Sebastiano Aglieco - Quaderni

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« Così ci ruberà un clamore di passi. | Ce ne andremo. »

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Titolo: Sebastiano Aglieco – Quaderni Anno: 2011 Poesie di: Sebastiano Aglieco Fonti: Grandi frammenti, Tracce, 1995 A cura di: Luigi Bosco

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

2011 Poesia 2.0

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QUADERNI

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Sebastiano Aglieco

ANTOLOGIA DI POESIE

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Da GRANDI FRAMMENTI (Tracce, 1995)

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Notturno Urbano

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Cancellazione Perduto riemerso a tratti dai treni immaginari nei mattini d’acqua, il vento sputa ghiaccio dagli occhi frastornati si condensa nei cunicoli dove la forma vacilla un poco e si contrae. Dagli occhi perduti e da ciò che non resta più le bocche si chiudono in attesa del perdono i viandanti di pietra si quietano, si addensano. Nei minuti che diventano anni, e abissi spina di orzo amaro nella bocca tu non sei che a pezzi, perduto, irraggiungibile.

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Notturno Urbano Nelle fredde soste sono sempre buie queste ciminiere l’amante abbandonato spegne il mozzicone e si taglia una ciocca di capelli poi si butta sull’asfalto fino alla sera dalla quale, esule, riparte. Il ragazzo afferra con le mani il coltello e si mette a sanguinare: è sempre così, dice, prima che mi vengano a riprendere chi parla è bastonato nelle lunghe distese dei fanali. Adesso dai mantici questo fiato sprigiona la fredda bocca, escono dalle galere e non hanno più voce, si guardano intorno e segnano il tempo rimasto, coi loro piccoli pidocchi da sfamare. Fino al midollo, giù prima che il ghiaccio si faccia vento e balera in lontananza. Ecco, si sono alzati si avvicinano buttando le siringhe: "se aprite la bocca noi vi mangeremo il cuore e vi sotterreremo più profondi della terra, fino agli abissi della metropolitana".

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Chi parla non ha più voce, si attacca senza gesti ai vetri, la patria negli occhi la riva, lo sconfinato perdono.

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Mitologia privata

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La casa negli anni Per grandi distese la casa si condensa in un altro occhio nelle serene dimore e giunge a Molodova, da noi, fermata nel cerchio come una cattedrale. Negli anni risonanti in fila indiana ognuno col suo tavolaccio se ne parte solitudine si quieta nel sangue d’ocra nelle tempeste del disordine. L’aria emigra dalle valli chi scende dai monti ha stanze d’orso sulle spalle e giovani amori. Ma non resta. E’ sprofondata più antica dei tuoi occhi e dal vento si stacca fino a te ti porta questi racconti.

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Paesaggio dal porto di Siracusa Guardare, dallo sguardo l’aria della notte che riempie questa pelle sottile che chiamiamo mare di forti scorze, per te scriverò l’azzurra tela che riempie e si svuota di terra e si lascia ripassare prima che si faccia ancora terra, e ritorna e ci contiene. Tra i mandorli in corsa verso la luce e d’aria, nelle bellissime conchiglie liquide mi attraversano le tue distese, e mi distendi e m’indori mia terra, mio mare tuo figlio, fanghiglia tua.

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Siracusa – Milano

Quanti ne videro i miei giorni nelle luci del porto, stazioni nelle ore della sera liquide fenditure che più non ricordo!

Improvvisamente il treno si fermò davanti alla campagna un grillo alla stazione di Priolo, e tu venivi avanzavi nella nebbia col nord alle spalle, silenzioso.

Quanti ne videro i miei giorni accecati da una luce nera: è primavera qui lascia la sciarpa, gli scarponi guarda come le bonacce luminose fermano i muri delle casazze e saziate quietano anche il mare.

Dalla terra dei lupi verso il nuovo mare che hai conosciuto dove io ho imparato a nuotare dove tu parlavi del tarlo che ti rode la schiena e delle grandi distese e dell’azzurro profondo.

E dei capperi e delle more bruciate e delle scarpe fradice per troppo camminare fino all’ora di settembre, e delle ultime ambasce dei rami gravidi, e di mia madre, ammalata di reni.

Quanti ne vidi nelle stazioni stracolme: sere che fendevano l’aria occhi nell’aria smorta, mi lasciai mi presi per i lacci delle scarpe.

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Vedi? l’andatura diventa malferma, come la scure negli occhi, il sole di mezzanotte, la madre che ha consumato la legna.

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Lettera Frazioni divorano i nostri istanti perché tu possa benedire il pane che ti ho portato, e il vino, da quell’ antico segno che rigenera la terra necessaria alla mie lettere. Con i tuoi segni mi raccontasti una storia che aveva l’odore di una prima casa, e di un poeta primordiale con una punizione di spine sulle spalle: occhi, occhi chiusi e sigillati – tornerai, caro figlio – disse – ma quando io non ci sarò più.

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Il cielo e il mare Nessuno, nessuno che cancelli questa rosa di fresco, è primavera qui ora che ti chiamo salendo le scale in bicicletta, i tendini genuflessi come una preghiera a richiamarti, a scendere le scale in picchiata verso il mare, Noto è transennata! Tu ti ricordi sui muri dei gelsomini la terra mia di sangue, e saliva, saliva, tu ti ricordi le rampe delle scale verso i fiori alti più su ancora che non si può arrivare alle volte franate dove il padre comincia dove comincia il mare specchiato nei visi.

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Notti di Valpurga a Cassibile Solo a pensarci alla strada nera che conduce al campo di calcio dietro quell’angolo e la macchia ferma che si nasconde nei fari leggeri oltre la notte e arriva dove il sole ci spremeva gli occhi, fermandoli! …poi rise dei miei capelli sconvolti e delle stringhe sporche nel crinale di fango, sui tacchi … il tempo eroso nei suoi passi nella lingua che rallenta la sera. Già corrono i Nudi per la scarpata di Melilli porto in seno alla tua groppa questa ferita da taglio, perdono le bocche che hanno mentito.

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Mitologia privata Prima ancora di una dozzina d’anni, prima che la casa ci spunti da un mare che forse non ci apparterrà più, lo vuoi veramente adesso che la nebbia s’infittisce? Nel cerchio degli uomini, nei loro angoli bui e nei sonni che non si raccontano dove solo appare sempre esiliata, secca, come un pezzo di terra di Sicilia, ancora più spigolosa delle inquietudini ci sarà pazienza o un forte compatimento ci saranno solo i nostri anni contati o un avvenire prematuro?

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La madre visita la casa del figlio I Quando verrà la madre ne riconoscerà l’odore ancestrale radicato nei suoi fiuti di donna da marito ricorderà il letto, l’armadio e il tavolo dell’attesa i fiori sul balcone e quella luce che appare quando il figlio parte o arriva dal suo ventre ed essa allora vedrà un angelo che alla finestra si posa un odore di terra cacciata nei suoi pensieri come il pane non temere – le dirà – perché darai alla luce un figlio un figlio di carne e ossa come la poesia lo riconoscerai dall’odore che non ti tradisce e dal labbro che si ferisce nella luce amara lo perderai ogni volta che fiorirà il melo in una stanza chiusa in te, primigenia tutte le volte che ti svagherai. II Una memoria, disse, si gonfia, è trasparente volano sullo specchio opaco i pensieri che ci portiamo e ci consumano, si consumano come le lenzuola delle donne ricamate in attesa di quell’odore. O donna piena di desiderio, donna incalcolata, non dirlo, questo, all’angelo! Tu mi aspetterai all’insaputa della notte sul tavolo da cucina riderai delle scale e della carne sedata

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riderai della nebbia che ti separa al mio sguardo perché tu sei ormai inviolata, indesiderabile. III Il sapore del pane negli anni in cui lo facevi inginocchiata il sapore della casa ormai cambiata ai nostri occhi piantata veramente come il sapore della cena sparsi, ognuno per conto suo! Ma si sapeva ricordàti da quegli occhi che hanno peccato da un vincolo indesiderato i vestiti scuciti la cena dei forestieri e poi la terra nera nel corridoio lavato dalla sorella innocente più innocente di quei passi di uomini. Viene il giorno come le parole contaminate appaiono le ciminiere nel cielo di fine inverno e la luce è aguzza sui tetti una luce fredda, come la poesia. Tu sei sempre assente raccolta nelle pause dei silenzi allacciata ai confini forse più oltre, oltre le stelle. Provo a ricordarti in una trasparenza di vetro le parole indugiano alla calma visione chiedono di venire, si vestono.

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Così la Poesia

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Orlando Furioso, o il Poeta Cadde, suonando, con la turlindana tenebrosa non ci vedeva più, come se il nemico gli avesse tirato negli occhi una pietra incalcolabile pesante come il mare la prima fenditura del cielo tenebroso. …la poesia ti rapiva pestando scale e adesso tu la porti come un tabernacolo ti consuma ti ammanta di cianfrusaglie quando nelle pianure si alza il vento.

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Malinconia Dei Narcisi Permettimi di tornare tra le ombre dei fiori scuri nella sera perenne! Atteso, nel paesaggio mutato non una sola luce si distende tra le cose dormienti in perenne calma nessuno ti accoglie nel tremante colore. Sono obblighi del cuore preparati per la sera, come un fiore sbocciato all’insaputa dell’ombra che si allunga e nutrito dalla brina della notte. Così ci ruberà un clamore di passi. Ce ne andremo.

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I risvegliati Una piuma si libra sopra le cose d’una lucentezza cosciente in un riposo felice: è la mente, forse ancora la mente prima dell’abbandono nel paese dei non nati. Ecco, il bambino ci racconta di uno stato degli occhi, illuminati nel passaggio da una forma all’altra. E dopo, che cosa ancora? Questo non lo dice. Così si ridesta, il risvegliato, alla vita.

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Giano Bifronte Il mare che il tuo occhio stringeva nella caparbia della visione, il duplice piede del dio disarcionato quel pomeriggio di fine settembre tra le guide che indicavano i percorsi in vista della sera dicendo - non toccate, ciò che qui si cela è santo -. Ma loro non lo conoscevano davvero l'appestato l’immiserito, colui che nella notte si libera dal sogno rapito ai mortali per una voglia una tenzone, e poi riappare tra le pieghe della pelle. Allora l’insuperbito, si ritrae.

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Alla deriva La calma della vita assente: terra dove sei esiliata? Come un lago sei dove le parole non mi dicono che questa luce della vita stretta negli anni finchè speranza duri. E tu non ci sei. Allora mi lasci cadere come il povero verme che ha concluso il suo ciclo, nell’attesa della tua venuta.

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Ancora Saluta la sfera intellegibile dei tuoi sogni chiusa per sempre senza compromissioni perché chiusa dev’essere e chiusa si fermerà sulla parola deflagrata, immemore, inconsapevole. E tu soppianterai la vita che si atteggia a condottiera, parlerai con le punte dei piedi intirizziti finchè duri nell’attimo che si ferma la vita rinsecchita, e si aprirà respirante succhiata da una stella marina, come il riccio.

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Segnali Più vicina dei suoni in noi stessi, conosciuta dall’acqua, ma come quel suono della notte quando i gamberi approdano alla luce e i richiami d’un tratto diventano incontrollabili. Io mi svegliai così, nella valle dell’Anapo agli sperduti fuochi, alle spalle la caverna finiva nell’altra riva: non abbiamo voluto, non abbiamo saputo forse perché l’apparenza è sicura. C’è un luogo, un tunnel lungo solo cinquanta metri all’altezza dell’acqua scura!

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Segnali Forse per un improvviso ascolto del primo amore noi eravamo così, con due occhi fuggiaschi tu smontasti la tenda in un batter d’occhio. E la luna pendeva. Ci arrampicammo inseguiti per lo scosceso andamento delle caverne risalendo la luce finchè la luna non ci apparve più bassa. Così la poesia.

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Sebastiano Aglieco è nato a Sortino, in provincia di Siracusa, il 29 gennaio 1961. Vive a Monza dove insegna nella scuola elementare. Ha fondato “Teatro Naturale”, un’associazione per l’espressività dell’infanzia e dell’adolescenza. È redattore del semestrale «La Mosca di Milano». Interventi sulla poesia e inediti sono apparsi su varie riviste e in pubblicazioni collettive. Ha pubblicato diversi libri di poesia. I primi, praticamente clandestini, Minime, Lalli 1984; Grandi Frammenti, Tracce 1995; Le colonne d’Ercole, Firenze Libri 1996; La tua voce, Polena 1997, con una nota di Milo De Angelis; poi Giornata,

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La Vita Felice 2003, presentazione di Milo De Angelis, premio Montale Europa 2004; Dolore della casa, Il Ponte del Sale 2006; Nella storia, Aìsara 2009; e la raccolta di saggi Radici delle isole, La vita felice 2009, che raccoglie il lavoro critico svolto in questi anni. Il suo blog è Compitu re vivi, dove continua il lavoro di critica sulla poesia contemporanea.

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