

Con un lungo stridio di un‟inutile quanto brusca frenata, l‟auto si fermò. Il polverone non si era ancora depositato che le quattro portiere si aprirono.

Ne discesero tre uomini: due armati di moschetto, la camicia nera in bella vista e si misero a lato della portiera posteriore destra.

Quello che doveva essere il capo, dall‟atteggiamento di sottomissione dei tre, era uno degli uomini del federale di Casale Monferrato.

“Donne, questa è la casa della famiglia Giusti?”

Disse con tono sprezzante, mentre i due uomini tenevano il moschetto al fianco, pronto al fuoco.

“Sì è questa.”

Rispose Aurelia, per nulla intimorita.

“Voi chi siete?”

“Sono la signora Aurelia Giusti. Perché?”

“Perché qui c‟è da mandarvi tutti al confino. Nel carcere di Ventotene!”

“Ci risulta che qui ci siano ben cinque uomini che si sono sottratti alla leva. Giacomo, di 55 anni, Giovanni Maria di 27, Abramo e Isacco di 26 anni, non sarete mica ebrei? E poi c‟è Carlo di 25 anni. Dove sono?”

“No, signor …”

“Lasciate perdere il mio nome e rispondete!”

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“Siamo tutti battezzati qui in parrocchia a San Germano. Potete controllare dal prete.”

“Dove sono gli uomini?”

Riprese brusco l‟uomo del federale.

“Mio marito è andato a Terruggia, a controllare le vigne che abbiamo laggiù. lo sapete che è invalido, ferito sul Carso, per la patria!”

“Gli altri dove sono?”

Rimbeccò quasi urlando il capo di quel quartetto; i tre scherani stavano lentamente abbassando i moschetti.

“Mio figlio Giovanni, lo dovreste sapere, è in Seminario a Vengono Inferiore, sarà consacrato prete tra un anno circa.”

“Gli altri, dove sono?”

“Abramo, Isacco e Carlo si sono allontanati da casa nel giugno del „40, quando siamo entrati in guerra. Da quel momento non li abbiamo più visti. Piuttosto, ditemi voi, non è che me li avete fatti ammazzare in Africa o in Russia?”

“Tacete, donna. Se ricevete notizie, li vedete o venite a sapere dove sono, dovete correre e subito; ho detto correre subito alla sede del partito fascista in Casale e riferire tutto. Se non lo fate, potremmo venire qua e fucilare qualcuno. Capito?”

“Sì, va bene.”

“Avete capito bene cosa dovete fare ?”

“Sì, ho capito cosa dobbiamo fare, se dovessimo avere notizie.” Ripeté indolente Aurelia, insofferente di quel tono e di tutte le minacce che aveva sentito.

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I quattro miliziani risalirono sull‟auto e sbatterono tanto forte le portiere che il vetro a fianco del guidatore scese di colpo nella carrozzeria. Il capo azionò la manovella, ma non risalì e, mentre la vettura partiva schizzando ghiaietto tutto intorno, la polvere cominciò a entrare nell‟abitacolo attraverso il vano aperto.

“Bene, mangiate un poco di polvere anche voi, porci!”

Disse Aurelia, con il sorriso sulle labbra e facendo segno di salutare.

Carlo Giusti, poco prima, aveva sentito l‟avviso della madre e, senza chiedere altro, si era diretto al piano di sopra dove i due fratelli stavano spostando le balle di fieno per farle scendere sul carro e portarle alle stalle.

“Presto, arriva qualcuno. Di corsa alla nostra „casa‟.”

Scesero da una scala di legno fino a terra e, restando nascosti dalla casa, si diressero correndo attraverso i campi verso la strada che saliva alla volta della cantina-grotta e del loro nascondiglio.

Anni prima, quando Caterina, Abramo, Isacco, Giovanni, Carlo, Ida e Piera, costituivano “la banda” inventando giochi e vaste esplorazioni dei dintorni, la più grande avventura che avevano vissuto era stata la scoperta, dietro una botte della cantina, che la famiglia aveva poco lontano dalla cascina Passerotta, di una grande caverna naturale nel tufo della collina. L‟avevano esplorata e sistemata in modo da farne il

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loro rifugio e la loro casa e della quale avevano mantenuto il segreto, anche con i genitori.

I tristi proclami del regime contro gli ebrei e il pericolo per i fratelli Abramo e Isacco, a causa dei loro nomi e della profonda ignoranza per cui spesso venivano associati all‟ebraismo invece che alla religione cristiana, li avevano spinti a raccontare ai genitori il loro segreto.

Oltre a questo c‟erano le retate per catturare gli uomini e obbligarli a imbracciare le armi. L‟esistenza del nascondiglio era stata accolta come una benedizione dai genitori e i ragazzi avevano piantato folti cespugli di siepe, sui lati del sentiero visibile da casa e dalla strada, realizzando un camminamento che impediva la vista e consentiva di muoversi verso il rifugio.

In breve furono alla sesta botte di sinistra e, tolto il blocco di tufo, entrarono nella grotta. Accesero le torce e si diressero alla stanza. Qui Carletto si mise in osservazione e riuscì a vedere la vettura che scendeva la strada per ritornare verso San Germano.

Decisero di restare fino a quando Piera o Ida non fossero venute a dar loro il cessato pericolo.

Attesero due ore ed ecco che Piera entrò nella stanza rifugio.

“Erano quattro della milizia. Se ne sono andati quasi subito. Abbiamo controllato per tutto il pomeriggio e non abbiamo visto movimenti strani sulle strade. Abbiamo aspettato papà e lui mi ha spedito qui ad avvisarvi di tornare.”

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A cena i discorsi erano tutti incentrati sul fatto che, un giorno o l‟altro, i fascisti sarebbero tornati.

Papà Giacomo, sentiti i vari pareri, prese la parola:

“Io sono troppo vecchio per interessare loro e posso sempre far pesare il costo di tutte le botti di vino che fornisco gratis, alla casa del fascio di Casale. Non mi toccheranno. Sono preoccupato per voi tre, ragazzi. Abramo e Isacco, avete sentito la classica grassa ignoranza del domandare se siete ebrei.”

“Domani prenderete uno zaino a testa, lo riempirete di provviste, preleverete una bella parte del contante che c‟è nella cassa dell‟azienda e partirete verso Santa Maria Maggiore. In Val Vigezzo dovreste avere meno problemi e sovrintendere all‟estrazione del caolino nella nostra cava, vi darà un buon motivo per essere là. Ida verrà con voi e provvederà alla casa.”

“Come donna avrà più facilmente la possibilità di parlare con le altre donne del paese e sapere se e quando dovessero esserci dei pericoli.”

“Carlo si stabilirà nel nascondiglio e curerà la parte vinicola della cantina. Cercherà di uscire solo la sera e di non muoversi mai durante il giorno. Piera passerà più tempo possibile su alla cantina e ti darà un aiuto per la vinificazione.”

I componenti della famiglia commentarono, uno ad uno, il piano di papà Giacomo e aggiunsero suggerimenti, idee e avvertimenti in modo che ogni particolare fu approfondito.

L‟indomani Ida, Abramo e Isacco partirono in bicicletta verso nord; ognuno con lo zaino stracolmo

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di vettovaglie e vestiti di ricambio. Avevano preparato una cartina con le tappe previste. Si trattava di conoscenti, amici o acquirenti del loro vino ed erano persone di cui Giacomo si fidava ciecamente.

Carla Boni era seduta nella cameretta che condivideva con altre tre ricoverate del sanatorio di Cuasso al Monte. La primavera si stava imponendo sul sonnacchioso paesaggio dell‟inverno trascorso.

La natura era in fermento: l‟erba nuova, le gemme sugli alberi, i fiori di campo, gli insetti operosi che si davano da fare e poi il sole, il caldo e la luce che rendeva quel soggiorno obbligato sopportabile. Aveva deciso di scrivere una bella lettera al suo Carlo.

“Allora Beatrice, amica mia, sei pronta per sentire cosa gli ho scritto?”

“Per favore, non chiamarmi così!” Le rispose l‟amica, facendo finta di arrabbiarsi.

“Sono pronta, comincia.”

Cuasso al Monte, 20-3-1943 XXII EF

Carissimo tesoro mio,

i medici mi hanno dato buone notizie. Le cure che sto facendo hanno un buon effetto sulla mia tubercolosi. Sotto i colpi delle forti medicine che mi danno, l’infezione sta regredendo.

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Tutti e due sappiamo che non riuscirò a guarire del tutto, ma almeno abbastanza da poter condurre una vita normale, tranquilla, insieme a te e ai nostri due figli. Mi dicono che tra un anno, forse tra sei mesi, se tutto continua ad andare bene come ora, potrò tornare alla mia vita. Evviva!

Dammi notizie di Guido ad Abbiategrasso e di Umberto in collegio a Pizzighettone: dimmi tutto quello che riesci a sapere con le telefonate che fai durante i rari momenti di tranquillità che il lavoro ti lascia.

Dimmi dei tuoi viaggi, delle cose strane, belle e brutte che ti capitano, delle tue soddisfazioni: temo che per te ci sia solo lavoro, treni, il dormire sempre in un letto diverso e il mangiare dove ti capita.

Voglio sapere come sei riuscito a organizzarti a Roma. Tutto quello che mi racconti di te, le tue descrizioni, le tue idee, i tuoi ragionamenti sono per me una medicina, quasi una cura migliore di quelle che mi fanno qui.

Lo sai il perché?

Perché la tua medicina mi cura l’anima e mi dà la forza psicologica di attendere che finisca questo incubo e che noi quattro si possa tornare insieme, pur con tutti i problemi che la vita dispensa a piene mani.

Di me ti dico che inizio a stancarmi di meno, le medicine mi danno più forza, ma sono sempre stanca abbastanza da desiderare di coricarmi dopo due o tre ore che sono in piedi. Prima, però, non resistevo neanche un’ora. E’ un bel miglioramento.

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Mi dispiace che tutto il peso della nostra disgraziata famiglia, per il momento, gravi sulle tue spalle; dal punto di vista economico, da quello di padre che deve badare a due figli in due istituti diversi, da così lontano. Da quello affettivo, con una moglie neanche a mezzo servizio! Totalmente inutile, che sta curandosi e che può solo sperare di migliorare, tanto da poter uscire da questa gabbia di persone gentili e premurose.

Fammi sapere di Riccardo, dei tuoi genitori e di Umberto.

Ti bacio appassionatamente,

tua per sempre, Carla

PS

La Bice ha veramente preso una sbandata per Riccardo.

Lei dice così, ma per me se ne è innamorata profondamente. Speriamo che anche per il biondone, sia una cosa seria e non una delle tante donne che sono transitate nella sua vita.

“Bice, ti va bene?”

“Benissimo. Sai veramente scrivere bene una lettera.”

“Direi che più chiaro di così non potevamo chiederlo a Carlo. Spero capisca e faccia qualche domandina a Riccardo e poi un bel discorsetto.”

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“Purtroppo ci vorrà tempo perché Carlo possa rispondere. Adesso e per almeno un altro mese e mezzo è a Roma o più a sud.”

“E noi aspetteremo: con calma e tranquillità, cara Carla. Che abbiamo da fare, di urgente?”

“Andare a mangiare, si è fatto tardi.”

Carla piegò per bene la lettera e la mise nella borsetta bianca che le avevano dato. Dopo cena sarebbe salita in camera e, inclinando la boccettina del profumo, ne avrebbe fatta scendere una goccia sul foglio aperto, lo avrebbe infilato nella busta sulla quale aveva già scritto l‟indirizzo di casa Boni a Roma, in Piazza Gerolamo Cardano al 9.

La mattina dopo, scese nel salone centrale e consegnò la missiva alla capo infermiera perché provvedesse a spedirla come espresso. Fece colazione con Bice e insieme si diressero verso il loro divano preferito, quello d‟angolo, a sognare, accompagnate dalla musica che uno dei pazienti stava suonando al pianoforte, beandosi dei raggi di sole che scaldavano loro il viso, attraverso le ampie finestre aperte sul meraviglioso giardino in fiore.

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11. 1 - 6 aprile 1943

Fasann cominciò il lungo viaggio. Da Napoli a Roma ci impiegò diverse ore, anche senza attacchi aerei e pur con un treno diretto. In prima classe riuscì a trovare una comoda sistemazione in uno di quei vagoni ferroviari che, come tutto il resto del materiale rotabile, cominciava a risentire dell‟uso prolungato e dell‟assenza di manutenzione, dovuta ad altre esigenze belliche prioritarie.

Una giovane donna, un capitano dell‟esercito, un uomo in impermeabile di pelle nera e una vecchia signora, forse una dama di corte, erano i suoi compagni di viaggio. Cigolii, sobbalzi e innumerevoli soste fuori programma non potevano essere interrotte neanche da quattro chiacchiere. Avrebbe rivolto volentieri la parola alla giovane, ma quell‟impermeabile di pelle nera lo sconsigliò dal farlo: doveva essere sempre sul chi vive, meno parlava, meglio era.

Finalmente il treno entrò in Roma, era stanco, ma sapeva che per almeno quattro giorni sarebbe stato tranquillo e trattato bene, dopo, invece lo aspettava qualcosa di molto diverso.

Le mattine le aveva trascorse con il padre per ricevere indicazioni e approfondire gli ultimi sviluppi. I pomeriggi si era rilassato con il Maestro Oletti, sciogliendosi i muscoli e riacquistando quella velocità e quella potenza che sul Caboto non era possibile tenere in completo esercizio. Alla fine del

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quarto giorno era pronto a partire per Milano: vestito in borghese e con documenti falsi.

Questa tratta del viaggio in treno sarebbe stata più lunga della precedente, nonostante la grossa e imponente locomotiva, una 691, con tre grosse ruote per scaricare tutta la potenza di cui era capace. I vagoni erano i più moderni in circolazione, quelli che le ferroviarie riservavano ai tragitti da Roma verso il nord d‟Italia, dove erano meno frequenti i bombardamenti della rete e i mitragliamenti dei treni in corsa.

Cominciò a percorrere il marciapiede e, passate le carrozze di terza classe con dieci sportelli, arrivò alle due vetture di prima e seconda classe. Cercò in alto la banda gialla che identificava la vettura destinata alla 1a classe e scelse uno scompartimento vuoto di 2a. Da quel momento, meno veniva notato e meglio era, soprattutto su un treno da dove era difficile scappare.

Il viaggio durò due giorni, tante soste in mezzo alla campagna e prolungate attese nelle stazioni. Diverse volte fu eseguito il controllo dei documenti, ma come oscuro funzionario del Ministero degli Interni in trasferimento da Roma alla Prefettura di Milano, non aveva destato sospetti.

Spesso era stato invitato a far conversazione, perfino da un monsignore che conosceva, salito a Reggio Emilia e sceso a Parma. Era stato duro rispondere a monosillabi, trasalire quando aveva pronunciato nomi e incarichi e non poter far niente

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per fargli capire che non era il caso, controllando nel contempo gli altri occupanti, per vedere se qualcuno fosse interessato alla conversazione.

La guerra portava anche la necessità di dormire, almeno quando si poteva, i movimenti del treno erano un invito che quasi tutti i viaggiatori non potevano non accettare. A Milano doveva raggiungere via degli Orti, in quel di Porta Romana. Non conosceva la città e aveva imparato a memoria la pianta e la strada da percorrere che fece a piedi.

Costeggiando la cerchia dei vecchi bastioni spagnoli, arrivò facilmente all‟arco della vecchia Porta Romana. Girando a destra, in Corso di Porta Romana, a circa venti metri, si trovava un tratto di muro con una grata, da cui si poteva scorgere uno dei tanti corsi d‟acqua della vecchia Milano e, a pochi metri di distanza, una finestra al primo piano con un drappo blu, steso su un vecchio filo di ferro e trattenuto da due mollette di legno.

Perfetto, pensò Fasann, il segnale era giusto, continuò quindi tranquillo e si ritrovò in via degli Orti. La seguì per un centinaio di metri finché scorse il cancello di ferro che cercava ed entrò in un lungo cortile: sia a sinistra sia a destra lunghi palazzi di ringhiera di cinque piani, con i corridoi a vista. Trovò la terza scala e salì al secondo piano.

Non era stanco, cominciava solo ad avere sulle spalle il viaggio. Davanti alla porta di legno scrostato posò a terra silenziosamente la valigia, si mise alla destra dello stipite, mise tutti i sensi in allarme, tese i

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muscoli e, con le nocche della destra, colpì il legno con tre rapidi colpi.

Qualche secondo e tre colpi analoghi risuonarono dall‟interno; si sentì una voce pronunciare sommessamente un nome.

“Marco.”

Fasann rilasciò la tensione e disse:

“Manfredo.”

La porta si aprì e un uomo dai folti baffi neri lo tirò letteralmente dentro la stanza.

Il dialogo che seguì fu fitto fitto: pezzi di vita passati insieme, obiettivi comuni, continui rischi condivisi e profonda stima univano i due uomini e poi, come con Gigi Boni, l‟essere o l‟essere stato della Marina Militare contava moltissimo.

Dopo il racconto della missione da parte di Fasann, Marco gli disse: “Fin lassù devi arrivare? E‟ un viaggio lungo, ma abbiamo tanti amici e la sorveglianza non è così serrata da non poterla eludere. C‟è un problema, però, la motocicletta.”

“O meglio la moto ci sarebbe, è giù in cantina, ma potrebbe essere sospetta: ce ne sono poche in giro, attirano l‟attenzione e non sarebbe facile trovare il carburante durante il viaggio.”

“Come vanno le gambe? Bene? Scommetto di sì, dopo quattro giorni con Oletti saranno un solo muscolo scattante. Una bicicletta, non nuova, e tanta voglia di pedalare. E‟ vero, ci metterai un po‟ di più ma, fortunatamente, quello che per il momento non ci manca è il tempo.”

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Fasann gli sorrise, ribattendo:

“Vecchio volpone, mi vuoi far faticare. Verrà anche per te il tempo di scarpinare sulle montagne e pedalare per una missione. Piuttosto, dimmi fino a che punto hai organizzato le cose, da dove dovrò contare solo sulle mie forze?”

“Ad Angera, sotto la rocca, c‟è un pontone galleggiante e lì troverai Gigi che ti porterà più a nord. Boni ti indicherà come riconoscere il contatto successivo che dovrebbe essere dalle parti di Beura, dove ci sono le cave. Da lì in poi, sarai solo.”

“Quando ripasserai da Milano, rivoglio indietro vestiti e bicicletta. Così terrai a mente di restare vivo.”

Una risata proruppe fragorosa, facendoli sorridere. Dopo un lungo fraterno abbraccio, il loro incontro ebbe termine.

Non sembrava più il guardiamarina Arnaldo Fasann, figlio dell‟ammiraglio. Sembrava solo uno di quei tanti padri che il sabato, con la bicicletta oppure in treno, andavano a trovare la famiglia sfollata nei paesini della Brianza o sulle rive dei laghi.

Il vestito usato, già rivoltato una volta, la camicia di colore indefinito con i polsini un poco lisi, la cravatta nera con un nodo scappino stretto stretto e il bottone sotto aperto, la bicicletta arrugginita, la valigia chiusa con un doppio giro di corda, lo rendevano perfettamente uguale ai tanti uomini che in quei giorni si muovevano sulle strade a nord di Milano.

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Arrivato in via Gallarate, prese la strada che lo avrebbe portato a Sesto Calende; qui, stando sulla riva destra del lago Maggiore, continuò fino alla rocca di Angera. Era ormai sera, con la luna quasi coperta da alcune nubi.

Gigi era lì da tempo, le piccole onde sbatacchiavano contro il pontone dove era ormeggiata la barca da pesca. Da diverse ore, tutte le volte che sentiva dei passi sul selciato, fischiettava “Lili Marlene” e se qualche curioso lo avesse avvicinato, senza essere il Manfredo che aspettava, avrebbe terminato di caricare a bordo le ultime cose e avrebbe parlato di pesca notturna, con tutte le reti in bella mostra.

Questa volta però, chi si avvicinava stava canticchiando anche lui. Il ritornello era quello di “Tripoli, bel suol d’amore”. Gigi si alzò e cercò di scrutare quell‟ombra.

Pronunciò la prima parte della fase stabilita per il riconoscimento.

“Cosa non darei per una bella tazza di tè fumante.”

Fasann, da parte sua esclamò.

“A me piace l‟infuso di carcadè.”

Si abbracciarono. Anche con Gigi aveva condiviso tanti pericoli, si conoscevano così bene che non servì neanche una parola in più, dovevano fare in fretta per arrivare fin quasi a Pallanza, sulla riva opposta. Remando in due, ci avrebbero messo parecchio tempo ed era meglio attraversare prima che albeggiasse. Caricata sulla barca la bicicletta e la valigia, lasciarono silenziosamente la riva.

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Vogarono per una buona ora e, quando furono ben al largo, macchia scura contro un cielo e un‟acqua altrettanto scure, Gigi tirò fuori pane nero, formaggio, salame e una bottiglia di vino. Mentre si rimpinzavano, si scambiarono tutte le informazioni vitali al proseguimento del viaggio.

Sempre silenziosamente, con gli scalmi dei remi ben oliati e l‟attenzione a quel tratto a dritta dove idealmente passava il confine con la Svizzera, continuarono la traversata. Videro in lontananza la barca delle Guardie di Frontiera italiane che incrociava alla ricerca di contrabbandieri.

Erano le quattro del mattino quando si fermarono sul lungolago di Mergozzo, a un centinaio di metri dalla piazza: il centro del paese. La strada correva parallela alla riva e, appena toccarono terra, Fasann saltò giù, prese bicicletta e valigia dalle mani di Gigi e con un gesto lo salutò, avviandosi verso la piazzetta.

Pochi chilometri e avrebbe trovato, alla sua destra, le cave di Beura. Doveva cercare una piccola galleria sotto il terrapieno della ferrovia. La strada vi passava sotto e consentiva di salire fino alle cave, a mezza costa, dove era atteso.

Lì avrebbe trovato il resto dell‟attrezzatura che gli avrebbe consentito di affrontare la continuazione del viaggio. Un uomo del posto, un certo Giuseppe de Magistri, soprannome Beppe, lo attendeva per dargli notizie di prima mano sulla situazione e su quello che lo attendeva.

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Stava albeggiando e per chi percorreva la strada di fondovalle verso Domodossola, il rischio era incontrare una pattuglia delle Guardie di Frontiera che sorvegliavano la zona presso il confine. Passate le montagne, difficili da controllare, ci si trovava nel Canton Ticino e restava la scelta se proseguire per i cantoni francesi o per quelli di lingua tedesca della Confederazione Elvetica.

Era piacevole pedalare su quella bella strada pianeggiante, in quella tersa mattinata. Arrivò alla galleria del sottopasso ferroviario e svoltò a destra cominciando a salire verso la cava.

Beppe, un giovane scalpellino, lo stava aspettando ben nascosto nella sottile frattura di un enorme blocco cui stavano lavorando. Il fucile imbracciato, controllava tranquillamente l‟ultimo mezzo chilometro di strada.

La salita si era fatta troppo ripida per percorrerla pedalando e Fasann procedeva a piedi, tenendo con la destra il manubrio e con la sinistra la valigia. Stava respirando a fondo, quando sentì un colpo metallico. Non conosceva Beppe e sapeva che poteva correre il rischio, a quell‟ora del mattino, di incontrare ben altri tipi di persone.

L‟unica cosa da fare era farsi riconoscere: appoggiò a terra la bicicletta e, preso un pezzo di corda che teneva in tasca, fece due nodi, uno sotto la sella e l‟altro sul manubrio, facendo attenzione a non stringere la bacchetta metallica del freno.

Issò sulle spalle la bici, tenendo a bandoliera la corda che aveva fissato e riprese a salire.

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Questo accorgimento costituiva la prima parte dei segnali di riconoscimento rivolti a Beppe.

Dall‟alto gli arrivò una voce.

“Se sei Manfredo, come si chiama tua moglie?”

Fasann rispose, prontamente:

“Non sono sposato.”

L‟indice della mano destra di Beppe, fermo da almeno due minuti sul grilletto del fucile, si distese. Lo scalpellino posò l‟arma e, con quattro salti, scese dalla sua posizione per piantarsi a gambe larghe davanti a Fasann. Era un pezzo d‟uomo, almeno un metro e novanta, due spalle poderose, due mani che assomigliavano alle mazze da venti chili che usava ogni giorno.

Fasann si fermò e gli chiese:

“La distillate ancora quella buona grappa, quella di Trontano?”

Entrambi sorrisero e si diedero a vicenda due belle pacche sulle spalle, incamminandosi al riparo di alcune rocce dove era già ammonticchiata l‟attrezzatura: lo zaino, le racchette da neve e il bastone da ghiaccio. Rapidamente Fasann trasferì il contenuto della valigia nelle sacche laterali dello zaino. Si tolse le scarpe e le sostituì con gli scarponi da montagna, completando la sua tenuta con una giacca a vento, mentre quanto aveva in tasca finiva nel tascone superiore dello zaino.

Beppe porgendogli una bottiglia disse:

“Vestito sei vestito, ma manca qualcosa. Bevi, è quella di Trontano.”

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Era forte, secca: una grappa che veniva distillata, clandestinamente, in quel paese posto tra la Val d‟Ossola e l‟inizio della Val Vigezzo. Beppe ne prese una sorsata e riprese:

“Da adesso sarai solo. Una cosa devi sapere: la sorveglianza comincia a essere più forte, è arrivato il disgelo e chi vuole andare in Svizzera, da adesso fino al prossimo inverno, avrà vita sempre più difficile.”

“La Tenenza delle Guardie di Frontiera di Santa Maria Maggiore ha preso in forza altri due uomini, un paio di giorni fa. I torrenti non sono difficili da attraversare, specie il più grosso. Su in valle, c‟è il torrente Melezzo, ma stai attento, ricordati che la piana della Siberia è il punto più esposto: non un albero, niente. E‟ meglio che attraversi la spianata, la strada e il torrente di notte, sarà più sicuro.”

Si salutarono con una pacca reciproca sulla spalla e Fasann, invece che scendere, attaccò a salire la montagna dietro il grosso masso che aveva nascosto Beppe. Doveva tagliare quella punta che andava scendendo verso Domodossola e verso l‟ingresso della valle Vigezzo.

Era importante evitare la strada sul fondovalle, perché il trivio che si formava più a nord, incrociando la via che saliva nella valle Vigezzo e il tratto che portava al ponte sul Toce e a Domodossola, era un importante nodo stradale ove c‟era un efficiente posto di blocco che controllava strada e ferrovia, impossibile da aggirare o da superare. Una strettoia con un terreno senza alberi, la sede ferroviaria e rocce a picco a destra e a sinistra

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del fiume, profondo e tumultuoso, largo almeno venti metri.

Salendo invece la montagna, per cinque o seicento metri, avrebbe oltrepassato lo spartiacque e si sarebbe trovato direttamente nell‟altra valle. Lo avrebbero aiutato i binari della linea ferroviaria Vigezzina che, con i viadotti, gli avrebbero consentito di attraversare i tanti dirupi, baratri e burroni che caratterizzavano la prima parte della vallata.

Fasann ci mise circa un‟ora a superare la cresta e iniziò a scendere verso la val Vigezzo, il mitragliatore tedesco Schmeisser, colpo in canna, gli batteva contro il fianco. Era meglio averlo sempre a portata di mano.

Davanti a sé vedeva i binari a scartamento ridotto che, attraversando la val Vigezzo e le Centovalli, portavano da Domodossola a Locarno.

Ora doveva continuare verso est, verso il sole che ormai era sorto e che lo obbligava a muoversi con circospezione, sfruttando i ripari naturali che gli si offrivano.

Sul terreno non lasciava tracce, ma quando incontrava piccoli nevai, era obbligato a lunghe deviazioni per aggirarli.

Dopo un‟ora di cammino, sentì un rumore provenire da davanti, oltre una macchia di fitti abeti. Si buttò per terra e iniziò a strisciare lentamente fino a un masso abbastanza grande da nasconderlo, distante una ventina di metri.

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Con il mitragliatore ben stretto tra le mani, si mise all‟ascolto e quello che sentì non gli piacque per niente.

C‟era gente, dal rumore avrebbe detto tre o quattro persone, che stavano venendo verso di lui.

Facevano rumore e parlavano italiano, riuscì a cogliere solo alcune parole: “… e ricorda sempre: Credere! Obbedire! Combattere!”

Fasann, in un attimo, vide come dall‟alto, la scena di sé stesso riparato dietro un masso, con alcuni fascisti che passavano a destra del masso e altri che spuntavano dall‟altra parte. Era certo che lo avrebbero visto e non poteva succedere. Sfilò dallo stivale un lungo coltello da lancio, aspettò che le voci si avvicinassero, con il cuore che martellava e che gli gridava nelle orecchie la paura.

Avrebbe potuto scamparla o morire.

Arnaldo attese fin troppo. Quando si buttò di lato rotolando per un paio di volte, gli stivali di due uomini erano a non più di cinque metri da lui. La faccia allibita dalla sua apparizione fu la sua fortuna, avevano ancora i fucili a tracolla. Il suo mitra fece sentire la sua voce metallica e i due stramazzarono al suolo.

Il tempo di spostare la mira a sinistra di due metri e anche il terzo si accasciava a terra, falciato all‟altezza della vita.

Il quarto fascista, un caporale della Milizia, si era invece inginocchiato e stava prendendo la mira con il fucile. Troppo tardi perché il coltello già gli si stava

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conficcando in gola, impedendogli di sparare e afflosciandone il corpo.

Fasann controllò che fossero morti e vide quanto erano giovani. Non si aspettavano un‟imboscata ed erano periti. Non riuscì a trattenere il vomito. La troppa adrenalina lo lasciò tremante per alcuni minuti. Stava cercando di pensare.

Perché dei fascisti? Perché proprio lì, ma soprattutto: qualcuno aveva udito la seppur breve scarica del mitra?

Aveva pensato al rischio che il comando della Milizia di stanza a Domodossola inviasse delle pattuglie, sembrava che quella che aveva incontrato, stesse facendo ritorno in caserma. Non poteva sapere se qualcuno avesse udito i colpi, se qualcuno stesse già salendo il ripido pendio per braccarlo.

Fare in fretta, fare in fretta: questo gli stava comunicando il cervello. Prese per i piedi il primo cadavere e lo trascinò fino al gruppo di abeti, dove la bassa vegetazione era veramente folta. Entrò graffiandosi le mani e il viso fino a che non riuscì più a proseguire. Spinse allora il corpo sotto i rami e tornò indietro a prendere il secondo. Alcuni minuti dopo stava accatastando le fronde spezzate davanti al varco che si era creato: la tomba provvisoria dei quattro della Milizia. Per le strisciate lasciate sul terreno non c‟era nulla da fare, se non spostare un po‟ di pietrisco e dei rametti, pigne e arbusti in modo da nasconderle alla meglio.

Diede un‟ultima occhiata alla zona e, anche se non era soddisfatto completamente, riconobbe che

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poteva funzionare. Via, allora, come il vento. No, non ancora. Doveva raccogliere i bossoli esplosi. Una ricerca affannosa: uno, due, cinque. Dopo un paio di minuti ne aveva in mano 18. Estrasse il caricatore e sfilò, proiettile per proiettile, la dotazione rimasta. Nel caricatore ne erano rimasti 14.

Meno male, si disse. Il conto tornava con i 32 colpi che poteva contenere. Chi passava di lì, avrebbe potuto non notare i segni lasciati sul terreno, ma avrebbe sicuramente visto i bossoli e allora si sarebbe fermato a controllare, a guardare meglio. Fortuna che ci aveva pensato.

Marciò con passo da fuggiasco per tutto il giorno e mancava ormai poco al tramonto, il fiato era corto, sofferente. Il pianoro che gli si aprì di fronte gli fece incontrare i binari: si fermò a osservare, scorgendo, cento metri più in alto, un ammasso di rocce affioranti dal terreno. Le raggiunse e con l‟aiuto degli ultimi raggi di luce valutò le cavità che offrivano, trovando uno stretto anfratto che giudicò adatto.

Tolse dallo zaino il telo mimetico dell‟esercito italiano e lo fissò saldamente all‟entrata, aiutandosi con dei sassi e soddisfatto, vi strisciò sotto.

L‟anfratto formato dalle rocce era angusto: tre metri di lunghezza per uno di larghezza. Due massi si toccavano in alto e non c‟era spazio per stare in piedi, ma almeno avrebbe potuto mangiare qualcosa e sdraiarsi a dormire. Di accendere il fuoco neanche a parlarne, si fidò ad accendere una delle candele che Beppe gli aveva infilato nello zaino.

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La pur debole luce illuminò il nascondiglio: era un buco, ma era stata una scelta valida. Fasann strisciò fuori, controllando che la candela non trapelasse all‟esterno. Fece un giro molto largo intorno per essere certo che nulla tradisse la sua presenza.

Nessun bagliore trapelava, girò lentamente lo sguardo tutto intorno, ascoltando il silenzio della montagna. Quando fu soddisfatto e sicuro che eventuali inseguitori non fossero in vista e non ci fossero rumori particolari, sgusciò all‟interno. Sistemò accuratamente un altro dei teli a terra, in modo che restasse aderente al terreno, con dei rami fece in modo di tenderlo lungo le pareti delle rocce e poi si buttò disteso. Immobile, tremando e sentendo il rumore del suo fiato corto, che riprendeva un ritmo normale.

L‟adrenalina era ancora in circolo e davanti agli occhi aperti vedeva i volti dei quattro uomini che aveva ucciso.

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12. Notte del 6 aprile – 15 maggio 1943

Tutto era cominciato nell‟ormai lontano 1936. Prima a Roma e poi a Londra aveva iniziato a capire e a seguire i sottili giochi, su cui si basano lo spionaggio e la diplomazia. Pensandoci, Arnaldo sorrise, cosa voleva dire, in concreto, diplomazia?

Tenere i contatti in modo ufficiale con le altre nazioni e con formule particolari, accettate dalla comunità mondiale, riuscire a comunicare al di là degli atteggiamenti ufficiali e dei discorsi pubblici tenuti dai rispettivi governi. Essere quasi in guerra, ma tentare ancora la via della pace oppure combattere il nemico, ma cercare uno spiraglio per arrivare a una tregua.

Un mondo dove anche solo un accenno, un suggerimento poteva dare dei risultati. Nel mondo militare sarebbero serviti ordini formali, scritti, magari firmati dal comandante in Capo delle Forze Armate o direttamente dal Re.

Le amicizie che aveva stretto in quel periodo a Londra e poi con alcuni ufficiali degli Stati Uniti d‟America lo avevano portato dov‟era adesso, in quell‟umido e buio anfratto.

Nel 1942, Fasann aveva iniziato a percorrere quel cammino che sperava avrebbe portato all‟Italia una realtà diversa.

Nell‟agosto di quell‟anno, proprio a ferragosto, era a Lucerna per incontrare John Guyre of Guyre, o

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meglio il Capo della Special Force inglese. Un vecchio amico, a cui trasferì le speranze, le paure e le certezze che si nutrivano in Italia: molto, ma molto in alto. Fu un piacere incontrarlo ancora una volta.

La proprietà di linguaggio di John non meravigliava Fasann, che sapeva del suo decennale incarico di professore di lingua e letteratura inglese presso l‟università Cattolica di Milano.

Almeno fino a che i tempi non avevano consigliato John a declinare l‟incarico e a far ritorno in Inghilterra. Ufficiale della riserva, si era arruolato volontario nella Special Force per divenirne nel giro di un anno vice comandante e in capo a venti mesi, comandante.

Non fu l‟unica volta che Fasann si ritrovò all‟estero nel 1942. Anche in ottobre, poco prima di raggiungere il molo E di Genova e salire sul Caboto, era a Londra. Con il padre, arrivato fortunosamente via mare, incontrarono il generale americano di nome Dwight e con un cognome quasi impronunciabile: Eisenhower.

Fasann ricordò la prima impressione che aveva avuto: un generale di valore e un uomo che ne avrebbe fatta di strada, nella vita. I ricordi incalzavano: quel generale aveva approvato il segnale: SSS M e aveva dato disposizioni alle forze alleate di rispettarlo. Il codice avrebbe indicato che l‟emittente, aereo, nave o postazione fissa era dotata del salvacondotto del comandante in capo degli eserciti alleati.

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Sarebbero stati uomini impegnati in azioni approvate dal comando in capo delle forze Alleate e indirizzate ad agevolare la dura lotta per la riconquista dell‟Europa.

Cambiò posizione, nell‟umido rifugio, cercò di respirare a fondo, di tranquillizzarsi, di convincersi che era stata una scelta obbligata: o lui o loro e che aveva avuto fortuna e buona mira.

A poco a poco i volti dei quattro fascisti scomparvero dalla mente e riuscì finalmente a sentire i crampi della fame. Aprì lo zaino, concedendosi un po‟ di toma, pane nero e una sorsata di vino, spense la candela e si distese: stanchezza e caduta della tensione nervosa fecero il resto, facendolo scivolare in un sonno agitato, la mano destra che stringeva convulsamente il calcio dello Schmeisser, il dito rilassato, ma sul grilletto. L‟ultima cosa che ricordò, fu il viso della sua Caterina, di sua moglie, che lo lasciò, sorridendogli, tra le braccia di Morfeo.

Arnaldo si svegliò per il freddo, non sapeva quanto avesse dormito, si sentiva uno straccio. Accese la candela, anche se dal telo mimetico filtrava un lieve chiarore. Era già giorno e all‟interno il fiato si condensava subito; quello stoppino acceso dava almeno l‟impressione di un po‟ di calore. Mangiò qualcosa che mandò giù con un sorso di grappa e si mise all‟ascolto dei rumori esterni, rimanendo immobile.

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Nulla oltre il leggero vento, con l‟arma in pugno, lentamente scostò il telo e uscì all‟aperto. Con il binocolo fece un accurato giro dell‟orizzonte e si concentrò sul terreno più vicino. Il sole era ormai sorto e i colori erano magnifici: il verde dei pini, la neve immacolata, i prati e gli alberi con i colori primaverili, le rocce grigie e lontano due riflessi paralleli argentei, le rotaie del treno, illuminate dalla luce del sole.

Dentro di sé sentiva nel cuore ancor la morte, il freddo e il desiderio di rinunciare. Con caparbietà strinse i denti, raccolse i teli, lo zaino e cancellò ogni traccia che potesse avere lasciato.

Avvicinandosi ai binari, vide che salivano in curva verso un ponte di pietra, sotto il quale non scorgeva nulla. Sapeva che fin dal 1923 era in funzione la linea a binario unico e in quel momento ne stava contemplando uno dei viadotti più alti. Un fischio acuto interruppe il corso dei pensieri e fermò per qualche attimo il suo cuore.

Uno sguardo a quale fosse la roccia più vicina, una rapida valutazione se fosse adatta a nasconderlo, e si sdraiò sul freddo prato, a pochi metri dalla massicciata.

Il treno comparve, era azzurro e crema, il grosso spartineve diviso in due pezzi, i tre fanali ancora accesi. Era il primo della giornata e stava scendendo verso Domodossola: solo la motrice, una via di mezzo tra un carro postale e una vettura passeggeri, divisa a metà da un passaggio trasversale, chiuso da

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basse grate di ferro che, alzate, permettevano l‟accesso al corridoio trasversale e ai compartimenti.

Le luci erano accese e, dai finestrini appannati, si riusciva a scorgere visi di uomini, forse compagni di Beppe, che lo raggiungevano alla cava per la loro dura giornata di lavoro. Gli passò a fianco, Fasann ne sentì le vibrazioni, poi lo sferragliare andò diminuendo fino cedere il posto al silenzio.

Uno, due, cinque minuti e poi via di corsa sul ponte, attraversandolo e risalendo, appena al di là sul fianco della montagna, fino a quando non vide più la massicciata. Solo a quel punto riprese a camminare con buon passo verso nord-est.

Marciò parecchio, spesso si fermava e controllava di non essere seguito, guardandosi dietro. In basso a sinistra scorse un piccolo gruppo di case sulla riva del torrente che aveva di fronte, doveva essere Cagnone Orcesco, il primo paese all‟inizio della parte pianeggiante della valle.

Davanti a sé vedeva la valle che si apriva in una vasta sella, riusciva a scorgere i campanili dei primi due paesi: Druogno e poi il centro più importante: Santa Maria Maggiore. Dopo un‟altra ora si trovò di fronte la pineta: finalmente un tratto con una protezione adeguata.

Trovò diversi resti di focolari, li esaminò tutti, per essere certo che non fossero recenti, solo uno lo era, ma le piccole tracce sferiche lasciate dalle capre, lo rassicurarono: pastori. Per prudenza continuò a rimanere alto in quota fino ad avere sotto di sé la desolata spianata tra Santa Maria Maggiore e

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Malesco: quella che chiamavano la Siberia, tanto era brulla, e gelata perché d‟inverno restava sempre all‟ombra della montagna.

Una roccia, che spuntava per almeno una decina di metri dal terreno, proiettata verso i pini sottostanti e riparata verso monte da uno stretto passaggio tra rovi e arbusti, attrasse la sua attenzione. Il luogo ideale per studiare la Siberia e attendere la sera.

Era un luogo desolato: neve, ghiaccio, la strada rettilinea che univa i due lontani paesi e a lato radi cespugli e qualche masso. La linea ferroviaria sembrava disegnata con una riga: dritta, senza una curva, per tutto il percorso.

Il cimitero e quelle quattro baite intorno alle quali la strada descriveva una S per poi continuare rettilinea, con qualche betulla ai lati, fino a dove scorreva il fiume.

Venne la sera e Arnaldo cominciò a scendere, finché raggiunse il fondovalle. La luna era oscurata da una nuvolaglia sparsa, attese che fosse mezzanotte e iniziò ad avvicinarsi al cimitero. Si trovava lungo il lato destro di quell‟estremo luogo di culto, quando da Malesco, a circa un paio di chilometri di distanza, vide i fari di una macchina che illuminavano la strada.

Si buttò nella neve e cominciò a raccoglierne con le mani per coprirsi il più possibile. Non indossava la mimetica bianca da alpino, era una macchia scura contro il candido manto. L‟auto si avvicinava sempre di più e si fermò all‟ingresso del cimitero, se

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qualcuno avesse percorso i pochi metri di muro oltre l‟angolo, l‟avrebbe trovato e allora …

Sentì delle voci, non riusciva a distinguere le parole, ma il cigolio di un cancello in ferro, i passi che scricchiolavano sulla neve e poi ancora il cigolio, gli fecero capire che forse era stata solo una piccola devozione sulla tomba di un amico o di un parente. L‟auto fece manovra e ripartì.

Passò la strada di corsa, circa duecento metri acquattato alla meglio, strisciando, riposandosi ogni tanto dove poteva, finché scivolò presso l‟alveo del fiume e si fermò sbattendo contro un masso vicino all‟acqua. Attraversò il torrente Melezzo e corse verso valle finché incontrò un altro torrente che scendeva dalla montagna, ad angolo retto con il corso del Melezzo.

La conca era stretta, piena di rovi e di arbusti. Nonostante questo, salì il più velocemente possibile per circa tre ore, graffiandosi, scivolando quasi a ogni passo e sprofondando nella neve fino a vita più di una volta.

Era ormai l‟alba quando vide un ponte di tronchi d‟albero e si fermò a riposare. Era tutto giusto, come gli era stato descritto, ce l‟aveva fatta, si girò a guardare la valle, era alla stessa all‟altezza di poche ore prima, ma sull‟altro versante.

Salito sul ponte, seguì la mulattiera che si snodava a mezza costa, incontrando diverse baite disabitate, una stazione di teleferica per il trasporto del caolino e, finalmente, il largo spiazzo che cercava.

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Sulla destra la strada proseguiva, ridotta a uno di quei larghi sentieri a gradini, passando su un vecchio ponte con la gobba, di epoca romana. Sulla sinistra un viottolo si inerpicava tra i pini. Fasann doveva tenere la sinistra e imboccarlo.

Sentì rumore di pietre smosse e voci. In un attimo scivolò dal ciglio verso la valle, per non essere visto.

Le voci provenivano dal sentiero che avrebbe dovuto prendere e che si perdeva tra i pini.

“Potrebbe passare di qui, non si sa mai. Adesso ci fermiamo, poi scendiamo fino a Craveggia: attenti a qualunque impronta, ramo spezzato o altro.”

Disse il tenente delle Guardie di Frontiera Georgis, ordinando ai suoi uomini di fermarsi.

“Credo però, che i quattro della Milizia, fatti fuori sopra Domodossola, siano il risultato di qualche azione dei partigiani. Non si eliminano quattro fascisti, se non perché avevano disturbato qualche operazione particolare: armi, contrabbando, cibo?”

“Chissà in quanti erano? Quelli del comando parlano di un solo paio di impronte, dicono di cercare un uomo solo!”

Fasann, che era ormai a pochi metri, giù nell‟alveo roccioso del torrente, era riuscito a cogliere quasi tutto il discorso e si congratulò con sé stesso per aver sentito quei deboli rumori che l‟avevano messo in allarme.

Si mosse, strisciando tra i massi, fino alla riva del torrente e lo attraversò con tre salti, appoggiandosi ai sassi che emergevano.

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Sull‟altra riva a circa dieci passi dal ponte, guardò tra le rocce e i pini, finché non trovò l‟anfratto nella roccia che gli avevano descritto.

Doveva decidere se fidarsi di quel nascondiglio e nascondersi o riprendere il cammino. Ci entrò carponi: accese la torcia per non più di qualche secondo.

Era uno scavo d‟assaggio per valutare la consistenza della vena di pegmatite. Profondo un paio di metri, alto e largo un metro e mezzo; le pareti erano letteralmente ricoperte di cristalli lamellari di mica e qua e là occhieggiavano grossi cristalli di granato rosso e di tormalina nera. L‟umidità era insopportabile, sul fondo larghe pozzanghere.

Decise di non fermarsi, poteva andare bene per nascondere le briccole di sigarette dei contrabbandieri o ripararsi quando il tempo fosse stato così inclemente da rendere confortevole l‟umidità e l‟acqua sul fondo.

Ma chiudersi in un buco così e per quanto tempo?

Se le Guardie, che senz‟altro ne conoscevano l‟esistenza, fossero venuti a controllarlo, cosa avrebbe potuto fare?

Come sarebbe potuto scappare?

Cattura, interrogatorio, la sua copertura da controllare e poi se ci si mettevano quelli della Milizia! No, non sarebbe stato utile per nessuno doversi rompere in bocca la fialetta di cianuro che portava cucita nel colletto della camicia.

No, meglio riprendere il cammino. Ricominciò a salire, bagnandosi spesso e affondando a volte con

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tutta la gamba nell‟acqua gelida, protetto dalle alte rive: ogni metro che saliva era un metro in più che lo allontanava dalla pattuglia.

Continuò così per una buona mezz‟ora prima di fermarsi. Attraversò di nuovo il torrente e cercò il casotto che Beppe gli aveva descritto: fatto di pietre e tronchi di pino per proteggere la sorgente.

Bevve un paio di sorsate con le mani a coppa, era buona, anche se l‟acqua sapeva di metallico: intorno, la terra era rossastra per le tracce di ferro.

Era trascorsa un‟ora da quando aveva incontrato la pattuglia delle Guardie di Frontiera.

Salendo, trovò il loro campo su un pianoro ben visibile dall‟alto delle Bocchette di S. Antonio, il passo che doveva valicare, lassù di fronte a lui. Aveva lasciato il vecchio ponte romano due ore prima, mentre la pattuglia si apprestava a scendere fino a Craveggia, l‟ultimo paese abitato. A conti fatti, il suo vantaggio era di almeno tre ore e Fasann decise di concedersi dieci minuti di sosta, sdraiandosi sull‟erba e rilassandosi.

Ispezionò il campo: quattro tende, dentro la più piccola la radio. Ecco come avevano saputo dell‟agguato alla Milizia. Sette sacchi a pelo, pali conficcati che reggevano una grossa pentola, taniche d‟acqua: un campo invernale creato per una sosta di diversi giorni, alla ricerca di chi voleva allontanarsi dall‟Italia o rientrare carico di 50 chilogrammi di sigarette o altri generi di contrabbando, destinati al mercato nero.

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Si rimise in marcia e, poco dopo, vide un uomo a torso nudo che si stava lavando nell‟acqua del torrente. I colori della giubba, stesa su un masso, non lasciavano dubbi: il settimo uomo della pattuglia di Guardie di Frontiera: quello lasciato di guardia.

Si mise a correre e, solo dopo aver aggirato un nevaio, rallentò il passo. Era quasi sera quando arrivò allo spartiacque e cominciò a scendere dal lato opposto delle Bocchette di S. Antonio, verso l‟ultimo lembo di terra italiana, prima di ritrovarsi in territorio svizzero.

Percorse la mulattiera che si snodava per un paio d‟ore fino a quando, più a valle, scorse tra i ruderi di vecchi costruzioni il chiarore di un fuoco, ancora pochi minuti e sarebbe giunto all‟accampamento.

“Chi è là!”

Una voce alle sue spalle risuonò come una cannonata nella mente di Fasann, dopo quasi due giorni di silenzio.

“Manfredo.”

Rispose quasi urlando, un po‟ per paura e un poco per la tensione.

“All right! Posa lentamente a terra l‟arma e incrocia le dita delle mani sopra la testa. Comincia a camminare piano davanti a me, ho cinquanta colpi nel caricatore. Capito?”

Fasann annuì e obbedì. In pochi minuti raggiunsero le rovine delle vecchie terme di Craveggia e la stanza, senza tetto, dove un gruppo di

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persone era accovacciato davanti al fuoco. Un‟alta figura si alzò e venne verso di loro.

“Arnaldo Fasann!”

La pronuncia era perfetta, forse solo velata dall‟emozione, perché non erano suoni della lingua inglese.

“John!”

Gli rispose Fasann:

“Amico mio.”

Iniziarono un dialogo in inglese che fu interrotto dall‟ordine di John all‟uomo che aveva accompagnato al campo il guardiamarina, di restituirgli lo Schmeisser e di tornare al posto di guardia. Lo sostituì un altro uomo.

“Ti ricordi del sergente Mills ?”

“No! Non è possibile, sei tu?”

“Ciao Arny. Come te la passi, vecchio mio?”

“Finalmente sei arrivato, sono due giorni che ti stiamo aspettando, ci si stavano formando le ragnatele.”

“L‟accordo era che mi avreste aspettato per tre giorni, sono in anticipo. Qui siamo in guerra, non come in Cornovaglia o a Edimburgo a programmare e far saltare per finta il ponte ferroviario sul Firth of Forth.”

Scherzò il guardiamarina.

“Hai ragione, vecchio mio.”

Gli rispose Mills, dandogli una manata sulla spalla.

Rivolto a John, Arnaldo continuò:

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“Quanto tempo è passato. Era l‟inizio d‟agosto dell‟anno scorso, ci incontrammo sotto la torre sud del ponte di Lucerna.”

“E‟ un buon segno se ci incontriamo ancora, mi auguro che in futuro succeda sempre più spesso: vorrà dire che saremo più vicini alla pace.”

Rispose John, accompagnandolo a sedere tra gli altri accanto al fuoco, dove stava finendo di arrostire una lepre.

Fasann restò colpito dalla frase: razionale e logica, senza emozioni. Questo lo riportò alla realtà di guerra che vivevano. Non era tempo di entusiasmi giovanili, ricordi e rimpatriate, il suo compito era ben altro e John glielo aveva ricordato in modo diplomatico.

Era lì per negoziare, spiegare e ottenere. Anche in quei frangenti, le esperienze fatte assistendo ai colloqui del padre e dell‟Ambasciatore a Londra, prima della guerra, lo aiutavano ad avere una visione più chiara.

Aveva anche un altro dono, la capacità di adattarsi all‟interlocutore, come gli era capitato di dover fare con quel generale americano con un nome così strano: Ike.

Parlò del Duce, del maresciallo Badoglio e del Re, dette e ottenne assicurazioni, fece richieste e dovette scendere a qualche compromesso, riuscì a compiere il lavoro che gli avevano chiesto di svolgere.

Il piano prevedeva che tornasse dalla stessa strada, ma l‟incontro con la pattuglia dei finanzieri e la

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certezza che quelli della Milizia a Domodossola fossero sul chi vive, lo indussero a cambiare piano.

Era in territorio svizzero, poco distante dai vecchi Bagni di Craveggia ormai abbandonati, c‟era il paesino di Spruga, l‟ultimo della Valle Onsernone: discendendola tutta si sarebbe trovato a Locarno. Da lì, con l‟aiuto di John, avrebbe potuto varcare il confine svizzero vicino a Varese, ritornando a Milano per ripercorrere le tappe che lo avrebbero riportato a Napoli.

“Si può fare.”

Disse John indicandogli un piccolo Bedford 4x4.

“Vorrà dire che saremo noi a vegliare su di te fino al confine. Ti potrai rilassare per un giorno, penso che te lo sia meritato.”

Dondolato dal movimento, Fasann si ritrovò in una specie di dormiveglia in cui poté lasciare la mente libera di rivivere quegli ultimi mesi. Risentì il sapore dell‟aria della Cornovaglia, quando stava cercando di ritornare al campo di addestramento delle forze speciali inglesi.

Poi Caterina Giusti, quella meravigliosa donna che aveva sposato, la promessa reciproca di lottare contro il fascismo e il nazismo e ora eccolo lì, nel ruolo di messaggero e di sostenitore di una causa che riteneva l‟unica giusta.

Rivide sé stesso nei suoi primi appostamenti a Londra, come agente dell‟Italia, gli inseguimenti, i pedinamenti e i rapporti al padre addetto militare, la ricerca di un prezioso carico perduto.

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Ripensò alla sua interpretazione di fascista convinto, sincero e determinato e il disagio di mantenerla nei confronti di Pizuto, uomo che stimava molto.

Mettersi contro tutto l‟equipaggio del Caboto, con quel fare l‟altezzoso, isolarsi per avere la possibilità di muoversi e fare ciò che doveva, erano così lontani dal suo modo di essere che aveva dovuto sforzarsi per metterli in atto. Aveva dovuto adeguarsi e fare buon viso a cattiva sorte.

Aveva cercato di proteggere il Caboto e il suo equipaggio, ma, come aveva ironicamente sottolineato John, gli ordini diramati dal Comando Supremo Alleato potevano essere male interpretati e dare luogo a iniziative personali, come quella dei piloti dei Bristol, che invece di lanciare solo i siluri, alti e da lontano, avevano pensato bene di mitragliare i ponti.

La perdita dei suoi commilitoni lo aveva rattristato, ma era la guerra e non si potevano ufficialmente censurare dei piloti inglesi che avevano attaccato una nave italiana, anche se avevano rischiato di mandare a monte tanta preparazione e tante energie profuse per agevolare i contatti diplomatici volti ad avvicinare la pace.

Il corso dei pensieri lo portò a immaginare l‟espressione di Pizuto quando aveva rinvenuto il trasmettitore e la radio. Non poté reprimere un sorriso. Povero Pizuto.

Chissà cosa avrà pensato?

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Sia lui sia suo padre avevano dovuto dargli delle informazioni facendogli incontrare a Roma le persone che, intrattenendolo, gli avevano parlato delle opinioni più diffuse, con spunti e frasi enigmatiche, con l‟unico scopo di fornirgli elementi da cui trarre un quadro corretto della situazione.

Quante cose aveva fatto e avrebbe dovuto fare in futuro per proteggere il segnalatore ottico, quello meccanico e la radio: gli spiaceva di avere dovuto giocare pesante con Pizuto e i suoi ufficiali ma, dopo che avevano scoperto i meccanismi, era vitale che continuassero a funzionare, altrimenti un siluro, una bomba o un mitragliamento avrebbe potuto porre fine a tanti sforzi.

Capiva perché fosse stato scelto Pizuto, tra i tanti. Non una reazione eccessiva, una domanda di troppo, sempre all‟altezza della situazione, il comandante aveva reagito al meglio. L‟umiltà di comportamento da parte di una grande personalità, che aveva compreso di essere diventato un ingranaggio di un meccanismo più grande e importante della sua vita, di quella dell‟equipaggio e dell‟esistenza del Caboto stesso.

Nel tardo pomeriggio, il camioncino si inoltrò tra i boschi e sbucò sulla strada che portava al confine di Ponte Tresa. Il fiume, che costeggiava la strada, era l‟ultimo ostacolo da superare per rientrare in Italia.

Prima del paesino di Cremenaga, in corrispondenza dell‟allargamento dell‟alveo, il livello

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del torrente diminuiva e i tanti arbusti sul greto costituivano il punto ideale per attraversarlo.

Una rapida stretta di mano con John e Fasann si buttò al di la della bassa ringhiera di ferro, a lato della strada. Si accosciò sul greto del fiume, attese che il camion ripartisse e ritornasse il silenzio: nessun rumore o movimento. Era sera tarda e le ombre si fondevano con il buio della notte. Questo lo aiutò a raggiungere l‟altra riva, a risalirne il lieve pendio e a inoltrarsi nel bosco.

Quando rimise i piedi sul ponte del Caboto, erano trascorsi quarantacinque giorni e si era alla metà di maggio.

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13. 15 – 30 maggio 1943

Il 15 maggio del 1943, a Milano era un giorno piovoso. Nel pomeriggio, mentre Renato Renti raggiungeva il suo studio, si era alzato un vento di tramontana che passava attraverso il cappotto della divisa come un coltello caldo nel burro, aggiungendo all‟umido anche il freddo intenso. Seduto alla scrivania, l‟avvocato Renti continuava a rigirare tra le mani la cartolina grigia, che portava ancora più grigio in quella giornata. L‟aveva trovata tra la posta, al rientro dopo colazione.

Ci stava pensando da una decina di minuti, ma non aveva trovato nessuna via d‟uscita alla situazione che improvvisamente, senza neanche avere pagato il francobollo, il Ministero della Guerra gli aveva imposto. Con il grado di capitano, era comandato a presentarsi di lì a cinque giorni all‟Ufficio Operazioni dello Stato Maggiore Italiano in Corsica, presso il comando della 7a divisione di cavalleria con sede a Corte.

La sua professione non gli aveva consentito di allontanarsi da Milano e il prestare servizio ogni mattina presso il Comando della 3a Armata gli aveva fino a quel momento concesso una certa libertà, tenendolo lontano dal fronte e permettendogli di continuare a patrocinare presso il Tribunale di Milano.

A Roma, qualche conoscenza in alto loco l‟aveva e da Pereto negli Abruzzi, qualche telefonata avrebbe

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potuto farla. A Milano invece, non conosceva nessuno che potesse aiutarlo e doveva tenere conto che la moglie Elvira era tenente della Croce Rossa, un reparto paramilitare.

Per quanto non potesse soffrire né il fascismo né Mussolini, aveva fatto un giuramento come ufficiale ed era uomo che teneva all‟onore e agli impegni presi.

Chiuse lo scrittoio, ripose penna e calamaio nel cassetto, chiuse il faldone delle carte relative alla causa che stava studiando e la ripose sulla libreria, tra quelle ancora da iscrivere a ruolo. Andò a informare l‟avvocato Carnetulli.

Dopo gli accordi che aveva preso con il saggio amico, relativi alle cause in corso, agli atti da presentare e al suo studio da chiudere, aveva congedato la segretaria e se ne era tornato a casa. Dopo circa un‟ora dette la notizia alla moglie.

Donna di forte carattere, coraggiosa e pragmatica, Elvira prese la notizia con tranquillità e volle preparare qualcosa di speciale per la cena. Mentre Renato radunava i capi d‟abbigliamento militare che avrebbe portato con sé e andava a preparare il bagaglio con le divise invernali, quelle estive, l‟alta uniforme, le camicie e l‟attrezzatura in dotazione, Elvira rimuginava sulla pericolosità della difesa della Corsica.

Gli alleati avrebbero cercato di tenere impegnate più truppe possibili in Sardegna e Corsica, ma si domandava se, oltre a bombardamenti aerei e navali,

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il suo Renato avrebbe corso il rischio di un combattimento terrestre.

“Renato, adesso mangiamo e parliamo di questa novità che mi hai comunicato.”

“Novità dici? E‟ una bella batosta, adesso che il mio nome cominciava a essere conosciuto, quelli di Roma hanno pensato a questo regalino.”

“Pensa se ti avessero destinato in Russia o in Africa. Sarebbe stato peggio. In fondo in Corsica non mi sembra che si combatta. E poi, che puoi farci: scappare? Non sei il tipo. Imboscarti? Non sei il tipo. Quindi?”

“Hai ragione Elvira. Credo che non sarà in quell‟isola che gli alleati vinceranno o perderanno la guerra. Però questo non avevano il diritto di farmelo.”

“Sì, ma il nostro amato Benito se ne frega degli italiani. A lui interessa solo farsi bello con quell‟altro degno compare dello zio Adolfo. Tu sei uno degli ufficiali dell‟esercito che andrà a combattere contro gli alleati e con i Tedeschi. Quando devi presentarti in Corsica?”

“Il 22 maggio, fra sette giorni. Ho un biglietto del treno da ritirare al Comando, dopodomani in serata.”

“Cerchiamo di goderci questi tre giorni come se fossero i più belli della nostra vita e speriamo in Dio.”

“Hai ragione. Buon appetito, cara. Te lo devo dire imp-imp. Sei una donna meravigliosa e affronti tutto con saggezza. Ti voglio veramente bene.”

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“Anche tu sei molto saggio, Renato. Mangiamo, che si fredda. Buon appetito.”

Ida, Abramo e Isacco Giusti pedalavano veloci, ma la strada che avevano scelto non era quella asfaltata o quella diretta percorsa delle macchine. Erano scesi fino a San Germano e avevano puntato verso il Po‟, cercando di tenere Casale Monferrato sulla destra. Avevano costeggiato le risaie, seguendo il perimetro dei campi: le strade usate dai carri e dai buoi per raggiungere i poderi di proprietà.

Raggiunsero in serata il Po‟ e riuscirono, per un soffio, a prendere una di quelle chiatte va-e-vieni che, trattenute da due corde, consentivano il traghetto dei carri agricoli, senza dover fare lunghi giri fino ai ponti.

A sera inoltrata avevano bussato al portone della cascina di due cugini. Esausti, dopo avere mangiato qualcosa, si erano distesi sul fieno piombando in un sonno profondo.

A nord di Vercelli passarono il fiume Sesia e raggiunsero Romagnano Sesia. Qui traghettarono e arrivarono sulla sponda del torrente Agogna; lo passarono in un punto in cui era profondo poche decine di centimetri e, stando sulla riva orientale, le biciclette a mano, arrivarono al lago d‟Orta.

A Orta San Giulio avevano un importante cliente, vecchio amico di famiglia e proprietario di un famoso albergo e ristorante. Si fermarono due giorni per ritemprarsi dalle fatiche. La mattina del sesto

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giorno ripresero a pedalare: Omegna, Mergozzo, Candoglia, Premosello, Cardezza, Beura e finalmente Masera. Salirono fino a Trontano, alla distilleria De Magistris, di cui commercializzavano parte della poca grappa prodotta, molto richiesta dagli intenditori.

Dormirono a lungo nella baita piena di fieno, tra i muggiti delle mucche e i belati delle pecore, ma erano stanchi e per loro fu come una dolce ninna nanna.

La mattina dopo, con le biciclette alla mano, data la forte pendenza della strada, salirono fino a Gagnone Orcesco e improvvisa ecco la valle pianeggiante che si aprì davanti a loro. Passarono da Druogno ed entrarono a Santa Maria Maggiore.

Ancora poche pedalate e furono davanti alla scuola d‟arte in via Rossetti Valentini, neanche cento metri dopo, a sinistra, ecco il cancello della loro grande villa.

Trovarono i signori Guibetti che avevano spalancato le finestre e stavano facendo prendere aria ai locali. Era dall‟estate precedente che nessuno dei Giusti ci andava.

Avvertiti telegraficamente, avevano iniziato a pulire, spolverare e fare provviste da una settimana. I ragazzi, in segno di gratitudine, li tennero con loro a cena a base di stinchej, di cui Ida era un‟abile preparatrice. Stendeva le sottili foglie di pasta sull‟attrezzo e le faceva cuocere fino a che si staccavano, poi passava il burro e spruzzava un poco

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di sale fino per poi porgere il fagottino ai fratelli e ai Guibetti.

Accompagnarono gli stinchej con prosciutto di cervo, salumi, per continuare con gli agnolotti che la signora Guibetti aveva preparato e le costate di manzo con verdure appena colte, finendo con la frutta di stagione degli alberi del parco.

La scusa concordata con papà Giusti, per giustificare il loro arrivo in valle, era il saggio della nuova vena di roccia pegmatitica che avevano trovato vicino alla fonte dell‟acqua ferruginosa oltre Craveggia. Per poterla raggiungere, bisognava salire con la mulattiera, oltrepassare il ponte romano e continuare parallelamente alla val Vigezzo, fin quasi alla località che chiamavano Blitz.

La loro impresa estrattiva provvedeva a macinare la pietra, fatta scendere con una teleferica dal monte e ne ricavava la polvere, venduta poi al Richard Ginori di Milano, per le ceramiche.

I geologi, anni prima, avevano trovato faglie ricche di silicati sul Pizzo Ragno, al cui interno si erano trovati cristalli di acquamarina e qualche raro smeraldo di qualità industriale. Nel versante nord della valle, da Craveggia verso il Blitz, quasi al confine con la Svizzera, erano frequenti piccoli filoni di mica, di granati e tormalina nera.

Il mese precedente erano stati trovati cristalli di quarzo ametista e di tormalina multicolore annegati in grandi fogli di mica, facilmente separabili dalla roccia che li inglobava.

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L‟interesse della famiglia Giusti era focalizzata sulla possibilità di poter separare le lamine, ricercate dall‟industria e utilizzate come isolante; ogni risorsa autarchica era la benvenuta, vista l‟impossibilità di rifornirsi dai mercati americani e africani.

Il compito dei ragazzi sarebbe stato di effettuare delle ricerche sulla vena, la cui potenzialità era stata segnalata ad alcune industrie di Torino e Milano e garantirne lo sfruttamento. Le lettere di risposta di tre aziende, che ribadivano il loro interesse per l‟acquisto dei fogli di mica, facevano parte di una serie di documenti, tra cui due falsi esoneri dagli obblighi di leva per i gemelli Abramo e Isacco, redatti su autentica carta da lettera della Casa del fascio di Casale Monferrato,

Papà Giacomo sperava che a un‟eventuale indagine superficiale sarebbero stati sufficienti per impedire ulteriori approfondimenti, dando tempo ai ragazzi di valutare la situazione ed eventualmente programmare l‟espatrio clandestino in Svizzera.

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14. Giugno 1943

A Cuasso al Monte l‟estate aveva reso smaglianti le chiome degli alberi e colmato di fiori colorati i campi. Molte piante del sanatorio erano di specie rare e le fronde sembravano colpi di pennello di un pittore che avesse voluto esercitarsi creando tutte le possibili sfumature di verde. I fiori erano viola, arancione, rossi, gialli e azzurri e i tronchi davano l‟idea di essere delle corde tese a trattenere quelle bellissime ed eteree nuvole di foglie.

Era stato il direttore del sanatorio a portare personalmente a Carla Boni la lettera, trattenendosi un poco per complimentarsi dei suoi miglioramenti di salute e augurarle una buona giornata.

Bice aveva dovuto anticipare la cura con aerosol e Carla era seduta sola sul divano d‟angolo.

Iniziò a leggere, come sempre emozionata, le frasi che l‟avrebbero trasportata nella realtà della vita fuori da quella, seppur dorata, gabbia.

Roma 10 luglio 1943 XXII EF

Carissima Carla,

sono rientrato da Napoli alcune ore fa. Una rapida occhiata alle telefonate raccolte dalla mamma, alle lettere arrivate ed eccomi a te. Oggi ho deciso di smettere di lavorare alle 14 invece che alle 18.

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Perché?

Perché devo scrivere al mio amore lontano. Ho ricevuto una lettera dal nostro caro primario dottor Savoldi e le notizie che ti riguardano sono ottime, per novembre, al massimo prima di Natale, le tue condizioni dovrebbero essere tali da permettere la tua dimissione.

Capisci, amore! Tu tornerai a casa per Natale e ricostituiremo la nostra bella famigliola. Dobbiamo attendere che la cura che hai cominciato un mese fa e che ha dato, secondo le ultime analisi, risultati incoraggianti, consolidi gli effetti per i prossimi quattro o cinque mesi e sarai quasi come nuova. Così nuova, che appena tornata a casa scioglierò il fiocco e ti scarterò … non vedo l’ora.

Oggi mi sono preso il giusto tempo per poterti raccontare di Umbertino e dell’Istituto dei Salesiani di Pizzighettone.

Nostro figlio dovrebbe essere contento: laggiù tutto è studiato per i ragazzi e a loro misura.

Arrivando dal paese, devo prendere il calesse per non attendere la corriera che passa ogni tre ore. Il percorso è molto bello e corre sull’argine del Mincio. Il fiume è sulla destra e dall’altra parte c’è una lunghissima fila di grossi platani, alcuni metri di prato e una folta siepe.

L’ingresso è segnato da un piazzale a semicerchio che abbraccia il grande cancello, con due casupole ai lati. Ci si annuncia ai padri guardiani e uno di questi ti accompagna all’interno dell’Istituto.

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A sinistra c’è un campo da calcio, mentre a destra si vede l’anello di terra rossa, con le corsie per la corsa, le pedane per i vari tipi di salto e quelle per il lancio del martello, del disco e del giavellotto. La parte sportiva all’aperto è ben tenuta e ci sono sempre ragazzi che si allenano o che giocano al pallone.

Al termine di questa zona dedicata interamente allo sport, si aprono le due ali dell’immobile, con al centro la torre dell’orologio.

Sulla sinistra ci sono i due piani delle aule per lo studio: i ragazzi possono restare qui dai 5 fino ai 18 anni di età, cioè fino alla fine del liceo. Gli insegnanti sono tutti padri salesiani e la loro preparazione è ottima.

Sulla destra, invece, a pianterreno, si trova il refettorio, la grande palestra coperta e la piscina.

Al primo e secondo piano le stanze degli studenti: camerette da 8 letti, ognuna con armadi, bagno e una piccola saletta dove i ragazzi possono studiare e fare i compiti. In fondo al corridoio, un grande salone dove i ragazzi si riuniscono la sera, a chiacchierare, giocare o leggere.

Dietro la torre campanile si trova la chiesa e il palazzo per i ragazzi: sale di lettura e biblioteca, il bar, la sala con biliardi e calciobalilla, la sala della radio e quella del cinematografo, oltre l’Aula Magna, dove si tengono le commemorazioni e dove attori, medici, sacerdoti e psicologi tengono lezioni, serate a tema, spettacoli e dissertazioni.

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Detto così è tutto bellissimo, ma io so che un ragazzino sensibile come Umberto non può essere contento, gli manchiamo noi, gli manca il calore della sua casa.

Cosa potremmo fare di più? Mandarlo a Roma? Ne ho accennato ai miei, ma non ne vogliono nemmeno sentir parlare.

“Ne abbiamo cresciuti quattro di ragazzini, adesso basta. Manco i nipotini, vogliamo. Se è per qualche ora, va be’, ma non più d’una mattina o d’un pomeriggio.” Così m’ha detto mamma, in perfetto romanesco.

Altre soluzioni non ne abbiamo, purtroppo, e c’è la guerra. Molta gente resta casa, senza lavoro, senza una gamba, senza braccia e che dire di Guidino? Anche i nostri piccoli dovranno affrontare questa vita. Si tratta solo di qualche mese. Fino a settembre c’è vacanza, poi due mesi e saremo insieme.

E’ l’unica cosa che possiamo fare.

Ho invece una bella notizia riguardo al nostro futuro. La mia ditta, per venire incontro al problema dei bombardamenti delle grandi città e all’esigenza di sfollare donne, bambini e anziani, ha pensato di affittare alcuni alberghi e case private sul litorale di Rimini.

Le famiglie potranno trasferirsi in una località al riparo da bombardamenti e fare amicizia, creando una piccola comunità.

Ho già fatto richiesta di una villetta con due camere da letto. Per noi non dovrebbe esserci

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problema nell’assegnazione, viste le condizioni tue, di Guido e di Umberto.

Quindi inverno in riviera ed estate al mare!

Scrivimi presto cosa ne pensi e i tuoi desideri, così provvederò che la nostra villetta sia il più possibile vicina ai tuoi desideri.

Ti amo e ti penso sempre,

Carlo

Che bello poter leggere con quanto ottimismo e quanta allegria suo marito affrontava la lontananza e le difficoltà della vita. Le lettere erano uno sprone a non lasciarsi andare e continuare con fermezza a curarsi e ad affrontare con gioia le difficoltà del soggiorno obbligato in sanatorio, lontana da tutto ciò cui teneva di più al mondo.

“Ciao cara, hai fatto bene a leggere la lettera. Questa mattina la macchina dell‟aerosol faceva le bizze e ci ho messo quasi un‟ora.”

Le disse Bice, sedendosi pesantemente al suo fianco.

“Però, adesso la rileggiamo insieme.”

“Sì, Bice, certo. Anzi faremo di meglio. La leggerai tu a me, sarà la prima volta che ascolto una lettera di mio marito.”

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Le occhiate che accolsero Arnaldo Fasann al suo rientro sul Caboto furono di fastidio, di insofferenza per la lunga licenza di quell‟imboscato. Pochi uomini lo ricevettero bene e soltanto Pizuto gli strinse la mano con calore, quasi felice che, qualunque cosa avesse fatto, fosse tornato sulla sua nave.

Le battute che circolavano su Fasann erano pesanti: un mese e mezzo a girarsi i pollici, imboscato con una donna, mentre l‟equipaggio continuava a rischiare la vita.

Fasann sentì alcune battute, ma gli scivolavano via di dosso come l‟acqua su una cerata. Era abituato a mangiare solo e continuò a farlo, eccetto quando il comandante lo invitò nella sua cabina, più per metterlo al corrente di cosa aveva fatto il Caboto che per avere qualche indiscrezione sul lungo periodo di assenza.

Una sera Arduino e Greco lo invitarono a mangiare con loro, alla mensa ufficiali della base. Rifiutò dicendo:

“Grazie, grazie mille, ma credetemi, è meglio di no.”

In quelle poche parole o meglio nel modo in cui le pronunciò, c‟era l‟apprezzamento per quell‟invito, ma anche il rammarico che la sua copertura e la fiducia dell‟equipaggio nei due ufficiali potessero risentirne.

Rimasero ancora pochi giorni a Napoli, l‟ordine per tutta la flotta era di dirigere verso i porti del nord, più al riparo dai bombardamenti alleati diventati quotidiani. Da tempo si erano mosse le navi

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da battaglia, poi fu la volta degli incrociatori e ora i caccia raggiungevano i porti di Genova e La Spezia.

Gli ordini erano di costituire un‟importante forza navale d‟intervento, di base nell‟alto Tirreno, a protezione di eventuali sbarchi di truppe. Una logica conseguenza, dopo le esperienze positive degli alleati con gli sbarchi nel nord Africa. A Genova, il Caboto era atteso al molo E, che li aveva visti novellini, otto mesi prima.

Il nove luglio ‟43, fu una giornata infausta per Fasann, altri sospetti si accumularono contro di lui. Bacigalupo stava facendo il turno in sala radio e aveva trovato una posizione comodissima. Oziava con la mano sulla manopola di sintonia della radio e passava dai canali ufficiali della Marina a quelli dell‟Aviazione, a radio Londra, ai canali dell‟Ente Italiano Radio Audizioni, quando un dubbio gli attraversò la mente: come mai, in otto mesi, era la prima volta che riusciva a stare bello disteso, rilassato e nello stesso tempo svolgere il suo compito?

Forse la posizione delle gambe, ben alzate dal ponte, ad almeno trenta centimetri, ma su cosa?

Allontanò la sedia e si mise a scrutare sotto il lungo e profondo supporto che sosteneva la radio e altre apparecchiature. C‟era una cassa che non aveva mai visto, ecco dove appoggiavano i piedi. La fece strisciare sul ponte e quando il coperchio fu libero, l‟aprì.

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Era la radio che avevano trovato e perso di vista a Napoli, accidenti! Si mise a rapporto da Pizuto.

“Comandante, la manopola è ancora sintonizzata sulla frequenza della Marina inglese. Adesso possiamo inchiodare Fasann. Oltre a me, è l‟unico che frequenta per lavoro la sala radio. Anzi, direi che è la sua seconda cabina, ci vive, ci mangia, forse riesce anche a dormirci.”

“Ne è sicuro?”

Gli rispose Pizuto.

“Non dimentica il piccolo particolare delle scarpe sporche di grasso. Era Lorusso ad averle e non Fasann: pensiamoci bene, prima di tirare conclusioni.”

Fu quello che venne in mente a Pizuto. Bacigalupo aveva ragione, ma non conosceva la situazione e l‟unica cosa cui aveva pensato il comandante, per sviare i sospetti da Fasann, era far nascere dei dubbi nell‟amico, spingendolo a non essere sicuro.

Il giorno dopo non se ne parlò più, gli alleati erano sbarcati in Sicilia: era il 10 luglio del ‟43, e presto avrebbero potuto ritentare il colpo sbarcando in Toscana o in Corsica a minacciare direttamente il cuore industriale della pianura Padana.

Sarebbe stato un trampolino di lancio formidabile per tagliare l‟Italia in due, molto più a nord di Roma.

Le missioni notturne di controllo dei mari tra Sardegna, Corsica e l‟isola d‟Elba si succedettero senza dare tregua all‟equipaggio del Caboto, per prevenire questa eventualità.

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Localizzarono la presenza di sommergibili nemici e diedero fondo a tutta la dotazione di bombe di profondità, cogliendo il successo con l‟esplosione subacquea dell‟obiettivo. Il loro successo ebbe però come unica traccia una macchia di nafta, dei pezzi di legno e un tronco di uomo senza gambe, testa e con un braccio solo. Non si poteva certamente essere fieri di fare la guerra.

Avvistarono uno di quei grandi e goffi idrovolanti inglesi: un Sunderland. Il tipo di aereo che, per il carico di bombe e la dotazione formidabile di cannoncini e mitragliere, era il nemico numero uno dei sommergibili italiani e tedeschi.

Passò quasi tutto luglio, invece di uno sbarco successe un avvenimento di carattere politico: il 25 luglio Mussolini fu deposto e il popolo reagì con gioia alla notizia. La corsa a distruggere i fregi littori, le statue e i busti del Duce era lo sfogo di un popolo contro chi l‟aveva trascinato in una sanguinosa guerra inutile, non sentita e a cui l‟Italia non era pronta.

Non tutti la pensavano in questo modo, però. Di cose buone ce n‟erano state, il popolo riconosceva che il Duce, negli anni trenta, aveva fatto dell‟Italia una nazione ammirata in tutto il mondo e la gente comune aveva beneficiato di tante realizzazioni che, in modo concreto, avevano cambiato in meglio la vita.

I più accesi sentimenti di vendetta animavano molti convinti fascisti, tra questi, a bordo del Caboto, soprattutto Gerò. A queste emozioni si aggiungeva

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l‟affronto degli sbarchi alleati in Sicilia e dell‟odiato scarpone nemico sul sacro suolo.

Gerò, con il guardiamarina Lorusso, aveva trascorso parecchio tempo a perfezionare un desiderio condiviso: liberare Mussolini dalla prigionia. Avevano scritto su un foglio i nomi dei camerati che potevano riunire e approfondito da chi poter avere informazioni precise su dove fosse imprigionato.

Avevano pensato di chiedere aiuto o di dare la loro disponibilità all‟ammiraglio con cui erano in contatto. Alla fine elaborarono un piano che iniziava con l‟abbandono della nave per poi raggiungere Roma. Per quanto fosse accuratamente studiato, quando ebbero occasione di riesaminarlo dovettero ammettere che era troppo audace e carente di supporto logistico e organizzativo. Non avevano notizie recenti e non potevano contattare nessuno prima disertare la nave.

Erano e restavano sottoposti alla disciplina militare, che avrebbe previsto il plotone d‟esecuzione per abbandono di posto, tradimento e diserzione.

Tornarono con i piedi per terra e decisero che avrebbero giovato di più alla causa fascista, seguendo gli ordini ricevuti mesi prima dall‟ammiraglio di Supermarina. Avrebbero dovuto incastrare il guardiamarina Fasann, meglio ancora, trovare il modo di renderlo inoffensivo.

A liberare il Duce avrebbero dovuto pensare altri camerati con molti più mezzi e più libertà di movimento di quanti ne potessero disporre loro due.

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Inoltre il grande alleato dell‟Italia, zio Adolfo, come veniva chiamato Hitler, non avrebbe tollerato che il suo alleato restasse in prigionia!

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15. Luglio – Agosto 1943

L‟avvocato Renato Renti e la moglie Elvira si erano recati a trovare i genitori di Renato che, a causa dei sempre più frequenti bombardamenti, avevano lasciato la loro abitazione a Milano trasferendosi ad Abbiategrasso, a poche decine di chilometri dalla città.

Lo studio dei Ragionieri Commercialisti Renti vantava tra i suoi clienti la Pia Casa di Abbiategrasso, di cui curava la tenuta dei libri contabili e gli stipendi dei dipendenti. Giorgio Renti si era occupato, già nel 1935, dell‟acquisizione dell‟azienda agricola Pelizera, il cui terreno confinava, a ovest e a nord, con i terreni di proprietà dell‟Istituto Pia Casa.

In quell‟occasione Giorgio aveva visitato la moderna palazzina adiacente le stalle che, appena terminata, avrebbe ospitato i facoltosi proprietari dell‟allevamento.

L‟azienda agricola sotto la guida di un agronomo e utilizzando forza lavoro proveniente dall'Istituto, vantava un allevamento con oltre cento pregiate mucche pezzate e una importante produzione di latte, formaggi e latticini che coprivano l‟intero quantitativo necessario ai vari padiglioni della Pia Casa.

Uno dei fratelli del titolare dell‟azienda agricola, nel ‟35, lo aveva pregato di raggiungerlo in Texas, dove aveva intenzione di creare un‟azienda modello, con un migliaio di capi.

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La situazione politica italiana e l‟allettante proposta del fratello avevano convinto il proprietario ad accettare l‟offerta e avevano venduto i terreni alla Pia Casa.

I coniugi Giorgio e Franca Renti, spinti dal timore dei bombardamenti, avevano chiesto al presidente dell‟Istituto se fosse disposto ad affittare loro la palazzina. L‟accordo fu presto raggiunto e nel giro di tre settimane papà e mamma Renti con il figlio Marco, avevano ripreso la loro attività dall‟interno della Pia Casa, ma con un ingresso separato. Appena sistemati, ricevettero la visita di Renato e della moglie Elvira.

“Sono contento per voi. Ora siamo molto più tranquilli, sapendovi lontano dalla città.”

Disse Renato, sorbendo il caffè appena servito.

“Mi fa piacere che questa licenza mi dia la possibilità di vedervi sistemati, tutti e tre. Ho prestato servizio al Comando d‟Armata e vi posso dire che ad Abbiategrasso non c‟è nessun comando o distaccamento militare, industria bellica o postazione militare che valga un minimo interesse da parte degli alleati.”

“Sapete, non avrei mai pensato che dopo pochi mesi a Corte mi dessero una licenza. D‟altra parte, siamo così tanti in Corsica che ci sono più italiani che francesi.”

“Raccontaci di te, dei rischi che puoi correre in Corsica.”

Chiese mamma Franca.

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“Vedete, in base alle condizioni dell'armistizio del 1940, la Corsica è stata smilitarizzata, pur essendo sotto il Governo civile di Vichy fino al novembre '42. Dopo tale data, ogni potere è passato a noi italiani, gli unici francesi armati in servizio sull‟isola sono un piccolo corpo di gendarmeria.”

“L'occupazione della Corsica e il rafforzamento del dispositivo di difesa sia in Sardegna sia in Corsica, sono una precauzione del governo Badoglio contro possibili sbarchi alleati, dopo quelli in Sicilia e la perdita dell'Africa.”

“L'eventuale occupazione da parte del nemico, temuta anche dai tedeschi, che ci tengono la loro brigata corazzata SS Reich Fuhrer, viene vista dagli Alleati come un pericolo per il lancio di bombardamenti ancora più pesanti sulle regioni centro meridionali del Reich e dell'Italia settentrionale non raggiungibili da Londra o dalle coste dell‟Africa. La Corsica sembra una portaerei puntata al centro dell‟Europa.”

“Per ora uno dei compiti più rischiosi che ho io, sul teatro di guerra, è di far approntare postazioni di difesa ai soldati: scavare trincee e posti d‟osservazione per poi lasciarli sguarniti e andare a scavare su un‟altra spiaggia.”

Mentre parlava, il sorrisetto di presa in giro era eloquente e tutti si misero a ridere.

“Considerate che la popolazione còrsa non ama la Francia e il loro spirito separatista è sempre vivo. Direi che siamo visti con più simpatia noi italiani, piuttosto che il maresciallo Petain o il generale De

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Gaulle. Questo vuole dire che i soldati vivono bene e la popolazione è, in un certo senso, nostra amica.”

“Sono preoccupato per la mia Elvira, tenente della Croce Rossa che, in caso di bombardamento, entro 30 minuti deve recarsi all‟Ospedale di Niguarda o al più vicino posto di raccolta. Ma tant‟è, a volte si rischia di meno, dove si pensa ci siano più rischi. Se deve succedere, succede, se non è destino, non succederà mai.”

“Anche noi abbiamo riflettuto circa i rischi di stare a Milano; in fondo curare i libri contabili di aziende e studi professionali in città o ad Abbiategrasso è lo stesso.” Aggiunse Franca.

Uscirono e si sedettero in giardino; a una decina di metri si vedeva il muro di cinta della Pia Casa, con le sue lunghe inferriate che permettevano di vedere i grandi alberi con le loro fitte chiome di foglie e le aiuole fiorite.

Ogni tanto compariva una suora che armeggiava tra i fiori.

Renato si stava godendo sia le giornate di licenza sia lo stare senza uniforme, al fianco della sua impareggiabile imp-imp, chiacchierando in quel bellissimo parco di cui potevano godere la vista.

La famiglia Nibbio era raccolta intorno al tavolone, sotto il pergolato d‟uva steso tra la casa e il rustico, in quel di Broni. La giornata di ferragosto era consuetudine, dopo il pranzo, lasciare il lungo tavolo così com‟era e attendere l‟ora di cena per raccogliere

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i piatti, metterli nella grande vasca del lavatoio e rimandare all‟indomani il lavaggio e l‟asciugatura delle stoviglie. Doveva essere una giornata di riposo e svago e non di lavoro.

Vittorina aveva una sorpresa per tutta la famiglia: una lettera di Monsignor Haltman e una di suo marito. Erano arrivate il giorno prima e aveva voluto tenerle come sorpresa, alla fine del pranzo.

Vittoria si era seduta e mentre aspettava che la sorella Rina versasse da bere a tutti, si appoggiò la grossa busta sul cuore e d‟incanto i ricordi la sommersero con una struggente malinconia.

Lei che passeggiava sulla riva del Passirio a Merano, il gesto di quell‟uomo grande, bello, forte e con un sorriso contagioso che le aveva porto il foulard che un colpo di vento birichino le aveva sciolto dalla tracolla della borsetta.

L‟altra persona che accompagnava Karl e che lei aveva subito riconosciuto come il Vescovo di Merano i cui sermoni della domenica erano sempre di una profonda bellezza spirituale.

L‟assidua corte, quando l‟aveva chiesta in moglie al papà, il giorno delle nozze celebrate dal fratello Vescovo, la lunga e meravigliosa luna di miele.

La vita a Berlino, nell‟appartamento di Karl, le sere quando le spiegava i particolari della sua attività di commerciante in pietre preziose, fino a quando, per le convinzioni pacifiste e la contrarietà a prestare servizio militare sotto Hitler, aveva voluto lasciare la Germania e rifugiarsi negli stati Uniti.

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L‟appartamento a New York, i loro viaggi, l‟attività di commerciante di pietre preziose di Karl e il suo paziente spiegare i segreti delle gemme.

Il loro spensierato vivere permettendosi molte delle cose cui aveva volentieri rinunciato quando, nel giugno del 1940, la dichiarazione di guerra dell‟Italia e il precario stato di salute dei genitori, l‟avevano spinta a lasciare Karl e la piacevole agiatezza di New York, per essere loro vicina e accudirli nella vecchiaia.

Era grata a Franz, a quel grande uomo, che aveva trovato il modo di far comunicare il fratello a New York e Vittoria a Broni, ormai separati da mezzo globo terraqueo, attraverso le poste vaticane. Con questo canale, Franz riusciva a tenersi in contatto con Padre O‟Connors a New York e dal quale riceveva notizie dagli Stati Uniti fino al dicembre del 1941, quando anche gli U.S.A. erano entrati in guerra.

Ormai da più di otto mesi Vittoria non riceveva più missive da Karl e quella era la prima lettera di Franz che giungeva a destinazione.

Come sempre iniziò dalla lettera che Franz scriveva sempre accompagnando quella del marito.

Il Vescovo di Merano

S.E. R.mo Franz Haltman

Merano 2 agosto 1943

Carissimi figli miei,

la mia benedizione di ministro di Dio scenda su di voi.

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Sono molto contento di potervi far avere l’ultima lettera di Karl, con tante buone notizie, a noi ignote. Sembra che il disegno divino si stia facendo sempre più chiaro e che, nonostante le molte sofferenze, l’umanità stia trovando il coraggio, la forza e la determinazione per opporsi al diavolo e ai suoi seguaci.

Pochi giorni fa il governo di Mussolini è caduto e lui è stato finalmente arrestato; lo tengono sull’isola della Maddalena, sotto stretto controllo. Eleviamo le nostre preghiere perché questo fatto sia il preludio alla cessazione della guerra e delle sofferenze per tanti popoli sulla terra, tra questi, anche il nostro.

Guardando al presente, vi spero tutti in buona salute e dediti alle cose quotidiane che, in questi tempi, sono le uniche soddisfazioni che ci sono concesse. Trovare pace e serenità anche e soprattutto nelle piccole cose: ecco il cammino che Iddio ci indica, precluse tutte le altre imprese, impediteci da questi bui momenti.

Attendo con ansia notizie di papà Jacopo, mamma Francesca e di Vittoria e Marina,

Vi abbraccio fraternamente

Franz ministro di Dio

Aveva letto a voce alta la lettera del Vescovo perché, come sempre, erano parole che facevano bene all‟anima, davano conforto anche ai suoi

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anziani genitori, pieni di gratitudine per essere nei pensieri di quel pastore di anime.

Ora veniva il momento di leggere la lettera di Karl e l‟emozione la colse, facendole uscire un filo di voce chioccia. Si fermò e sorridendo si scusò, riprendendo da capo, con voce normale.

“La lettera è del 12 luglio e viene, come sempre, da New York.”

Carissimi Vittoria, Jacopo, Francesca e Marina,

siamo molto più vicini a voi, ora! Forse lo sapete già, anche se credo di no. Il 10 luglio truppe anglo-americane sono sbarcate in Sicilia nel golfo di Gela e in quello di Siracusa. Sono sbarcate la 7a Armata americana del generale Patton e l’8° Armata britannica del generale Montgomery.

Vorrei darvi qualche particolare perché possiate valutare da soli e rendervi conto di cosa vuole dire, quando gli alleati si muovono all’attacco.

Ike Eisenhower, il generale al comando dell’operazione, ha lanciato all’assalto oltre 160.000 uomini, con 600 carri armati, 4.000 veicoli e 1800 cannoni.

Tutte le nazioni libere del mondo hanno collaborato a costituire la flotta da sbarco; le navi utilizzate sono state migliaia, senza contare l’incontrastata supremazia aerea e tutti i reparti di paracadutisti impegnati. Pensate che queste cifre sono state comunicate perfino dai tedeschi ai loro generali in Italia.

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Chissà dove saranno arrivate le truppe Alleate, nel momento in cui Franz, ricevuta questa lettera, la farà avere a voi. Può anche darsi che la Sicilia sia già stata liberata e magari si sia già a metà strada per Roma.

Non è tutto.

A Stalingrado i tedeschi hanno dovuto chiedere la resa e ora i sovietici stanno contrattaccando verso Kursk.

Gli Stati Uniti si sono ripresi da Pearl Harbour e, dopo aver fermato l’avanzata giapponese a Midway, ora attaccano su tutto il fronte, dall’estremo nord delle isole Aleutine alla Nuova Guinea, conquistando isola dopo isola. L’ultima che abbiamo liberato dai giapponesi è Guadalcanal.

Dicono che per un soldato che combatte al fronte ci vogliono dieci uomini impegnati nelle retrovie e penso che sia vero. In uno dei miei viaggi di lavoro, ho avuto occasione di vedere una delle nuove locomotive costruite dalla ALCO per trasportare la produzione bellica fino ai porti d’imbarco, sulla costa atlantica e pacifica.

Le chiamano “Big-Boy”, voi direste “il grande ragazzo” e ne hanno costruite diciannove: sono dei mostri di più di 40 metri di lunghezza che pesano oltre 540 tonnellate con 12 coppie di ruote nella locomotiva e 7 coppie per il rimorchio porta carbone.

I treni che trainano sono lunghi più di un chilometro e, per superare alcuni tratti montagnosi impegnativi, ne vengono usate due accoppiate.

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Questi sono gli Stati Uniti: l’arsenale della democrazia, come diceva Roosevelt. Gli alleati stanno lentamente accerchiando l’Europa, con i Russi da Est e con noi, gli inglesi, gli australiani, i canadesi, gli indiani da sud, conquistando l’Africa e ora l’Italia.

Da ovest, bombardiamo giorno e notte la Germania e sul mare sono sempre di più i sommergibili tedeschi affondati. I viaggi dei convogli che portano armi, munizioni, uomini, cibo e carburante in Gran Bretagna e verso chi combatte per la libertà, sono sempre meno pericolosi e il numero di navi perse è in diminuzione.

Alla mia Vittoria comunico che il nostro aiuto per la costruzione di una chiesa nel quartiere del Bronx, qui a New York, continua a essere sostanzioso e che già si parla di poterla inaugurare dopo la prima metà del ’44. Padre O’Connors mi chiede sempre di te e di voi e vi ricorda ogni giorno nelle sue preghiere.

Vittorina interruppe la lettura e rivolgendosi ai suoi, disse:

“Quante cose che qui in Italia, non ci sono state dette o lo sono state solo in parte.”

“Credo che ormai si possa dire che vediamo la luce in fondo al tunnel.” Disse mamma Francesca.

“Poi ci sono i saluti per Marina e per papà e mamma, oltre a tutte le domande che fa per sapere come state e come stanno andando le cose.”

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Vittorina ripiegò accuratamente la lettera e la mise in tasca. Scorrendo la parte successiva della lettera, aveva visto che era troppo personale e lei non intendeva metterne al corrente la sorella e i genitori.

“In una busta ci ha mandato ancora qualche migliaio di franchi svizzeri. Dio benedica il mio Karl e la coscienza che non gli fa dimenticare di aiutarci, anche se è così lontano.”

Adducendo il desiderio di schiacciare un pisolino, salutò tutti e salì in camera da letto dove riprese la lettura della parte più affettuosa della lettera di Karl.

L‟otto di agosto, Romano Pizuto capì che si era arrivati a un giro di boa.

Era il primo pomeriggio e sul molo E tre uomini si stavano avvicinando al Caboto: uno era Fasann, il secondo un borghese con un cappello ben calato sul capo e il terzo un ufficiale tedesco in divisa nera delle S.S. Salirono a bordo e il tedesco si presentò, era il maggiore delle S.S. Hans Staedler.

In quello che sembrava uno stentato italiano, il tedesco presentò il borghese come un agente del S.I.S., il servizio informazioni della Regia Marina e accennò a importanti e segretissimi ordini per il comandante del Caboto.

I quattro si chiusero nella cabina di Pizuto, nella mano del tedesco comparvero due buste gialle piene di timbri e sigillate in tre punti con la ceralacca, che vennero consegnate al comandante una dopo l‟altra, quasi facendogliele sospirare.

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Fasann interruppe il silenzio:

“Comandante, niente nomi veri, diciamo che quest‟uomo è Vittorio” e indicò il borghese.

Rivolgendosi poi al tedesco:

“Hans, ti chiameremo così. E ora, bando agli indugi, facciamo aprire al comandante le buste con gli ordini.”

Hans accolse l‟invito e con un genuino accento bolognese disse solo:

“Soc-mel, Oi !”

La più nota, colorita e spinta esclamazione bolognese.

Pizuto non capiva.

Il tedesco era italiano, ma in divisa da S.S.

Perché?

Cosa contenevano le due buste?

Perché si era dovuto ricorrere a quella sceneggiata per giustificarne la consegna?

Aprì la prima, era firmata dal maresciallo Badoglio, la seconda invece era un ordine diretto del comandante in capo di Supermarina.

Gli uomini sul ponte avevano notato l‟arrivo dei tre e specie Lorusso aveva cercato di farsene una ragione, aveva anche cercato di passare davanti alla porta della cabina del comandante.

Le guardie armate, poste da Pizuto ai due lati del passaggio e all‟interno della plancia, non gli consentirono di avvicinarsi, vedere o udire qualche cosa.

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Fasann, scortato da due ufficiali, uno delle S.S.: questa era la conclusione soddisfatta dell‟equipaggio. Pizuto finalmente si era deciso ad agire contro quello sfaticato e imboscato di Fasann.

Anche Lorusso e Gerò pervennero alla stessa conclusione, confermata dal fatto che, a tarda notte, solo il borghese era sceso a terra, forse l‟ufficiale tedesco sarebbe rimasto a bordo a controllare Fasann e quanto succedeva sul Caboto.

Dopo ore di discussione e spiegazioni, durante le quali Pizuto dovette convincersi rapidamente di diverse realtà, raggiunsero un‟intesa. I suoi due interlocutori avrebbero voluto che il minor numero di persone fossero al corrente della situazione reale.

D‟altra parte, il comandante sapeva che il non parlare chiaramente, avrebbe portato all‟ingovernabilità della nave.

Pizuto chiuse l‟incontro offrendo da bere e salutando il borghese che lasciava la nave. Diede disposizione perché Fasann dividesse la cabina con il maggiore tedesco, mentre Bacigalupo si sarebbe sistemato in quella di Greco.

Chiuso in cabina non si addormentò se non dopo aver a lungo rimuginato su quanto era stato detto. Soppesando i pro e i contro, concluse che aveva bisogno di tutti gli uomini di cui si poteva fidare e si ripromise di convocarli tutti alle 8 del mattino.

Erano presenti: Greco, Bacigalupo, Fasann, Carammani, Arduino e i tre contabili.

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Pizuto fece notare che l‟assenza dei due guardiamarina Caruso e Lorusso, era voluta e senza mezzi termini assegnò ai presenti, indipendentemente dal grado, la responsabilità della condotta dei due assenti, oltre che dell‟equipaggio, fatta eccezione per il maggiore tedesco per il quale si assunse la responsabilità personale.

Non c‟era molto da spiegare, anche se lasciò a bocca aperta tutti avvertendoli che avrebbero imbarcato vestiario pesante ed equipaggiamento artico. Che fosse fatto notare all‟equipaggio e che venisse ben stivato, dove non avrebbe disturbato le normali operazioni!

Inoltre avrebbero dovuto aspettarsi delle emergenze improvvise, senza che venisse dato l‟ordine “ai posti di combattimento” e, se la situazione avesse richiesto l‟uso delle armi, che si aspettassero un suo ordine e che lo facessero rispettare, senza dare spiegazioni agli uomini e, tanto meno, chiedendone.

Spiegò poi, abbassando la voce e rendendo più morbido il tono di voce, che non era improvvisamente impazzito, gli ordini ricevuti, erano in cassaforte, firmati da Supermarina e dal maresciallo Badoglio.

Come comandante del Caboto, aveva necessità che nessuno facesse domande sulla rotta o che si mettesse a controllare il consumo di nafta o che ponesse in dubbio l‟apparente illogicità degli ordini dati.

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Al punto in cui si era arrivati, era necessario che nessuno potesse più comunicare a terra. Nessuno, neanche i presenti, sarebbe più potuto scendere fino al ritorno dalla missione.

Durante la navigazione i turni in plancia sarebbero dovuti essere divisi solo tra i presenti, sorvegliando chi non era al corrente della situazione e ponendo particolare attenzione all‟operato dell‟equipaggio comandato in plancia.

Pizuto ricordò che gli altri due guardiamarina erano all‟oscuro di tutto e che con Caruso e Lorusso in plancia, tutti stessero attenti a cosa avrebbero detto e fatto.

Richiese il parere dei presenti su chi designare come angelo custode di Gerò. Quasi all‟unisono venne un nome: Carmelo. Il cont-cala assicurò di occuparsi della trasmissione dell‟ordine.

Pizuto li congedò e, rimasto solo, rilassò i muscoli delle spalle e delle braccia e lasciò uscire silenziosamente il fiato: era fatta, li aveva informati del possibile futuro, aveva chiesto fiducia e ottenuto incondizionato appoggio.

Ora si trattava di aspettare che succedesse quello che doveva succedere. Si augurava di essere in grado di affrontare le situazioni con determinazione, seguendo le disposizioni e gli ordini chiusi nella cassaforte.

16. 8 Agosto 1943

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Elvira Vanti aveva passato la notte presso il Comando della Croce Rossa di porta Romana, a Milano. La fortuna aveva voluto che fosse una notte tranquilla, senza allarmi aerei e senza quei dannati bombardieri alleati; era riuscita a dormicchiare un poco sulla branda dell‟ufficio di coordinamento.

Dopo essersi sciacquata il viso e rassettata la gonna, aveva spazzolato i lunghi capelli e sistemata il cappellino bianco e aveva passato le consegne a una collega.

Quella mattina faceva ancora fresco e si era goduta la passeggiata su Corso 28 ottobre fin davanti all‟arco di Porta Romana. C‟era una lettera nella cassetta della posta e lei, appena entrata in casa, tolte le scarpe e appeso il cappellino, si accomodò sul sofà cercando di aprire la busta senza danneggiarla troppo. Aveva riconosciuto subito la calligrafia di Renato e, guardando il timbro postale, sapeva che era stata imbucata a Roma.

Lacerato l‟involucro in un gesto d‟impazienza, si ritrovò tra le mani alcuni fogli scritti fitti.

20 Luglio 1943 XXII EF

Carissimo amore mio Imp-Imp,

ciao, ricordati che ti amo tantissimo.

Ti scrivo da Pereto e domani imbucherò la lettera in stazione a Roma, prima di prendere l’ultimo treno per Civitavecchia. Come ti avevo avvisato

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nella mia ultima, c’era la necessità di fare un salto qui, dalle zie e dai cugini: alcuni pareri legali, alcune partite a scopone dirai tu e poi ho dovuto risolvere un grosso problema.

Come far arrivare quelle cose, che puoi immaginare e che qui a Pereto ci sono, mentre nelle città non si trovano, fino a casa di zia Federica, degli zii Alberti, dei cognati Roncato, di Francesco, Remo e Giuditta, oltre che ad Anselmo, Tina e Tonino.

Chi poteva muoversi da qui e raggiungere Roma?

Ti ricordi come sono giovani e pimpanti queste sessantenni e questi settantenni.

Quindi?

Quindi mi sono organizzato. Sono andato da Romolo e Bruna, i due fattori di zio Vittorio ed ho rimesso in sesto il carretto a due ruote che tenevano al riparo sotto il fienile.

Ho chiesto se mi prestavano una balla di fieno e i loro ragazzini: Andrea, Marina, Aurelio e Giorgio, per una intera giornata. Li avrei portati a fare una bella gita.

Partenza presto, alle 6 del mattino, ritorno dopo il tramonto, ma prima di notte.

Ho preso tutto il “materiale” e, perché non si sciupasse, l’ho sistemato sopra un alto strato di paglia e sotto un bel 30 centimetri di fieno. Una strigliata ai due cavalli del nonno, che mi hanno detto quanto gradivano una bella cavalcata fino a Roma e ritorno.

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La sera ho telefonato a zia Federica, che ha una Balilla ancora funzionante e un po’ di benzina, perché fa la levatrice e ad Anselmo che ha quel motocarro con cui trasporta tubi, vasche da bagno e le sue attrezzature idrauliche. Ho dato loro appuntamento alle Catacombe di Sant’Agnese, sulla Nomentana.

L’idea che ho avuto è stata di seguire sempre le piccole stradine a fianco dei campi e non percorrere mai la via principale. Nessuno avrebbe mai fermato un carretto con dei ragazzini e un bracciante che tornava verso casa o andava verso i campi che coltivava.

Il mattino, in anticipo di qualche minuto sul previsto, ho attaccato i due cavalli e via, siamo partiti. Io ero vestito da contadino, con le scarpe comode e un bel cappellaccio per il sole, i tre ragazzini seduti sul fieno del carretto, i fazzolettini annodati in testa e tanta voglia di ridere e chiacchierare. Li ho subito istruiti a dovere.

“Ragazzini, è una gita fino a Roma e vi porterò a Villa Adriana. Tra poco vi racconterò perché l’imperatore Adriano è stato importante per l’Impero Romano e quali siano le bellezze che andremo a vedere nella sua villa: i colonnati, le piscine, le camere, la grande e lunga vasca piena di statue, i mosaici e le pitture.”

“E poi, vi devo raccontare perché ha costruito il Vallo Adriano che separò la Gran Bretagna conquistata, dalla Scozia ancora indomita e retta

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da tribù bellicose e quasi invincibili: dove gli uomini portavano il gonnellino.”

Marina è saltata su con un gridolino.

“Ma zio, uomini con il gonnellino? Non ci credo.”

“Datemi tempo e vi spiegherò tutto.”

“Attenzione, però, vi chiedo di essermi fedeli e di non tradirmi. A chiunque faccia qualche domanda su cosa c’è sul carretto, noi risponderemo: “Niente, ci sono solo i quattro ragazzini.”

“Siamo d’accordo?”

“Sì, adesso, però, raccontaci.” Hanno detto quasi in coro.

E così, chilometro dopo chilometro, siamo arrivati a Carsoli, Rovia, Vicovaro Mandela, Santa Sabina, Tivoli, Villa d’Este, fino alla Villa Adriana e in una mezz’ora ho mostrato loro tutto quello che c’era da vedere, sempre girando con il carretto o scendendo e tenendolo d’occhio.

Appena terminato di fare loro da cicerone, ho proseguito per Bagni di Tivoli, Setteville, Borgo del Soccorso e poi le Catacombe di Sant’Agnese.

Lì, ho trovato zia Federica e l’Anselmo cui ho passato i suoi pacchetti e quelli con il nome, non il cognome, delle altre persone cui erano destinati.

Tutto è filato liscio e solo nell’ultimo tratto abbiamo trovato il sor Mario, la guardia campestre, che si è meravigliata che fossimo ancora in giro, ma i quattro ragazzini hanno cominciato subito a raccontare delle fontane, delle colonne, del Vallo Adriano in Scozia. Insomma Mario è scappato

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inorridito da tanta erudizione e prima che i ragazzini lo sommergessero di altre notizie storiche.

Con l’allenamento che mi sono fatto, su e giù per la Corsica, puoi immaginare che non sia stata una grande fatica e poi quei ragazzini erano bravissimi e molto perspicaci: facevano tante di quelle domande che non so se sono riuscito a rispondere a tutti e quattro.

Il giorno dopo, sosta e raccolta di altre cose interessanti da portare giù a Roma. Questa volta ho telefonato ai Roncato, a Remo e a Francesco e ho chiesto loro di venire in bicicletta fino a Villa Adriana. Avevo un problema però: i 4 ragazzini non sarebbero stati contenti di ritornare a vedere le stesse cose.

Ci avevano già pensato loro! Il pomeriggio mentre ero giù al caffè a farmi uno scopone scientifico, si sono presentati altri sette o otto ragazzini che mi imploravano di portarli a vedere il Villone dell’Adriano.

Insomma per farla breve, ho fatto altri due viaggi fino a Roma e alla Villa Adriana, senza mai avere noie. Ho intravisto una pattuglia della milizia sulla strada principale, nel secondo viaggio e alcuni autocarri tedeschi che andavano verso Roma, nel terzo. Quindi: nessun rischio!

Per il resto, qui stanno tutti bene e ti salutano tanto. Non vedo l’ora di poter chiedere una nuova licenza, ma penso che prima di ottobre non mi sarà possibile.

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Sappi che ti amo sempre tantissimo, ti penso ed ho con me almeno due o tre tue lettere che mi fanno compagnia.

Ti abbraccio fortissimo e ti bacio,

tuo per sempre, Renato

Elvira si fermò e cominciò a ridere.

“Poi chiama me: imp-imp! Impareggiabile impiastra. Ma si può rischiare di venire arrestato, con un carretto pieno, che so io, di carne salumi e formaggi coinvolgendo anche i ragazzini. Dove ha lui la testa!”

Si disse asciugandosi una lacrima che il troppo ridere le aveva fatto scendere.

“Guarda che matto e che rischi che va a correre.”

Il suono del preallarme aereo interruppe il corso dei pensieri di Elvira. Stancamente sollevò lo sguardo e vide il suo viso riflesso nella specchiera della credenza. Scorse gli occhi stanchi, stufi di correre nei rifugi o di correre sui luoghi dei bombardamenti; vide le spalle alzarsi una, due, tre volte.

La voce le proruppe dalla gola e urlò:

“E chi se ne frega!”

Poco dopo arrivò il suono dell‟allarme aereo, mentre stava indossando la camicia da notte.

Ripeté:

“E chi se ne frega!”

Si mise a letto, mentre sentiva il cupo rumore dei quadrimotori alleati su Milano, il sonno ristoratore e

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liberatore arrivò a toglierle quella coscienza che le permise di addormentarsi.

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17. 10-30 Agosto 1943

Il 10 agosto ‟43, alle due del mattino, salparono. La rotta del Caboto era una delle solite che avevano spesso percorso per pattugliare il tratto di mare a nord della Corsica, la velocità era di 20 nodi, le onde appena accennate non arrivavano al metro.

In giro sui ponti, nessuno, oscuramento totale della nave, nessuna vedetta, guardia ridotta in plancia e dalla sala radio proveniva un noto ticchettio: tre punti, tre punti, tre punti, due linee.

Pizuto rifletteva che fino alle otto del mattino, al termine del turno di guardia, quasi nessuno se ne sarebbe accorto, ma dopo, con tutto l‟equipaggio sveglio, confinato sotto bordo?

Alle sei in punto, Pizuto dette il primo di una lunga serie di comandi “particolari”.

“Ferma le macchine!” L‟ordine, a rigor di logica, era insensato e il comandante che lo avesse dato, sarebbe stato definito matto da legare, a meno che non esistessero motivi importantissimi che lo giustificassero.

Dopo pochi minuti il Caboto si cullava immobile sul mare, ottimo bersaglio che si stagliava contro un cielo prossimo al primo chiarore.

Lorusso, presente in plancia, non era d‟accordo ed era agitato, pur riuscendo a non farlo trasparire; quando però la sagoma della torretta di un sommergibile in emersione cominciò a essere visibile

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dalla plancia, iniziò a spostarsi verso il pulsante del “posto di combattimento.”

Fu fermato dalla voce di Pizuto:

“Al tempo! Lorusso, non vede che è uno dei nostri? La prossima volta aspetti di essere sicuro.”

Lorusso voleva ribattere, ma il gelido silenzio che era calato in plancia era tangibile e tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di lui. Desistette dal proposito, ma non imparò la lezione.

Un battellino, con a bordo tre uomini, era stato portato sul ponte del sommergibile e calato in acqua, Pizuto chiese a Locascio di provvedere a far lanciare una cima per far salire gli occupanti.

Il cont-cala scese sul ponte di coperta del Caboto, accompagnato dal timoniere, lanciarono una cima e aiutarono i tre a salire sul ponte. Fu poi la volta di una cassa, che sistemarono contro la battagliola. Per ultimo issarono a bordo il battellino.

Non si capiva bene se l‟uomo in borghese, tra le due SS con i mitra ben saldi nelle mani, fosse un prigioniero o fosse scortato dai due militari.

Salirono le scalette ed entrarono in plancia. Ci fu solo un rapido parlottamento tra Pizuto e il civile, nessun altro proferì parola e l‟unica cosa chiara che si udì, fu l‟ordine di riprendere rotta e velocità originarie.

Lorusso era in plancia e stava osservando attentamente il civile. Quando si tolse l‟impermeabile, scattò sull‟attenti, salutando alla visiera.

Il civile reagì con notevole tempismo:

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“Cosa diavolo fa? Mi chiamo Bianchi, da quando all‟Accademia Militare insegnano a salutare così un civile?”

Lorusso voleva rispondere, ma il gelido sguardo fisso nei suoi occhi, lo bloccò.

Al generale fece piacere che, anche se in borghese, qualcuno lo avesse riconosciuto e fu contrariato di dover trattare quel povero guardiamarina in modo autoritario e intimidatorio, ma nessuno doveva sapere che era a bordo.

Si appartò con Pizuto, scoprendo che quel guardiamarina era uno dei pochi presenti e l‟unico ufficiale a non essere al corrente di certe cose e che era meglio restasse all‟oscuro.

Convennero infine che la presenza delle due SS e del maggiore tedesco sarebbe stata sufficiente, almeno per il momento, per quanto doveva succedere.

Era giorno fatto e l‟equipaggio si era accorto di non potere salire sul ponte e nei locali delle sovrastrutture del Caboto: ciò voleva dire altri potenziali problemi e guai in arrivo per Pizuto.

Le vedette e gli artiglieri si fecero sentire. Era stupido non pensare alla difesa della nave. Fecero domande, alzarono la voce e si formarono dei capannelli il cui tema era lo stesso: lo strano modo di procedere del comandante.

Il cont-pro raccolse le lamentele e riuscì a salire fino in plancia dove, mettendosi a rapporto, fece presente a Pizuto quanto fosse pericoloso e

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inutilmente rischioso il continuare a navigare senza uomini ai pezzi e senza vedette.

Francesco Cortese sollevò dei dubbi sulla legittimità della presenza dei tedeschi, che sembrava la facessero da padroni in plancia.

Per tutta risposta, Pizuto condusse Cortese nella sua cabina, chiedendo al maggiore tedesco di appostarsi nel corridoio e ordinando alle due SS di mettersi una a prua e una a poppa a controllare le uniche scalette che portavano in plancia.

Pizuto conosceva bene Cortese, uomo prudente e coraggioso e si sentì di parlargli apertamente.

“Cont-pro, abbiamo navigato parecchio insieme, ho la massima stima in lei e mi auguro che sia reciproca.”

“Senz‟altro comandante. Anche nei confronti di tutti gli ufficiali, forse con una sola eccezione.”

“Molto bene.”

Rispose il comandante, ignorando quell‟accenno diretto, probabilmente contro Fasann, continuando:

“Le posso dire che stiamo eseguendo ordini ben precisi. Cerchi di spiegarlo agli uomini da basso.”

“Anche se può sembrare pazzo il navigare senza vedette e uomini all‟armamento, mi creda, è la cosa più sicura che possiamo fare nei confronti di tutti gli uomini imbarcati. Le assicuro che non durerà a lungo, ma più problemi riusciamo a evitare ora, meno ne avremo quando la situazione tornerà normale. Faccia il possibile per tenere calmi e tranquilli gli uomini, conto su di lei, torni pure ai suoi compiti.”

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Il cont-pro non aveva capito molto, ma sentiva che il comandante gli aveva chiesto di agire e rispose solo:

“Signorsì!”

Si girò ritornando al ponte inferiore.

Cortese stava dirigendosi verso il suo alloggio, quando vide Lorusso appoggiato a una parete, con in mano una lettera e le lacrime agli occhi.

“Cosa succede, guardiamarina ?”

Gli chiese.

“Succede che solo ora riesco a leggere la lettera dei miei genitori. Una comandata dopo l‟altra e l‟avevo dimenticata nella tasca della giacca. Poco fa, prendendo una sigaretta …”

“Mi comunicano che mio fratello, mia cognata e la mia nipotina sono morti sotto un bombardamento. Nemmeno a casa i nostri generali sono stati in grado di proteggerli. Ma cont-pro, che cavolo di guerra è questa?”

“Perché il Duce non è in grado di far restare al sicuro la popolazione?”

“Dove sono tutte le promesse e tutte le vittorie di cui ha parlato?”

“E poi perché il generale si rifiuta di farsi riconoscere?”

Dopo qualche istante di silenzio, continuò:

“Perché il comandante ce l‟ha con me?”

“Guardiamarina, mi dispiace per i suoi parenti. Purtroppo l‟ha detto anche lei: è la guerra. Io non mi intendo di politica ma credo che una guerra così

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lunga, con uomini in Africa, in Russia, in Grecia contro Inglesi, Francesi e Americani, forse non eravamo pronti a combatterla.”

“Cont-pro, ha ragione. Io però ci credevo e, come me, tanti altri giovani si sono fatti convincere. Allora è tutto falso!”

“Ci hanno ingannato! Mi hanno ingannato!”

Concluse Lorusso, quasi urlando e picchiando il pugno contro il duro ferro della nave.

Cortese si rese conto che non poteva fare molto per quel ragazzo. Lo vide allontanarsi barcollando, la testa incassata nelle spalle, lo sguardo a terra.

Un pensiero gli passò per la mente: non era giusto mandare in guerra giovani fragili come Lorusso. Non si forgia un guerriero riempiendolo di parole, di “credere, obbedire e combattere”, ma dandogli fiducia con l'addestramento e con l‟esempio dei superiori.

Un uomo può anche morire per la Patria se può combattere, se ha le armi per farlo, se la nazione lo mette in grado di resistere al freddo dell‟inverno russo come al caldo del deserto africano, per tutto il tempo che è necessario, fino alla vittoria.

Tra i presenti in plancia c‟erano diversi uomini abituati a pensare, osservare e Lorusso era uno di questi. Si era sfogato, aveva pianto, da solo, vicino agli scaricabombe a poppa, aveva guardato la scia della nave e aveva notato, dalla posizione del sole, che continuavano a far rotta verso ovest.

Voleva sentire cosa ne pensava Gerò, ma non fu facile scendere da basso. Prima il maggiore tedesco,

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al quale dovette spiegare che doveva raggiungere l‟infermeria per l‟iniezione giornaliera. Poi la sentinella SS che lo fermò puntandogli contro il mitra e infine Carmelo, che gli si parò davanti nel corridoio dell‟infermeria, ma che Lorusso fece allontanare avvalendosi del suo grado.

Finalmente riuscì a parlare con l‟amico.

“Non ci capisco niente, ci sono tre tedeschi a bordo e questo è positivo. Però c‟è anche il generale in borghese, nessuno l‟ha riconosciuto, solo io e penso Pizuto. Inoltre è tutto il giorno che stiamo facendo rotta verso ovest.”

“Forse siamo stati destinati all‟Atlantico” Gli rispose Gerò, continuando:

“Non hai notato tutta quella roba pesante che abbiamo imbarcato: giubbotti di pelo, indumenti pesanti, guanti e berretti foderati?”

“Che ne sai, magari andiamo a scortare delle corazzate tascabili tedesche. Magari si tratta di attaccare un convoglio alleato: uno di quelli tra l‟America e la Gran Bretagna, oppure tra quest‟ultima e la Russia, lassù vicino ai ghiacci. Come possiamo avere informazioni esatte per capire cosa ci aspetta?”

Concordarono che tutto era possibile e che, anche se circolare sulla nave era difficile, avrebbero cercato di raccogliere gli indizi utili, cercando di fare il punto della situazione.

Era quasi impossibile fare quello che era stato loro chiesto: riferire l‟andamento delle cose a bordo. E

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non avevano ricevuto nessuna nuova disposizione da sua eccellenza l‟ammiraglio, dopo il 25 luglio.

Come potevano continuare a fare rapporto, a servire un Duce che pareva ormai messo da parte? Inoltre quei tre tedeschi erano un fatto non frequente a bordo di un cacciatorpediniere italiano.

Parlarono molto, anche delle ultime notizie giunte loro con la posta. Si scambiarono le informazioni sull‟andamento della guerra in Russia e su quello che capitava, specie nell‟Italia del sud, con i continui bombardamenti che le città dovevano subire. Sorse loro il dubbio che, nonostante tanto eroismo, l‟Italia non sarebbe stata in grado di continuare una guerra che la stava stremando né tanto meno vincerla.

Decisero di sospendere ogni attività fino a quando, rientrati a Genova, avrebbero potuto parlare con l‟ammiraglio.

Lorusso si lasciò andare con l‟amico e, singhiozzando, gli raccontò della lettera e della morte dei suoi, di quello che gli aveva detto Cortese, concludendo che ormai non gli importava più di vivere. Lo avevano ingannato, gli avevano fatto credere cose che si erano rivelate un imbroglio. Forse avrebbe cercato di farsi ammazzare al prossimo scontro con il nemico.

“Caro Gerò, non capisco più niente e non capisco perché devo continuare a vivere.”

Gli urlò in faccia, alzandosi e andandosene.

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“Carammani, velocità 30 nodi.” Disse Pizuto nel portavoce della sala macchine. Alle 22 in punto, fece poi modificare la rotta di pochi gradi verso ovest.

Il tempo era buono, la luna calante non era che una piccola falce ormai prossima a immergersi nel Mediterraneo. Ancora poco e avrebbero avuto il favore delle tenebre e la compagnia del cielo stellato.

Il comandante si recò in sala radio a vedere Fasann, che da oltre venti ore era seduto a trafficare con gli strumenti. Restò con lui fino a quando, verso le quattro del mattino, Macaluso li raggiunse con del caffè caldo: ci voleva proprio.

Dopo aver conversato per qualche minuto, lasciarono Fasann di guardia e, rientrando in plancia. Il cont-nafta ne approfittò per esprimere i suoi dubbi riguardo al consumo del combustibile di quella lunga corsa verso ovest, quasi alla massima velocità. Se la loro missione era navigare nell‟Atlantico, avrebbero dovuto cercare di economizzare il carburante.

In plancia Pizuto lo portò alla tavola da carteggio e gli mostrò dove erano diretti. L‟attuale posizione, segnata in nero, e la distanza dal punto con una X rossa. Il cont-nafta si tranquillizzò, era questione di poche ore a velocità sostenuta e non si trattava dell‟Atlantico: il ritorno non sarebbe stato un problema. L‟autonomia della nave lo avrebbe consentito, come avrebbe anche permesso in caso di brutti incontri, di effettuare tutte le manovre elusive ed eventuali modifiche di rotta.

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Insieme a Pizuto in plancia c‟erano Greco, Arduino, Lorusso, il capotimoniere e il cont-cala Locascio. L‟atmosfera era tesa, il nervosismo degli uomini trapelava dai gesti e dai movimenti.

Non passavano che qualche minuto e, or l‟uno or l‟altro degli ufficiali, si avvicinava ai cristalli per puntare il binocolo notturno percorrendo l‟arco di orizzonte visibile. Il mare piatto non rivelava che qualche onda leggermente più alta e alcuni gabbiani che, in formazione, volteggiavano bassi, a fianco del Caboto.

Il guardiamarina Lorusso stava osservando il tratto d‟orizzonte 0°-90°, cioè da dritto di prua al traverso di destra, assecondando il movimento con la rotazione del bacino, non si accorse che Pizuto gli si era messo alle spalle, a circa un metro di distanza. A un certo punto si girò di scatto, la bocca aperta e il braccio destro alzato, facendo il primo dei due passi necessari per raggiungere il grosso pulsante rosso del segnale di “posto di combattimento”.

“Dica Lorusso, c‟è qualcosa di cui vuole informare il comandante, prima di agire?” Gli disse aspro Pizuto, mentre Locascio si avvicinava, dicendo di rincalzo:

“Qualcosa che non va?”

Lorusso, furente, urlò loro in faccia:

“Certo che qualcosa non va! Abbiamo compagnia e adesso mi faccia suonare l‟allarme!”.

“Lei non fa suonare proprio niente, rimanga sull‟attenti, guardiamarina Lorusso!” Disse gelido Pizuto avvicinandosi.

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Gli occhi e l‟espressione del volto di Lorusso erano furenti e la valanga di parole con cui investì il comandante ne erano l‟espressione verbale.

“Lei è un pazzo e un traditore!”

“Là fuori, a circa un miglio, c‟è un sommergibile inglese. I serventi del cannone sono in coperta e la canna è puntata contro di noi.”

“Siamo in guerra, comandante dei miei stivali! Lei non è un comandante, è un pazzo criminale, ci sta mandando a morte tutti o per i colpi del cannone o per i siluri che ci spediranno.”

“Adesso si scosti e mi lasci fare il mio dovere, visto che lei non ne è in grado.”

La mano di Lorusso era scivolata sul cinturone e già aveva slacciato la fettuccia di pelle che chiudeva la fondina della pistola d‟ordinanza. Un attimo dopo, l‟arma puntava dritto in mezzo agli occhi di Pizuto.

Locascio di colpo calò il binocolo sul polso di Lorusso e si spostò, spingendo violentemente il guardiamarina. La pistola cadde sul pavimento seguita da Lorusso, che ruzzolò di lato fin davanti a Greco che lo bloccò a terra, tirandogli i capelli e obbligandolo a tenere ben alta la testa mentre, con una delle ginocchia, gli premeva la schiena contro il duro ponte.

Pizuto fino a quel momento non si era mosso, lo fece solo per avvicinarsi a Greco e Locascio che teneva fermo Lorusso con il braccio piegato dietro la schiena in un angolo estremo, strattonandolo per farlo rialzare.

“Greco, faccia venire Carmelo.” disse Pizuto

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“Cont-cala, il guardiamarina Lorusso è agli arresti. Appena arriva Carmelo, lo porti giù nel locale delle catene dell‟ancora di dritta. Lo faccia ammanettare alla paratia e lasci Carmelo di guardia, armato di pistola. Che nessuno veda o parli con il guardiamarina.”

“Di tutte le cretinate che ha detto e fatto questo ragazzino, ne parleremo dopo.”

Appena uscirono i tre uomini, Pizuto riprese l‟osservazione del sommergibile. Sapeva che la posizione del Caboto era a poche miglia dalle isole spagnole di Columbretes.

Se c‟era il sottomarino, poi, la posizione era esattamente quella prevista per l‟appuntamento: 39° 90‟ latitudine nord e 0° 75‟ longitudine est, al largo della costa spagnola.

La scena che si era appena svolta in plancia aveva lasciato tutti sgomenti. Solo il capo timoniere aveva accennato un passo verso il pulsante rosso, chiedendo con lo sguardo un muto assenso a Greco. Il primo ufficiale però, gli aveva affondato il binocolo nello stomaco, obbligandolo a tornare a posto. Scuotendo la testa, il capo timoniere si concentrò a cambiare la posizione delle mani sui pomoli del timone.

Pizuto rivolse un mezzo sorriso rassicurante all‟uomo al timone e si avvicinò al portavoce della sala macchine dando l‟ordine:

“Carammani, fermi le macchine.”

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La porta si aprì ed entrarono Fasann, i tre tedeschi e il signor Bianchi.

Fasann uscì sulla plancetta e si mise a fianco del proiettore per le segnalazioni.

In quel momento, una luce sul sommergibile cominciò a lampeggiare.

Fasann rispose. I messaggi si succedettero rapidamente, fino a che Fasann rientrò e, rivolto a Pizuto, disse:

“Siamo pronti a lasciare il Caboto. Prima però devo parlarle da solo. Se intanto vuole provvedere a mettere in acqua il canotto e far caricare la cassa, guadagneremo un po‟ di tempo.”

Locascio e le due SS si occuparono dell‟incombenza. Scesero dalla plancia sul ponte di coperta e raggiunsero il punto dove calare il canotto. Il cannone del sommergibile sembrava più vicino e il movimento della mitragliera, montata sulla torretta, faceva paura.

Nella cabina, Fasann consegnò a Pizuto una busta sigillata con la ceralacca.

“Comandante,” gli disse, “contiene ordini e istruzioni per lei e riguarda il nostro recupero a bordo dopo la missione. Ne impari il contenuto a memoria e poi la distrugga, per favore.” Continuando:

“Adesso che lascio il Caboto, sarete soli. Lei sa cosa molto bene cosa è la guerra. Non faccia uso del segnale che conosce, né di quello ottico, né di quello sonoro. Ne va della mia e della vostra vita. Da ora, lo

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utilizzerò io per continuare la missione, sarà il mio segnale e mi seguirà dove andrò.”

“Fasann,” gli rispose Pizuto “si ricordi la promessa che prima o poi, nella mia cabina, con la pipa accesa, lei spiegherà un bel po‟ di cose al suo comandante.”

“Non dubiti, ci tengo molto anch‟io.”

Gli rispose Fasann e sorridendo, forse per la prima volta, gli tese la mano, salutandolo.

In pochi minuti i cinque uomini del Caboto, remando di buona lena, raggiunsero lo scafo semi sommerso del sottomarino inglese. Saliti sul ponte e recuperata la cassa, imbarcarono il battellino e scomparvero all‟interno. Già il sommergibile si stava muovendo e poco dopo solo una scia d‟onde segnalava la rotta lungo la quale si era immerso.

Pizuto non perse un attimo e, rivolto al secondo, ricominciò a dare ordini sensati:

“Greco, faccia battere il “posto di combattimento”. Doppie vedette sugli alberi. Virare di 180°, calcoli la rotta più breve per il ritorno. Provveda anche a far distribuire cibo e bevande calde, caffè caldo e gallette anche a chi è ai posti di combattimento.”

La mano del comandante portò le leve del telegrafo di macchina sul pari avanti tutta, ordine che volle confermare, chinandosi sul tubo portavoce:

“Carammani, parla il comandante, mi dia tutti i 30 nodi, anche di più, se può.”

Alzando poi il capo, Pizuto chiamò Bacigalupo:

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“Italo, fino a Genova te la dovrai cavare da solo, sia per tracciare la rotta, sia per la radio e le apparecchiature di rilevazione. Fatti aiutare dal sottocapo, almeno per le trasmissioni.”

Si rivolse infine al cont-cala:

“Locascio, prendi tu il timone. Il capo timoniere deve venire con me.”

Il capo timoniere lo seguiva senza capire bene dove stessero andando, scese le scalette finché si ritrovarono davanti a Carmelo che stava appoggiato davanti al portello chiuso del locale catene dell‟ancora, le braccia incrociate all‟altezza del petto, la pistola impugnata con la destra.

“Apri il portello, Carmelo.” Disse Pizuto, poi spingendo avanti il capo timoniere e Carmelo, li seguì all‟interno, accostando dietro di sé il portello.

La nave stava riprendendo vita, ai pezzi dell‟armamento gli uomini controllavano le armi, le vedette scrutavano il mare e sul ponte le varie attività da tempo sospese, ripresero normalmente.

La cambusa cominciò a sfornare le prime vivande calde e questo bastava a rimettere in sesto gli uomini, dopo quella strana giornata di confinamento sui ponti inferiori a base di gallette e di una misteriosa e in parte benvenuta inattività.

Gerò ne approfittò, cominciando a cercare Lorusso per commentare quelle strane ore. Non riuscì a trovarlo, girò quasi tutta la nave senza incontrare l‟amico, assaporando solo la libertà di movimento.

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Nel locale delle catene dell‟ancora, la scena era sconfortante: Carmelo in piedi, la pistola in pugno, il capo timoniere, costretto in un angolo, Lorusso ammanettato a uno dei rinforzi della paratia e seduto scompostamente sulle maglie della catena.

La fioca luce della lampada protetta, dava agli uomini un aspetto spettrale, con il comandante che restava in ombra, dominando però tutta la scena.

Pizuto attese, riordinando il corso dei pensieri che gli si affacciavano alla mente, poi iniziò a parlare.

“Carmelo, libera il guardiamarina, ma sai cosa fare con la pistola, se questo signorino d‟ufficiale dovesse fare qualche movimento.”

“Come ti chiami, capo timoniere?”

“Enrico Bova, comandante.”

“Bova, capisco il perché hai cercato di far rilevare l‟urgenza, di lanciare l‟allarme per il “posto di combattimento”. Non avevi ricevuto nessun ordine, hai voluto fare un tentativo. Ma se sono presenti il comandante e il primo ufficiale e non fanno niente, ci sarà pure un motivo.”

“Ti biasimo, ma voglio sentire le tue di motivazioni: oltre a un senso del pericolo e del dovere, ci sono altre ragioni che ti hanno spinto? Ti conviene parlare adesso, se per caso sei della stessa pasta di Lorusso.”

“Ricordati che Greco non ti perderà mai di vista e la prossima volta non sarà un binocolo che riceverai nello stomaco, ma qualcosa di più piccolo e di calibro 9.”

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Enrico, terreo in volto, cercò di aprire bocca, ma uscì solo un suono inarticolato. Ritentò e riuscì a parlare:

“Comandante, ero con lei sulla Perseo, mi conosce, le confesso che ho creduto veramente che lei non stesse agendo nel modo giusto. Vede … io … gli ordini che ha dato in questi due giorni … io … io non li ho capiti. E poi il sottomarino inglese, il cannone. Ho avuto paura, per me e per la nave. Le giuro che …”

“Non c‟è bisogno di giurare.”

Disse Pizuto, continuando:

“Ti conosco e mi fidavo di te al timone della Perseo, come ora a quello del Caboto. Credo a ciò che mi stai dicendo. Attento, però. Attieniti agli ordini, nessun gesto o iniziativa personale, specialmente se ci sono ufficiali o il cont-cala vicino: sono loro che devono agire per primi. Siamo in missione, una missione di carattere segreto, molto particolare e molto importante. Ricorda che Greco sarà la tua ombra.”

“Si fidi di me, non la deluderò più.”

“Bene Enrico Bova. Va bene così.” Rivolgendosi poi a Carmelo gli diede nuove disposizioni, “dammi la pistola e ritorna in plancia con Bova. Spiega a Greco cosa ci siamo detti e poi vai a riposarti, te lo meriti. Ora lasciatemi solo con il guardiamarina.”

Usciti i due, il comandante chiuse uno dei galletti del portello e si ritrovò solo con Lorusso. Nessuno

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avrebbe potuto udire dall‟esterno, cosa si sarebbero detti.

“A noi due, Lorusso, ufficiale dei miei stivali.”

Lorusso fece per aprire bocca, ma la canna della Beretta sbatté contro i suoi denti, mentre Pizuto con un sibilo gli mormorava:

“Pronuncia una sola parola e io ti ammazzo.”

“Vuoi sapere perché? Alto tradimento, disobbedienza agli ordini ricevuti dal tuo comandante, l‟avere messo in pericolo la vita di 173 uomini e l‟integrità della nave.”

“Non ho ancora finito con i capi d‟accusa. Insulti a un superiore, aperta sedizione, ammutinamento. Ce n‟è abbastanza per mandarti, non solo a Gaeta, ma direttamente davanti al plotone d‟esecuzione.”

“Potrei spararti anch‟io, le leggi di guerra me ne danno facoltà, sono il comandante. Parla, dì solo una parola e io sarò felice di premere il grilletto. Ne ho piene le scatole dei tuoi discorsi sediziosi con il tuo degno amico Gerò. Credevi che il comandante ne fosse all‟oscuro?”

“Ma dove hai il cervello?”

“Ragioni su quello che succede?”

“Hai sentito per caso cosa è successo il 25 luglio: Mussolini ha dovuto dare le dimissioni, non è più il capo del governo. Ora il capo è il maresciallo Badoglio.” Proseguì Pizuto

“Ti sei accorto che l‟Italia è cambiata? Lo vuoi capire che il fascismo è finito?”

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“L‟incapacità e la mania di grandezza del Duce, ci hanno portato a una guerra che non eravamo in grado combattere. Pur con tutte le nostre corazzate, non siamo riusciti ad avere ragione delle due o tre che avevano gli inglesi nel Mediterraneo.”

“Perché il Duce le ha tenute sempre in porto? Anche quando ne avevamo affondate due, con i maiali, nel porto d‟Alessandria d‟Egitto?” Continuò, indignato il comandante

“Per proteggerle? E le navi dei nostri convogli, intanto, affondavano e affondano perché non riusciamo a proteggerle con le navi scorta come il Caboto o ancora più piccole. Altro che mare nostrum.”

“Lo sai cosa dicono i francesi, dei nostri reparti schierati in montagna, all‟indomani della dichiarazione di guerra?”

“Che quando sono arrivati a contatto con le nostre truppe, sulle Alpi Marittime, visto il misero equipaggiamento che avevamo, per pietà hanno chiesto l‟armistizio.”

“Lo sai come si difendono i soldati russi dal rischio del congelamento ai piedi, in inverno?”

“Con stivali con l‟interno di pelo, di uno o due numeri più grandi, per poter aggiungere la paglia e prevenire il congelamento degli arti!”

“Ti sei chiesto l‟ARM.I.R., che cosa ha in dotazione?”

“Gli scarponi con le suole in cartone compresso, che con l‟acqua ed il gelo si scioglie ed allora ci sono

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solo le pezze da piedi in cotone, con cui avvolgere le estremità già incancrenite.”

“Solo una cosa è certa: l‟eroismo e la generosità di uomini comuni che, con la divisa italiana, sono morti per compensare errori e strategie completamente campate per aria.”

“Cosa abbiamo raccolto a fronte di tanto eroismo? Bombardamenti quotidiani sulle città, con donne, vecchi e bambini che muoiono.”

“Ci hai mai pensato, quando parlavi con Gerò della tua cieca fiducia nel fascismo?”

L‟espressione del viso di Lorusso, dapprima risoluta e sprezzante, con gli occhi che fissavano quelli di Pizuto, mentre ascoltava quel fiume di parole, si era fatta via via meno sicura.

Alla fine aveva assunto l‟aria mogia di un cane bastonato, con gli occhi che fissavano un punto impreciso tra due maglie della catena su cui era seduto.

Anche le spalle si erano incurvate e le mani, che prima serravano le manette con cui era legato alla paratia, ora parevano le estremità di un burattino, tenute insieme da una corda, ma per il resto abbandonate e inanimate.

Il breve ma poderoso martellamento delle frasi del comandante, lo avevano ridotto ad una larva nel corpo, ma soprattutto nello spirito, infiacchito davanti al quadro della realtà che sapeva essere vero e cui, però, non aveva mai voluto credere.

Lorusso si stava chiedendo se potesse cambiare qualcosa il raccontare al comandante quello che sua

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Eccellenza l‟ammiraglio aveva ordinato loro: a lui e Gerò.

Il comandante aveva ragione, lui giovane e influenzabile, non aveva saputo guardare al di là di un ordine informale. Fare l‟informatore, il delatore.

Per chi?

Con quale scopo?

Non lo sapeva, in fondo era cresciuto con il motto “credere, obbedire, combattere”.

Pizuto si rese conto del travaglio che la mente del guardiamarina stava attraversando e disse:

“Forse hai qualcosa da dire, ti ascolterò.”

Lorusso gli raccontò quello che aveva fatto e detto contro Fasann e contro il comandante, ciò che aveva riferito, specialmente l‟accenno al segnale luminoso che aveva scoperto una sera gironzolando, con Gerò. Sua Eccellenza era stato colpito da questo particolare e lo aveva giudicato interessante.

Vuotò il sacco e, mentre lo faceva, si rendeva conto che si trattava di una confessione su convinzioni sbagliate, fiducia mal riposta e cieca accondiscendenza nei confronti del potere.

Parlò per quasi due ore e lo scavarsi dentro, da un lato lo liberò da un peso divenuto insopportabile, dall‟altro gli lasciò un vuoto pauroso. Lo stesso vuoto che riprovò raccontando della nipotina, del fratello e della cognata, sepolti da poco.

Quando ebbe finito, parlava con un filo di voce che si tramutò, prima in pianto sommesso e poi, in un pianto disperato e singhiozzante. Era sfinito

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psicologicamente e senza ideali in cui credere. Gli restava il suo comandante che aveva deluso, tradito e che ora gli stava puntando contro una pistola.

Pizuto si rendeva conto che la questione non era più tra un comandante e un ufficiale subordinato. Pizuto aveva di fronte un uomo nel fiore degli anni, ma distrutto, in piena crisi di nervi, senza nulla in cui credere. Non poteva fare niente per lui, era la guerra.

Prese la chiave e liberò i polsi del giovane, le braccia a peso morto ricaddero sul corpo, i polsi viola per lo sfregamento dell‟acciaio sulla pelle. Decise di non lasciarlo lì, lo sollevò e lo adagiò nel corridoio, appoggiandolo al supporto della scaletta che saliva sul ponte.

Chiuse il portello del locale della catena dell‟ancora e gettò un ultimo sguardo a Lorusso: dormiva ormai, forse un sonno ristoratore dopo la catarsi. Salendo, si ripromise di far chiamare Gerò, almeno lui avrebbe potuto con dei tranquillanti alleviare quel malessere, ma doveva coinvolgere anche il cont-cala. Mai più quei due da soli.

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18. Fine agosto 1943

Romano Pizuto era sulla scaletta che portava sul ponte, quando sentì rimbombare, tra le lamiere di ferro, il segnale di “posto di combattimento”.

Si trattava di una formazione di quattro cacciabombardieri inglesi Hawker Tempest, attaccavano di prua, con il sole in coda.

Greco aveva già fatto virare di 30° il Caboto per brandeggiare il maggior numero possibile di armi contraeree e Arduino, appena a tiro, aveva dato l'ordine di aprire il fuoco.

Il rumore dei proiettili e degli schianti dei colpi sui ponti non coprì il sibilo delle due bombe, che divenne sempre più forte.

Pizuto spalancò la bocca per compensare l‟urto delle onde sonore sui timpani, come facevano gli artiglieri al momento dello sparo.

La prima bomba esplose sul ponte, centrando la torre da 120 di prua, le canne si sollevarono per diversi metri, prima di volare fuoribordo.

La seconda colpì il Caboto a poppa la stazione telemetrica secondaria e il gruppo lanciasiluri, facendo schizzare in aria gli uomini che avevano il loro posto di combattimento in quella zona e quelli che operavano dietro la scudatura dell‟ultima torre da 120.

Poco dopo una terza bomba, più piccola, colpì la nave a fianco della tramoggia delle bombe di

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profondità di babordo, facendone scivolare in mare la dotazione. Purtroppo una esplose al contatto con la superficie del mare pur essendo ancora in sicura. L‟alta colonna d‟acqua che sollevò, coprì alla vista la coppia di Hawker Tempest, che stava attaccando da poppa mitragliando i ponti, le quattro canne dei due aerei fiammeggianti di fuoco.

La seconda coppia di Hawker dopo aver virato, attaccò con le bombe, mancando il Caboto, ma seppellendolo sotto due alte colonne d‟acqua che scrosciarono sui ponti, semplificando il compito a chi avrebbe dovuto, in seguito, ricomporre le salme dei caduti, disseminati qua e là e facendo ritornare il ponte, da rosso per il sangue versato, al solito colore grigio.

Confusione, uomini che correvano, schegge di metallo e legno che sibilavano nell‟aria, un equipaggio e una nave quasi impotenti davanti a tanto accanimento e devastazione. Non sembrava vero, ma una nave di quasi duemila tonnellate era alla mercé di aerei costruiti in legno di betulla. Un centinaio di uomini in balia di otto aviatori inglesi.

La contraerea fece quello che poté, ma i quattro aerei non subirono danni e virarono, lasciando il Caboto al suo destino. Il fumo delle esplosioni dei proiettili delle varie riservette del ponte e le dense volute di fumo dell‟incendio, che a prua minacciava di raggiungere la santabarbara, erano danni gravi che non lasciavano ai nemici nessun dubbio sulla sorte del Caboto: sarebbe affondato di lì a poco.

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Se da parte degli attaccanti la situazione della nave poteva sembrare disperata, dal ponte del Caboto la scena era quella di una bolgia dantesca.

Il rapporto danni, mano a mano che veniva completato, dava a Pizuto un quadro drammatico, ma non così disperato come la vista dello sfacelo sul ponte poteva far credere.

L‟armamento principale era ridotto alle due sole torri da 120, quello contraereo e lanciasiluri alla metà della dotazione. L‟incendio a prua era stato domato e non sussistevano pericoli per la santabarbara sottostante. Dalla sala macchine si segnalava che non c‟era nessun danno o infiltrazione d‟acqua. La velocità, infatti, si manteneva sui 30 nodi senza problemi.

Le perdite erano molto forti: dodici tra sottufficiali e marinai mancavano all‟appello, ma solo 4 salme erano disposte a prua. Gli altri erano dispersi in mare o polverizzati dalle esplosioni.

Le squadre di riparazione e quelle di intervento rapido, al loro rientro, comunicarono in plancia notizie rassicuranti circa lo stato complessivo della nave e la sua capacità di rientrare a Genova in modo autonomo.

Gerò faceva parte di una delle squadre e accorreva ovunque ci fossero feriti o fosse necessario come infermiere.

Comparve improvvisamente in plancia, terreo in volto, lo sguardo fisso, il camice bianco strappato e lordo di sangue. Nessuno colse le poche parole che uscirono dalla bocca: un rantolo doloroso,

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incomprensibile, prima di stramazzare sul ponte vicino a Bova.

Pizuto e Locascio lo sollevarono con attenzione e lo adagiarono su uno dei sedili in ferro, consci dello stato di shock di cui era vittima. Ricomporre i resti dei caduti e curare chi era ormai spacciato, era un compito molto duro.

Anche Carmelo irruppe in plancia e, senza tanti preamboli, chiese al comandante di scendere al locale delle catene dell‟ancora. Uno sguardo fu scambiato tra Pizuto e Locascio che uscirono di corsa seguendo Carmelo sulle scalette, fino a metà dell‟ultima rampa.

Era uno spettacolo raccapricciante vedere l‟ombra che ondeggiava dalla parete opposta del corridoio e che si muoveva come cullata dal rollio.

Capirono il motivo dello stato confusionale di Gerò.

Il guardiamarina Lorusso, la cintura dei pantaloni stretta intorno al collo a mo‟ di cappio e annodata sotto il primo gradino della scaletta da cui stavano scendendo, penzolava nel vuoto.

Lo russo si era suicidato.

Locascio risalì in fretta, ed estratto il coltello, tagliò la cintura, mentre Pizuto da sotto provvedeva a cingere il corpo del guardiamarina ed a stenderlo sul ferro del pavimento.

Un pezzo di carta sgualcito era lì vicino, sul ponte, scritto con un grosso stampatello irregolare: “Perdonatemi, non ho più motivi per vivere. Addio”.

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Non c‟era più nulla da fare, il polso assente e nessun accenno di respirazione. Prima che sopraggiungesse il rigor mortis, Pizuto gli chiuse le palpebre e riabbottonò il colletto, sistemando la cravatta in modo che il profondo segno violaceo sul collo restasse nascosto.

“Locascio, Carmelo, presto. Portatelo nella cala del velaio, fasciatelo come d‟uso e mettetelo a prua insieme alle altre salme. Per tutti noi, è morto in combattimento, esattamente come gli altri.” Disse il comandante.

Non aveva dovuto riflettere molto, per comprendere che le sue terribili parole dovevano aver sprofondato il giovane in un tale stato d‟animo da indurlo al suicidio. Non era necessario che la cosa fosse risaputa.

Pizuto andò a cercare Gerò e lo trovò nell‟infermeria vuota. Era seduto, impietrito, fissando il lettino e il ferito che vi era adagiato, ma guardando qualcosa mille miglia lontano.

Provò a parlargli, ma lo sguardo vacuo gli fece capire quanto Gerò fosse distrutto. Che fosse per la fine di Lorusso o per le cure prestate ai moribondi o per l‟attività di raccolta dei miseri resti dilaniati, quell‟uomo non sarebbe più stato lo stesso. Ne erano la prova le parole senza senso, che con un filo di voce pronunciava: quasi una litania, una ripetitiva formula di preghiera.

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Terminato il periodo di guardia, Pizuto radunò nella sua cabina quelli che avevano assistito alla scenata di Lorusso e disse loro:

“Signori, non sta a me giudicare Lorusso, ma credo che un atto di pietà sia necessario e doveroso. Sarà sepolto in mare con gli altri caduti e la motivazione che scriverò sul libro di bordo sarà: caduto in combattimento.”

“So benissimo che non è vero e forse neanche giusto, ma credo che oltre al dolore della sua morte, i genitori non si meritino ciò che seguirebbe, se scrivessi la verità. Infangarne la memoria non giova né a loro né a noi e soprattutto attirerebbe l‟attenzione di Supermarina sulla nostra nave.”

“Per quanto riguarda Gerò, è in uno stato confusionale tale che dubito possa avere ancora un ruolo attivo in questa guerra. Appena a Genova lo sbarcheremo e penso che sarà ricoverato in ospedale, ma dubito che qualcuno possa prestare fede a eventuali accenni che dovesse fare su quanto è realmente successo.”

Un mormorio di assensi accompagnò il termine del breve discorso di Pizuto. Poteva fidarsi di loro e questo risolveva tutto. Non risolveva invece un altro problema che Pizuto doveva affrontare.

“Mi preoccupa che all‟appello manchino 13 uomini, le salme disposte a prua sono solamente cinque.” Continuò il comandante, sedendosi e facendo un cenno circolare invitandoli, per quanto possibile, a mettersi comodi.

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“Sono certo che i tre uomini della torre da 120 siano stati polverizzati dall‟esplosione e i resti dispersi in mare.”

“A bordo c‟erano due SS, il maggiore tedesco, il Sig. Bianchi e Fasann. Non sono stati visti durante l‟azione degli Hawker Tempest.”

Pizuto aveva ricevuto disposizioni di trovare una giustificazione valida alla loro scomparsa e l‟attacco subito, poteva essere il pretesto.

“Voglio che la versione ufficiale sia “dispersi in mare” e considerate un ordine il farne cenno quando parlate con gli uomini.”

“Dobbiamo fare in modo a nessuno abbia dei dubbi.”

Li guardò a uno ad uno, fisso negli occhi, fino a che vi lesse la determinazione di eseguire l‟ordine, non certo ortodosso, ma che affondava le sue radici nell‟operazione segreta che stavano conducendo.

Fu evidente per l‟equipaggio che quei cinque, compreso l‟odiato Fasann, non erano più a bordo e il daffare che aveva Caruso, unico rimasto dei tre guardiamarina, per supplire ai compiti di Lorusso e Fasann, era evidente.

Durante la cerimonia delle esequie in mare, Pizuto prese la parola:

“Erano quattro cacciabombardieri inglesi Hawker. I danni sono stati parecchi e le perdite sono di 13 uomini. Tre ufficiali: Fasann, Lorusso e Hans Staedler, il maggiore tedesco ed una decina tra sottufficiali e marinai, compresi i due uomini delle SS. Purtroppo la guerra è guerra e solamente a

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cinque salme potremo tributare gli onori delle esequie, il mare si è portato via gli altri nostri compagni.”

Recitò la preghiera e lanciò l‟ordine con cui le salme furono fatte scivolare in mare da sotto la bandiera da combattimento della Regia Marina.

Prima di sciogliere la cerimonia continuò:

“Il “posto di combattimento” rimarrà in vigore fino a prima del nostro arrivo a Genova. Stiamo rientrando da una pericolosa azione, ordinataci da Supermarina. Non fate domande che non possono avere risposte. Voglio dirvi, però, che la nostra operazione, nonostante le dolorose perdite subite, ha avuto pieno successo e che sono orgoglioso di come avete reagito durante l‟attacco.”

“Stasera vi sarà distribuita dose doppia di brandy, ve lo siete meritato. E‟ tutto.”

“Attenti! Rompete le righe.”

Concluse Locascio.

I compiti di un comandante sono molti, soprattutto riguardo ai suoi uomini. Romano Pizuto non poteva ancora rilassarsi. Si recò da Bacigalupo per sincerarsi che le apparecchiature di rilevamento e di avvistamento non avessero subito danni.

L‟ufficiale di rotta lo accolse con un sorriso, ma fece emergere subito lo sconforto di non essere riuscito a dare l‟allarme dell‟avvistamento con sufficiente preavviso da reagire ancora più efficacemente.

“Non si crucci Italo, era solo tra tutti questi strumenti e sappiamo che il mago in queste cose era

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Fasann. Il non aver distinto quattro puntini tra tutti quelli presenti sullo schermo è dovuto al fatto che, la prima volta che ci si occupa di questo strumento, non si riesce a distinguere le lievi differenze tra i segnali. Non sono neanche sicuro che gli Hawker possano essere abbattuti; se non ricordo male, raggiungono una velocità di oltre 700 chilometri l‟ora.”

“Stia tranquillo e continui a fare del suo meglio.”

“Sì, comandante. Bastavano 10 secondi di preavviso e avremmo senz‟altro avuto meno perdite: tredici compagni morti sono tanti.”

“Non è così, Italo. Greco e Arduino hanno fatto tutto il possibile per cambiare la rotta e mettere in punteria quante più armi possibili. Ma ognuno di quegli aerei ha 4 cannoncini da 20mmi. Sono un volume di fuoco impressionante.”

“Mi creda, abbiamo fatto del nostro meglio e lei per primo. Il resto è guerra.”

Si fermò con l‟ufficiale ancora un poco, ascoltando il rapporto sui messaggi ricevuti e sul bollettino meteorologico. Almeno sul fronte meteorologico non avrebbero avuto guai nelle successive 24 ore.

Ritornato in plancia, controllò con il cont-nafta i dati relativi al consumo e al combustibile disponibile e con il cont-pro la situazione del munizionamento.

“Carammani, come va là sotto?” Chiese nel portavoce della sala macchine, “Riduca a 20 nodi la velocità e avverta gli uomini, scendo giù da voi.”

La sala macchine sembrava l‟antro dei ciclopi, tutto quel caldo, quell‟odore di olio combustibile e di

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grasso e quegli uomini così piccoli rispetto ai grossi macchinari tra cui si aggiravano. Il rumore era infernale, ma ci si abituava e man mano che la velocità si abbassava, avvicinandosi ai 20 nodi, il frastuono diventava sopportabile e si poteva anche parlare senza bisogno di urlare.

Pizuto e Carammani si sistemarono in un angolo riparato per parlare tranquillamente. Il comandante in tutti quei mesi aveva dato segno di apprezzare il lavoro e le qualità sia di Carammani sia del personale della sala macchine.

Mai una protesta, una richiesta di spiegare un ordine, che invece veniva sempre prontamente eseguito. In quei mesi non si era mai verificato un guasto di una certa gravità e neanche i piccoli inconvenienti avevano mai condizionato la sicurezza e la velocità della nave.

Sia Carammani sia il suo vice, Paternò, tenevano le macchine perfettamente in ordine ed erano sostenitori accaniti della manutenzione preventiva, come rimedio a quasi tutti i possibili guasti.

Avere ufficiali così, era come avere un nastrino in più. Pizuto però si trovava in difetto nei confronti di Carammani. Al tanto impegno e abnegazione dell‟ufficiale e alla stima che provava per lui non era corrisposta, fino a quel momento la fiducia di annoverare anche lui tra le persone al corrente della missione e dei suoi retroscena.

Unica scusante era che, obiettivamente, il regno di Carammani distava parecchio dalla plancia e che la sua presenza era indispensabile laggiù.

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Non si poteva convocarlo in plancia, tutte le volte che succedeva qualcosa, tanto meno nei momenti dell‟azione e degli attacchi in cui la sala macchine doveva dare il meglio in assoluto.

Carammani era contento di poter parlare un poco con Pizuto, sapeva che lo stimava e lo accolse come il suo più caro amico. Perdiana, tutte le volte che si riusciva a mangiare decentemente, il comandante aveva stabilito che sedesse alla sua destra al tavolo del quadrato.

Da parte sua, Pizuto cercò di farlo parlare, lo chiamava per nome e Benito espresse la sua gratitudine lasciandosi andare a tante confidenze: sui suoi uomini, su quello che pensava del fascismo ormai finito, sulle disperate condizioni in cui versavano molte famiglie che conosceva e di cui riceveva notizie dalla moglie. Per ultimo parlò delle sue speranze: che la guerra finisse presto e che ci fosse un futuro migliore per l‟Italia e per tutti gli italiani.

Dopo oltre mezz‟ora di monologo da parte di Benito, il comandante ebbe la certezza che non aveva più necessità di ulteriori conferme per raccontargli tutto, veramente tutto quello che era successo a bordo.

Carammani, al termine, disse solo:

“Comandante, basta che lei dia un ordine e noi quaggiù lo eseguiremo, nella mia sala macchine non si faranno domande: si eseguirà e basta.”

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Terminando: “Questi sono bravi ragazzi. Se poi è in gioco il futuro dell‟Italia, vedrà che faremo l‟impossibile, ci sia testimone San Gennaro.”

Il viaggio di ritorno a Genova fu tranquillo e con mare calmo. Avvicinarsi al raggio d‟azione delle basi dei caccia italiani garantiva la protezione aerea, cui far ricorso in caso di necessità.

A cento miglia da Genova, Supermarina, avvertita della situazione del Caboto, aveva predisposto un rimorchiatore d‟alto mare per garantire un supporto aggiuntivo ed eventualmente prenderli al traino, dopo le quasi 1500 miglia percorse. C‟era anche una squadra di operai del cantiere imbarcata sul rimorchiatore e che venne subito trasbordata sul Caboto

Arrivarono a Genova il 12 agosto, alle 10 del mattino. Lo stato della nave, i larghi squarci sui ponti, le attrezzature aggrovigliate, lance e canotti ormai inservibili e una delle torri spazzata via, destavano negli equipaggi delle navi alla fonda, davanti cui il Caboto stava sfilando, un sentimento di ammirazione, orgoglio di corpo e fierezza per avere dei compagni che erano riusciti a ritornare con una nave ridotta in quello stato.

I lunghi sibili delle sirene erano il riconoscimento tangibile di tanti Comandanti di incrociatori, di caccia, di corvette e dragamine, al comandante e all‟equipaggio del Caboto. Il molo E attendeva la nave con le grosse bitte che parevano tante mani

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colte nell‟atto di salutare e accogliere la nave cui erano legate fin dal suo primo giorno operativo.

I problemi sorsero con la visita dei responsabili dell‟arsenale e dei tecnici del genio navale, che si sentirono quasi impotenti davanti a tante ferite da rimarginare.

Si era ormai a metà del 1943, il nord Italia era da tempo e quasi tutti i giorni sotto i bombardamenti: Torino e Milano avevano subito danni tremendi alle fabbriche belliche e alle abitazioni civili.

La produzione bellica di acciaio e di nuove armi era ridotta al minimo e i tecnici disperavano di poter ridare al Caboto lo stesso potenziale offensivo originario.

Per la riparazione della torre da 120 di prua, fu deciso di rimuovere la seconda torre di poppa e sistemarla a prua, dotando la piazzuola rimasta vuota con due mitragliere binate contraeree.

La tramoggia e il sistema di sgancio delle bombe di profondità furono i primi a essere ripristinati in tutta la loro efficienza.

Si dovette rinunciare al gruppo lanciasiluri a poppa della nave, che venne definitivamente eliminato lasciando spazio ad altre due armi binate contraeree.

Fu un gruppo di ufficiali rassegnati quello che il 13 agosto ascoltò nel quadrato la notizia che Roma era stata dichiarata città aperta. Per chi sapeva, questo era un segnale chiaro e forte che si era agli sgoccioli e che presto sarebbe successo tutto quello che doveva ancora accadere.

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Fasann, pur lontano dalla sua nave, sentì la notizia e riuscì a trovare dei momenti in cui ripensare alle capacità di adattamento di Pizuto nell‟accogliere a bordo le SS e l‟ufficiale tedesco, tutti italiani, che costituivano la scorta al generale C. alias signor Bianchi, riconosciuto dal guardiamarina Lorusso così intempestivamente.

Tributò ancora un complimento al comandante per l‟idea di imbarcare equipaggiamento polare, in modo da giustificare agli occhi di Gerò e di Lorusso, i suoi nemici giurati, la rotta verso ovest.

I due compari avrebbero pensato di dover arrivare fino all‟Atlantico, mentre dovevano solo raggiungere una zona vicino alle coste spagnole. Il generale C. doveva giungere a Lisbona e portare le richieste dell‟Italia, raccogliendo le imposizioni degli alleati e cercando di mediare il più possibile.

Ripensò alle parole dette a Pizuto prima di salire sul sommergibile inglese. Il segnale che li aveva protetti doveva seguire lui e la sua missione e avrebbe lascito il Caboto alla mercé degli attacchi alleati: la nave e gli uomini che aveva conosciuto e stimato.

Con un sorriso, ripensò a quello strano gioco a nascondino, di notte, per controllare il proiettore luminoso. Il sottomarino inglese che certamente avevano a poppa, fuori portata del rilevatore subacqueo, doveva essere informato che la missione continuava e che la nave trasportava gli emissari italiani attesi in Portogallo.

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A Pizuto tornarono alla mente i particolari del colloquio con l‟ammiraglio Fasann e le prime uscite in mare del Caboto, del suo orgoglio nel vedere la nave, bagnata dalla burrasca, splendente al sole con tutto l‟equipaggio e le dotazioni in perfetto ordine.

A un anno di distanza, in quel momento decisivo, si trovava costretto ad affrontare il mare con una nave rimessa in ordine alla meglio e con tanti uomini in meno.

I tempi erano cambiati, quel giorno e per la seconda volta, Roma era stata bombardata pesantemente dagli alleati: una cosa inimmaginabile un anno prima. Già il 19 luglio, lo scempio era stato grande e persino Pio XII si era unito alla folla di S. Lorenzo per recitare il De Profundis.

Pizuto capiva che si stava forzando la mano all‟Italia, ma non approvava tante sofferenze inferte alle inermi popolazioni delle città.

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19. Fine Agosto 1943

L‟equipaggio sognava alcune settimane di licenza, numerose serate di franchigia, magari dedicate a Bacco, Tabacco e Venere, ma le cose non andarono come sperato.

I turni massacranti delle squadre dell‟arsenale e la priorità assoluta data ai lavori, rimisero il Caboto in condizioni di operatività nel volgere di un paio di settimane. La libera uscita ridiede comunque agli uomini quel buonumore e quella schietta allegria che caratterizzava l‟equipaggio del Caboto.

Alcuni avevano raggiunto le famiglie. Anche Pizuto ne avrebbe avuto diritto, ma dovette, suo malgrado, rinunciare a raggiungere la moglie.

Pizuto aveva un grosso cruccio: la sorte di Gerò, che gli stava a cuore più di ogni altra cosa. Forse era per questo, che gli equipaggi della Perseo e del Caboto lo tenevano tanto in considerazione.

Nelle ore in cui era possibile visitare i ricoverati all‟ospedale militare, si recava a vedere Gerò, cercando di parlargli e, soprattutto, di interrogare i medici e gli specialisti che avevano in cura la sua povera mente, tanto provata.

Il mutismo, le rare e vaghe risposte del giovane, il suo sguardo a volte allucinato, a volte vacuo e spento, le mezze frasi che i medici avevano pronunciato, lo convinsero che solo dopo mesi di tranquillità e di cure, Gerò avrebbe ritrovato il

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sorriso e quell‟alito di vita e di entusiasmo, ora assenti.

Nessuno comunque avrebbe prestato fede a un racconto, benché preciso e circostanziato, sulla fine di Lorusso. Pizuto in cuor suo era triste perché, nonostante tutto, Gerò e Lorusso erano due uomini del suo equipaggio, affidati a lui e purtroppo uno era morto, l‟altro impazzito.

Riprese a frequentare il Circolo Ufficiali e una sera ebbe una gradita sorpresa. Mentre stava iniziando a bere un buon bicchiere di bianco, si sentì afferrare alle spalle. Girandosi di scatto, incontrò gli occhi e il sorriso di suo fratello Umberto.

La gioia di vederlo, di saperlo vivo e di poter parlare con lui e i nuovi gradi sulle maniche lo rallegrarono talmente che si lasciò andare a una tradizione dell‟Aeronautica Militare.

Si alzò in piedi e:

“Ghere ghere ghe!” Disse alzando la voce,

“Ghez.” Gli fece eco Umberto, forte.

“Ghere ghere ghe!” Disse Romano, con un tono più alto.

“Ghez.” Gli fece eco Umberto, ancora più forte,

“Ghere ghere ghe!” Disse Romano, con tono ancora più alto.

E allora tutti i presenti gridarono in coro:

“Ghez ! Ghez ! Ghez!”

Erano rivolti verso di loro, applaudendo e commentando allegramente l‟abbraccio entusiasta tra i due ufficiali.

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Era il 30 agosto e le notizie che Umberto portava da Roma confermavano che si era alla vigilia di qualche cosa di grosso. Anche i suoi contatti in Vaticano lo informavano che ormai si era passati dai primi incontri a una serrata trattativa, quasi conclusa.

D‟altra parte, il 17 agosto, in Sicilia, il generale americano Patton era entrato a Messina, liberando l‟isola e ci si aspettava uno sbarco sul continente: in Calabria, in Campania?

Nessuno poteva dirlo o saperlo, una cosa era sicura: l‟incertezza in cui quasi tutti gli ufficiali si trovavano. Pochi sapevano bene cosa fare e come agire.

Pur fidandosi ciecamente del fratello, Romano non se la sentiva di parlargli della sua missione e di aprirgli il suo animo.

I nuovi elementi che Umberto gli stava dando, si incastravano perfettamente nella parte della storia che conosceva e a cui aveva preso parte il comandante del Caboto. Gli raccontò ciò che, per iscritto, non si era fidato di rivelargli riguardo il colloquio con l‟ammiraglio Cesare Fasann.

Umberto, vicinissimo per il suo incarico alle più alte sfere militari, raccontò al fratello le vicissitudini dell‟ex Duce. Da un‟isola del Golfo di Napoli, era stato trasferito alla Maddalena il 27 agosto e, mentre stava facendo un‟ispezione alla base di idrovolanti di Vigna di Valle, se lo era trovato di fronte.

Il Duce si era fermato pochi minuti: il tempo di scendere da un aereo e salire su un altro. Cupo in

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viso, non aveva detto una parola, sedendosi a un tavolo e prendendosi la testa tra le mani.

Almeno due decine di avieri della vigilanza armata

erano presenti, il fucile imbracciato, pronti per ogni evenienza. C‟era il rischio che i fedelissimi cercassero di liberarlo e il fatto che venisse trasferito di continuo, era la prova che il governo Badoglio non sottovalutava il pericolo di una liberazione, anche da parte dei tedeschi.

La conversazione continuò a lungo: Elena, la moglie di Romano, stava bene e gli mandava un bacio con tutto il suo amore, mentre Rosetta, l‟ultima fiamma di Umberto, resisteva ormai da diversi mesi e lui pensava di sposarla.

Parlarono dei danni subiti da Roma, della sensazione destata dal Papa che camminava tra le macerie dei bombardamenti, in mezzo alla folla.

Umberto gli raccontò delle disposizioni di polizia sulle trasgressioni alle leggi annonarie. La borsa nera imperversava e, se da un lato queste regole riuscivano a fermare chi ne faceva lucro, a volte colpivano anche chi, solo per necessità o per mangiare di più, si rivolgeva al mercato nero.

Il nuovo governo era impegnato a colpire tutti gli arricchiti illecitamente del passato regime.

L‟unico argomento su cui sorvolarono, era la loro personale posizione nei confronti della situazione italiana. Forse perché entrambi conoscevano buona parte del vero corso che gli avvenimenti avrebbero

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preso e credevano l‟altro all‟oscuro, come la stragrande maggioranza degli italiani.

In fondo erano militari e la consegna all‟ubbidienza e a mantenere il segreto, erano forti in entrambi.

Si godettero il pranzo e finirono la serata nella cabina di Pizuto sul Caboto, bevendo un buon bicchiere di brandy e parlando degli attacchi subiti dalla nave e dei miracoli compiuti da quelli dell‟Arsenale. Le parole di apprezzamento di Umberto per Romano, furono un balsamo per lo spirito del comandante del Caboto.

Si caricano di entusiasmo e ottimismo a vicenda: lasciandosi con la grinta di un tempo e la volontà di dare il meglio di loro stessi, per essere degni della divisa che portavano e per potersi guardare sempre nello specchio, a testa alta.

Dall‟inizio di settembre, la situazione politica e militare in Italia registrò un susseguirsi di notizie che, lungi dall‟allarmare Pizuto, gli fornirono diversi motivi di riflessione.

Si seppe che Ettore Muti era stato ucciso nella sua villa di Fregene, senza riuscire a chiarire chi e perché. Il Re Boris d‟Ungheria era morto, ma i particolari della sua fine non erano chiari, infine il 3 settembre, gli alleati erano sbarcati in Calabria, tra Reggio e Villa San Giovanni.

La sera del 4 Pizuto era nella sua cabina con i tre contabili, valutando quanto doveva essere ancora caricato a bordo per raggiungere il pieno stato di operatività.

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Già dal giorno prima, tutto l‟equipaggio era rientrato dalle licenze ed era a bordo. I rapporti dei sottufficiali erano soddisfacenti e il comandante era così soddisfatto di come i tre contabili avevano diretto e organizzato le attività alla fonda, che volle offrire loro un bicchiere di acquavite.

Mentre stavano gustando il liquore, Caruso bussò alla porta.

“Comandante, un portaordini con un plico per lei.”

Pizuto lo ricevette e prese dalle sue mani la busta con i sigilli di ceralacca, chiedendogli:

“Marinaio, vuoi una tazza di caffè?”

“Grazie comandante, volentieri.”

Si servì dalla napoletana e, iniziando a berlo, continuò:

“Sono mesi che non bevo un caffè così buono. Meno male che almeno voi, che combattete in mare, potete bere caffè decente. In caserma, ma anche in città, rimane solo quello d‟orzo e i vari surrogati, di cui peraltro, è meglio non chiedere l‟origine.”

Il portaordini stava godendosi quel momento con il comandante di un caccia: non era cosa frequente vedersi offrire un caffè e stava centellinando la bevanda, per far durare la sosta il più a lungo possibile, ma non gli sfuggì il tamburellare delle dita di Pizuto sulla busta e ne comprese l‟impazienza.

Scattò sull‟attenti, salutò e uscì dalla cabina.

Il momento di aprire gli ordini era un rito, per Romano. Congedò i tre contabili e si sedette, prese la sua pipa preferita e iniziò a caricarla, schiacciando

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sempre di più il tabacco nel fornello fino a che, soddisfatto, l‟accese con un fiammifero. Adesso poteva far saltare i sigilli di ceralacca e leggere.

Erano in codice e di una certa lunghezza. Iniziò con piacere la decrittazione. Emanavano dalla più alta Autorità immaginabile e stabilivano che la mattina successiva, il 5 settembre, avrebbero dovuto salpare e muovere verso il basso Tirreno, incrociando nella posizione indicata, mantenendosi a ragionevole distanza dall‟isola di Ustica, già in mano agli alleati.

Dovevano restare in ascolto radio continuato e, al ricevimento della seconda parte del segnale di cui conosceva l‟inizio, avrebbe ricevuto istruzioni da completare con quanto contenuto nel dispaccio a suo tempo ricevuto.

Molto bene, penso Pizuto: tutto chiaro, ma mi mancano i rimpiazzi. Perché il comando del porto non aveva ancora provveduto a inviargli i marinai che aveva richiesto? Tanto solleciti per il riattamento della nave e nel ricoverare i feriti, ma in due settimane di tempo, neanche una nota informativa dell‟Arsenale sui rimpiazzi.

Un motivo ci poteva essere. L‟idea si era concretizzata nella mente proprio in quel momento e più ci pensava, più Pizuto era certo che doveva essere così. Nessun rimpiazzo perché era meglio avere un organico incompleto, anche di due guardiamarina, piuttosto che rischiare di avere a bordo altri delatori come Gerò e Lorusso.

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Ecco perché non avrebbe avuto nessuno, meno persone nuove ci sarebbero state sul Caboto, meglio sarebbe stato per lui, per la missione e per la segretezza.

Pizuto batté il pugno destro nel palmo dell‟altra mano e, soddisfatto d‟avere trovato il motivo del ritardo, uscì a cercare il cont-cala. Il non avere un infermiere e uomini in meno avrebbe avuto un riflesso sui turni di guardia, doveva parlarne con Locascio. Gli avrebbe accennato alle severe disposizioni che intendeva dare per l‟esecuzione degli ordini contenuti nel dispaccio.

Stava raccogliendo i pensieri e voleva avere ben chiari gli argomenti che avrebbe trattato con i suoi ufficiali, quando si accorse che gli mancava un elemento essenziale. “Il dispaccio che a suo tempo aveva ricevuto”, dicevano gli ordini, ma lui non ricordava nessun plico, o busta. Era difficile che si dimenticasse qualcosa, anche il più piccolo dei particolari rimaneva impresso nella sua mente, ma quell‟ultimo plico…

Ripensò a i momenti degli ultimi mesi in cui aveva ricevuto plichi o buste e certo! Si disse, battendosi il palmo sulla fronte. La busta era quella che Fasann, prima di scendere nel canotto al largo della Spagna, gli aveva consegnato. Gli aveva detto di leggerla subito e di distruggerla, ma lui l‟aveva messa nella piccola cassaforte della sua cabina, senza aprirla poi, con tutto quello che era successo al ritorno, se ne era scordato.

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Si alzò e, presa la chiave che teneva sempre al collo, aprì la cassaforte, prendendo la busta. Che guaio sarebbe stato, se invece di metterla via l‟avesse avuta addosso durante l‟attacco, avrebbe potuto perderla o rischiare di trovarla danneggiata da schegge, sangue e strappi che si era ritrovato sulla giacca della divisa.

Fasann glielo aveva detto: la legga subito e poi la distrugga. Pizuto, per la prima volta nella vita, si diede dello stupido. Se la cabina fosse stata colpita, la cassaforte lambita dal fuoco non avrebbe protetto a lungo la busta e il suo contenuto.

Seduto sulla cuccetta, iniziò a leggerne il contenuto e, dopo aver finito, si attardò a guardarla bruciare nel portacenere formato dal bossolo di un proiettile da 120, tagliato a circa 10 centimetri dal fondo. Era il primo proiettile sparato dalla torre A del Caboto durante la loro prima uscita, circa un anno addietro.

Preparò il piano dei turni degli ufficiali in plancia, studiato per avere sempre presenti almeno due uomini di cui poteva fidarsi: Greco, Carammani e Bacigalupo, Arduino, Locascio, Macaluso, Cortese, Carmelo e infine Bova, il timoniere capo.

Come sua abitudine, alle 7 era in plancia, un‟ora prima di lasciare la fonda. In cabina radunò quel pugno di uomini al corrente della situazione. Nonostante Caruso e Paternò fossero all‟oscuro e sia Bova sia Carmelo conoscessero solo parte dei segreti delle missioni passate, le istruzioni di Pizuto furono minuziose, anche se si lasciò scappare nel concludere:

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“Saranno ordini “strani”, magari non sarete d‟accordo, ma ne va della vita di tutti noi, dell‟equipaggio e dell‟esistenza del Caboto. Eseguiteli con fiducia, è tutto.”

Alle 8 in punto la nave cominciò a staccarsi dal molo e, uscita dal porto, raggiunse il mare aperto. In pochi minuti raggiunse la velocità di 30 nodi.

Radiogoniometro e rivelatore subacqueo segnalavano libero in tutte le direzioni. Nonostante questo, Pizuto raddoppiò le vedette e, passato a Greco il comando, si recò da Bacigalupo in sala radio.

“Italo, mi raccomando quel segnale, devi essere veloce nel trascriverlo: sono le parti mancanti” gli disse Pizuto continuando: “se devi assentarti, chiamami o avverti Locascio, nessun altro!”

“Non dubiti comandante, mi ero già sintonizzato sulla lunghezza d‟onda della marina inglese, ma a parte un bollettino meteorologico, non ho captato altro.”

“La prima parte del messaggio che attendiamo: “Fas SSSM SebCab”, la trasmetteranno tre volte, prima di cominciare con le istruzioni: ora, giorno, latitudine, longitudine e tutte le altre indicazioni.”

“Stia tranquillo comandante, è vero che sono un poco arrugginito con il morse, ma me ne intendo abbastanza per essere all‟altezza della situazione. Andrà tutto bene.”

Pizuto, soddisfatto, decise di concedersi un paio d‟ore di sonno e si sdraiò sulla cuccetta, non aveva quasi chiuso occhio durante la notte.

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I pensieri, le cose da fare e i ricordi iniziarono il loro carosello nella sua mente: mentre il corpo gli chiedeva il sonno, il cervello gli fece rivivere alcuni dei momenti più delicati degli ultimi tempi. Le visite al capezzale di Gerò, il guardiamarina Lorusso che penzolava dalla scaletta, l‟aver dovuto scrivere le lettere ai familiari dei caduti in combattimento o dei dispersi.

Era riuscito a iniziare e, con fatica, a terminare quelle lettere senza descrivere lo scempio dei corpi dilaniati dalle esplosioni. Con la tristezza nel cuore, per coloro di cui sapeva non essere rimasto nulla.

Non ricordava come c‟era riuscito, il difficile era stato comunicare il valore del soldato, la stima degli ufficiali e la sua personale considerazione per l‟uomo.

Diverso fu informare l‟ammiraglio Fasann che il figlio, il signor Bianchi e i tre tedeschi, dopo essere stati lasciati al largo delle Columbretas, non avevano inviato alcun messaggio.

Non riuscendo a trovare il modo corretto per effettuare la comunicazione, si era deciso inviare un dispaccio “SEGRETISSIMO”, in cui descriveva i fatti.

Pizuto invitava Fasann padre a escogitare un sistema per segnalare al competente comando germanico la perdita dei tre uomini, mentre per il signor Bianchi, si rimetteva nelle sue mani, non avendo la minima idea di chi in realtà fosse.

Non lo aveva meravigliato leggere, su un successivo bollettino di guerra, tra l‟elenco dei

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dispersi, i nomi dei cinque, cosa importante per mantenere efficace la copertura dell‟azione in corso.

Ben più arduo fu di scrivere alla famiglia di Lorusso: non gli era piaciuto rivivere quei momenti, riconsiderare la sua personale responsabilità nel suicidio e dover poi vergare quelle frasi false e retoriche, ma non era necessario confessare la verità ai poveri genitori.

La stanchezza ebbe il sopravvento sui pensieri e il comandante sprofondò in un sonno agitato che, però, avrebbe ritemprato un poco il fisico.

Il Caboto incrociò tra Capo Spartivento in Sardegna e il Capo San Vito in Sicilia per due giorni, quasi sempre con gli uomini ai “posti di combattimento”. Monotona attività, con ordini uguali, in attesa che avvenisse qualcosa.

La tensione raggiunse il massimo due volte. Quando venne suonato l‟allarme e si trattava di un idrovolante Sunderland alto, a cinque miglia di distanza, che girò in tondo un paio di volte sul Caboto, senza avvicinarsi o abbassarsi e poi scomparve.

La seconda volta quando, in rotta per sud-sud-est, venne avvistato fumo all‟orizzonte: già si iniziavano a scorgere gli alberi di metallo di una nave quando, saggiamente, Greco che era di guardia, fece invertire la rotta di 180°. Poco dopo la vedetta posta a riva segnalò che, oltre al mare e al cielo, non c‟era nulla all‟orizzonte, anche il fumo era scomparso.

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Alle 15.30 del 7 settembre 1943, il tubo portavoce che metteva in comunicazione la sala radio con la plancia, gracchiò improvvisamente:

“Qui Bacigalupo, presto, il comandante in sala radio, è molto urgente.”

Pizuto si precipitò nella cabina radio, chiudendo accuratamente la porta, in tempo per udire:

“Fas SSSM SebCab …Fas SSSM SebCab …”

“Ci siamo finalmente!” Disse a Bacigalupo, ormai pronto con carta e matita per trascrivere il messaggio.

“Terza volta. Stesso messaggio.” Dopo pochi secondi, con la lentezza delle trasmissioni morse, il comunicato tanto atteso.

“Inizio messaggio - Ore 23.55 – 7 settembre –

Latitudine nord 38° 73’- Longitudine est 13° 10’ –

Oscuramento totale della nave –

Nessun uomo sui ponti –

Un segnalatore sulla plancetta di babordo - Stop.”

“Molto bene Bacigalupo, tracci la rotta e tenga informata la plancia di ogni rilevamento. E‟ il momento delle cose serie.”

Pizuto aveva parlato di ordini “strani”, ma non pensava che sarebbe stato tanto a disagio nel darli.

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Fino a che c‟era stato a bordo Fasann, tutto era sembrato semplice. Questa volta era solo, con la convinzione di operare in modo corretto ma, in definitiva, si trovava a eseguire solo un ordine scritto, ponendo la massima fiducia che fosse la cosa più giusta per l'Italia.

Erano le nove di sera e tutte le disposizioni previste e studiate dovevano essere eseguite.

Pizuto ordinò agli uomini presenti in plancia di scendere da basso, riducendo la guardia al minimo. Si rivolse quindi a Locascio, dicendogli:

“Capo, provveda all‟oscuramento della nave e controlli di persona che tutti siano confinati sui ponti inferiori. Fra una decina di minuti faccia il giro della nave e si accerti che nessuna luce trapeli all‟esterno, poi vada a riposare finché non succederà qualcos‟altro.”

Nel portavoce della sala macchine, soffiò forte e ordinò poi:

“Carammani, come va laggiù? Qui è Greco, riduca la velocità a 20 nodi, gradualmente.”

Locascio si allontanò per dare le disposizioni necessarie e, facendo il giro d‟ispezione, notò come l‟equipaggio stesse prendendo gli ordini con molta più calma della volta precedente.

Parlavano di missione segreta ed erano fieri di fare qualcosa di così importante da richiedere che nessuno potesse vedere, all‟infuori di qualche ufficiale e sottufficiale.

Parlavano di Pizuto, della loro stima per il comandante e del fatto che, fino a quel momento, li

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aveva sempre riportati a casa. A dire il vero, c‟era anche chi temeva un attacco con siluri di un sommergibile e avrebbe preferito mantenere la massima velocità.

Mancava un quarto d‟ora a mezzanotte quando Bacigalupo entrò in plancia:

“Comandante, ho un rilevamento a 15 miglia a Nord-nord-est, in rapido avvicinamento. Stimo la velocità sui 40 nodi.”

Pizuto gli rispose ringraziandolo e continuò:

“Molto bene Italo, era quello che aspettavamo. Torna in sala rilevamento e tienici informati con il portavoce. Sveglia il cont-cala e fallo venire in plancia.”

In plancia la tensione stava crescendo ra causa della prospettiva dell‟incontro con un'altra unità, nel mezzo del Tirreno.

Quella nave sarebbe stata amica o nemica?

Che tipo di destino sarebbe stato riservato al Caboto?

Si sarebbe sparato?

Sarebbero stati attaccati?

Il comandante diede le ultime istruzioni a Locascio:

“So che stava dormendo, mi spiace, ma ci siamo.”

“Ecco il binocolo notturno, si sistemi alla meglio sulla plancetta di babordo, sarà il suo posto d‟osservazione. Tutti noi dipendiamo dalla sua vista e dalla corretta interpretazione dei segnali.”

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“Si faccia portare un contenitore di caffè caldo e qualche cosa da mangiare, le saranno utili.”

“Carammani” disse poi al portavoce “riduca la velocità a 10 nodi.”

“Ordine già eseguito.”

Gli rispose dal fondo della nave l‟ufficiale, pensando tra sé che era una velocità troppo bassa in quella zona. Era un invito all‟attacco per un sommergibile nemico. Il ragionamento, però, non uscì dai confini della sua mente.

L‟organismo di Pizuto stava reagendo alla tensione. Lo sguardo saettava da un lato all‟altro della plancia, camminando avanti e indietro. Si accostò a Bova, corresse la rotta di un‟inezia e incoraggiò il giovane parlandogli nell‟orecchio, fece riferimento a quanto gli aveva detto nel locale della catena dell‟ancora e concluse confermando la piena fiducia in lui.

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20. 1 Settembre 1943

Locascio spalancò di colpo il portello sulla plancetta di babordo:

“Comandante, a ore 11, a circa 2 miglia, c‟è una silurante: mi sembra una MGB inglese. Ci sta puntando addosso.”

Tornò al suo posto fissando il portello in posizione aperta, in modo da poter comunicare tutti i particolari in modo più sicuro e veloce.

“Grazie cont-cala.”

Rispose Pizuto continuando:

“Bacigalupo, da oltre mezz‟ora, sta trasmettendo un segnale di riconoscimento. Affinché non ci siano equivoci con chi dobbiamo incontrare. Nessuna iniziativa personale, ne va della vita di tutti.”

Nella sala radio, intanto, Italo stava trasmettendo: “Fasann SSSM” e lo ripeteva a brevi intervalli.

Arduino, ufficiale all‟armamento, aveva esaminato col binocolo l‟imbarcazione e volle completare il quadro dato dal cont-cala sulla pericolosità di quel tipo di motosilurante inglese:

“Stiamoci attenti a quella. E‟ dotata di due cannoni da 57. Ha dieci mitragliere, 4 lanciasiluri e stazza circa 100 tonnellate. Così a breve distanza, sarebbe potenzialmente la fine del Caboto.”

Aveva appena finito di parlare che la tenue luce rossastra, utilizzata di notte in plancia, fu squarciata dalla potente luce bianchissima, accecante, di due

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proiettori della motosilurante, ormai a 200 metri a babordo.

Dalla plancetta Locascio, schermandosi gli occhi con la mano, urlò:

“Stanno segnalando di identificarci.”

Pizuto gli disse solo:

“Sai quale è il segnale, non fare errori, per il resto giudica tu cosa fare o cosa rispondere.”

Locascio iniziò a trasmettere, se non fosse stata la motosilurante giusta, ciò avrebbe decretato la loro immediata fine.

Il rischio, in quella zona del Mediterraneo in mano Alleata, era alto. Gli inglesi potevano venir attirati dalle trasmissioni radio di Italo. Gennaro sperava che qualcuno avesse impartito ordini precisi riguardo alla zona di mare vietata alle altre navi alleate.

La luce puntiforme della nave inglese iniziò a pulsare:

“Fermate le macchine.

Oltre al segnalatore, nessun uomo sui ponti.

Siete sotto il tiro dei cannoni e dei lanciasiluri armati e pronti.

Non avreste scampo.”

Il messaggio trascritto da Locascio non era una conferma alle speranze, ma nemmeno una clamorosa smentita ai dubbi che gli uomini del Caboto formulavano nelle loro menti.

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Pizuto, leggendo il foglietto tesogli dal cont-cala, pensò: „Conciso e chiaro, ma se avessero tentato di abbordare il Caboto? Se alla fine fosse stato lui, ubbidendo agli ordini, a consegnare la sua nave al nemico, senza avere sparato un colpo?‟

Anche Cesare aveva detto “Alea iacta est”, il dado è tratto, ormai bisognava continuare.

Pizuto scrollò il capo per allontanare i pensieri. La linea del comando poteva interrompersi, ma lui non poteva permettere che il comandante ne fosse la causa.

“Carammani, qui è Pizuto, fermi le macchine e faccia in modo che la nave si fermi il più in fretta possibile.”

Dalla sala macchine non venne nessuna risposta. Il telegrafo ripetitore in plancia, però, indicò dapprima “fermo” e poi “indietro tutta”. Le vibrazioni del Caboto indicarono che le eliche stavano ruotando all‟indietro, al massimo, cercando di avvitarsi nell‟acqua schiumeggiante, sotto il bordo di poppa, per ridurre il più velocemente possibile l‟abbrivio delle 2000 tonnellate di stazza.

Il Caboto era ormai fermo e le vibrazioni erano cessate, il silenzio dominava quello specchio di mare. Dalla silurante il messaggio cominciò ad arrivare, scandito dai lampi di luce dell‟alfabeto morse e dal buio tra una lettera e l‟altra:

“Fermare le macchine: è un ordine.

Prepararsi a prendere a bordo gli occupanti del canotto.

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Fino allo spegnimento dei riflettori sarete sotto tiro.

L’operazione avrà termine nel momento in cui

i nostri proiettori verranno spenti.”

Il canotto, che si stava staccando dalla motosilurante, era un‟ombra nella luce accecante. Locascio, pur riparandosi gli occhi con la mano, dovette attendere qualche minuto per cominciare a distinguere qualche cosa, ecco: due, no, tre teste emergevano dal bordo di gomma.

Il canotto arrivò sotto bordo al Caboto. Carmelo uscì dal nascondiglio vicino al fumaiolo, dove era rimasto acquattato e corse a lanciare una cima, srotolando fuori bordo una scaletta di corda.

Aiutò le tre figure in cerata nera a scavalcare i cavi tientibene, provvedendo a recuperare una grossa valigia e il canotto stesso, sulla cui prua c‟era una scritta gialla: ROYAL NAVY.

Locascio si sporse dalla battagliola per vedere meglio e fu un colpo per lui riconoscere nel viso del primo dei tre uomini, che si stavano dirigendo alla volta della plancia, qualcuno che mai avrebbe pensato di rivedere: il guardiamarina Fasann.

Locascio era a bocca aperta e Fasann, sotto di lui sul ponte, a non più di tre metri di distanza, aprì la cerata ed estrasse qualcosa che impugnò con la mano destra. Con movimento continuo l‟alzò, puntando sul cont-cala, proseguendo fino a che il braccio fu verticale. Partì un razzo da segnalazione verde e il lampo fu un‟altra sciabolata per gli occhi di Locascio.

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Di colpo fu il buio totale, sulla silurante erano stati spenti i riflettori e nell‟oscurità si udirono i primi scoppiettii, poi un rumore cupo, sempre più forte, mentre i quattro motori venivano portati a regime.

Ancora qualche secondo e tutta la potenza fu scaricata alle eliche; la barca inglese si mosse e virò, sollevando alte onde e iniziando ad allontanarsi, fino a che non divenne un‟ombra nella notte.

Fasann entrò in plancia come un fulmine, alcuni dei presenti non percepirono nemmeno il suo ingresso.

“Calma! Comandante Pizuto.”

Disse rivolgendosi a lui.

“Sono io. Nessuna domanda, per favore. Quando ci sarà tempo, potremo parlare, ora non ne abbiamo.”

“Comandante, possiamo essere sicuri che i presenti possano restare calmi, molto calmi e poi dimenticare tutto, come se non fosse mai successo?”

I volti dei presenti erano rivolti verso Fasann, sia chi lo aveva visto entrare, sia chi ne aveva udito la voce, troppo occupato per coglierne l‟arrivo.

Erano espressioni di stupore o visi impietriti dall‟apparizione di quello che pareva un fantasma: lo avevano dato per disperso, per caduto e vederselo ora, lì davanti…

Il primo che si riprese fu Pizuto e fece fronte alla domanda sibillina che esigeva una risposta, una risposta determinante.

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“Salve Fasann, certamente! Avanti, dica e faccia ciò che deve, purché non metta in pericolo la vita dell‟equipaggio e la nave.”

Un diniego, con la testa, fu la risposta non pronunciata di Fasann che prese in mano la situazione e, aperto il portavoce della sala macchine, disse:

“Qui plancia, sono il guardiamarina Fasann. Carammani, per favore, mi dia tutti i 30 nodi che può scatenare.”

Carammani, dall‟altra parte del tubo, all‟oscuro di quanto era successo con la silurante e in plancia, attese alcuni secondi prima di rispondere:

“Va bene, Fasann, ma se non le dispiace, lo vorrei sentir dire dal comandante in persona.”

Greco puntò due occhi di fuoco in quelli del comandante. Non disse una parola, ma si vedeva bene che aspettava la reazione di Pizuto.

“Dai Benito, sono io.”

Incalzò, comunque, Pizuto nel portavoce.

“Dammi tutta la velocità che puoi nel minor tempo possibile. Ti confermo che abbiamo a bordo Fasann. Per il futuro, ricordati quanto ci siamo detti alcuni giorni fa, esegui gli ordini di Fasann e non prendertela se è solo un guardiamarina, è un momento particolare, ma gli ordini che mi sono stati dati, sono chiari e precisi e questo ti deve bastare.”

Pizuto non aveva ancora finito che le ultime parole furono coperte da un rombo, mentre la nave vibrava si udì:

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“Agli ordini!”

Fasann era già al tavolo da carteggio e stava tracciando una rotta, si muoveva secondo un programma preciso che non poteva ammettere alcun intoppo. Sollevò gli occhi sul comandante, che si era avvicinato, e uno dei rari sorrisi prese forma sul suo volto.

Un attimo prima era al fianco di Bova, comunicandogli la nuova rotta, l‟attimo successivo era già uscito dalla plancia. Quando vi rientrò, era seguito da due uomini ancora avvolti nelle pesanti cerate nere della marina inglese. Il primo si tolse il largo cappello e iniziò a slacciarsi la mantella.

In un primo momento sembrava un abito, invece era una divisa; il suo colore era uno strano verde oliva, sul bavero della giacca le iniziali U.S., le spalline avevano due grosse stelle e il cappello era il classico berretto americano. Era un generale dell‟esercito degli Stati Uniti d‟America. Tutti i presenti trasalirono, ma nessuno fece un gesto, nessuno accennò un movimento.

Anche il secondo uomo iniziò a togliersi la cerata e gli occhi si spostarono su di lui. Il colore della divisa era diverso, color carta da zucchero, la foggia e i gradi differenti, le iniziali che si potevano leggere sul lato della manica provocarono in Pizuto un profondo disagio. Un colonnello della RAF e un generale americano: avevano a bordo due ufficiali delle nazioni con cui l‟Italia era in guerra.

Il silenzio e il disagio regnarono nella plancia per qualche secondo. Pizuto considerò a fondo la cosa,

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guardò prima Fasann e poi il viso del generale americano, che manteneva un sorriso quasi sornione.

Due occhi amichevoli, i tratti di un viso determinato, in quel momento stavano rivolgendogli una tacita richiesta che riguardava due militari, di cui uno con un grado più elevato, anche se appartenente al campo avverso.

Pizuto scattò sull‟attenti e salutò, presentandosi. L‟americano ricambiò il saluto e strinse la mano che gli veniva offerta. Si presentò come il generale Saylor. Il ghiaccio era rotto, i tratti del viso dei presenti si rilassarono.

Saylor estrasse dalla tasca una busta con i sigilli di ceralacca e, rivolto a Pizuto, gli disse in un italiano quasi apprezzabile:

“Mi dispiace, sono ordini per lei, credo conosca situazione esistente.”

La frase era stata studiata e ripetuta molte volte, tanto da apparire alle orecchie di tutti come la più naturale del mondo. Pizuto cominciava a essere stufo di ricevere plichi sigillati e ordini dai personaggi più diversi: civili, ufficiali subalterni e ora anche da un generale nemico. Prese comunque la busta, fece saltare i sigilli e guardò il singolo foglio che conteneva.

Sulla destra in alto capeggiava un‟aquila, con una stella a cinque punte. La data era del 5 settembre, sulla sinistra, più in basso il messaggio cominciava con:

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Dal Comando in Capo Alleato.

Disposizione N° 28

Generale Saylor e Colonnello Farener, che saliranno su Vs. vapore la notte tra il 7 e l’8 settembre 1943, hanno uno speciale salvacondotto, firmato dal Maresciallo Pietro Badoglio.

Questa Disposizione, obbliga chiunque ne prenda visione a obbedire agli ordini dati dal latore della presente.

I due ufficiali, che fanno parte dello Stato Maggiore del Generale Eisenhower, hanno pieni poteri per le operazioni dei paracadutisti.

Generale Dwight Eisenhower

Mentre lo leggeva, Pizuto si trovò di colpo svelati e con un senso logico, parecchi dei dubbi che avevano travagliato la sua mente e che, fino a quel momento, aveva dovuto accettare come elementi ignoti. Ora era tutto molto più chiaro di quanto non lo fosse mai stato.

Preso il messaggio, lo passò a Greco che lo afferrò di malavoglia, lo lesse e glielo restituì, facendo in modo di guardare in basso per non dover incrociare lo sguardo del comandante.

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Pizuto voleva chiarire con Greco, ma non poteva e dovette far fronte a questo ennesimo colpo di scena, non previsto e non facile da gestire.

Fece accomodare i due ufficiali nella sua cabina dove, con stupore, trovò una grossa valigia. Il generale Saylor, vedendo la perplessità negli occhi del comandante del Caboto, si toccò la divisa, strizzandosi il naso con la mano sinistra e facendo l‟atto di tirare qualcosa dall‟alto verso il basso con la destra.

E così pensò Pizuto, hanno di che cambiarsi. Fasann, si disse, la sta facendo da padrone e un pensiero di stizza lo colse. Purtroppo era in gioco e doveva giocare, ma pur riconoscendo che il guardiamarina era stato diplomatico nel fargli accettare le cose, non poteva dimenticare che avrebbe voluto essere il solo comandante del Caboto.

Lasciò i due ufficiali alleati e si recò in plancia dove Fasann stava dando indicazioni sulla rotta:

“Rotta 030° per almeno un‟ora.”

Rivolgendosi a Greco gli indicò la carta:

“Vede, dobbiamo raggiungere questo promontorio.”

“E‟ sovrastato da una torre antica e si trova a nord, la località è Lavinio, presso il porticciolo dei pescatori di Anzio.”

Lo sguardo di Greco era gelido, non rispose a Fasann, mentre serrava le dita a pugno, con le nocche quasi color avorio, pur mantenendo le braccia lungo la cucitura dei pantaloni.

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Pizuto aveva visto, ma prima c‟era ancora un pericolo da tenere sotto controllo. Richiamò l‟attenzione di Locascio e gli fece cenno di seguirlo sulla plancetta di tribordo:

“Gennaro, dobbiamo evitare che l‟equipaggio veda i due ufficiali alleati. Devi fare in modo che la plancia, le scalette di salita e il corridoio, compresa la mia cabina, siano vietati all‟equipaggio.”

“Sono certo che saprai trovare il modo, spero solo che sia per poche ore.”

Locascio, che la sapeva lunga sul comandante, lo guardò e osò parlargli in un modo che mai avrebbe pensato possibile.

“Comandante, la capisco. Fasann dà gli ordini e tocca a lei pensare alla parte operativa. Non è facile, ma cerchi di prenderla come se fossero ordini del padre: l‟ammiraglio Fasann. So che lei non è neanche più padrone di stare nella sua cabina, ed è il comandante. Coraggio, siamo tutti attori della stessa tragedia. Meglio saprà recitare, meglio andranno le cose.”

“Ci serve un comandante vigile e sereno. Non vorrei essere nei suoi panni, troppo difficile per me, ma lei può farlo, si sforzi, per il bene di tutti noi. Grazie comandante.”

Pizuto lo guardò, stava per parlare, ma poi appoggiò la mano sulla spalla del cont-cala e gli disse solo: “Grazie, Gennaro. Ora vai anche tu a fare del tuo meglio.”

Locascio ricambiò il gesto amichevole di Pizuto con sguardo tranquillo, cercando di trasmettergli la

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sicurezza della continuità della linea del comando di cui Pizuto aveva bisogno. Il comandante ritornò nella sua cabina e si trovò davanti due civili.

Vedendo i suoi due ospiti vestiti da civili, si domandò se faceva bene ad agire come stava facendo e ad accettare ciò che stava subendo. Pensò di parlarne con i due, di sfogarsi, magari di urlare la sua rabbia.

Si sedette sulla cuccetta e attese in un silenzio sempre più pesante, durante il quale cercò di incontrare lo sguardo dei due, senza riuscirvi, ma rendendosi conto dell‟imbarazzo aleggiante nell‟aria. Forse gli abiti civili, forse lo scoglio della lingua, forse il giuramento che tanti anni prima aveva fatto durante la cerimonia della consegna della sciabola quando firmò quella nomina a ufficiale della Marina Militare italiana sopra la bandiera, e ora…

Pizuto decise che era meglio lasciare la cabina e non arrovellarsi la mente con certi pensieri.

D‟altra parte, appena uscito Pizuto, i due ufficiali alleati si rilassarono, sentendo che la tensione dei muscoli e del diaframma scompariva. Anche per loro non erano stati momenti facili. Erano a bordo di una nave da guerra italiana, con almeno 170 combattenti e, salvo Fasann che conoscevano bene e di cui si fidavano, non avrebbero avuto scampo se il comandante avesse deciso di arrestarli, farli prigionieri o peggio ancora, ucciderli. Per loro due era preferibile il silenzio, piuttosto che spingere, involontariamente, la situazione a un punto critico.

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Il Caboto riprese l‟aspetto di sempre. Gli uomini erano sui ponti vicino alle postazioni assegnate e sia che fossero attrezzature per la navigazione, per le comunicazioni, armamenti o dotazioni di sicurezza, stavano verificandone, ancora una volta, il funzionamento.

Per qualche ora erano stati confinati sui ponti inferiori da Pizuto, il comandante per cui si sarebbero gettati nel fuoco. Ciascuno, in quel momento, voleva garantirgli la piena efficienza bellica di quelle 2000 tonnellate da guerra, pronte per qualsiasi circostanza si fosse verificata.

Si trattava di un rapporto interpersonale che si era creato, circa un anno prima, al molo E di Genova, quando il comandante li aveva arringati e quasi assaliti verbalmente. Pizuto, nei fatti, aveva dimostrato una forte capacità di comando, dimostrandosi valido, giusto e di profonda esperienza.

In plancia la situazione era diversa. Si potevano leggere negli sguardi e sui volti dei presenti numerosi interrogativi riguardanti Fasann: il guardiamarina dato per disperso e ricomparso all‟improvviso con due ufficiali alleati. Pizuto lo sapeva e tentò di trovare una spiegazione semplice per quella riapparizione.

Stava rimuginandoci, quando Greco interruppe i suoi pensieri:

“Comandante, siamo a circa 50 miglia da Anzio. Ancora un‟ora a questa velocità e getteremo l‟ancora.”

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Gli mostrò la carta che aveva con sè. Il dito indicava un punto appena fuori dalla linea costiera, di fronte a un piccolo promontorio sulla cui sommità si vedeva il simbolo di una torre d‟avvistamento. Sarebbero stati circa all‟altezza dell‟abitato di Lavinio.

L‟indicazione del primo ufficiale era precisa, ma l‟atteggiamento e i tratti del volto tradivano una profonda contrarietà per quello che stava dicendo.

Pizuto gli rispose di getto.

“Greco, faccia battere il posto di combattimento e raddoppi le vedette. Manteniamo i 30 nodi.”

Un‟ora dopo avevano il promontorio di prua a circa 5 miglia e Pizuto prese da parte Greco, portandolo sulla plancetta di tribordo e chiudendosi il portello alle spalle, gli rivolse la parola:

“Greco, lei sta vivendo male la ricomparsa improvvisa di Fasann. Dimostra chiaramente che la disturba che un guardiamarina abbia determinato l‟obiettivo e tracciato la rotta. Se si sente scavalcato, come primo ufficiale, tenga presente che io sono il suo comandante e anche per me, forse, valgono le stesse considerazioni, ma non ho il suo atteggiamento.”

“Lei si ricordi che è un ufficiale della Regia Marina italiana e che ha dei diritti, ma soprattutto dei doveri verso di me e verso i sottoposti.”

“Comandante, lo so! Ma lei è sicuro di questo ragazzo, con tutto quello che dice e che fa?”

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“Tenente di vascello Greco, lei era presente quando ho dato l‟ordine a Carammani? Si ricorda cosa ho detto?”

“Sissignore” Gli rispose pronto Greco.

“Vale anche per lei. Un ordine di Fasann, è come se lo dessi io. Ha capito cosa significa?”

“Sissignore”

“E‟ sicuro di avere veramente capito bene?”

“Sissignore.”

“Allora ci ragioni e si domandi perché l‟ho dato!”

“Sissignore.”

“Tenente Greco, torni ai suoi compiti. E‟ un ordine. Si sbrighi!”

Erano a meno di tre miglia al largo del promontorio e sia Pizuto sia Arduino, a fianco sulla plancetta, potevano distinguere con i binocoli le villette che i gerarchi e i potenti del regime avevano fatto erigere sul litorale. La torre sovrastava i due piccoli golfi, quasi perfetti semicerchi pieni di verde mediterraneo con le spiagge di un bel colore dorato. Punto strategico, scelto non a caso dai normanni, tanto tempo prima.

Mentre scrutavano la linea costiera, si sentì il clangore delle maglie delle catene delle ancore scorrere negli occhi di cubia e tuffarsi in oltre venti metri di mare calmo, prima di toccare il fondo.

Bisognava portare a terra i due, pensò Pizuto e disse ad Arduino:

“Vittorio, vai a controllare che tutto proceda bene. Troverai Locascio, digli di venire da me. Fa in modo

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che gli uomini dell‟equipaggio non sentano, è importante.”

Locascio stava osservando la costa. Il promontorio doveva proseguire scendendo sotto il livello del mare per un lungo tratto, con rocce affioranti e scogli sommersi, perché le lievi onde, anche lontano da riva, si dividevano sulla linea ideale di continuazione del crinale. Non sarebbe stato saggio portare il canotto attraverso quei pericoli.

Doveva decidere se approdare più a nord o restare a sud: a nord del capo, la roccia era un susseguirsi di linee di colore diverso, la crosta terrestre si era sollevata proprio lì.

Il cont-cala si sforzò di trovare una fessura, una breccia, ma non ne vide.

A sud invece si stagliava un enorme masso con le unghiate che la forza del mare vi aveva lasciato. A fianco cominciava la macchia mediterranea che, fra la roccia e il verde un torrentello, si addentrava tra gli arbusti e gli alberi. La riva era digradante, nessuno scoglio in vista e le onde si frangevano regolari su una spiaggia di circa dieci metri prima che cominciasse… cos‟era quella linea precisa? Regolò la messa a fuoco, c‟erano delle pietre, poste a regola d‟arte e una feritoia.

Aveva trovato il punto dove sbarcare gli alleati. In quel momento Arduino gli si avvicinò, dicendogli in un soffio:

“Cont-cala, il comandante l‟aspetta sulla plancetta.”

Locascio capì al volo e gli strizzò l‟occhio.

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“Comandante,” disse Gennaro “vede quella massa rocciosa? Alla base ci deve essere una casamatta. La può riconoscere dalla regolarità del taglio delle pietre e dalla feritoia. Secondo me, è il posto ideale per far approdare i due amici. Se c‟è una postazione, ci deve essere un sentiero, una strada per accedervi, quindi maggiore facilità a raggiungere la strada litoranea.”

“Reputo quasi inesistente il pericolo che vi sia qualcuno. Chi ha smosso tante persone e coordinato tanti avvenimenti per far sì che arrivassimo fin qui, ha senza dubbio sospeso, almeno per qualche ora, il servizio di avvistamento.”

Pizuto stava ancora fissando la feritoia.

“Certo Gennaro, ottima vista e ottima analisi. Con quale mezzo pensi di effettuare il trasbordo a riva?”

Stava pensando di chiedere a Locascio di accompagnare il trasferimento, voleva essere certo che ci fosse un uomo valido ad accompagnare Fasann. Non sapeva però come affrontare il discorso.

“Vede comandante, secondo me, sarebbe stato un errore affondare il canotto inglese, ho quindi coperto con la vernice nera la scritta che avrebbe potuto creare dei problemi e ora, in bianco, c‟è scritto: R. N. Sebastiano Caboto.”

“Ha fatto bene cont-cala. Senta, cosa ne pensa di mandare da solo Fasann con i due ufficiali alleati?”

“Comandante, se permette, non mi pare saggio. Vorrei chiederle di accompagnarli fino a riva. Mi piacerebbe avere Carmelo con me e prenderei dall‟armeria tre mitragliatori e tre pistole, in modo che si possa far fronte a qualunque inconveniente.

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Vorrei anche affondare il canotto, una volta rientrati. Non è dotazione della nostra marina e qualcuno se ne potrebbe accorgere. Ritornati dalla missione, non servirà più.”

“Quando si hanno dei sottufficiali di prim‟ordine come lei, può non essere necessario dare un ordine.”

Gli rispose Pizuto

Poco dopo, nella cabina di Pizuto erano in sei, l‟americano, l‟inglese, Fasann, Gennaro e il cont-cala.

“Gennaro, tu sei al corrente di molte cose. Per questo tu e Locascio scenderete a terra. Rimarrete di guardia al canotto e rientrerete insieme a Fasann.”

“Generale Saylor, colonnello Farener, il guardiamarina vi condurrà a terra fino a incontrare chi si occuperà di voi per farvi giungere alla meta.”

“Fasann, vorrei togliermi di qui il più presto possibile, è un punto del litorale dove credo che mai un cacciatorpediniere abbia dato fondo all‟ancora. Conto di salpare entro le nove.”

“Signorsì comandante” rispose pronto Fasann “vorrei però avvisarla che, qualunque impedimento, ostacolo o contrattempo, prima dell‟incontro con il mio contatto, potrebbe farmi ritardare.”

“Vorrei tranquillizzarla, a parte i pescatori, nessun militare, ronda o altro potrà vedere il Caboto. Alleati e italiani hanno le stesse disposizioni.”

“Non posso garantire per i tedeschi, ma non vedo motivo perché possano supporre che, in questo punto del litorale, ci sia un cacciatorpediniere alla

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fonda, il cui equipaggio è impegnato in un‟operazione un po‟ particolare.”

Pizuto si accomiatò ma, mentre Fasann cercava di seguire i due, oramai quasi sul ponte, Pizuto prese la pipa Peterson e, sbarrandogli il passo, gli disse:

“Al tempo, Fasann, questa è la pipa e questa è la cabina in cui faremo la famosa chiacchierata che mi ha promesso in macchina tempo fa. Quando?”

“Comandante, glielo prometto, abbia pazienza ancora per un paio di giorni.”

Si strinsero la mano e Pizuto lo lasciò raggiungere i quattro che lo attendevano sul ponte, di fianco alla scaletta di corda i cui ultimi gradini terminavano all‟interno del canotto, mosso dolcemente dalle onde.

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21. 8 e 9 settembre 1943

Locascio e Carmelo scostarono il canotto dalla chiglia del Caboto e, con abili colpi dei remi, si diressero a riva. Visto dal pelo dell‟acqua, il promontorio era ancora più imponente e si vedevano i vuoti lasciati dai blocchi strappati dalla furia del mare. Con abilità diressero il canotto a sud e arrivarono vicino alla foce del torrentello, dove approdarono.

Pochi secondi dopo, erano nascosti dagli arbusti, il canotto veniva sistemato sotto un‟ampia macchia di verde e ciascuno dei cinque uomini sta controllando la riva, guardando e ascoltando attentamente.

Dopo qualche minuto, Locascio ebbe conferma delle sue supposizioni. C‟era la casamatta, ma non era presidiata. Si mossero e la raggiunsero, scoprendo che la struttura di pietra girava verso l‟interno e un comodo sentiero si inoltrava tra la vegetazione. Provarono a girarsi per vedere la nave, ma il Caboto non era più visibile, erano completamente coperti dalla macchia.

Attraversarono tratti aperti e altri in cui dove la vegetazione era tanto folta da obbligarli a camminare chini per evitare di ferirsi o di sbattere contro i rami coperti di spine. Un gioco di luce e di ombre, ora intense, ora lievi, li accompagnava. Trovarono il letto del ruscelletto e lo oltrepassarono: arbusti e fronde avevano lasciato segni sulle mani e sui volti dei cinque.

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Le uniche a non risentirne furono le armi che i cinque impugnavano saldamente.

Sbucarono su una spianata verde intenso, dove sorgeva la base della torre e di fronte a loro, raso terra, c‟era una feritoia verticale. Altre si aprivano più in alto, a livello del primo e del secondo piano. La torre normanna, costruita per avvistare i mori dal mare, attendeva anche loro.

Al riparo degli ultimi arbusti, Fasann fece cenno agli ufficiali di sedersi e aspettarlo. Lui strisciò per pochi metri, poi iniziò a fischiare. Tre fischi brevi, altri tre, per finire con due fischi lunghi.

Speriamo che sia lei, ad attendere, pensò Fasann.

Erano quasi otto mesi che non la vedeva, dai tempi della Farnesina in cui facevano coppia fissa giorno e notte.

Gli incontri erano stati sempre meno frequenti, la guerra e i compiti assegnati sempre più pressanti.

Il generale, disteso nell‟erba, stava soppesando l‟arma italiana che imbracciava e sorrideva un poco considerando quelle in dotazione all‟esercito americano. Avrebbe dato una delle sue medaglie per imbracciare un mitragliatore Sten.

Saylor fu richiamato alla realtà da una seconda serie di fischi. Lo sguardo si spostò, dalle spalle di Fasann, alla feritoia della torre. Alla terza serie di fischi qualcosa si mosse nell‟ombra e spuntò dal buio: era la canna di un mitra. Dall‟interno si sentirono altri fischi cadenzati, cui Fasann fece eco con nuovi segnali.

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Apparve una figura che imbracciava un mitra, vestita con abbigliamento militare, chiaramente americano. Saylor guardò meglio l‟arma, era uno Sten. Faceva senz‟altro parte del materiale che gli alleati paracadutavano da anni alle forze di resistenza delle nazioni occupate.

Seguendo l‟esempio di Fasann, si alzarono e le andarono incontro. Il cappello era tirato sulla fronte nascondendo il viso. I passi erano cauti, ma precisi. Si fermò a tre metri dagli uomini sbarcati dal Caboto. Il dito sul grilletto della raffica, la canna puntata all‟altezza del petto.

“Manfredo?” Si sentì pronunciare.

Fasann ebbe un tuffo al cuore, un‟emozione intensissima, ma riuscì a rispondere:

“Paola?”

“E‟ lui!” Pensò Caterina.

“E‟ lei!” Pensò Arnaldo.

Se qualcuno avesse fatto attenzione alla mano della figura emersa dalla torre, avrebbe percepito il progressivo allentarsi della stretta e lo scomparire del biancore della nocca dell‟indice, piegato sul grilletto.

Avevano trovato chi dovevano incontrare.

La canna dello Sten si abbassò verso terra, ma non molto e la mano destra lasciò il supporto allungandosi contro la gamba. La posizione era d‟attesa, guardinga, ma non c‟era più minaccia diretta.

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Si tolse il cappello. Una massa di lunghi capelli scuri eruppe sulle spalle, incorniciando due splendidi occhi castani, profondi, che fissavano sicuri i tre uomini.

Sarà stata alta un metro e sessantacinque, poco meno di Fasann, ma quegli occhi duri e fermi le davano un‟autorevolezza che si poteva sentire nell‟aria. Era una donna, ma dominava tranquillamente i tre con il suo magnetismo. Disse solo:

“Benvenuti.”

Prima in inglese e poi in italiano.

La voce ferma e forte, tradiva solo una punta di femminilità che rafforzava l‟impressione di avere davanti una combattente vera, una donna che stava incutendo rispetto non solo in Fasann, ma in un generale e in un colonnello nemici.

Rivolgendosi ai tre in inglese, disse:

“Mi chiamo Paola, sono la vostra guida. Seguitemi e restate in silenzio, prego. Fate tutto quello che vi dirò.”

Aveva cominciato, di proposito, col fissare negli occhi il generale, poi il suo sguardo si era posato sul colonnello e da ultimo guardò genericamente oltre la spalla sinistra di Fasann. Nonostante l‟artificio dovette girarsi subito, per non far vedere l‟intensa vampata di rosso ch‟era comparsa sul suo bel volto pallido.

Fasann stava per dire qualcosa, ma Paola era già lontana, a quasi cinque metri dai tre uomini che si affrettarono a raggiungerla. Salirono e scesero

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piccole vallette, a volte nascosti dalla macchia, a volte indifesi nei prati pianeggianti. Lei sempre avanti, protesa ad ascoltare i rumori o a bloccarsi, se qualche uccello di colpo prendeva il volo nel silenzio. Con il mitra come un prolungamento del braccio, con pochi movimenti, faceva fermare, avanzare o nascondere nell‟erba gli uomini che la seguivano.

Aggirarono una casupola di legno che doveva servire ai cacciatori e, dopo circa venti minuti di cammino, si fermarono presso un ruscello poco profondo, ma che li obbligò a raggiungere un ponticello più a monte, per attraversare. Era importante che i due alleati non arrivassero a Roma coperti di fango e di terra.

Ci fu un momento in cui Fasann si trovò accanto a Paola e sembrò che i due si dicessero qualcosa, tanto da attirare l‟attenzione del generale Saylor.

Paola doveva recuperare il controllo della situazione. Si alzò di scatto e, in uno stretto italiano, pur di interrompere quel momento, disse:

“Arny, Manfredo, ti ho già detto che per raggiungere la strada sterrata questa è la via migliore, anzi l‟unica, dato che qualche giorno fa, a sud e a nord degli affioramenti di zolfo, hanno cominciato a piazzare le mine.”

Agitava il braccio e non si accorse che, nella foga, aveva alzato la voce.

“Silenzio!”

Intimò il generale Saylor.

Paola, rossa in viso, fece cenno ai tre di alzarsi e si avviò verso un ponticello di legno a non più di un

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centinaio di metri. Si ritrovarono in una pianura interrotta da siepi, fino a quando non raggiunsero un tratto con degli affioramenti di zolfo.

Finalmente raggiunsero una strada sterrata, sulla cui carreggiata umida per la brina notturna, scorsero l‟impronta fresca di pneumatici. Seguendone con lo sguardo le tracce, videro il parafango di una macchina nera, molto ben nascosta. I tre uomini si voltarono verso Paola, che indicò con il mitra l‟auto dicendo, in inglese:

“Siete arrivati, Franco sta arrivando. Si prenderà cura di voi fino a Roma. Buona fortuna e buon viaggio.”

“Io e Manfredo resteremo qui per controllare che qualcuno non ci abbia seguiti e per eliminare ogni traccia del nostro passaggio. In una quarantina di minuti sarete alle porte di Roma e il guardiamarina sarà sulla spiaggia, vicino al canotto. Good luck!”

I due ufficiali alleati avrebbero voluto dirle qualcosa, ma Franco li stava spingendo verso l‟auto. Una cosa era certa, avrebbero ricordato a lungo quella piccola, decisa e per certi versi affascinante donna guerriera.

Arnaldo e Caterina attesero che l‟automobile scomparisse alla vista, il rombo del motore diminuì fino a che non rimase che il silenzio. Lei estrasse una busta dalla tasca del giubbetto e gliela porse dicendo:

“Sono gli ordini che attendevi, per te e per il comandante Pizuto.”

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Fasann infilò nella tasca della giacca la busta e si avvicinò a Caterina, alla sua Caterina, finché si ritrovarono abbracciati.

“Cate, sono mesi che penso a te!”

Fasann aveva cominciato a parlare, ma lei lo aveva stretto ancora di più nell‟abbraccio, spingendo le sue labbra tra quelle di lui. Arnaldo iniziò ad accarezzarle la nuca, la fronte e i capelli e a stringerla a sé. Quanto tempo aveva atteso di poterlo rivedere. Aveva sperato che fosse lui a capo del gruppo che avrebbe dovuto incontrare quella mattina.

La guerra era anche questo, attendere mesi prima di poter riabbracciare il proprio uomo, anzi il proprio marito, anche se era meglio che nessuno sapesse del legame che li univa.

Anche lui aveva tanto sperato di poter sentire per telefono la sua Caterina, o meglio Cate, come la chiamava, ma tanta fortuna non se l‟era aspettata.

Ripercorsero a ritroso il cammino e Caterina correva, incitando Arnaldo a starle dietro. Arrivati alla torre, gli prese la mano e lo condusse all‟interno, oltre la vecchia porta di legno. C‟erano alcune candele accese per terra, lei richiuse la porta, fermandola con una trave. Raggi di sole entravano da alcune feritoie verticali che si aprivano più in alto e dagli ampi varchi nei pavimenti dei piani sovrastanti. Raggi di sole scoprirono Cate che si slacciava il giubbetto, togliendosi il foulard.

Si sfilò con grazia i pantaloni della divisa, sotto non portava che un paio di mutande dell‟esercito. Restò così, mentre il sole colpiva quel bellissimo

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corpo. Arnaldo si avvicinò e la baciò teneramente, la accarezzò a lungo, attendendo il momento e appoggiate le labbra sulle sue, spinse la lingua all‟interno. Cate si strusciava contro il suo uomo, poi passò a sfilargli la camicia dai pantaloni e a sbottonargliela, sempre con le labbra incollate alle sue.

Fece volare la camicia da una parte e gettò la cravatta a terra, fu la volta dei pantaloni, slacciati con cura, ma con impazienza.

Nudi sui loro pochi capi militari, ruvidi e pieni di sabbia, appoggiati sul pavimento di legno, rivissero la prima volta che avevano fatto l‟amore, nei giardini della Farnesina, una notte di luna piena durante il corso che avevano seguito. Tenerezza, affetto, amore e il formare qualcosa di unico e completo, li portarono mille miglia lontano dalla torre, dalla guerra e dalla realtà che vivevano normalmente.

Il cinguettio degli uccelli, l‟angolo dei raggi del sole che si era fatto meno acuto, il fumo di due sigarette che saliva verso l‟alto: non avrebbero mai voluto lasciare quel posto e vedere l‟alba di un altro giorno. Sarebbe bastato ciò che stavano vivendo.

Le sigarette finirono e così anche le tenere frasi che si erano detti. Erano di nuovo in piedi, in divisa, con il mitra a tracolla, pronti ad aprire la porta. Un ultimo bacio appassionato e la promessa di fare come sempre.

Uscirono: lui svoltò verso destra, sul tratto che lo avrebbe riportato alla spiaggia e lei a sinistra verso la

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strada sterrata, per far ritorno alla sua villetta ad Anzio. Non uno sguardo d‟addio, non un‟ultima visione di quella donna, di quell‟uomo; momenti difficili da gestire e la commozione e il pianto non se li potevano permettere, rientravano in guerra.

Erano quasi le undici quando il guardiamarina raggiunse Carmelo e Locascio. Non li lasciò parlare, anche se vedeva che avrebbero voluto urlargli qualcosa.

“Mi dispiace cont-cala, un gruppo di giovani attivisti, i balilla, con il loro insegnante. Una lezione all‟aria aperta, nessun pericolo, in fondo erano solo ragazzi, ma abbiamo dovuto attendere che si spostassero oltre gli affioramenti di zolfo. Questa è una vecchia zona vulcanica. Andiamo presto, mettiamo in mare il canotto.”

Locascio lo guardò senza dire una parola. Era pur sempre un ufficiale e non poteva mettere in dubbio ciò che gli aveva detto. Forse, aggirando l‟ostacolo, avrebbero potuto far prima.

Pizuto già da due ore faceva lampeggiare il proiettore, chiedendo notizie. Purtroppo a riva non avevano di che segnalare adeguatamente, se non un pezzo di specchio trovato sulla spiaggia. Non c‟è pericolo, lo aspettiamo. Ecco tutto quello avevano risposto.

Il comandante doveva avere un diavolo per capello, ma d‟altra parte che avrebbe potuto fare lui, se non attendere vicino al canotto?

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Era quasi mezzogiorno quando il Caboto, levate le ancore, riprese il mare. Pizuto prese il microfono e parlò all‟equipaggio:

“E‟ il comandante che vi parla. Stanotte abbiamo incontrato una nostra silurante e abbiamo preso a bordo alcuni ufficiali vittime dell‟affondamento delle loro navi. La silurante, diretta verso l‟Egeo, li aveva raccolti alla deriva su una scialuppa di salvataggio.”

“Abbiamo riportato a riva alcuni di loro, in modo che potessero presentarsi ai comandi il più presto possibile e abbiamo lasciato la silurante libera di continuare la missione.”

“Tra i naufraghi raccolti, ho il piacere di informarvi che c‟era il guardiamarina Arnaldo Fasann, dato per disperso in un‟azione al largo delle coste spagnole e che ora rientra a pieno titolo nel nostro organico. E‟ tutto.”

Appena Pizuto ebbe terminato la comunicazione, Fasann diede a Bova la nuova rotta: 220°, per passare a ovest della Sicilia, alla volta di Malta.

Alle 19 e 42, Bacigalupo sorprese tutti, innestando il comando di diffusione nei locali di una trasmissione radio. Gino Bechi stava cantando la canzone “C’è una strada nel bosco”, ma il suono stava affievolendosi e l‟annunciatore ripeté l‟avvertimento:

“Come anticipatovi, interrompiamo la trasmissione

per trasmettere un annuncio importante.

Parlerà il maresciallo Pietro Badoglio”.

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“Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare

l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria,

nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure

alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower,

Comandante in capo delle Forze Alleate anglo-americane.

Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze alleate

da parte delle forze italiane deve cessare in ogni luogo.

Esse però reagiranno a eventuali attacchi

di qualunque altra provenienza.”

Fasann si rivolse a Pizuto:

“Comandante è l‟ora, dobbiamo entrare in comunicazione con Supermarina. Per cortesia, andiamo.”

Si recarono in sala radio e Fasann si sedette alla postazione, per comunicare a Supermarina il segnale di riconoscimento del Sebastiano Caboto. Pizuto e Bacigalupo gli stavano alle spalle, perplessi e dubbiosi.

La radio emise alcune scariche, poi iniziò la trasmissione:

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“Qui Sebastiano Caboto, chiamo il Comando Supremo del maresciallo Badoglio. Il Sebastiano Caboto chiama il Comando Supremo del maresciallo Badoglio.”

“Qui è il Comando Supremo del maresciallo Badoglio. Vi riceviamo, Caboto. C‟è urgente necessità di parlare con il comandante Pizuto. Deve ricevere personalmente messaggio radio in chiaro del Comando Supremo. Passo.”

“E‟ il Caboto, parla il guardiamarina Arnaldo Fasann. Il comandante Pizuto è al mio fianco.”

“Sono Romano Pizuto, comandante del Caboto, procedete con il messaggio. Passo.”

“Qui il Comando Supremo del maresciallo Badoglio. Il guardiamarina Fasann ha ordini scritti per lei, relativi alla vostra destinazione fino a g34.”

“Confermata piena delega al guardiamarina Fasann. Comandante, confidiamo si atterrà alle disposizioni. Prego confermare. Passo.”

“Qui Pizuto. Confermo esecuzione degli ordini, appena mi saranno consegnati. Passo.”

“Abbiamo un messaggio per il guardiamarina Fasann.”

“Obiettivo Cqvt, alla guida navi base PtHsprbt per g34,

affondato ore 16.12, attaccata da formazione Dornier.”

“Ricevuto.” Rispose Fasann.

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“Passo e chiudo.”

Fasann sapeva cosa fare.

“Comandante” disse, sull‟attenti, rivolto a Pizuto, “Possiamo andare nella sua cabina? Ho delle importanti comunicazioni.”

In cabina, Fasann riprese a parlare..

“Corriamo un grande pericolo, anche se il Caboto è solo un cacciatorpediniere. Il messaggio cifrato, che hanno letto, riguardava la corazzata Roma, la nave ammiraglia della squadra di base a La Spezia. Mentre faceva rotta per Malta, in cifra g34, è stata colata a picco da un gruppo di bombardieri Dornier tedeschi, oggi alle 16.12.”

Mostrandogli un foglietto continuò:

“Questa è la nostra rotta, che ho comunicato a Bova. Appena superata la punta occidentale della Sicilia, punteremo su Malta. Dovremo tenere una velocità di oltre i 30 nodi, dobbiamo essere sicuri di evitare siluri dagli U-Boat tedeschi, per quanto riguarda gli aerei … che Dio ci protegga.”

“Per farci riconoscere dagli alleati, dovremo dipingere sui fianchi della nave dei cerchi neri e issare “pennelli” dello stesso colore sugli alberi del Caboto.”

Pizuto chiamò il cont-cala e diede disposizioni perché venissero dipinti i cerchi neri sul fianco della sovrastruttura del Caboto, tenendo per sé il compito d‟issare sulla crocetta dell‟albero, il drappo nero di cui si faceva menzione nelle disposizioni di resa.

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Alle 21 Supermarina diffondeva all‟intera flotta l‟ordine di dirigere su Malta, con cerchi neri e pennello nero alzato.

Alle 21.30 Carmelo era alle prese con una latta di vernice e con quell‟ordine, che riteneva proprio bislacco, di dipingere entro le ore 24, almeno quattro cerchi, di due metri di diametro, due a tribordo e due a babordo, dove credeva fossero più visibili da lontano.

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22. 9 settembre

Pizuto era chiuso nella sua cabina, sdraiato nella cuccetta a pensare. L‟Italia si era arresa, „porca miseria’, i tedeschi non avevano atteso molto, avevano già affondato la corazzata Roma.

E ora cosa avrebbero fatto?

Gli angloamericani sarebbero riusciti a tenere a bada i loro ex alleati: i tedeschi?

E come?

Avevano liberato la Sicilia, ma adesso lo stivale diventava terra di nessuno. I tedeschi sarebbero diventati i padroni dell‟Italia, non più come alleati nei folli sogni di conquistare la Russia, l‟Africa del nord, la Grecia, e raggiungere i pozzi di petrolio a sud degli Urali, ma come nemici.

Cosa farò io, si chiese?

Mi schiero con gli alleati, seguo Badoglio, mi faccio fare prigioniero o faccio in modo che il Caboto non cada nelle mani degli alleati?

E l‟equipaggio: che devo dire loro, cosa devo consigliare?

No, per diana, non consiglio nulla io. Sono il loro comandante e devo decidere io per loro. Mi sono trovato in questa situazione un anno fa e adesso penso di mollare? Pizuto cosa dici? Devo andare avanti. Più ci penso, più credo che avremo solo danni e sciagure dai tedeschi.

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Oppure autoaffondare il Caboto quando saremo in un porto alleato, come hanno fatto i francesi a Tolone. Nessuno potrebbe più utilizzare la nave, se non a costo di ingenti lavori e tempo perso.

Vorrei cercare di evitare agli italiani che non sono stati ancora liberati le sofferenze che i tedeschi hanno fatto patire alla popolazione civile in Francia, Belgio, Olanda, Norvegia e negli altri paesi occupati.

Nel turbinio di pensieri gli venne in mente Umberto e gli accenni su come si fosse schierato il Vaticano, i contatti con l‟ammiraglio Fasann, le mezze frasi e i suoi strani ordini personali, arrivati direttamente dal Comando Supremo di Badoglio.

Si pentì di aver pensato di arrendersi, di darsi prigioniero. Si pentì dell‟insicurezza che aveva provato, ma come faceva a essere completamente sicuro? Eppure lui aveva pensato…

Il suo cervello stava andando a pezzi e desiderava abbandonare il controllo di tutte le fibre del suo corpo. I pensieri sfrecciavano alla velocità della luce nella sua mente, creando implicazioni e conseguenze, dubbi e certezze, calma e ansia, nuove visioni di pace e tremende scene di guerra, forse fratricida. A recargli sollievo, subentrò un profondo sonno.

Come nelle altre caserme italiane, in Corsica l‟annuncio del maresciallo Badoglio venne ascoltato creando confusione, sconcerto e insicurezza.

Sconcerto perché i soldati lo avevano saputo un‟ora prima da Radio Londra, quella che non si doveva

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ascoltare, ma l‟unica che tutti ascoltavano. Confusione e insicurezza perché mancavano dettagli precisi su cosa ci si aspettava dalle forze italiane, mentre i Comandanti di settore stavano cercando di chiarire il messaggio, interpretandolo però, in modo non sempre uguale.

Il radiomessaggio non suonava del tutto nuovo in particolare al capitano Renato Renti, seduto alla sua scrivania nell‟Ufficio Comando della 7a divisione di cavalleria, che lo aveva preso dal cassetto e stava rileggendo, per la seconda volta, la memoria N° 44 del 2-9-43 emanata dal Capo di Stato maggiore delle forze italiane in Corsica, che diceva:

“…e se del caso foste attaccati dai tedeschi, il compito dei reparti italiani sarà quello di far fuori la brigata corazzata SS Reichs Fuher.”

Renato sapeva che tale direttiva era priva di qualsiasi collegamento con la realtà. Ne avevano già parlato al circolo ufficiali di Corte.

“Certamente, il „far fuori‟ una brigata corazzata tedesca e per giunta SS, è cosa che facciamo giornalmente, in un paio d‟ore per poi prenderci un caffè!”

Disse rivolto ad Ardizzini.

“Hai ragione Renato. Più salgono in alto, più scrivono tali boiate!”

Gli fece eco il tenente Ardizzini.

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Il sergente Murru apparve sulla porta e avvisò che il comandante della Forze italiane stava riunendo gli ufficiali di stanza a Corte nella sala del Municipio e che loro avrebbero fatto bene ad andarci subito.

I due entrarono in sala mentre il comandante stava dicendo:

“…ove mai si attentasse da parte di chicchessia a esprimere atti che possano offendere il nostro sentimento di italiani e di soldati, la reazione deve essere immediata. Non sarà tollerato alcun atto di ostilità nei riguardi delle truppe italiane; alla forza si risponda con la forza; al fuoco con il fuoco. Infine non vedo ragione per non rilasciare subito i detenuti politici e i partigiani corsi, detenuti presso…”

Renato Renti e Francesco Ardizzini restarono alcuni minuti e, quando il discorso ebbe termine, tornarono al loro ufficio commentando quanto sentito.

“Oh, mai una volta che usino un linguaggio chiaro e semplice. Sembra sempre di ascoltare una sentenza della Cassazione.”

Disse a mezza voce Renato.

“Certo che questi ordini non si discostano molto da quelli ufficiali di Badoglio.”

Gli fece eco Francesco.

“Cosa intelligente e saggia è quella di liberare i còrsi. Mi sembra che qui, in Corsica, noi italiani

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siamo più accettati dei francesi di De Gaulle. C‟è poco da fare, vogliono l‟indipendenza e finché i francesi si ostineranno a non volerli ascoltare, ci saranno attriti e violente incomprensioni.”

“Sì Francesco e poi, se i tedeschi ci rompono, vedrai che li avremo al nostro fianco.”

“Lo penso anch‟io Renato.”

La conversazione terminò e ognuno riprese a compilare i documenti che la burocrazia militare impone anche per sciocchezze di normalissima amministrazione.

All‟una di notte arrivò la notizia che un piccolo nucleo di truppe tedesche aveva attaccato il porto di Bastia. Per lasciare l‟isola occorreva controllare un porto, che serviva anche per ricevere rinforzi. Venne dato l‟ordine di riconquistare il porto di Bastia, che fu ripreso a cannonate, con il pesante tributo dei caduti italiani: soldati, marinai e camice nere.

Giancarla Colonna era nel suo studio davanti al telefono bianco e stava raccogliendo le idee e ordinando i fogli scritti che aveva davanti, gettò uno sguardo sulla cupola di San Pietro che sembrava a due passi, in quella tersa e calda serata di metà settembre.

Alzò la cornetta, schiacciando i due bottoncini alcune volte.

“Centralino?”

“Dica signora. Buonasera.”

“Vorrei il 3212 di Merano. Grazie.”

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“Resta in linea o preferisce essere richiamata?”

“Mi richiami, per favore. Grazie.”

Giancarla si mise seduta, sul piccolo divano a fianco dell‟apparecchio telefonico, ad attendere. Prese la sua agenda con l‟elenco delle sue amiche e collaboratrici della CRI, ne scorse i nomi, ma fu interrotta dal trillo del telefono.

“Pronto.”

“Buonasera, il 3212 di Merano in linea.”

“Pronto, palazzo vescovile, Padre Jurgens, con chi parlo, prego?”

“Sono la contessa Giancarla Colonna, il comandante della Croce Rossa Italiana e chiamo da Roma, vorrei per cortesia sua Eminenza il Vescovo Franz Haltman. Grazie.”

“Prego, attenda.”

Padre Jurgens bussò allo studio del vescovo ed annunciò la chiamata di Giancarla Colonna.

“Grazie, padre Jurgens, me la passi. Attendevo una chiamata della nobildonna.”

Il vescovo, dopo qualche istante, alzò la cornetta attendendo che il padre passasse la comunicazione sul suo apparecchio.

“Sono Franz Haltman, buonasera.”

“Buonasera Eminenza, la chiamo a proposito della sua richiesta di informazioni su come la CRI può aiutare lei e le sue opere di Carità. Il fratello di mio marito, Mons. Ubaldo Caracciolo del Monte mi ha informata della sua pregiata lettera del 10 agosto.”

“Sì, ricordo, contessa Colonna.”

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“Ho già dato disposizione perché la marchesina Roberta Ca‟ Fosca Gennari, il nostro ufficiale comandante per il Veneto, si metta in contatto con Lei e Le faccia avere dei pacchi della CRI per le persone di cui accenna nelle lettere: quei bisognosi che vivono in alta montagna e non hanno più niente.”

“Molto bene, grazie. Il vostro comandante della zona Veneto, può prendere direttamente contatto con padre Jurgens, che le ha risposto poco fa.”

“Molto bene, ho preso nota del nome e lo comunicherò al più resto a Roberta .”

“Ecco, per le altre Sue domande, posso dirle che, con l‟armistizio con le forze alleate, diventa tutto molto difficile e c‟è grande incertezza su quello che succederà. Cercherò di fare quanto in mio potere per le segnalazioni riguardanti il centro e il sud. Purtroppo per il territorio della Repubblica Sociale Italiana, posso solo mandarle l‟elenco dei nostri ufficiali comandanti. Conoscendo la gravità e il genere particolare delle Sue esigenze, Le segnalerò solo i nomi di cui mi sento di poter rispondere personalmente.”

“Sappia comunque che potrà fare riferimento a me per la ricerca di militari dispersi o prigionieri degli alleati e tra poco, temo, dei nostri ex alleati.”

“Comprendo il suo riserbo, contessa, le propongo di comunicarci le richieste e le informazioni utili tramite il canale che Monsignor Ubaldo le indicherà. In caso estremo può lasciare una lettera rivolta alla mia attenzione, riservata e urgente, consegnandola al

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capo dell‟ufficio postale della città del Vaticano. Saprà lui come farmela avere al più presto.”

“Eminenza, la ringrazio della comprensione che mi ha dimostrata e dell‟opportunità che mi ha segnalato. Seguirò le sue indicazioni. La saluto con deferenza. Buonasera.”

“La pace e la benedizione del Signore sia con lei, figlia mia. Buonasera.”

Completò la lettera e iniziò a rileggere la missiva ufficiale e al contempo riservata e pericolosa, se fosse passata al vaglio della censura fascista, che però non esisteva nelle poste vaticane.

Croce Rossa Italiana

Il Comandante

Colonnello Contessa Giancarla Colonna

Roma 9-9-1943

A S.E. Franz Haltman, Vescovo di Merano

Eminenza Reverendissima,

è stato per me un grande onore averLe potuto parlare poco fa.

Ero certa di avere a che fare con un uomo di grande carità, ma la sensibilità che ho sentito nelle Sue parole e nel tono con cui ha voluto parlarmi, mi confermano che è essenziale che io e tutta la CRI si sia di immediato sostegno e aiuto alle sue opere di carità cristiana.

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Ritengo importante avvisarla che tra i miei ufficiali che lavorano al nord d’Italia, desidero segnalarLe solamente i seguenti nominativi:

Torino e Piemonte

maggiore Contessa Amedea Sforza Contini

Milano e Lombardia

colonnello Giulia Petri Niccolosi

Padova e Triveneto

ten.colonnello Marchesina Roberta Ca’ Fosca Gennari

Bologna ed Emilia Romagna

maggiore N.D. Angela Garisendi Petronio

La prego di rivolgersi, in caso di necessità nelle regioni del nord, solamente a queste persone che ritengo oltre che mie sincere amiche, anche ufficiali fidati, e delle quali rispondo e risponderò sempre con il mio nome.

Sono al corrente di alcuni canali che la Santa Sede ha tenuto aperti, nonostante lo stato di belligeranza, ma desidero informarLa che ne esiste uno, tramite mio marito e un amico di famiglia, che riesce ad avere come interlocutore privilegiato il comandante supremo alleato Dwight Eisenhower.

Non si faccia scrupolo alcuno, se avesse un qualsiasi motivo per dover far giungere fino a lui un messaggio, di utilizzare questo canale che posso confermarLe essere sempre a Sua disposizione.

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Con la più profonda devozione,

Giancarla Colonna

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23. 10 -12 Settembre 1943

Carlo Boni era salito su un treno stranamente quasi vuoto che partiva da Roma per Milano. Aveva guardato con curiosità, sui binari accanto al suo, treni in partenza con destinazione Napoli, Salerno, Reggio e Ancona, Bari, Lecce, carichi all‟inverosimile di persone che volevano raggiungere il più velocemente possibile casa e forse, le zone liberate dagli alleati.

L‟incertezza di quei giorni era molta e dovette ammettere che, se non avesse avuto al nord una moglie adorabile e i suoi due carissimi figli, avrebbe scelto di fare visita a tutte le agenzie della RAS della Calabria, Puglia e Sicilia.

Il suo treno, oltre ai ritardi dovuti alla linea danneggiata dalla guerra, fu bloccato per interminabili ore in aperta campagna e spesso in minuscole stazioni dove vedeva transitare verso sud convogli carichi di soldati e mezzi della Whermacht e delle SS. Dal Brennero, i treni venivano instradati sulle direttrici ferroviarie che portavano a sud e la linea Verona-Bologna-Firenze-Roma era la più diretta per raggiungere Roma e l‟Italia del sud.

Bloccato su una diramazione o su un binario morto, Carlo vedeva passare, diretti a nord, treni con vetture e carri a pianale vuoti, destinati dai tedeschi al carico dei carri armati, degli obici e delle autoblindate. Questi trasporti ottenevano sempre la

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priorità rispetto al treno di italiani che doveva, ormai da due giorni, raggiungere Milano.

Il viaggio era monotono e la noia tremenda, fino a che salì un giovane ferito al volto, con una larga fasciatura che gli copriva la guancia sinistra. Si sedette nell‟unico posto libero, di fronte a Carlo che, di colpo, fu riportato indietro nel tempo, ai pochi mesi di naja che aveva fatto. Era il 1931 e il campo addestramento reclute era vicino a Bari. Era stato assegnato all‟infermeria e aveva dovuto assistere a un gran numero di difficili interventi: distribuire polvere per le piattole, saponi per i pidocchi, lenimenti per le emorroidi e via di questo passo.

Un giorno si era presentato un soldato con una ciste e il chirurgo aveva praticato un‟incisione per far uscire il pus.

Anche Carlo soffriva di cisti sulla schiena e di una, particolarmente antiestetica, a fianco dell‟orecchio sinistro. Ogni tanto si gonfiavano e si infettavano. Carlo di solito le schiacciava, senza pensarci troppo su.

Di colpo gli venne un‟idea.

“Dottore, ma come mai le cisti tendono a riempirsi di quella roba?”

“Caro Boni, si tratta di un‟infezione provocata da chissà cosa, magari dalla polvere entrata nel poro dilatato che crea pus che deve essere tolto, altrimenti l‟infezione potrebbe diventare ancora più grave e colpire la circolazione linfatica o gli organi vicini.”

“Anche nel caso sia sul volto?”

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“Peggio ancora. Si rischia che vengano colpiti nervi, come il trigemino o organi vitale come l‟orecchio, l‟occhio o il cavo orale.”

“Grazie dottore, imparo sempre da lei.”

Alcuni giorni dopo, neanche a farlo apposta, a fianco dell‟orecchio sinistro di Carlo si era formato un piccolo rigonfiamento. La sera si era subito messo a scorrere i testi medici dell‟infermeria.

L‟indomani aveva tolto l‟ultimo proiettile da uno dei nastri della mitragliatrice Breda in dotazione alla compagnia. Con una tenaglia, aveva fatto scivolare fuori dal bossolo il proiettile di rame e raccolta la polvere da sparo in un fazzoletto. Prendendone un poco, se l‟era poi sfregata per bene sulla cisti,

che l‟indomani era diventata orrenda e rossastra. Quando Carlo si era presentato all‟infermeria, il medico aveva provveduto a sterilizzare i ferri per inciderla.

Carlo era seduto sulla sedia dell‟ambulatorio, a torso nudo e per rispondere a una domanda del medico che gli era alle spalle, voltò di scatto a sinistra la testa, provocando la rottura della ciste e uno schizzo di liquido sieroso sul camice del dottore.

“Oh bestia là! L‟hai fatta rompere. Meglio così. Adesso fammi spremere tutto e disinfettare.”

Il medico non lo sapeva, ma Carlo aveva scoperto una cosa che poteva tornargli utile.

Si ricordava quando, un mese dopo, prima di essere imbarcato per l‟Africa con il contingente destinato in Eritrea, marcò visita.

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Erano giorni che massaggiava la cisti con la polvere da sparo che aveva conservato e, quella mattina, aveva l‟aspetto che si attendeva: violacea, gonfia sotto la pelle tesa e con la guancia che quasi gli chiudeva l‟occhio sinistro.

Il medico gli voltava la schiena e Carlo attendeva tranquillo in piedi.

“Tu cosa ti sei inventato?”

Si girò e gli si fece vicino, per osservare meglio la guancia sinistra.

Con delicatezza gli toccò l‟occhio, chiedendogli:

“Ti fa male qui?”

Carlo serrò i denti ed emise un altissimo lamento.

“Capisco. E qui?”

Carlo di colpo mosse la testa verso sinistra e fece esplodere la cisti con conseguente schizzo di pus.

Non andò in Africa e fu riformato per ben tre volte. Ogni volta che si recava alla visita del Distretto militare di Milano in via Mascheroni, si preparava per tre giorni, con la polvere da sparo.

Ricordava perfettamente la faccia esterrefatta dei medici davanti al viso gonfio, all‟occhio semichiuso e ai dolori lancinanti che asseriva di avere. Nel maggio del ‟40, mentre l‟Italia preparava l‟intervento a fianco della Germania, la cosa non gli riuscì e partì con la divisione che aveva sferrato il debole attacco alla Francia sulle Alpi marittime. Sparò e forse uccise, ma furono azioni impersonali, a distanza, compiute tra le rocce dei camminamenti d‟alta montagna.

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A metà giugno era morto papà Guido e come primogenito di madre vedova, oltretutto con moglie in sanatorio e figlio invalido totale, venne definitivamente esentato e congedato.

Pensò ai suoi commilitoni che erano partiti per l‟Africa, li rivide chi sepolto in Eritrea, chi in Cirenaica, chi in Russia o in Albania e a chi aveva lasciato la vita in quei pochi giorni di guerra con la Francia del giugno „40.

Si soffermò a pensare a Guidino e alla moglie Carla e decise che, se aveva fatto un po‟ il furbo, aveva fatto bene, visto cosa gli aveva riservato il destino.

Intanto il treno continuava a sferragliare verso nord…

Era ormai mattina: la mattina del 10 settembre ‟43, una grigia mattina. Grigia per il tempo, che aveva scelto la gamma intermedia dei toni tra il bianco e il nero, per illuminare il mare ed il Sebastiano Caboto. Grigia perché Pizuto, davanti al microfono, si apprestava a dare un annuncio che sarebbe stato difficile da pronunciare e da ascoltare per l‟equipaggio.

“Qui il comandante. Tutti avete ascoltato il maresciallo Badoglio: l‟Italia ha chiesto l‟armistizio agli alleati. Secondo gli ordini, stiamo dirigendo verso Malta per consegnarci alla flotta inglese, che ci aspetta.”

“Ho riflettuto su ciò che ci resta da fare. Per tutta la notte mi sono sforzato di trovare una via giusta, con cui tener fede al giuramento che abbiamo fatto

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all‟Italia e a non tradirlo. Pensavo di impazzire in certi momenti, per ciò che ci troviamo a dover affrontare.”

“Ho deciso di illustrarvi le possibilità che abbiamo. Parlarvene apertamente in modo che voi, con le informazioni che abbiamo, attraverso le lettere da casa, sentendo i notiziari del regime, ascoltando radio Londra e la nostra propaganda o i rari cine giornali visti durante l‟ultima franchigia, possiate comprendere questo momento.”

“Potremmo attendere di essere alla fonda a Malta e autoaffondarci, come hanno fatto i Francesi a Tolone. Andremmo contro gli ordini di Supermarina e di Badoglio e saremmo fatti prigionieri. In un lontano campo di prigionia per quanti anni? Uno, due, tre o più. Non ve lo so dire.”

“Possiamo decidere di continuare a combattere per il Duce e togliere i dischi neri che avrete notato sui fianchi della nave. Sono i segnali voluti dagli alleati per riconoscerci e non attaccarci. In questo caso, la flotta inglese, che ci aspetta, non ha che da puntare i cannoni contro di noi, per affondarci.”

“Potremmo scamparla e servire a fianco della razza superiore ariana, sempre che i tedeschi riescano nel loro intento. Abbiamo tutti avuto sentore che governano con il terrore, la tortura e la forza, solo per seguire il sogno di Hitler di conquistare la Russia, l‟Africa, ricongiungersi ai Giapponesi, dominando i mari e i cieli.”

“Possiamo consegnarci agli angloamericani e combattere al loro fianco contro i tedeschi che hanno

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ridotto l‟Europa a un loro privato territorio. In quest‟ultimo caso corriamo il rischio di subire lo stesso destino della corazzata Roma, che alla guida delle navi di stanza a La Spezia ieri, mentre stava procedendo per Malta, è stata attaccata e affondata dai nostri ex alleati tedeschi.”

“Sapete che abbiamo partecipato ad azioni segrete che vi hanno visto confinati sui ponti inferiori. Abbiamo eseguito ordini che emanavano da molto in alto e che hanno contribuito a rendere possibile e ad anticipare l‟armistizio.”

“Purtroppo i tedeschi, affondando la Roma, hanno dichiarato come intendono trattarci. La formula dell‟annuncio di Badoglio è poco chiara e si presta a diverse interpretazioni. Temo che gli alleati non potranno evitare lo sbando del nostro esercito.”

“I tedeschi, dal canto loro, ne approfitteranno e non so se il nostro territorio resterà libero o andrà sotto il tallone nazista. Sono il vostro comandante e il mio ordine è di consegnarci e combattere al fianco degli alleati fino a che i tedeschi non saranno sconfitti.”

“Per evitare di finire come la Roma, tra poco farò battere il posto di combattimento, che varrà fino a quando non saremo alla fonda a Malta. Voglio che le vedette siano triplicate e che ciascuno di noi dia il massimo, per rilevare e sventare le minacce che possono esserci sulla nostra rotta.”

“Siamo costretti a seguire una rotta per 145°, passando a Est di Pantelleria. E‟ la rotta dei convogli inglesi per Malta, non è una rotta italiana, sicura da

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campi minati e, cosa più importante, i tedeschi sanno dove trovarci. Aprite bene gli occhi per il bene di tutti noi.”

“E‟ tutto. Riprendete i vostri compiti. Dio sia con noi.”

“Sono nella mia cabina, se c‟è qualcuno che desidera parlarmi, lo ascolterò di buon grado, qualunque cosa voglia dire.”

Pizuto si era accomodato sulla sedia di ferro, quando sentì il crescendo della sirena del posto di combattimento.

In quella mattina livida e grigia, Greco di guardia in plancia, stava facendo il giro dell‟orizzonte con il binocolo.

“Mine di prua. A circa 500 metri.”

Urlò una delle vedette.

Greco pigiò il pulsante dell‟allarme e nel portavoce urlò:

“Comandante in plancia. Mine di prua.”

Aprì, subito dopo, il portavoce della sala macchine e disse in tono concitato: “Carammani, per tutti i santi, dia macchine indietro tutta. Abbiamo mine di prua a circa mezzo chilometro.”

Pizuto fece il suo ingresso in plancia e Greco lo informò:

“Comandante guardi là, le vede?”

Gli disse, porgendogli il binocolo.

“A circa mezzo chilometro, a ore 11 e a ore 2. Ho già fatto fermare le macchine.”

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“Molto bene primo ufficiale, faccia radunare a prua i migliori tiratori e faccia distribuire i fucili di precisione.”

Un minuto dopo Arduino comparve sul ponte, sotto la plancia, stava radunando alcuni dei suoi uomini per dirigersi, correndo, verso la prua. Le macchine avevano cessato di vibrare, ma la nave, anche se con meno determinazione, continuava ad avanzare per forza d‟inerzia.

“Mine a ore 3 e a ore 5, più lontane delle prime.”

Urlò un‟altra vedetta.

“Mine a ore 9. Diverse mine. A duecento metri.”

Urlò una terza vedetta.

Pizuto, rivolto a Greco, disse con ira:

“Dannazione, siamo finiti in un campo minato.”

Poi, accendendo l‟interfono, con cui poteva parlare a tutti i compartimenti, annunciò all‟equipaggio quello che stava succedendo.

“Siamo incappati in un campo minato. Tutti gli uomini liberi sul ponte, con i binocoli. Preparare delle aste di legno con arpione. Se qualcuno sa veramente sparare bene, si faccia avanti.”

Greco e Pizuto uscirono sulla plancetta e poterono vedere che le mine erano ormai a poco più di un centinaio di metri, la nave era quasi ferma. Arduino si diresse alla mitragliera, mentre i suoi uomini, col fucile puntato, cercavano la migliore posizione per sparare.

Le mine, con i loro aguzzi detonatori sporgenti come le spine di un riccio, erano vicine, i fucili erano

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puntati, ma da questo al pensare di poterle fare esplodere, c‟era una grande differenza.

“Arduino, appena sei sicuro di poter tentare, apri il fuoco.”

Di rimando si sentì solo il primo colpo di fucile. Non ci fu una sparatoria, anzi, i colpi erano pochi e distanziati, a parecchi secondi l‟uno dall‟altro.

Le due mine di prua, le uniche che rappresentassero per ora il vero pericolo, cullate dal mare, erano sulla loro rotta. Il solo segno della loro presenza era il rumore metallico che i proiettili producevano sulla superficie sferica quando le colpivano.

Un‟alta colonna d‟acqua e un fragoroso scoppio furono accolti dalle esclamazioni di gioia dei marinai sul ponte.

Una breve raffica con le canne della mitragliera ad alzo negativo ed ecco prorompere dalla superficie un‟esplosione d‟acqua e metallo. Un‟altra mina era saltata e l‟occhiata che Arduino rivolse alla plancia, fece capire a Pizuto chi era stato l‟abile e fortunato tiratore.

Fasann si era messo in posizione e, disteso sulla torre di prua, stava prendendo la mira. Una terza assordante esplosione coprì le urla di gioia ancora tributate ad Arduino. Una quarta esplosione, probabilmente per simpatia, chiarì al comandante che il campo minato non era solo in superficie.

Alcune mine erano state volutamente sommerse a pochi metri, erano quindi meno visibili, ma più

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pericolose, in quanto potevano esplodere solo per effetto di una forte onda d‟urto.

La nave era ferma. Ora gli uomini guardavano non solo all‟orizzonte e tra le onde, ma anche nelle immediate vicinanze della nave. Bastava che solo uno dei detonatori toccasse la fiancata del Caboto e sarebbe esploso. Un abbraccio di morte, come quello della mantide religiosa che uccide il maschio dopo il rapporto sessuale, solo stringendolo.

Nel silenzio che regnava, si sentì la voce di Locascio: “Mina, di prua, a quindici metri, sommersa. Presto, un‟asta di legno. Datemi quella cima e tenetemi,” urlò agli uomini più vicino.

Fece passare la cima intorno alla vita e la annodò con un nodo particolare: la gassa d‟amante. Scavalcò la murata, brandendo il mezzo marinaio. Si sporse fino ad avere il braccio a circa due metri dal fasciame, era quasi orizzontale e camminava sui rinforzi esterni dello scafo. Andando verso prua, scorse la mina che si trovava a un metro dalla nave e puntando il lungo attrezzo, infilò la parte tra il gancio e la punta sotto uno dei percussori, spingendola lontano.

Gli scappò la presa e scivolò lungo la fiancata, finendo in acqua. I compagni recuperarono la cima e Locascio riuscì a rimettersi in quella complicata e faticosa posizione. Percorse alcuni metri e riprese il contatto con quel diavolo. L‟aveva agganciata di nuovo e la spingeva verso poppa, tenendola il più lontano possibile dalla fiancata della nave.

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Percorse così quasi trenta metri, fino a quando la larghezza dello scafo non cominciò a decrescere. La mina ormai si trovava a due metri dalla nave, poi a tre. Continuò a seguirla camminando sul fianco, fin quasi all‟altezza della tramoggia delle bombe di profondità. Il mostro era a circa sei metri e, a quel punto, lo lasciò andare al suo destino.

Un'altra esplosione e una colonna d‟acqua si riversò sull‟altro fianco, segnalando che il pericolo non era finito.

“Altre due mine a ore 11 e dritte di prua.”

Comunicò una vedetta.

Greco a voce alta disse a sè stesso: “Dannata sfortuna! Siamo al centro di un campo minato. Sfortuna? Forse sono gli inglesi che non ci hanno battuto e ora ci fanno finire in mezzo alle loro maledette mine!”

Pizuto aveva sentito e stava per dire qualcosa, quando vide che, sul ponte, Locascio stava scavalcando la murata. Era stato recuperato, ansante, fradicio d‟acqua e di sudor freddo. Gli uomini che lo avevano trattenuto con la cima, lo accolsero con grandi pacche sulla schiena, felicitandosi per la riuscita del temerario tentativo, ma il cont-cala si precipitò in plancia e, appena fu davanti a Pizuto:

“Comandante, non è un campo minato! Guardi quella che ho guidato lontano, guardi come si allontana di lato, guardi quelle due: troppo vicine. Queste son mine strappate dalle catene, alla deriva. Sono libere di vagare dove le porta la corrente.”

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“Anche Fasann mi diceva la stessa cosa. E‟ impensabile che ci abbiano dato una rotta per Malta per poi farci finire in un campo minato non segnalato. Gli inglesi avrebbero solo dei superstiti cui accudire.” Gli rispose Pizuto.

“Ha ragione, comandante,” Disse Greco girandosi verso di lui, continuando: “mi scusi per lo sfogo. Ho i nervi a fior di pelle. Un Primo ufficiale non può permetterselo.”

“Greco, non si preoccupi” gli disse Pizuto, sorridendogli e riprendendo: “chi non ha i nervi a pezzi o a fior di pelle, non è un uomo. Ne abbiamo passate troppe. Si distenda un poco in cuccetta, ha bisogno una mezz‟ora di sonno. E‟ un ordine, vada pure, la rilevo io al comando.”

Pizuto aprì la comunicazione radio con tutti i locali:

“Qui il comandante, penso si tratti di mine vaganti, strappate da un campo minato. Carammani, velocità 3 nodi, giusto per governare. Le vedette concentrino l‟attenzione sulla prua e alle mine sommerse. Voglio tre uomini sul pulpito di prua, pronti a segnalare quelle che minacciano di esploderci contro.”

La velocità era il minimo per tenere la rotta e a gesti le vedette indicavano a Bova i cambiamenti necessari per evitare le mine di prua. Ne incontrarono ancora diverse.

Per dieci minuti il mare fu libero e Pizuto azzardò un aumento di velocità a 5 nodi, era un rischio, lo sapeva, ma tutti gli uomini disponibili erano di vedetta.

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“Mine a ore 2.”

Comunicò un uomo da destra.

“Mina di prua a trenta metri.”

Disse un sottocapo da sinistra.

La piccola correzione di rotta che Pizuto ordinò, consentì di evitare anche questa minaccia. Fasann si era aggiunto alle vedette in prua e, con il binocolo, perlustrava il mare davanti al Caboto.

Pizuto in plancia era contento, con Fasann all‟erta aveva due validi occhi in più, ricordava ancora l‟avvistamento degli aerei.

Un‟alta colonna d‟acqua e un fragore assordante riportarono Pizuto alla realtà: Fasann non si vedeva più, coperto dallo scroscio. Quando l‟acqua finì di ricadere sul ponte, Fasann non c‟era, i cavi tientibene della parte sinistra del pulpito di prua erano strappati.

Pizuto uscì sulla plancetta e urlò con quanto fiato aveva in gola:

“Uomo in mare, a babordo.”

Più che una realtà, non l‟aveva visto scivolare fuori bordo, era una speranza. Continuò poi:

“Cont-cala, rapporto danni.”

Gli uomini sul ponte si dettero da fare, aguzzando la vista sulla scia che si apriva a ventaglio dalla prua del Caboto.

Carmelo, che si trovava a mezza nave, gridò:

“Uomo in mare a mezza nave.”

Stava già avvolgendo la cima del salvagente più vicino. Un attimo e lo lanciò fuori bordo, dieci metri

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di volo e lo spruzzo di acqua salata entrò negli occhi di Fasann.

Fasann l‟aveva visto arrivare e riuscì ad afferrarlo. Dopo pochi minuti era sul ponte, grondante d‟acqua e di sangue. L‟esplosione della mina sommersa era avvenuta a pochi metri davanti a lui e le schegge del pulpito sbriciolato e dei cavi tientibene lo avevano colpito alle mani e al viso.

Fasann venne medicato, mentre il compito delle vedette si era fatto spasmodico. Passarono cinque, dieci minuti e di mine non ne vennero più avvistate. Pizuto fece aumentare la velocità gradualmente fino a 10 nodi, riprendendo la rotta per l‟isola di Malta.

Erano solo le otto del mattino, avevano avuto un inizio di giornata decisamente concitato.

Greco chiese a Locascio di trovare qualcuno che potesse dare un‟occhiata allo squarcio sul fianco di babordo della nave.

“Ho tenuto una mina lontano dal fasciame per quasi tutta la lunghezza del Caboto! Ci vado io, a vedere i danni.”

Tenuto da Carmelo e da altri due marinai, Locascio sfruttò la cima che aveva già usato.

Fuori bordo, poté osservare la parte superiore del locale catene dell‟ancora e il mare che sciabordava all‟interno. La via era aperta da uno squarcio, un paio di metri d‟altezza per circa uno di larghezza. Le lamiere piegate all‟interno. Anche la cala del velaio era visibile e c‟era acqua dentro.

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Greco ricevette il rapporto danni dalla squadra d‟emergenza sotto coperta e, avute le indicazioni da Locascio, comunicò a Pizuto:

“Il locale cala del velaio e quello di babordo, della catena dell‟ancora, sono allagati. I portelli sono chiusi, ermetici e non ci sono infiltrazioni all‟interno dei compartimenti attigui.

“Abbiamo imbarcato acqua, ma non più di tanto. I compartimenti dei locali inferiori sono integri e, fino alla sentina, le paratie sono state chiuse. Credo che abbiamo imbarcato circa 50 tonnellate d‟acqua, ma le pompe reggono e l‟unica conseguenza è che siamo leggermente appruati.”

Un pensiero attraversò la mente del comandante, era come se il mare avesse voluto purificare quel luogo. Il compartimento dove aveva dato il colpo di grazia alle convinzioni di Lorusso e dove era maturata la tragedia del suicidio. Ora il mare si era preso quanto ancora vi aleggiava di estremo sconforto e di morte, facendovi entrare la luce del giorno.

Dopo mezz‟ora di navigazione senza problemi, Pizuto fece aumentare la velocità a 15 nodi, non di più, pur considerando gli U-Boat. Sarebbe stato meglio vedere la scia di un siluro, potendo ancora manovrare per evitarlo, piuttosto che scorgere le paratie sfondate per la forte pressione creata dalla velocità.

Locascio aveva provveduto a far chiudere con elementi di lamiera di diverse dimensioni, sostenuti

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da pali e cunei di legno infilati a colpi di mazza, il largo squarcio al di sopra della linea di galleggiamento; la clemenza del mare consentì di lavorare tranquillamente, anche se qualche ondata, di tanto in tanto, riusciva a far schizzare un poco d‟acqua salata all‟interno dei compartimenti.

Una volta rinforzate le paratie che fronteggiavano la massa d‟acqua dei compartimenti allagati, il cont-cala aveva provato a ridurre la potenza delle pompe, scoprendo che anche a 2/3 della potenza, il livello dell‟acqua nelle sentine non cresceva. Soddisfatto, si recò da Pizuto e fece rapporto:

“Comandante, abbiamo chiuso parte degli squarci, operando a sbalzo dal ponte e riusciamo a tenere sotto controllo le infiltrazioni all‟interno. Le paratie chiuse reggono bene e di più non è possibile fare. Credo che dovremo attendere di essere all‟ancora per far intervenire i palombari e chiudere la falla sotto la linea di galleggiamento.”

“Grazie, Locascio, ha fatto un buon lavoro.”

Gli disse Pizuto, continuando:

“Penso che manchino poche ore all‟incontro con la flotta inglese. In quel momento, potremo avere supporto tecnico, se necessario.”

Greco era assorto nei pensieri. Più pensava al messaggio di Badoglio, più gli saliva la rabbia. Quello che lo preoccupava era la frase finale del proclama: il solito bizantinismo italiano. Non un chiaro messaggio, in modo che tutte le forze armate italiane facessero fronte alla possibile presa di potere dei tedeschi e nemmeno una dichiarazione con cui si

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dava ordine ai soldati, marinai e aviatori di affiancare le forze alleate.

Solo quella frase: “esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualunque altra provenienza.” Un timido accenno, che sottintendeva un velato ordine.

I nostri soldati avrebbero dovuto combattere altri nemici, ma quali potevano essere?

Non sarebbe stato più semplice proclamare apertamente la posizione del governo italiano, sul dopo armistizio?

Perché non parlare di schieramento a fianco delle forze Alleate? Perché lasciare l‟incertezza su cosa fare e come reagire? Ciò poteva solo provocare, a cascata, ancora più dubbi e, nel dubbio, meglio seguire la linea di minor rischio.

Che cosa può voler dire: il minor rischio per un ufficiale?

Non prendersi responsabilità e perciò non esserci!

Che cosa può voler dire rischiare il meno possibile, per un soldato? Non combattere, disfarsi della divisa, tornare a casa! I pensieri di Greco furono interrotti da un grido:

“Fumo 60° a tribordo.”

Una vedetta aveva lanciato l‟allarme.

Erano troppo lontani per capire di che tipo di unità si trattasse. Dopo dieci minuti, le vedette segnalavano che l‟alberatura era di navi minori: fregate o corvette, al massimo un caccia.

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Pizuto chiese a Bacigalupo di prendere contatto radio con le due navi che si trovavano su una rotta convergente e di lanciare un messaggio di identificazione sia in italiano che in inglese.

”Qui Regia Nave Sebastiano Caboto.

Avvistiamo due navi con rilevamento 80°.

Siamo in rotta per Malta, con pennelli neri.

Prego identificarsi.”

La risposta non tardo che pochi secondi e fu molto rassicurante.

“Ricevuto.

Qui i caccia Legionario e Oriani.

In rotta per Malta, con pennelli neri.”

Pizuto fu avvertito e inviò un messaggio personale al comandante dell‟Oriani con cui aveva frequentato l‟Accademia navale:

“Al Comandante caccia Oriani.

p.c. Comandante caccia Legionario

Nave danneggiata dall’esplosione di una mina.

Velocità massima 15 nodi, richiedo copertura ed eventuale assistenza.

Propongo di assumere linea di fila,

procedendo insieme alla volta di Malta.

Romano Pizuto

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Caccia S. Caboto”

La proposta venne accettata dal comandante dell‟Oriani che dispose perché anche il caccia Legionario riducesse la velocità e insieme potessero prendendo sotto scorta il Caboto. Davanti l‟Oriani seguito dal Caboto e poi il Legionario, in tal modo la situazione del Caboto risultava nettamente migliorata. Non più soli in mezzo al Mediterraneo, ma scortati e protetti da altre due unità con pennelli neri.

La maggiore sicurezza di non correre rischi fuori controllo riportò la serenità in plancia. Carammani venne avvertito della novità. Anche lui, nel ventre della nave, stava riflettendo sul messaggio dell‟armistizio.

L‟ufficiale napoletano avvertiva nella comunicazione una carenza; il timido avvertimento all‟azione poteva essere la causa di incertezze nella linea del comando e della potenziale apatia delle forze italiane nei confronti del loro impiego.

Ne stava parlando con Paternò, tra il clamore dei motori della nave:

“Temo che tutti gli ufficiali: subalterni, superiori, ma anche i generali, in assenza di direttive, saranno allo sbando e quel che è peggio, lasceranno allo sbando le truppe.”

“Secondo me, molti abbandoneranno la divisa per indossare abiti civili e ritornare a casa.”

“Speriamo che la realtà non sia così tragica. Se succede, consegneremo il nostro paese nelle mani dei nazisti, senza colpo ferire.” Gli rispose Paternò.

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24. 13 – 19 settembre

Finalmente Carlo Boni lesse l‟indicazione della stazione in cui stava entrando: Santa Maria Novella – Firenze.

Aveva impiegato 8 giorni per il tragitto Roma-Firenze. I viaggiatori erano tutti esausti e prostrati da quell‟esperienza.

Carlo, per stravolto, si recò subito dall‟Agente Generale della RAS, in Via dell‟Oriuolo 14, appena oltre la Cattedrale.

Era un suo caro amico e sperava di poter riuscire a dormire qualche ora e avere da mangiare oltre a sentire cosa gli consigliava per raggiungere Milano.

L‟accoglienza, fraterna e cordiale, non si limitò a offrirgli un pranzetto nella trattoria in fondo alla strada, ma continuò con un “devi accettare di fermarti qualche giorno qui a casa mia, se no mi offendo”, ribadito più volte dalla moglie e dai due figli che lavoravano anche loro per la RAS.

Solo il 15 settembre, ringraziando dal più profondo del cuore, riuscì a rimettersi in viaggio.

Raggiunse con una corriera Barberino del Mugello. A piedi si portò sulla statale che conduceva al passo della Futa e poi a Bologna. Aveva alzato parecchie volte la mano nel tentativo di fermare qualcuno dei mezzi che arrivavano alle sue spalle, ma ormai non si voltava più.

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Un forte colpo di clacson lo fece sobbalzare e si girò per mandare a quel paese il conducente. Riuscì a percepire il colore mimetico nella vettura che si era fermata alle sue spalle.

“Buongiorno” Gli disse un militare tedesco, sorridendo.

“Dove andare lei?”

“A Bologna, ma non pensavo di fermare un mezzo militare. Grazie lo stesso.”

“No, non preoccupare. Io andare Bologna.” Disse un tedesco, sporgendosi dal finestrino posteriore; scese poi dalla macchina e si presentò, stringendogli energicamente la mano.

“Sono capitano Hans Targau della Whermacht. Io fare spesso vacanze Italia, prima di guerra. Portare lei, per me bene e volentieri.”

Diede ordine al soldato alla guida, di caricare la valigia di Carlo nel bagaglio e lo fece accomodare sui sedili posteriori.

Quei 60 chilometri passarono in fretta, tra le frasi del tedesco in un italiano stentato, ma comprensibile e i tentativi di Carlo per non far trapelare come la pensava sui nazisti e su quel piccolo pagliaccio di Hitler.

Lo accompagnarono fin davanti alla porta dell‟Agenzia Generale Boni di Bologna, sulla piazza della stazione. Fino alla fine del secolo, l‟Agenzia RAS di Bologna era stata gestita dal nonno di Carlo e siccome il nome era diventato sinonimo di correttezza e di copertura assicurativa di fiducia, il

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era rimasto sia sull‟insegna sia come denominazione ufficiale.

In effetti, grazie a questo, Carlo era riuscito a passare dalle varie attività in ambiente alberghiero, a stagione e mai con una sicurezza duratura, a un lavoro ben pagato e con un contratto, invidiato anche dai bancari.

L‟attività che Carlo svolgeva per l‟Italia era sì faticosa e legata a treni e corriere, ma era il responsabile della Direzione per l‟organizzazione e l‟incremento dell‟attività. Questo aveva facilitato moltissimo i rapporti interpersonali con gli Agenti e quasi sempre veniva trattato più come un amico e confidente, uno di famiglia che come un rappresentante della Compagnia.

La notte fu ospitato a casa del responsabile dell‟agenzia e solo nel tardo pomeriggio riuscì a strappare la promessa che l‟indomani avrebbe potuto muoversi verso nord, ma “solo se ti posso dare un passaggio con la moto, almeno fino a Reggio Emilia”. Non riuscì a dire di no.

In fondo fermarsi a Reggio Emilia, per Carlo era tornare a casa, vi era nato il 25 febbraio del 1911 e, anche se ormai i genitori erano a Roma, aveva ancora delle conoscenze e un cugino con cui era sempre andato d‟accordo. L‟ultima lettera che aveva ricevuto da Luigi era di un anno prima e veniva dalla Russia, dove era stato mandato, al comando della divisione Tridentina.

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Finalmente il 18 settembre entrò a Cavriago e raggiunse la casa dove, un tempo, aveva giocato con l‟alpino, che per lui era Gigi, mentre lui veniva chiamato scherzosamente Carleu, alla francese.

Si prendevano in giro come si usa tra parmensi e reggiani: “Arsan de la testa quadra” e cioè reggiano dalla testa quadra. I reggiani, invece, dicevano dei parmensi dicevano avevano la testa rotonda solo perché i pidocchi avevano mangiato tutti gli spigoli ma non riuscivano a pareggiare bene il lavoro per consentir loro di portare il cappello in modo corretto.

Crescendo, aveva cominciato a confidarsi con il cugino, quasi zio, che era già diventato maggiore degli Alpini. L‟ultima volta che l‟aveva visto, nel 1940, era generale di brigata Luigi Reverberi.

Le ultime sue notizie erano in quella lettera dove gli raccontava degli scarponi in finta pelle, vero cartone, e le pezze da piedi che i soldati italiani avevano. Al contrario dei russi che sfoggiavano degli stivali di due numeri in più grandi che in modo astuto, potevano riempire di paglia, contrastando il congelamento che il Generale Inverno dispensava a piene mani.

Gli raccontava delle carenze della nostra spedizione e degli atti di coraggio e di bontà che gli italiani dedicavano alla popolazione delle isbe in cui a volte potevano riscaldarsi. Gli aveva parlato allegramente di come lo chiamavano i suoi Alpini: “el general gasousa” il generale gazzosa oppure, quando era proprio inverso, “el general nervous” il generale nervoso.

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Aveva anche descritto alcuni dei suoi ufficiali e dei compagni d‟arme, amici e confidenti, come uno dei Cappellani della Tridentina, Don Gnocchi.

La casa era silenziosa e Carlo scampanellò diverse volte prima che si aprisse la porta.

Era la vecchia fantesca Giovanna, che non lo riconobbe.

“Gianna, sono io.”

“Io chi … non ti riconosco mica.”

“Gianna, sono Carleu, Carlo Boni, il cugino di Gigi.”

“O Signore! Sei tu?”

“Sì sto tornando a Milano e ho pensato di fermarmi a salutare Luigi e te.”

“Il generale non è qui. Ma vieni dentro, presto.”

“Perché? Cosa succede.”

“Brutte cose, brutte cose, caro il mio Carletto.”

Gli fece strada nel piccolo giardino davanti alla grande villa e alla casetta dove lei, ormai vedova, viveva.

“Gianna cosa è successo?”

“Mi ha telefonato il suo attendente due giorni fa. I tedeschi l‟hanno arrestato a Bressanone, nella notte tra l‟8 e il 9 settembre. Tutta colpa di quell‟armistizio che hanno fatto. L‟hanno mandato al campo di concentramento per ufficiali di Posen, nella Germania orientale.”

“Coraggio Gianna, almeno è vivo, salvo. Raccontami, quando è tornato dalla Russia?”

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“Tass, tass. Taci, taci, non parlare di lui. E‟ un miracolo se è tornato, ma anche lui l‟ha fatto.” Gianna si stava agitando e Carlo, per tranquillizzarla un poco le disse.

“Gianna, sediamoci dentro e offrimi un bicchiere di Lambrusco.”

“Ci hai ragione, Carletto. Dai vieni dentro.”

Presa una bottiglia dalla credenza, la stappò e con il grembiule pulì e strofinò due bicchieri, li riempì di vino e si sedette. Ne prese uno con il mignolo sollevato.

“Come fanno i signori.” Disse. Scoppiò a ridere e ne bevve metà.

“L‟hanno fatta grossa, al mio Luigi. Arrestare lui, un eroe. Un generale di divisione. Al comando della Tridentina. Non dovevano fargli una cosa del genere. Mi raccontava, sai, l‟ultimo giorno di questo gennaio, non riusciva più a parlare, scriveva gli ordini su pezzi di carta. Aveva fatto uscire i suoi 30.000 Alpini dalla sacca di Nikolajevka, con le bandiere. Aspetta fammi ricordare quella del 5° del 6° Alpini e quella del 2° Artiglieria … e non riusciva più a parlare.”

“Gianna come è riuscito a salvare tutti quegli alpini? Dimmi, ti prego.”

“Lui diceva che era solo merito dei suoi Alpini, ma una volta mi ha raccontato come è andata. La divisione era ferma, bloccata, imbottigliata nella sacca, come dicono loro. I Russi erano ovunque con cannoni, carri armati, mortai, armi automatiche e gli Alpini si sono fatti avanti, si sono buttati contro le

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armi dei sovietici. Più di quaranta ufficiali vennero uccisi e l‟assalto venne respinto.”

“Luigi mi diceva che ha sentito che toccava a lui. A lui, solo a lui e a nessun altro, lui voleva dare solo la carica: è salito su un piccolo semovente, fermo lì a fianco, l‟ha messo in moto e, puntando dritto verso la prima trincea dei Russi, si è alzato urlando con tutto il fiato che aveva “Tridentina avanti!”

Gianna sembrava essere lei su quel semovente, si alzava e si sedeva, la voce bassa mentre raccontava, gridando quando diceva “avanti”.

“Mi raccontava che era merito di quegli uomini, quelli ancora validi, quelli feriti, che stavano ancora in piedi, quelli che non avevano più fiducia e si erano seduti, aspettando sorella morte, i disperati, tutti insieme che urlano “Avanti”.”

“Una furia, e Luigi davanti sul semovente. Una furia di fuoco lo ha investito, ma lui in piedi, “Avanti” e ha passato la trincea e l‟hanno passata gli Alpini, i Russi son stati sorpresi, travolti, uccisi, feriti o fatti prigionieri. Gli Alpini han preso una ventina di cannoni e li hanno girati, sparando con proiettili russi sui Russi, si sono aperti la strada.”

Giovanna, prese il bicchiere di Lambrusco e da intenditrice qual‟era, ne annusò prima il profumo e poi, sciacquatasi la bocca, prese un lento sospiro. Soddisfatto l‟olfatto ed il gusto, buttò giù tutto il bicchiere, riprendendo a raccontare.

“Una breccia era aperta, mi diceva, poi una seconda e son passati oltre 30.000 Alpini e altre migliaia di sbandati di varie nazionalità che son

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riusciti a tornare alla loro patria. Dimmi tu, Carletto se non è eroismo questo!”

“Sapevo che era un uomo vero, lo stimavo, ma non pensavo che fosse così … così grande d‟animo e così coraggioso.” Le rispose Carlo Boni, e poi non riuscirono più a dire nulla.

Gianna preparò da mangiare, si diedero la buonanotte e l‟indomani erano ancora sopraffatti dall‟aver rievocato quello che Gigi aveva fatto.

“Portati bene Carletto, mi raccomando e se puoi, qualche volta, scrivimi e raccontami di te. Sono vecchia e una lettera mi tiene compagnia, tutte le volte che la leggo.”

“Ti scriverò Gianna, stanne certa. Grazie dell‟ospitalità e di tutto quello che mi hai dato. Sei una santa donna.”

La baciò sulla fronte e riprese la strada per Milano.

In plancia, Fasann e Pizuto erano vicini. C‟era quasi tutto il gruppo degli uomini che era stato, in tempi diversi, messo al corrente delle azioni compiute da Pizuto e approfittando di questo, Fasann si rivolse al comandante:

“Comandante, possiamo andare nella sua cabina?”

Pizuto annuì, chiuse la porta e si sedette sulla sedia, facendo segno a Fasann di sistemarsi sulla cuccetta.

Chissà perché, prese la sua pipa preferita e, mentre cominciava a caricarla, Fasann continuò:

“Un giorno, all‟inizio di agosto, le dissi…”

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“Mi disse: “Lei sa che non potrei risponderle, ma verrà un giorno in cui potremo farci una lunga chiacchierata senza remore e senza silenzi, nella sua cabina, mentre lei gusterà la sua pipa preferita.” Lo ricordo benissimo.” Concluse Pizuto.

“Vedo che la pipa è quasi pronta, questa è la sua cabina ed è venuto il momento che lei attendeva.”

“Vorrei cominciare da questa.”

Arnaldo Fasann tolse dalla tasca una busta di carta marrone chiaro, dicendo:

“Sono onorato e orgoglioso di consegnargliela. Lo dico, perché so cosa c‟è scritto e quanto può significare per lei. Mi è stata consegnata ad Anzio, la mattina in cui abbiamo sbarcato i due ufficiali alleati.”

Pizuto, prendendo l‟ennesima busta gli rispose:

“Fasann, questa è l‟ultima! La prossima volta che riceverò una busta da chicchessia, gliela straccio sotto gli occhi.”

Il sorriso che si formava sulle labbra del comandante stemperò un poco la durezza del tono usato.

Guardando la busta di Supermarina, notò che aveva cinque sigilli in ceralacca, invece dei soliti tre.

Si soffermò a pensarci e poi li fece saltare, aprendola.

Dispiegò il foglio e lesse:

Comando Supremo del M.llo Badoglio Regia Marina Italiana

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4° Ufficio, 2^ Sezione Roma 5-9-1943 Protocolli : N° SPM - 7869/343 - del 22 ottobre 1942 N° SPM - 4451 /732 - del 12 agosto 1943 N° CSMB - 4467 - del 5 settembre 1943 Oggetto: Avanzamento di grado. Destinatario: Capitano di Corvetta Romano Pizuto

R.n. Sebastiano Caboto

Ci rincresce non aver potuto farVi pervenire, nei consueti tempi di trasmissione, la comunicazione che, con disposizione N° 7869-343, la Signoria Vostra è stata promossa al grado di Capitano di Fregata, con anzianità di grado a far data dal 22-10-1942, per alti meriti di guerra.

Inoltre la Signoria Vostra, con decorrenza di

anzianità di grado a far data dal 12-8-1943, ha avuto l‟avanzamento al grado di Capitano di Vascello.

Inoltre, con la disposizione N° 4467-

ComSupMarBad, la Signoria Vostra, per alti meriti di guerra, nell‟adempimento della rischiosa missione affidatagli, è stata promossa al grado di Contrammiraglio, con anzianità di grado a far data dal 5-9-1943.

D’ordine,

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il Maresciallo Pietro Badoglio

Pizuto, mente rileggeva la missiva, ricordava tutti i suoi momenti di perplessità e quelli di ferrea determinazione che gli avevano fatto continuare quell‟avventura, a volte assurda.

“Ammiraglio Pizuto”

Riprese infine Fasann, “la chiacchierata che lei desiderava fare, deve iniziare da questa comunicazione.”

“Non era possibile avere un avallo così forte come un passaggio di grado, nel momento in cui lei copriva un oscuro guardiamarina. Se Supermarina avesse riconosciuto il suo operato, con gli avanzamenti di grado, la copertura di un Fasann fascista e insubordinato avrebbe potuto saltare. L‟equipaggio avrebbe cominciato a porsi delle domande e la situazione sarebbe potuta diventare ingovernabile.”

“Lei è sempre stato sostenuto da altissimi personaggi che non potevano darle l‟appoggio esplicito che lei avrebbe desiderato, per continuare le missioni. Doveva essere lei a trovare il modo e le capacità per far funzionare la nave e dare motivazioni all‟equipaggio, ottenendo ciò che ha ottenuto in quest‟ultimo anno.”

Finalmente Pizuto parlò:

“Fasann, non mi aspettavo una simile comunicazione. Credo, a questo punto, che non sia più necessario continuare a due. Quello che dobbiamo dirci, lo dobbiamo condividere, prima con

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l‟equipaggio e poi con gli altri uomini della nave che hanno reso possibile arrivare a vedere l‟alba di oggi.”

“Navi da guerra all‟orizzonte. Corazzate.”

Urlò una vedetta.

La flotta inglese, con a capo le corazzate Valiant e Warspite, forte di un paio di dozzine di navi, incrociatori leggeri e pesanti e cacciatorpediniere, si stendeva davanti a loro.

Le segnalazioni, via telegrafo ottico, diedero ordine alle tre navi italiane di fare rotta per 90°. Ad alcune miglia di distanza, avrebbero trovato altre imbarcazioni italiane.

Nel giro di mezz‟ora, i caccia: Oriani, Caboto e Legionario, mantenendo la formazione, si disponevano in linea di fila a fianco delle altre navi italiane, iniziando il lento trasferimento verso Malta, scortate, a sinistra e a destra, dalla flotta inglese.

“Greco, legga e, all‟interfono, ne informi l‟equipaggio.”

Disse Pizuto, passando al primo ufficiale la comunicazione di Supermarina.

Greco estrasse il dispaccio dalla busta e lo lesse: i suoi occhi si illuminavano man a mano che proseguiva. Terminata la lettura:

“Attenti tutti, ammiraglio in plancia.” Urlò quasi.

Poi prese l‟interfono e, con voce piena d‟orgoglio, lesse il messaggio all‟equipaggio. In plancia nessuno era più al suo posto, tutti erano intorno al loro ammiraglio.

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Pizuto, schivo come sempre, non sapeva più cosa dire, cosa fare, finché, sorridendo:

“Al tempo, Signori. E‟ importante che dica qualcosa.”

“Parla il comandante. Io sono e resto il comandante del Sebastiano Caboto. Per voi sono sempre il vostro comandante. Avete sentito le disposizioni di Supermarina e del maresciallo Badoglio. E‟ mia intenzione, appena possibile, richiedere una menzione speciale per l‟equipaggio e un riconoscimento per gli ufficiali e sottufficiali di questa nave.”

“Solo grazie al vostro senso dell‟obbedienza e del dovere è stato possibile arrivare a vedere questo 10 settembre. Vorrei che poteste festeggiare questo momento; per la guardia franca verrà distribuita una razione extra di brandy. Grazie a tutti e buon lavoro.”

Ormai non c‟era più nulla di particolare da fare, se non seguire le istruzioni della nave inglese assegnata come riferimento. Pizuto lasciò il guardiamarina Caruso al comando in plancia, insieme ai sottocapi e al timoniere.

Radunò tutti suoi uomini, che lo avevano aiutato e sostenuto durante i mesi di navigazione sul Caboto e li condusse davanti alla torre da 120 di prua. Una zona tranquilla, in cui poter parlare con Fasann.

“Signori”, esordì Pizuto, “è giunto il momento in cui posso dirvi tutto. In passato non mi è stato possibile.”

“Il dispaccio che abbiamo letto all‟equipaggio può fornirvi pochi elementi su quanto mi venne richiesto

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e sui retroscena di misteri e avvenimenti non facili da interpretare.”

“Che ci fossero a bordo due informatori della fazione fascista della Regia Marina è noto a tutti; come siano finiti è per me motivo di rammarico; erano sempre uomini del mio equipaggio e, come tali, affidati a me.”

“Sono stati mesi di guerra strana. Voi che dovevate eseguire ordini non in linea con la prassi di combattimento navale. Io che, d‟altra parte, avevo delle indicazioni frammentarie, su quanto dovevo fare e su quanto sarebbe successo. Si trattava di ordini vaghi. Avevo solo un riferimento a bordo, fin quando restò con noi: il guardiamarina Fasann.”

“Perché lui? Perché con il padre, l‟ammiraglio Fasann che ho incontrato, aveva i contatti e la possibilità di effettuare le missioni che abbiamo contribuito a portare a buon fine.”

Greco intervenne: “Certo è, che se voleva farsi odiare dall‟equipaggio e inimicarsi i colleghi ufficiali, c‟è riuscito perfettamente.”

“Lo so e me ne dispiace molto. Mai mi sono trovato a stimare un gruppo di uomini come l‟equipaggio del Caboto, a parte due eccezioni. Era motivo di tristezza, per me, il dover tenere un certo atteggiamento a garanzia della copertura e della mia indipendenza.” Disse Fasann, continuando:

“C‟è un‟ultima cosa che vorrei svelarvi. Forse qualcuno si è chiesto che cosa significasse il segnale S S S M?”

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Il mormorio degli uomini che gli erano a fianco si fece intenso.

“Certo, me lo sono chiesto tante volte!”

Gli disse Arduino, prendendolo per un braccio e scuotendolo.

“Devi dircelo, almeno adesso.” Continuò Carammani.

Fasann sorrideva: “Certo. E‟ semplicissimo: è una sigla in inglese e significa solamente: Special Secret Service Man cioè, uomo dei servizi segreti speciali inglesi.”

“Era un segnale usato dalla Special Force e dal servizio segreto, per identificare un agente in missione. Il segnale poteva essere luminoso, sonoro o radio.”

“Ho utilizzato l‟imperfetto perché, dopo l‟8 settembre, la sigla identificativa è cambiata. A proposito ammiraglio, ho provveduto personalmente a disattivare e smontare dall‟albero poppiero il proiettore.”

“L‟ultima iniziale la M, per me però, ha sempre significato l‟iniziale del mio nome di battaglia: Manfredo. E‟ con questo nome che mi sono presentato e che ho risposto ai messaggi che mi pervenivano.”

“C‟è ancora un‟ultima cosa che devo e voglio fare davanti a voi. Ricordate questo?”

Da un supporto del ponte prese un oggetto avvolto in uno straccio, unto di grasso e ne mostrò il contenuto ai tutti.

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“Ricordate i suoni che mandava? Eccolo, un semplice congegno con due alberi a cammes, che muovono due martelletti di diverso peso. Urtando una lamiera, i suoni che creano sono simili al punto e alla linea dell‟alfabeto morse. Ecco il nostro segnale che ci ha evitato quasi sempre bombe e siluri da parte dei mezzi alleati.”

“Ora non serve più.” Prendendo lo slancio, distese di scatto il braccio e lanciò in mare il meccanismo. Il tonfo nell‟acqua, a una decina di metri dal Caboto, determinò la fine di quel macchinario che tanta curiosità aveva sollevato.

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25. 20 settembre 1943

Era il 20 settembre quando stanco, sporco e affamato Carlo scese sul marciapiede della stazione di porta Vittoria, a venti minuti di cammino da casa.

Era stufo di portare la valigia, stufo di treni, corriere, trattorie, sete, fumo e soste per i continui intoppi. Adesso che era a Milano, i piedi volavano, tutto era leggero, gli sembrava quasi di essere su una nuvola che lo portava verso Porta Romana.

Ancora uno sforzo e imboccò via Curtatone, lasciandosi alle spalle la caserma. Arrivò al numero 21, passò dalla signora Angela, la portiera che gli aveva tenuto da parte, negli ultimi due mesi, la posta.

Salito al terzo piano, lasciò le due valigie in ingresso e, dopo aver spalancato le persiane e le finestre, si sedette al tavolo a controllare la posta.

Mise da parte ciò che non considerava importante e tenne solo alcune lettere: una del Sanatorio di Cuasso al Monte, due della RAS, della Direzione del Personale e della Direzione Generale e un biglietto di Riccardo.

Lo lesse subito perché era breve. Portava la data del giorno prima e diceva solo:

“Domani andrò a Cuasso al Monte, dimetteranno Bice verso il 30 del mese. Mi hanno consegnato ieri la macchina.

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Adesso possiamo muoverci quando vogliamo!

Ciao Riccardo.”

Strappò la busta del Sanatorio e lesse avidamente le righe alla ricerca delle parole che voleva leggere, che dovevano esserci. E c‟erano: … dimessa alle ore 10 del 30 settembre 1943. La gioia che provò fu immensa, confessò che il cuore gli aveva mancato almeno due battiti. L‟emozione era talmente forte che scoppiò a piangere ripetendo il nome della sua Carla.

Nella mente mille pensieri si accavallavano e mille idee gli si presentavano di colpo, per sparire un attimo dopo.

Il giorno. Che giorno era? Non lo sapeva, non lo ricordava, il biglietto del treno! Lì era impressa la data di partenza da Parma da dove era partito il giorno prima. Era quindi il 20 settembre! Che sollievo! Carla non avrebbe aspettato nemmeno un giorno di più ed il 30 mattina, cascasse il mondo, lui sarebbe stato là a prenderla e avrebbero fatto festa.

Scese a fare quel poco di spesa che la tessera gli consentiva e quando tornò con i sacchetti, si ricordò delle altre due lettere che voleva leggere.

Decise di aprire per prima quella con il timbro del 10 settembre 1943, quella della Direzione Generale.

Scorse lo scritto ampolloso fino alla fine. Dovette riprendere da capo e cercando di seguire il contenuto, anche se il suo cuore era a Cuasso al Monte, da lei.

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Era una nomina: si congratulavano per la sua apprezzata attività organizzativa e lo passavano da impiegato a funzionario di 1° livello, assegnandogli il compito di seguire le agenzie a sud del fiume Po, fino a Roma.

Accidenti, si disse, non avrò più la possibilità di fermarmi a Milano, andando verso Torino e nel Veneto. Andavano a farsi benedire le sue pur veloci puntate ad Abbiategrasso e Pizzighettone per vedere i figli Guidino e Umbertino. Che fesso, si disse, non ne ho più bisogno. Carla sarà qui a Milano.

Aprì la seconda lettera della Direzione del Personale e iniziò a leggerla di malavoglia, la stanchezza lo stava vincendo.

Alla quarta volta che riprendeva la lettura, capì che si trattava della conferma dell‟assegnazione della villetta a Rimini, sul lungomare Vittorio Emanuele II, al civico 36. Lo informavano che tutte le abitazioni tra il civico 23 e il 49 erano state affittate, fine al termine del conflitto, ai familiari della Compagnia.

La consegna delle chiavi sarebbe avvenuta a partire dal 25 settembre, in loco. Carlo Boni, data la sua attività di coordinamento di tutte le agenzie a sud del fiume Po‟, era autorizzato a non rientrare a Milano. Avrebbe avuto a disposizione un piccolo ufficio, nel complesso affittato a Rimini, presso il civico 49, dove aveva sede anche l‟ufficio per la gestione delle affittanze e per aiutare i familiari dei dipendenti della Compagnia di Assicurazione.

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Il giorno dopo, all‟ora di pranzo, Carlo Boni era alla cabina del posto telefonico pubblico di Corso di Porta Romana al 56.

Aveva chiesto la comunicazione con Varese: il numero di telefono 33213, il sanatorio di Cuasso al Monte.

“Parli prego, il 33213 è in linea.”

“Pronto, sono Carlo Boni, può chiamarmi al telefono Carla Radaelli Boni. Grazie.”

“Buongiorno, attenda in linea.”

Carla, correndo, aveva lasciato la sala da pranzo, raggiungendo la cabina telefonica nel salone d‟ingresso dell‟istituto.

“Pronto sono Carla Boni.”

“Ciao amore, ho una notizia da darti, il dottor Savoldi mi ha ufficialmente scritto che il 30 di questo mese, alle 10 del mattino, ti dimettono e io sarò ad attenderti. Cosa ne dici?”

“Sono contenta, non so, sono senza parole, perché non l‟ha detto anche a me?”

“Ho chiesto io di aspettare, volevo essere io a sentire la tua voce, mentre te lo dicevo. Perdonami.”

- Pronto. Sono tre minuti, raddoppia? -

“Si signorina, altri tre minuti, grazie.”

“Allora, il 30 alle 10 del mattino Riccardo e io saremo lì a prendere te e Bice. Dimettono anche lei.”

“Come farai, con il lavoro?”

“Ti spiegherò tutto meglio quando ci vedremo. Alla RAS vogliono che mi limiti a raggiungere al massimo

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Roma e mi occuperò da Rimini delle agenzie a sud del Po.”

“Sai, c‟è molta incertezza in giro. Gli alleati sono sbarcati a Salerno e alla RAS ritengono ormai impossibile raggiungere le regioni più a sud: Sicilia, Puglia, Basilicata, Calabria e parte della Campania.”

“Ah! A proposito: ci hanno assegnato il villino, per tutti e quattro.”

“Devo prepararmi per andare a prendere Guido e Umberto e portarvi a Rimini. Da ottobre seguirò il lavoro da lì.”

“Bice, lo sa che venite a prenderla?”

“No, credo che Riccardo venga su da voi domani, a dirglielo di persona. Gli hanno appena consegnato la Fiat Balilla che attendeva da tempo. Non dirle niente tu, per ora.”

“Va bene.”

“Adesso ti lascio. Ti voglio tanto bene, ricordatelo.”

- Pronto, sono sei minuti, continua? -

“No grazie, ciao Carla.”

“Ciao Carlo, a presto.”

Carlo chiuse la comunicazione e si recò alla cassa a pagare i primi tre minuti e il raddoppio di altri tre. Poi si diresse verso via Manzoni; doveva relazionare sulle condizioni delle agenzie visitate nel suo ultimo viaggio al sud e, nei ritagli di tempo, doveva iniziare a organizzare il viaggio a Cuasso al Monte e a Rimini, dopo aver avvisato gli Istituti, dove erano i suoi

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ragazzi, che avrebbero continuato a vivere con la famiglia.

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26. 21 Settembre 1943

Il mattino del 19 settembre, il capitano Renato Renti stava chiacchierando con il tenente Ardizzini degli avvenimenti dell‟ultima settimana. La notizia era arrivata anche al loro Comando divisionale a Corte, in Corsica: gli ex alleati tedeschi erano diventati nemici e gli angloamericani, amici.

L‟inizio dell‟offensiva italiana in Corsica, aveva dovuto tenere conto del necessario concentramento dei reparti di fanteria, al solito penalizzati dalla mancanza di automezzi e dispersi in piccoli presidi. Purtroppo l‟armamento pesante, che sulla carta c‟era, non era stato rintracciato da nessuna parte.

Renti e Ardizzini si erano dati il cambio alla radio, cercando in tutti i depositi i carri armati e i cannoni che, lungi dall‟essere un pericolo per i carri tigre della brigata SS Rehchs Fuhrer, avrebbero quantomeno dato un supporto contro la fanteria tedesca.

“Deposito militare di Calvi. Caporale Biraghi Carlo.”

“Comando della 7a divisione. Parla il capitano Renti.”

“Comandi.”

“Ci servono i dodici carri M15, devi istradarli verso Bastia.”

“Sì capitano, no … una volta c‟erano. Da un mese sono stati ritirati e portati in continente.”

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“Cos‟altro avete di pesante?”

“Nulla. Il deposito è vuoto, abbiamo 24 fusti di benzina, ma non abbiamo mezzi per trasportarla. Le servono, capitano?”

“Sì, appena riesco a trovare un autocarro, li faccio prelevare. Grazie caporale. A risentirci.”

“Ardizzini continua tu e chiama Porto Vecchio. Io vado a cercare un mezzo per i 24 fusti che ho trovato a Calvi.” Renato Renti uscì dall‟ufficio correndo.

“Deposito militare di Calvi. Sergente Natale Domenico.”

“Qui Comando della 7a divisione di Corte. Parla il tenente Ardizzini.”

“Comandi.”

“Ci serve subito a Bastia il reparto dei semoventi da 75: i 18 cingolati.” Chiedeva il tenente Ardizzini

“No, tenente. Non ci sono. Sarebbero dovuti arrivare, ma non sono mai arrivati.”

“Cos‟avete da mandare subito in prima linea?”

“Abbiamo sei M11. Guardi, tenente, che su strada fanno solo 30 chilometri l‟ora. Sono oltre 150 chilometri, possono arrivare a Bastia in circa 6-7 ore. Li vuole?”

“Sì, li mandi subito e faccia schiacciare a tavoletta l‟acceleratore, che arrivino il più presto possibile. Grazie.”

“Sarà fatto, tenente.”

Intanto, la divisione Friuli, che puntava su Bastia, era stata accolta da un potente fuoco di sbarramento. Ne era nata una violenta battaglia, nel corso della

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quale, soverchiata dai carri Tigre che ormai tenevano la città, aveva dovuto abbandonare le posizioni e ritirarsi.

Ciò rendeva impossibile proseguire l‟offensiva iniziata all‟alba, anche se in serata arrivò la comunicazione che i bersaglieri si erano schierati a colle di Sorba-Vezzani, vicino a Corte. Qualcosa, con fatica, si stava muovendo e il sergente Manfred Stauffen, tedesco di nascita, ma con quindici anni di Legione Straniera alle spalle, aveva raggiunto il comando divisionale.

“Sergente Manfred Stauffen, mon Capitain.”Aveva detto, rivolgendosi all‟ufficiale più alto in grado presente: il capitano Renato Renti.

“Mi dica.”

Da quelle due parole, da come le aveva pronunciate, traspariva tutta la repulsione che Renato aveva per i tedeschi.

“Io e … mes …cinquanta uomini siamo schierati sul fianco gauche … sinistro dei bersaglieri e teniamo saldamente la strada che conduce a Corte.”

“Va bene. Torni da loro.”

Gli rispose freddamente Renato rimettendosi al lavoro.

Alcune ore dopo, il capitano Renti era nel rifugio improvvisato con sacchi di sabbia accatastati davanti al comando divisionale di Corte. L‟allarme aereo era appena suonato e ci si aspettava di vedere comparire gli aerei tedeschi.

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Alta nel cielo, una squadriglia di 12 Stuka, i bombardieri in picchiata Junkers 87, tanto temuti per la loro precisione, stavano scivolando d‟ala per prepararsi all‟attacco.

La prima metà della squadriglia, iniziata la picchiata di 60°, accese le sirene: il sibilo, che si avvicinava, destava più terrore delle due bombe da 250 chili, che ciascun aereo trasportava.

Quel fischio bestiale crebbe, i timpani rischiavano di venir lacerati, il terrore s‟impadroniva dei movimenti, si desiderava scappare, si voleva far smettere quella tortura, ma fino a che l‟aereo non sganciava e riprendeva a salire, provocando quasi lo svenimento del pilota, il rumore era destinato a crescere.

Una volta sganciate le bombe, il fischio cessava, sostituito da quello più basso, ma mortale, degli ordigni che scendevano.

Dietro il primo, venne il secondo aereo, fino al sesto. Metà squadriglia aveva sganciato, Renato Renti approfittò della relativa quiete e azzardò uno sguardo sulla strada.

Ardizzini era steso a terra, a cinque metri dal rifugio, non ce l‟aveva fatta a raggiungerlo in tempo.

Renato si precipitò a fianco dell‟amico, lo prese sotto le spalle e cominciò a trascinarlo verso il rifugio. Manfred Stauffen lo vide, stava per raggiungerlo quando un enorme bagliore avvolse i due ufficiali italiani, un boato tremendo e lo spostamento d‟aria li fecero rotolare di alcuni metri, lasciandoli entrambi immobili, sanguinanti.

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Non era finita: in rapida successione gli altri 5 Stuka sganciarono le loro sibilanti bombe, fortunatamente a qualche decina di metri dal rifugio e sulla strada per Bastia.

Stauffen, appena la tremenda cacofonia delle sirene, del rimbombo delle esplosioni e dei gemiti dei feriti si spense, raggiunse i due italiani coperti di polvere, in mezzo alla strada.

“Vite … presto … schnell, un medecin … medico!”

Urlò.

“Capitain … no affanno, è solo un graffio.”

Disse rivolto a Renti, poi cercò con il pollice le pulsazioni sul polso di Ardizzini e sorrise. Squarciò la camicia del capitano e mise a nudo la brutta ferita che sanguinava, lo girò e lo appoggiò sul fianco.

Arrivarono due infermieri con una barella, mentre Stauffen faceva segno di caricare Renti riuscì ancora a dire:

“Prima… Ardizzini.”

Renato svenne e fortunatamente non vide le bollicine d‟aria nel sangue che gli sgorgava dalla ferita alla schiena.

Agli infermieri che ritornarono a prendere il secondo ferito Stauffen disse solo:

“Le paumon … polmone …vite … presto …schnell!”

Renato Renti fu trasportato all‟ospedale da campo di Corte. Solo dopo una settimana i medici poterono sciogliere la prognosi che, fino a quel momento, era stata infausta.

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Riuscì ad alimentarsi e a restare sveglio per sempre più tempo, non più dilaniato dai dolori o dall‟oblio degli analgesici che gli somministravano.

Un giorno Ardizzini venne a trovarlo.

“Mi hanno detto che si è gettato su di me, per proteggermi dalle esplosioni.” Gli disse.

“No, no. Sono solo uscito dal rifugio per trascinarla al coperto. Non esageriamo.”

“No, capitano: non esageriamo. Lei è uscito dal rifugio sotto le bombe ed è venuto solo a salvarmi. Non esageriamo, dice lei!”

“Lo dico io. Le dico anche che, poi, tutti e due siamo stati salvati da Manfred Stauffen.”

“Ah! Un tedesco.”

“Un tedesco che l‟ha salvata, però.”

“Mi racconti cosa è successo dopo, mentre ero qui a poltrire nel letto.”

Ardizzini cominciò a raccontare. “Sapeva che le nostre truppe in Corsica ammontano a circa 80.000 uomini?”

“No, non pensavo che fossimo così tanti. Comunque sono 80.000 meno 2. Noi.”

“Abbiamo già dato, capitano. Le nostre forze di occupazione hanno avuto un ruolo decisivo nello sconfiggere e cacciare le truppe corazzate tedesche dall'isola: quelle che dovevamo “far fuori”. Stiamo combattendo a fianco di circa 10.000 partigiani della Resistenza còrsa e dei 6.000 soldati coloniali francesi: i Goumiers marocchini.”

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“Purtroppo, fino a ora si parla di oltre 500 italiani caduti, ma credo che tra pochissimi giorni riusciremo a travolge i tedeschi e a farli reimbarcare per il continente. Riprenderemo una Bastia distrutta dai bombardamenti e penso che avremo l‟onore di sfilare in città coi Goumiers del 1° reggimento marocchino e del 4° reggimento meccanizzato francese, oltre a Manfred Stauffen e ai suoi Legionari …”

“Ancora quel tedesco?”

“Renti, il sergente Stauffen è stato quindici anni nella legione straniera, ha combattuto per De Gaulle con gli alleati, contro i tedeschi in Africa. L‟ha salvata dalla morte, cosa vuole di più da un uomo?”

“Forse hai ragione, Ardizzini. Forse lo cercherò per ringraziarlo.”

“Così va meglio, capitano. E dia retta a me: la battaglia della Corsica, la vinceremo!”

Il cacciatorpediniere Sebastiano Caboto, insieme alle navi da guerra provenienti da Taranto, La Spezia, Genova, Castellamare e dai porti dell‟Adriatico, era arrivato al largo del porto de La Valletta, a Malta. Davanti alla flotta italiana c‟erano le navi alleate, fatte convergere su Malta per accoglierle e scortarle ad Alessandria.

Erano le navi che avevano contrastato all‟Italia il predominio nel Mediterraneo: le navi da battaglia inglesi Warspite, Valiant, King George V; i cacciatorpedinieri inglesi Faulknor, Fury, Echo,

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Intrepid, Raider e quello greco Vasilissa, oltre alla fregata francese Le Terrible.

Arnaldo Fasann raggiunse Pizuto in plancia e gli passò due veline di messaggi appena captati. Il primo era in inglese, ma a matita il guardiamarina aveva scritto in fretta la traduzione:

Al Primo Lord del Mare

e per conoscenza all’Ammiragliato, Londra

Ho il piacere di informare le Loro Signorie che la flotta italiana si trova - inerme - sotto i cannoni della fortezza di Malta.

Con deferenza,

Ammiraglio Cunningham

dalla nave di Sua Maestà King Gorge V

Romano lesse il messaggio e si rivolse a Fasann:

“Non lo faccia vedere a nessuno. E‟ già dura così la resa, senza dover leggere o sentire queste parole.”

Prese il secondo messaggio che proveniva dal Capo del Governo, maresciallo Pietro Badoglio e ordinava al contrammiraglio Pizuto di condurre con sé l‟appena promosso tenente di vascello Arnaldo Fasann.

Mentre Pizuto leggeva, con segnali ottici era stato trasmesso l‟ordine alle navi italiane di tenersi pronte a far scendere, sui motoscafi della Royal Navy, gli ufficiali comandanti, per condurli a terra.

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Il contrammiraglio Pizuto si rivolse al primo ufficiale, tenente di vascello Greco.

“Tenente, sono in procinto di lasciare il Caboto e mi preme che la linea di comando non venga interrotta e che l‟equipaggio sia debitamente informato.”

Rivolgendosi poi a Locascio, disse: “Apra il collegamento con i locali della nave. Grazie.”

“Equipaggio del Sebastiano Caboto, qui il contrammiraglio Pizuto. Voglio che tutti sentano gli ultimi ordini che darò come vostro comandante.”

“E‟ giunto l‟ordine alleato che i comandanti delle unità italiane lascino le navi per essere condotti a terra. Alla luce di questa richiesta, nomino il tenente di vascello Greco, comandante del Caboto. Presterete a lui la stessa obbedienza e rispetto che avete rivolto a me. Sappiate che per me è stato un grande onore combattere al vostro fianco e avere un equipaggio su cui ho sempre potuto contare.”

“Appena al cospetto delle autorità alleate, segnalerò le riparazioni che devono essere effettuate sul Caboto, in modo che possiate avere sotto i piedi una nave, per quanto possibile, integra.”

“Vorrei ora parlarvi del guardiamarina Fasann. Da quando ha fatto parte del nostro equipaggio, il suo comportamento è stato oggetto di chiacchiere e di commenti poco lusinghieri. Se siamo giunti, dopo la caduta del fascismo, all‟armistizio con gli alleati, lo dobbiamo anche a lui, che ha agito conformemente agli ordini che dall‟alto gli erano stati dati. Io ne ero

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a conoscenza, ma si trattava di un segreto militare che non potevo svelare.”

“Non c‟è stato inganno nei vostri confronti, solo il silenzio che era la più elementare precauzione per salvaguardare la missione di Fasann e del Caboto, quando era a bordo. A riprova di quanto detto, alcuni minuti fa è giunto un messaggio del maresciallo Badoglio che lo nomina tenente di vascello e gli ordina di seguirmi in ogni mio spostamento.”

“Auguro a ciascuno di voi buona fortuna. Che possiate rientrare presto alle vostre case: viva il Re, viva l‟Italia.”

Pizuto chiese al cont-cala di togliere il collegamento sonoro, ma non fu abbastanza, perché distintamente sentì gridare dai suoi uomini: “viva Pizuto”, “viva l’ammiraglio” e “Ro-ma-no! Roma-no!”. Le voci venivano dal ponte di coperta, accompagnate da un fragoroso applauso ed egli, appena si sporse dalla plancetta di dritta, non poté fare a meno di ringraziare gli uomini che, con lui, avevano rischiato la morte.

All‟arrivo del motoscafo inglese, fu abbassata una scaletta di corda e Pizuto, seguito dal tenente di vascello Fasann, lasciò la nave. Ben presto la scia del motoscafo scomparve verso il porto e il Sebastiano Caboto, con il nuovo comandante, rimase alla fonda. Insieme alle altre navi sarebbe stato condotto ad Alessandria, lasciandosi alle spalle l‟isola di Malta che, per anni, era stata la spina nemica nel fianco della Marina italiana.

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La vita continuava ad elargire doni e pene e sembrava aver offerto quanto di meglio poteva, a chi di quei tempi riusciva ad accontentarsi anche di poco.

Carla Boni con i figli era arrivata a Rimini. Il marito Carlo impegnato in un duro lavoro di contatto, tra la sede della RAS a Milano e le agenzie del centro d‟Italia.

Il capitano Renato Renti, in un letto d‟ospedale a Bastia, in attesa di essere ricondotto sul continente, aveva davanti a se una lunga e noiosa convalescenza.

Elvira Vanti sempre sulla breccia, con le sue squadre di crocerossine all‟opera dopo i bombardamenti in una Milano in cui alcuni quartieri erano solo una distesa di muri sbrecciati, di calcinacci e facciate di palazzi pericolanti.

Caterina Giusti, a Torino, autista di tram e nella sua seconda vita, importante contatto della resistenza piemontese.

La famiglia Nibbio, riunita a Broni, con due dei loro uomini lontani: Karl a New York e Franz a Merano, impegnato ad aiutare quanti era meglio che restassero nascosti.

Arnaldo Fasann e Romano Pizuto, sull‟isola di Malta. Dopo tante traversie erano riusciti a vedere il sorgere di quei giorni dopo l‟armistizio.

L‟unica cosa che il destino aveva in serbo per gli italiani, indistintamente, era ciò che gli ex alleati tedeschi stavano attuando. L‟occupazione di tutto il territorio italiano del centro-nord, lasciato alla loro

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mercé dall‟assenza di precise direttive per le forze armate con i più bui e tristi presentimenti del contrammiraglio Romano Pizuto che, forse, stavano per avverarsi.

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Alcune note

Seconda guerra mondiale: una nave e il suo equipaggio.

Nel romanzo, la Regia nave Sebastiano Caboto è un cacciatorpediniere della Marina Militare italiana.

Nella realtà, il Sebastiano Caboto non fece parte della Classe Navigatori di cui furono costruite 12 unità.

Il Caboto avrebbe potuto essere, però, la tredicesima unità di quella Classe di cacciatorpedinieri sempre presenti nelle battaglie navali del Mediterraneo.

Durante gli anni 1942-43, quelli in cui si svolge la storia raccontata, esisteva iscritta ai ruoli della Regia Marina Militare Italiana, la cannoniera Giovanni Caboto. La cannoniera Giovanni Caboto e il suo equipaggio nulla hanno a che vedere con la storia raccontata in queste pagine.

Facciamo un passo indietro di circa cinquecento

anni, cercando di capire chi erano i Caboto. Era una famiglia di navigatori veneziani. Il padre

Giovanni, al servizio del Re d‟Inghilterra, bordeggia il Canada nel 1497 fino all‟isola di capo Bretone. Nel 1499 in un‟altra spedizione costeggia tutto il Labrador. Il figlio Sebastiano nel 1509, esplora il Labrador fino ad arrivare alla foce del fiume Huston.

Sotto le insegne del Re di Spagna, risale nel 1526 il Paranà fino alla confluenza del Paraguay. Sotto l‟egida della corona d‟Inghilterra, cerca poi un passaggio tra le più alte latitudini verso Nord-Est e

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tocca le isole Lofoten e la Nuova Zemlja, restando bloccato dai ghiacci nel 1533.

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Regia nave Sebastiano Caboto

di Andrea Garlinzoni

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