Piccole Cose E Don Chisciotte

13
1 PICCOLE COSE E DON CHISCIOTTE di DAVIDE SECCIA I Fa caldo, molto caldo. In fin dei conti è agosto ed è normale, ma non me ne capacito mai. Entro nel veicolo e mi accomodo al mio posto, la poltrona è comoda e c’è spazio per le gambe. Lo spazio per le gambe è sempre la prima cosa che osservo prima di iniziare un viaggio, perché, essendo alto un metro e novanta, devo capire subito che cosa mi aspetta, se sarà un viaggio piacevole o sofferente. Questo mi pare che sarà piacevole. Almeno dal punto di vista fisico. Anche se, oggi, mi interessa poco, ho altri pensieri per la testa. L’aereo decolla puntuale, appena si slancia verso l’alto penso e ripenso a quello che sto facendo. Se sia giusto o sbagliato, se tornerò con la coppa del mondo o con le ossa rotte. Tuttavia di una cosa sono convinto: non si tornerà indietro. Mi sento un po’ come Cesare sul Rubicone. Il dado è tratto, ora si gioca. E non posso più aspettare, nascondermi, tirarmi indietro. Cosa sto facendo? Sto andando in cerca di una ragazza. Sì, una ragazza! Niente di nuovo sotto il sole, sono sempre loro a muovere il mondo e le persone che lo vivono. Ma non è una ragazza qualunque. È LA ragazza. Quella che mi ha risvegliato dal torpore della quotidianità, quella che fa bollire l’acqua del mio cervello, quella che fa eruttare la lava del mio cuore. Insomma è lei. Penso che ogni uomo ce l’abbia o ce l’avrà o l’ha avuta e l‘ha persa. Ed io non voglio perderla, per questo mi trovo qua. È stato tutto così improvviso, non siamo mai stati insieme, dico ufficialmente, ma ci stavamo frequentando assiduamente da sei mesi. Dal giorno in cui ci siamo conosciuti, ci siamo sempre visti ed io mi sono sempre trovato a mio agio con lei e mi ha sempre stupito giorno dopo giorno. Stavamo bene e lo leggevo anche nei suoi occhi. Almeno così credevo. Poi qualche giorno fa è successo qualcosa, si è rotto qualcosa: ero appena tornato a casa ed ero stanco morto, dopo una estenuante festa di compleanno in cui il mio lavoro era animare bambini già molto animati di loro, mi arriva un sms che dice “tra due giorni parto, vado a Berlino con i miei amici”. Sorrido, mi sembra un invito ed invece il messaggino continuava dicendo “tu non sei invitato, voglio stare un po’ da sola e capire quello che mi sta succedendo” e poi si concludeva con una chiara esortazione: “ti prego non mi chiamare“. Neve. Gelo. Ghiaccio. Rimango paralizzato, riesco solo ad accasciarmi sul letto e rileggere la novella che mi è giunta. Non riesco a reagire e mi addormento tra la neve perenne del mio animo. Non so di preciso cosa abbia sognato, so solo che, improvvisamente, spalanco gli occhi e mi risveglio dal letargo, mi alzo, mi vesto e vado a casa dei miei. Nel sogno avevo deciso. Come don Chisciotte avevo deciso di iniziare la guerra per la mia donna, avrei combattuto tutti i mulini a vento che si sarebbero interposti tra di noi e l’avrei raggiunta per dirle quello che non sono riuscito a dirle in sei mesi: un semplice ma sostanzioso: “ti amo!”. Ne ero certo, ora sì. Avevo deciso e l’avrei fatto. Arrivo nella mia casa natia e senza salutare vado in quella che fu la mia camera, accendo il pc ed inizio le ricerche su come raggiungere la meta germanica. Vorrei ascoltare un po’ di musica, vorrei sentire “Get Up Stand Up” di Bob Marley. Invece no, mi tocca sentire tutte le ramanzine di mia madre sul cercare un lavoro serio, come se esistessero ancora, e di un posto sicuro, come se non desiderassi un po’ di sicurezza, un po’ di certezze. Ma cosa ti dà sicurezza? I soldi o l’amore? Un lavoro a progetto per una vita senza

description

 

Transcript of Piccole Cose E Don Chisciotte

Page 1: Piccole Cose E Don Chisciotte

1

PICCOLE COSE E DON CHISCIOTTE

di DAVIDE SECCIA

IFa caldo, molto caldo. In fin dei conti è agosto ed è normale, ma non me ne capacito mai.

Entro nel veicolo e mi accomodo al mio posto, la poltrona è comoda e c’è spazio per le gambe. Lo spazio per le gambe è sempre la prima cosa che osservo prima di iniziare un viaggio, perché, essendo alto un metro e novanta, devo capire subito che cosa mi aspetta, se sarà un viaggio piacevole o sofferente. Questo mi pare che sarà piacevole. Almeno dal punto di vista fisico. Anche se, oggi, mi interessa poco, ho altri pensieri per la testa. L’aereo decolla puntuale, appena si slancia verso l’alto penso e ripenso a quello che sto facendo. Se sia giusto o sbagliato, se tornerò con la coppa del mondo o con le ossa rotte. Tuttavia di una cosa sono convinto: non si tornerà indietro. Mi sento un po’ come Cesare sul Rubicone. Il dado è tratto, ora si gioca. E non posso più aspettare, nascondermi, tirarmi indietro.

Cosa sto facendo? Sto andando in cerca di una ragazza. Sì, una ragazza! Niente di nuovo sotto il sole, sono

sempre loro a muovere il mondo e le persone che lo vivono. Ma non è una ragazza qualunque. È LA ragazza. Quella che mi ha risvegliato dal torpore della quotidianità, quella che fa bollire l’acqua del mio cervello, quella che fa eruttare la lava del mio cuore. Insomma è lei. Penso che ogni uomo ce l’abbia o ce l’avrà o l’ha avuta e l‘ha persa. Ed io non voglio perderla, per questo mi trovo qua.

È stato tutto così improvviso, non siamo mai stati insieme, dico ufficialmente, ma ci stavamo frequentando assiduamente da sei mesi. Dal giorno in cui ci siamo conosciuti, ci siamo sempre visti ed io mi sono sempre trovato a mio agio con lei e mi ha sempre stupito giorno dopo giorno. Stavamo bene e lo leggevo anche nei suoi occhi. Almeno così credevo.

Poi qualche giorno fa è successo qualcosa, si è rotto qualcosa: ero appena tornato a casa ed ero stanco morto, dopo una estenuante festa di compleanno in cui il mio lavoro era animare bambini già molto animati di loro, mi arriva un sms che dice “tra due giorni parto, vado a Berlino con i miei amici”. Sorrido, mi sembra un invito ed invece il messaggino continuava dicendo “tu non sei invitato, voglio stare un po’ da sola e capire quello che mi sta succedendo” e poi si concludeva con una chiara esortazione: “ti prego non mi chiamare“. Neve. Gelo. Ghiaccio. Rimango paralizzato, riesco solo ad accasciarmi sul letto e rileggere la novella che mi è giunta. Non riesco a reagire e mi addormento tra la neve perenne del mio animo.

Non so di preciso cosa abbia sognato, so solo che, improvvisamente, spalanco gli occhi e mi risveglio dal letargo, mi alzo, mi vesto e vado a casa dei miei. Nel sogno avevo deciso. Come don Chisciotte avevo deciso di iniziare la guerra per la mia donna, avrei combattuto tutti i mulini a vento che si sarebbero interposti tra di noi e l’avrei raggiunta per dirle quello che non sono riuscito a dirle in sei mesi: un semplice ma sostanzioso: “ti amo!”. Ne ero certo, ora sì. Avevo deciso e l’avrei fatto. Arrivo nella mia casa natia e senza salutare vado in quella che fu la mia camera, accendo il pc ed inizio le ricerche su come raggiungere la meta germanica. Vorrei ascoltare un po’ di musica, vorrei sentire “Get Up Stand Up” di Bob Marley. Invece no, mi tocca sentire tutte le ramanzine di mia madre sul cercare un lavoro serio, come se esistessero ancora, e di un posto sicuro, come se non desiderassi un po’ di sicurezza, un po’ di certezze. Ma cosa ti dà sicurezza? I soldi o l’amore? Un lavoro a progetto per una vita senza

Page 2: Piccole Cose E Don Chisciotte

2

progetti o una persona con cui condividere tutta questa precarietà? Trovo il volo, mi costa un po’, ma è la soluzione migliore. Mi costa un po’, è dire un eufemismo, mi costa quanto un mese di fitto, ma a questo ci penso dopo, perché immediatamente, come un getto d’acqua calda di un geyser, senza pensarci due volte, compro il biglietto per la capitale tedesca. Il ghiaccio diventa acqua e la neve si scioglie.

Torno a casa. Qui inizia ad arrivare un po’ d’aria al cervello e mi ricordo che in quei giorni avrei ancora due o tre feste per bambini in cui fare l’animatore, insomma sono soldi e servono purtroppo. Ma la mia mente è già altrove, è già sotto il cielo di Berlino. Avviso Luca, il mio collega di animazione, della mia assenza, mi dispiace lasciarlo lavorare solo, ma sarò pronto a fare altrettanto per lui. Inutile nasconderlo, mi dispiace anche lasciare degli utili guadagni, soldi che mi avrebbero fatto comodo in questi tempi di crisi. Ma la vita è precaria, mentre l’amore è eterno. Allora mi getto alla ricerca dell’eternità.

IILa bandiera svetta e sventola ignorante di ciò che succede. Tre bande orizzontali, due rosse,

laterali e più piccole ed una bianca e grande al centro, in quest’ultima ci sta un orso nero in uno scudo coronato. Eccomi a Berlino. Arrivo nel primo pomeriggio, mi sistemo presso un ostello nel quartiere Mitte e la prima cosa che faccio è andare a vedere Alexanderplatz. Dopo il muro, è la prima cosa che mi viene in mente quando penso a questa città. Forse perché mi è rimasto nel cervello quel libro che Alfred Doblin gli dedicò intitolandolo “Berlin Alexanderplatz”: storia di un delinquente occasionale che cercava, senza riuscirci, di lasciare la realtà sottoproletaria in cui viveva. Ambientato negli anni della grande depressione del ’29, tutto il racconto girava attorno ad Alexanderplatz, descritta come una piazza centrale ed affollata, piena di gente di ogni estrazione sociale, come il centro commerciale e tranviario, come il cuore della metropoli insomma.

Oggi che la vedo con i miei occhi mi pare diversa, più fredda. Eppure è rimasta quel grosso centro commerciale e tranviario, è piena di persone, tuttavia, non so, manca di qualcosa. Sarà per questa aria moderna, futuristica che ha da quando l’hanno ricostruita. Sarà per questi pannelli che, messi in mezzo alla piazza, ricostruiscono la storia del muro e di quel periodo della storia di Berlino, sarà che forse me l’immaginavo diversa. I luoghi immaginati sono sempre più belli di quelli reali, forse perché hanno qualcosa in più: emozioni, sogni, speranze e illusioni, vite sognate e storie pensate, vite fantasticate e vite aspirate.

Poco distante dalla piazza, la torre della televisione si staglia altissima. È veramente alta, si vede da ogni luogo di Berlino e questo l’ho già verificato con i miei occhi arrivando dall’aeroporto e notandola dal mio posto nella metro di superficie. Eh già, come San Tommaso cerco sempre la prova, cerco di verificare da me quello che mi dicono. Avrei voluto anche verificare una storia che, prima di partire, mi sono ritrovato a leggere per puro caso. Una storia che, secondo me, è tra il paradossale ed il ridicolo: la torre della televisione è stata costruita alla fine degli anni sessanta su terreni espropriati dall’allora DDR, bene, ora il vecchio proprietario vorrebbe riappropriarsi di quei terreni ed abbattere la torre. Vorrei tanto conoscerlo questo soggetto. Ma sono qui per altro. E non lo dimentico.

Anzi. La prima idea che mi balena nel cervello è di salire sulla torre e gridare il suo nome. Gridarlo a squarciagola, gridarlo dalle tonsille, dai polmoni, dal cuore. Mi metto in fila per salire sulla torre, ovviamente si paga, ma l‘amore non ha prezzo. La fila è lunga, molto lunga e questa idea che ho nel cervello mi fa sentire un po’ un terrorista. È vero, non c’è più la DDR e la sua polizia, ma non so se in cima alla torre potrei mai aprire una finestra (ci sarà mai?) e

Page 3: Piccole Cose E Don Chisciotte

3

mettermi a strillare come una mamma che chiama il proprio figlio che in quel momento sta giocando la finale della sua vita a pallone. Soprattutto, non so come potrebbe prenderla la polizia tedesca, che non mi tranquillizza affatto e l’ultimo mio desiderio è ritrovarmi a cercare di spiegare ad un agente la mia situazione di “romantico viaggiatore in cerca del suo amore”. Il tutto senza sapere una parola di tedesco. Allora esco fuori dal serpente di persone e mi vado a sedere distante dalla torre, vicino a Marx ed Engels in attesa di un’idea, di un piano.

III Karl Marx è seduto, mentre Friedrich Engels è in piedi alla sua sinistra. Facce severe, baffi e

stile da socialismo reale, ma secondo me dovevano essere due simpaticoni. Le statue furono costruite nel 1986, ovviamente nella parte est della città. Ma non ho mai capito il perché Marx stia seduto mentre Engels sia rimasto in piedi, al contrario, io me li sarei immaginati bene seduti uno affianco all’altro, come due buoni e vecchi amici che si rilassano dalla propria vita carica di stress, dalle proprie preoccupazioni quotidiane, anche dalla propria famiglia, e magari si bevono una birra o si fumano una sigaretta, anzi Marx lo vedo bene con la pipa.

Nel secolo diciannove, intorno alla metà, questi due signori frantumarono tutte le vecchie filosofie e crearono un fantasma che si aggirò a quel tempo per l’Europa e che poi, nel novecento, si sarebbe aggirato per tutto il mondo, un fantasma che ha entusiasmato e fatto sognare milioni di persone e al contempo preoccupato altrettante. Chissà ora cosa potrebbero pensare i due anziani signori della fine che ha fatto il proprio sogno: ferito e tradito, infranto e deriso. E chissà cosa potrebbero pensare della condizione del lavoro, della precarietà, della globalizzazione e della crisi economica. Di un mondo che ha smesso di sognare, stanco di essere tradito.

Ed io penso al mio piccolissimo sogno, minuscolo in confronto al loro, ma pur sempre un sogno. Trovarla e dirle quel che penso, quello che non le ho mai detto per vergogna, paura, indecisione e orgoglio. Sono seduto e mi serve un piano. Anzi, ce l’ho: trovarla, dirle quello che le devo dire e tornare a casa. Facile no? Se non fosse che Berlino si estende per quasi 900 chilometri quadri e ha più di tremilioni di abitanti. Senza contare i turisti. L’impresa sembra impossibile, più di quelle che Tom Cruise nei sui film ha reso possibili a suon di tecnologia e sparatorie. Quindi decido così: mi vivo la vacanza e mi godo Berlino, ma vedrò, osserverò tutti i volti di tutte le ragazze che incontrerò per trovare quello che cerco, quel unico volto che riconoscerei a prima vista e da tutte le angolazioni possibili, perché è l’unico volto che mi rende felice. In poche parole: sono in mano al destino. Sto apposto.

IVI Kraftwerk sono una band tedesca di musica elettronica, si sono formati nel 1970 a

Dusseldorf e sono considerati i pionieri di tutti i generi musicali che usano ritmi sintetici. Penso ai loro brani, alle loro hit, a “Trans-Europe Express” a “The Robots” o a “The Man Machine”, alle canzoni che dalla fine degli anni settanta hanno imperversato per radio e serate danzanti. Così, proprio negli anni in cui dominava il rock, si impazziva per il punk e si ballava il reggae, questi ragazzi proponevano musica elettronica e ponevano le basi per tutto quello che sarebbe venuto dopo in quel campo.

Quel giorno la sera, meglio la notte, decido di andare a vedere e soprattutto sentire come i figli dei Kraftwerk abbiano evoluto la propria musica. Sono molto curioso e poi in fin dei conti voglio un po’ rilassarmi, o meglio, voglio distrarmi, cercare di non pensare a lei, perché in una serata tra electro e techno rilassarsi è l‘unica cosa che non si può pretendere.

Page 4: Piccole Cose E Don Chisciotte

4

Così mi avvio verso Kreuzberg un quartiere a sud di Berlino popolato da turchi, punk e artisti vari, molto bello e molto movimentato la sera, camminando trovo per caso un locale particolare con una piattaforma sul fiume dove si può sostare liberamente o accomodarsi su divani ornati da morbidi cuscini. Dentro è strutturato su due piani, dove due diversi dj selezionano i beat ed i pattern su cui ballare, al piano superiore la musica è più dura, più cattiva, mentre a quello inferiore è più orecchiabile, quasi tranquilla, ma sempre ballabile, insomma non ti addormenti sicuramente. È l’una, mi trovo davanti all’ingresso e c’è fila. Una fila stranamente tranquilla, cioè è una fila in cui la maggior parte delle persone sta alticcia o strafatta, ma è stranamente tranquilla, non me ne capacito. Ognuno al suo posto, senza pretendere di passare avanti e senza rompere le palle alle persone che non conoscono. Ecco questo è un fatto che mi piace. Nel profondo sud da dove provengo non sarebbe mai successo e sarebbe già scoppiata qualche rissa per colpa dell’arroganza di alcuni che purtroppo a volte scendono solo per sfogare su altri la propria frustrazione.

Arrivo all’ingresso, due bestioni mi stanno davanti e mi fanno intendere che devo aprire la mia tracolla per vedere cosa posseggo. La controllano da cima a fondo, manco fossero della borghese e mi lasciano entrare. Qui controllano più nei locali che in mezzo alla strada, una volta un mio amico mi raccontò che proprio in una discoteca di questa zona gli sequestrarono il liquido per le lenti a contatto. Non si fidarono di lui o, forse, lui era talmente ubriaco che non riuscì a spiegare cosa fosse quel liquido trasparente in quella boccetta e i buttafuori pensarono che si trattasse di lsd o roba simile. Fatto sta che dovette decidere o rimanere fuori con il liquido o entrare e perderlo. Entrò.

VElettronica nun te reggae più! Direbbe così Rino Gaetano al mio posto. Ho ballato per quasi

tre ore, sono stanco, sudato e abbastanza ubriaco, ma soprattutto ho scoperto che l’elettronica fa ballare, e molto, il mio corpo, ma non riesce assolutamente a smuovere di molto la mente. La quale è rimasta a pensare a lei, chiedeva agli occhi di trovarla, di trovarla nei visi delle ragazze che stavano ballando. Sarò sembrato un po’ un maniaco, ma mi sa che le avrò osservate tutte per vedere se uno di questo volti fosse il suo. Non c’era. Allora, esco fuori dal locale. E mi viene voglia di un cornetto, di un cornetto di quelli buoni, così buoni che li mangi vuoti, perché quasi ti dispiace metterci qualcosa dentro. Giro un po’, ma non trovo niente di aperto che somigli ad un forno o ad una cornetteria. Entro in qualche bar, però o sono sprovvisti di tale leccornia o l’aspetto non mi convince, quindi resisto e non mangio niente, ma il pensiero rimane e si amplifica. Mi viene in mente l’odore del pane, l’odore del pane appena cotto e sfornato, del pane che ti guarda e che ti chiama per essere mangiato. Mi piace troppo quell’odore, secondo me è il più buono al mondo, è incredibile. Farina, acqua, sale e lievito, sono gli ingredienti magici, semplici atomi per una molecola spettacolare. Fantastico.

VIIl giorno dopo mi voglio rilassare, vado allo zoo. Prendo la metropolitana di superficie e

scendo alla stazione di Zoologischer Garten, sì proprio quella divenuta famosa per il libro di Christiane F. “Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino” ambientato in gran parte proprio nei quartieri della zona. Le vicende del libro si svolgono alla fine degli anni settanta, ma qualche nostalgico è rimasto, infatti incontro un gruppo di punkettoni seduti di spalle ad un cancello vicino l’ingresso della metro, uno di loro è seduto in mezzo alla strada e sta con una birra in mano ed un cappello capovolto per terra, mi chiede degli spiccioli. Lo guardo con la faccia di chi

Page 5: Piccole Cose E Don Chisciotte

5

vorrebbe chiederli a lui e vado avanti. Lo zoo costa una decina d’euro, ma li vale tutti e dieci. È molto grande e si possono

osservare tantissime razze di animali, anche i più strambi e di cui ignoravo l’esistenza; c’è anche una sezione dedicata solo agli animali notturni, a tutti quegli esserini che difficilmente si potrebbero vedere se non si camminasse per la giungla in piena notte. E a me non capita mai di farmi un giro nella giungla, perché già mi basta quella che ho sotto casa. E poi se devo essere proprio sincero, questi animaletti piccolini, quasi sempre neri, marroni o verdi mi fanno un po’ schifo, sensazione. A molti stanno simpatici, ma a me proprio no, non ci riesco, li provo a guardare ma dopo un po’ non ce la faccio. Invece il panda mi è piaciuto. Quello sì. Il panda piace a tutti e non capisco il perché, sarà per l’aria da cane bastonato, anzi da panda bastonato, sarà perché è il simbolo del WWF, fatto sta che non conosco una persona a cui il panda non piace o stia antipatico, per quanto possa essere antipatico un’animale.

Siccome è una bella giornata, dopo il giro allo zoo decido di farmi un giro al Tiergarten, un parco enorme che si trova proprio al centro di Berlino. Così tra alberi, sentieri e corsi d’acqua trovo un posto isolato dove mi sdraio e apro la mia guida per cercare qualcosa da poter vedere in questi giorni. Ma penso a lei. Cerco di leggere la guida, ma mentre i miei occhi seguono i caratteri delle pagine, la mia mente se ne Va. I ricordi tornano e ritornano come le onde del mare. Ricordo la prima volta che la vidi. Lo ricordo nitidamente. Si trattava di quasi un anno fa. Lavoravo ad un teatro e mi occupavo della biglietteria, un piccolo lavoretto per il fine settimana, un lavoretto che mi piaceva molto, perché ne approfittavo per vedere gli spettacoli che mi interessavano, non era logorante e l’ambiente era molto piacevole. Fatto sta che il giorno dello spettacolo la biglietteria era aperta sia la mattina che il pomeriggio. Così, all’improvviso, nel deserto dei tartari che caratterizzava quella mattinata, entrò lei. Entrò lei: jeans scuri stretti sopra un paio di converse nere e bianche, cappottino viola di quelli con il doppiopetto stile inglese, capelli castani lisci che cadevano dolcemente sulle sue spalle ben disegnate sotto il cappotto. Stupenda. Entrò e si diresse proprio verso di me, ovviamente voleva il biglietto. Mi salutò e mi chiese il tagliando, io rimasi ad osservarla un paio di secondi. Un disco graffiato che ripete lo stesso suono della canzone, due volte e poi va avanti. Due secondi, non di più. Un gesto naturale per approfondire la sua bellezza e scolpirla nella mia mente, poi mi voltai e presi la mappa della sala per farle decidere il posto. Lei si accorse del disco incantato e con la coda dell’occhio la vidi sorridere. Non me l’ha mai detto cosa pensò quel giorno. La particolarità fu che poi dopo quel giorno non la vidi per un po’, la persi di vista per un po’ di tempo, come spesso succede, ma quell’incontro mi rimase impresso, me la ricordo ancora nitidamente. Proprio nitidamente.

VIIHo voglia di vedere il muro. È il mio quarto giorno a Berlino e, dopo aver passato l’intera

giornata di ieri per musei, ore intere tra Guggenheim e Museuminsel, ho voglia di stare all’aria aperta. Perciò mi sembra buona l‘idea di dedicare una giornata a ciò che ha segnato e condizionato di più la vita di questa città negli ultimi sessanta anni. Un bel sole ha deciso di farmi compagnia, mi armo della mia guida e giungo a Checkpoint Charlie. Si tratta del più famoso luogo di passaggio tra le due zone di Berlino, il cui nome deriva dall’alfabeto fonetico usato dalla Nato, Charlie era il terzo checkpoint dopo Alpha e Bravo. Arrivo in Friedrichstrasse e, all’altezza del luogo ove sorgeva il muro, trovo al centro della strada il checkpoint: una casetta bianca in legno, una ricostruzione fedele dell’originale. Trovo anche dei finti soldati vestiti di tutto punto, con cui è possibile farsi allegramente delle foto ricordo, si può scegliere

Page 6: Piccole Cose E Don Chisciotte

6

tra il soldato sovietico e quello statunitense, ma se si è indecisi o non ci si vuole allineare è possibile anche con entrambi.

E pensare che in tanti morirono lungo quella striscia di terra, uno dei primi si chiamava Peter Fechter, era un muratore ed aveva solo diciotto anni. Correva l’anno 1962 e Peter decise insieme ad un amico di scavalcare il muro e di attraversare la striscia della morte, lo spazio tra un primo muro ed un secondo più basso e semplice da superare. Uno spazio controllato dai soldati della DDR che avevano l’ordine di sparare a vista tutti coloro che tentavano la fuga. E così fecero. Peter e l’amico erano giunti al secondo muro e, mentre si arrampicavano, egli fu colpito da alcuni proiettili e cadde per terra ansimante, l’amico invece riuscì ad oltrepassare la barriera e a mettersi in salvo. Peter era ferito e stava steso per terra sanguinante, ma nessuno l’andò a salvare. Nessuno e lo lasciarono morire lì, da solo a diciotto anni. E sono pochi diciotto anni per morire, ancor più pochi per morire così. Ed era un muratore, Peter era un semplice muratore.

La giornata è proprio bella ed il sole sembra quasi un sole meridionale, forse oggi è passato a queste latitudini per caso, quindi decido di approfittarne: fitto una bici. Voglio andare a vedere l’unico tratto di muro che è rimasto in piedi.

Prima, però, passo per Potsdamer Platz. Centralissima piazza che fu divisa dal muro proprio a metà. Arrivo e lo spettacolo è di quelli che ti lasciano a bocca aperta. Del muro è rimasto poco o niente, qualche pezzo qua e là con i soliti finti soldati armati di finti sorrisi per foto ricordo vere. Ci stanno, inoltre, alcuni pannelli illustrativi che ripercorrono la storia della piazza, dall’età dell’oro degli anni venti alla divisione e alla relativa rinascita. La piazza è circondata da edifici bellissimi, uno più moderno dell’altro e fatti costruire dai migliori architetti del mondo. È rimasta solo una cosa un po’ più datata: il primo semaforo di Berlino. Esatto, è rimasto l’avo di quegli aggeggi che ci fanno innervosire e il cui colore può decretare un ritardo, può far perdere coincidenze o può crearne di nuove ed inattese e può cambiare la vita, a volte. Ma io, almeno in questa vacanza, sto a piedi, o al massimo in bicicletta come oggi e nella mia vita già so che cambierà poco e quel poco voglio cambiarlo io, non il semaforo.

Il modernismo della piazza è spettacolare e il famosissimo Sony-Center è la punta di diamante del circondario: al centro di tre palazzi si apre una piazza che è coperta da un tetto ad ombrello che si regge grazie a dei tiranti collegati agli edifici circostanti. Le parole non possono spiegare l’arduità della visione che si ha dinanzi. Rimango ad occhi aperti e cerco di fotografarlo, ma è dura. È difficile rendere al meglio qualcosa del genere. Sono lontani i tempi in cui, proprio in questa piazza, Wim Wenders girò alcune scene de “Il cielo sopra Berlino”, si trattava del 1987 e l’atmosfera della piazza era molto diversa da quella che si respira attualmente. Porca miseria, il film l’ho visto con lei. E ricordo benissimo che saremmo voluti venire a Berlino proprio per vedere le differenze, eravamo curiosi di vedere come sia sbocciata la città dopo le difficoltà passate dalla divisione. Perché penso sia uno dei concetti più belli: rinascere da una sconfitta, rialzarsi da terra ed essere meglio di prima. Come la fenice: l’animale mitologico che nasce dalle ceneri.

Ora questa città e le sue bellezze le sto osservando da solo e lei anche. Ma non ho mai capito il perché, il motivo di questa solitudine in cui mi trovo. E questo è il fatto che mi da più rabbia, mi da rabbia non sapere perché mi ritrovi in questa condizione. E poi, mi fa rabbia pensare che non possa farci niente. Sono sempre dell’idea che si possa modificare, plasmare, ma anche solo scalfire, scheggiare la realtà ed è proprio per questo che mi ritrovo qui. Voglio almeno provarle tutte, sarò testardo, ma io ci credo ancora nell’amore. Per questo mi piace don Chisciotte, la sua testardaggine ed il suo crederci fino alla fine, contro tutte le difficoltà, contro

Page 7: Piccole Cose E Don Chisciotte

7

tutte le dicerie delle persone contro tutti i mulini a vento. Così mi rimetto in sella sul mio destriero, accendo il lettore mp3 per avere una colonna sonora e ritorno sulla strada. Ho voluto la bicicletta, ora pedalo e vado verso l’East Side Gallery.

VIIILa via è abbastanza lunga. Meglio. Ne approfitto per vedere un pezzo di Berlino da una

prospettiva diversa. La città per le bici è organizzata bene, piste ciclabili veramente ciclabili, non come quelle che stanno nelle mie zone di residenza: una pittata di rosso messa a caso su tratti di strada scelti senza molta logica, se non quella di sfruttare al meglio tutti i fondi europei. Qui sulla pista non trovi altro che bici e se ti ritrovi qualche persona, sicuramente si tratta di qualche turista che non ha capito perché ci siano corsie disegnate per terra e molto probabilmente si tratta di italiani. Mi piace la bici che mi hanno dato: è un po’ bassa, ma in compenso è molto leggera e corre che è una meraviglia. Ha un unico serio problema: i freni. Sifrena pedalando all’indietro e mi trovo male, perché io sono abituato a giocarci con i pedali e, quando prendo velocità, pedalo al contrario per divertirmi. Così, mentre pedalo, non ci penso e ogni tanto mi inchiodo all’improvviso, correndo il rischio di creare incidenti. Più che ogni tanto, direi spesso, in media ogni duecento metri. Praticamente, quasi sempre. Tranne quando, forse, dovevo farlo. Tranne in quel maledetto momento. I raggi vanno e girano veloci sulla strada che ho deciso di percorrere, sono ansioso di raggiungere la destinazione come se sapessi di trovare qualcosa, ma al contempo voglio che quel giro in bici non finisca mai, perché l’attesa è bella e girare in bici mi piace. Ad un tratto mi volto a sinistra, lo faccio involontariamente, come il cuore che batte, vedo uno spiazzo con dei negozi di vestiti usati, di piercing e di tatoo e la vedo. Cioè non so se è lei, ma a me sembra di sì. Anche lei, o presunta lei, mi vede e lo fa con meraviglia. Io rimango immobile, sulla bici, ma immobile. Vado dritto. Non so cosa fare, ma, mentre penso, le gambe continuano a carburare e la bici va a mille. Il tempo di far arrivare l’ossigeno al cervello e di ragionare che mi giro e torno indietro, decido che voglio andare a vedere se sia lei. Tuttavia, quando torno sul luogo della mistica visione, non la trovo più, giro un po’ i negozi della zona, del quartiere, ma niente. Volatilizzata. Mi dispero e mi do addosso, come Edward Norton in “Fight Club“. Ma cerco di farmene subito una ragione, in fin dei conti non so neanche se era lei, torno in sella e mi rimetto in marcia verso quel pezzo di muro che voglio vedere. Anche se sono sicuro che si trattava di lei. Sicuro, troppo sicuro che mi manca solo la prova. Faccio tutta la strada guardando a destra e a sinistra, indietro e a volte anche avanti cercando ossessivamente quella faccia che mi ha osservato poco fa. Niente.

Il lettore mp3 passa di tutto: ska, folk, reggae, rock, pop. Invece la mia mente passa le immagini di qualche mese fa, di quando giravo in bici sempre con il lettore nelle orecchie, di quando una canzone ed un po’ di sole rappresentavano la mia felicità, la rappresentavano perché c’era lei e perché lo sapevo che c‘era. La cosa che mi piaceva di più era andare in bici da lei, quel tratto di strada era il più bello della mia vita. Cantavo a squarciagola e le persone mi prendevano per matto, come se si potesse cantare solo in auto o nell’intimo delle proprie camere, perché non credo che esista qualcuno che non canti mai, piuttosto lo fa in privato, ma non è possibile che non canti. Non riesco a concepirlo.

C‘è stato un tempo in cui mi vergognavo a cantare in pubblico, cioè insieme ad altre persone, soprattutto se si trattava di ragazze. Poi iniziai a prendere coraggio, o forse, era semplicemente che ad alcune canzoni non resistevo a non cantarle. Però lo facevo piano, sottovoce, quasi di nascosto. Invece con lei non era così. Sembra banale da dire, ma non era assolutamente così. Da quando la conosco canto in maniera diversa, sfrontata. Non mi frega

Page 8: Piccole Cose E Don Chisciotte

8

niente di quello che mi possono dire. Penso solo a cantare, sembra che devo partecipare a qualche programma televisivo per giovani talenti e mi stia allenando. Sto sempre a cantare, ma ho scoperto che mi fa bene. Mi riesco a sfogare. E se poi sto in bici è la fine. A volte quando sono molto nervoso scendo di casa con le cuffie nelle orecchie prendo la bici e faccio giri assurdi, lunghi, inimmaginabili. Una sera litigai con un mio caro amico per questioni di ragazze, tanto si litiga seriamente solo per donne e soldi, ci rimasi veramente male ed ero nervosissimo. La mattina dopo presi la bici e mi feci il giro della circonvallazione.

IXDei 155 chilometri del muro ne è rimasto solo poco più di uno. Si trova sulla riva della Sprea,

il fiume che attraversa Berlino, ed è stato ricoperto di graffiti eseguiti dai migliori artisti del campo. Questo tratto di muro viene considerato come la più lunga galleria d’arte contemporanea all’aperto, tutte le opere inneggiano alla libertà e molti di questi murales ormai sono storia: basti pensare a quello della Trabant che sfonda il muro e che porta come targa 9 -11 - 89 la data della caduta del muro; oppure a quello del bacio tra Breznev e Honecker, presidenti rispettivamente dell’Unione Sovietica e della Germania dell’Est, sopra questo graffito c’è una scritta in cirillico “Signore! Aiutami a sopravvivere a questo amore letale!”. E Berlino è sopravvissuta.

Ed io penso al mio amore letale. Penso ancora a quello sguardo. Era lei? E se era lei, perché non mi ha salutato? Non mi ha riconosciuto? O non ci credeva? Controllo il cellulare. Nessuna chiamata e nessun messaggio. In altri momenti direi: “ottimo! Nessuno che rompe!”, ma invece spero sempre che qualcuno mi rompa, ovviamente non un qualsiasi qualcuno, ma lei. Solo lei. Riuscirei a leggere solo un suo messaggio, rispondere solo ad una sua chiamata, tutto il resto sarebbe solo rumore, inutile rumore.

La sera mi vado a fare un giro al Tacheles, una struttura che non avrei mai pensato potesse esistere. Il nome deriva dall’Yiddish e significa “testo libero“, e se la libertà non sta qui allora non saprei proprio dove trovarla. Da fuori non gli daresti un euro e manco una lira. Un palazzone malandato che si erge imperioso per tutti i suoi metri di altezza, una struttura molto vecchia che non riesci a capire neanche perché stia ancora in piedi, come si faccia a reggere. Ma dentro si apre un altro mondo. Non so bene spiegare cosa sia, a metà tra l’atmosfera di un centro sociale e la funzionalità di una galleria d’arte. Era un grande magazzino che, negli anni 90, prima di essere demolito è stato occupato da un collettivo di artisti che ne hanno fatto appunto una galleria d’arte, la loro galleria d‘arte. Una galleria atipica. Nel cortile ci sono installazioni stranissime, mentre, se entri, nei vari piani puoi trovare di tutto, da un mercatino improvvisato di oggettistica varia creata da loro, ad un batterista in una gabbia che sfoga la sua rabbia accompagnando con il proprio ritmo quello dello stereo che ha alle spalle; infine all’ultimo piano trovi un bar su un balcone o qualcosa di simile, quasi totalmente all’aperto, in cui senti l’aria che ti entra nei polmoni e non si può assolutamente dire che sia aria viziata. Insomma un posto indicibile, non riesco proprio a descriverlo del tutto, faccio fatica. Ma il fatto che colpisce di più è il contrasto che si nota da fuori, lo si nota venendo dalla fermata della metro: al fianco del Tacheles vi è un edificio moderno, un albergo con la facciata ricoperta da vetri.

Passato e futuro, arte e commercio, libertà e denaro. Vorrei fotografarlo questo contrasto, ma non posso farlo, perché è notte e c’è troppa poca luce. Non esce niente. Allora mi riprometto di tornarci la mattina seguente. Però forse lei ci sarebbe riuscita, è più brava di me a fotografare, a scegliere le angolature precise, i momenti esatti ed i giusti usi del flash. Sì,

Page 9: Piccole Cose E Don Chisciotte

9

forse ce l’avrebbe fatta. Quanto mi divertivo a fotografare con lei ed a fotografarla. Mi piaceva tanto, troppo, così tanto che a volte dovevo obbligarmi a lasciare la macchinetta, altrimenti starei ancora lì a incorniciarla ed a catturare tutte i particolari del suo corpo. Imprimere nella memoria della macchinetta e nella mia il suo viso da tutte le angolature, da tutti i punti di vista, così da conoscerli tutti, ma proprio tutti e provare a stancarmi di vedere la sua faccia. Peccato che non mi sia mai successo.

XForse ho sbagliato a venire, dovevo lasciarla libera, anzi dovevo già dimenticarla. E poi senza

organizzarmi, senza una meta precisa, cioè trovare una persona che per me rappresenta il mondo in un mondo di persone è dura, davvero dura. Ho girato Berlino in lungo ed in largo, ho visitato musei, chiese, ma anche centri sociali e piste da skater, mercati e grandi magazzini. Ho scoperto che Berlino è una metropoli cosmopolita, trovi persone da tutte le parti del mondo, ma nelle zone turche è meglio non dire di essere per la libertà del Kurdistan. Ho scoperto che i mezzi sono puntuali ed efficienti, ma costano un po’, però il biglietto puoi anche non farlo sempre, perché i controlli sono davvero pochi. Ho scoperto che la birra non costa veramente niente, neanche quella di qualità, la weisse, la rossa, la doppio malto o quella cruda, ma che, invece, l’acqua costa molto e spesso ce l’hanno solo frizzante, molto frizzante. Ho scoperto che ai semafori non trovi lavavetri, ma in compenso potresti trovare dei giocolieri che ti fanno uno spettacolo con clave o palline giusto nel tempo che dura il rosso. Ho scoperto che le bottiglie di vetro hanno i prezzi maggiorati, ma che, se gli riporti il vuoto, ti ridanno qualcosina. Ho scoperto che una vacanza da solo non l’ho mai fatta, ma che ha degli aspetti positivi. Ho scoperto che mi manca la mia metà del cielo, mi manca assai. Ed ho scoperto che il mio piano era da folli.

Per questo chiedo l’aiuto a casa. Mancano due giorni al mio, ed anche al suo, rientro e non l’ho ancora trovata, forse l’ho solo intravista. Ma devo trovarla per forza. Devo trovarla per dare un senso a questo viaggio e dare un senso a tutto quello che sto facendo, anche per dare un minimo di senso a questo periodo della mia vita. Quindi prendo il cellulare e chiamo Alessandro, solo lui mi può aiutare. Alessandro è una delle poche persone della mia vita di cui mi fido al centopercento e so per certo che se gli chiedo un favore, lui fa tutto ciò che è possibile, anche di più per realizzarlo. Chiamo:

- ciao Ale, sono Cosimo. Sì è bella Berlino…sì la birra è buona e se riesco te ne porto un paio a Foggia, no purtroppo non l’ho acchiappata….esatto! Quindi non ho fatto niente…senti mi serve l’indirizzo di dove alloggia…mi serve entro stasera…e lo so che è difficile, ma provaci…si dai, ti telefono tra un pò…ciao…e grazie!

Più tardi telefono di nuovo e mi dà il nome e l’indirizzo dell’ostello dove soggiorna. Lo dice come la cosa più semplice del mondo, come Wolf il tipo che in “Pulp Fiction” risolve i problemi, o più semplicemente come Sancho Panza un fide scudiero che nonostante le pazzie del cavaliere lo segue e si batte per lui. Lo sapevo, ero sicuro che ce l’avrebbe fatta. Non so come abbia fatto, gliel’ho chiesto, ma non ha voluto dirmelo. Spero solo che non abbia fatto male a nessuno. A questo però ci penserò quando tornerò a casa, ora ho quello che mi serve, devo solo trovare il coraggio e devo farlo subito, perché ho poco tempo a disposizione.

XIEd il momento giusto è quella sera stessa. Sono ancora entusiasta di aver trovato il posto, se

Page 10: Piccole Cose E Don Chisciotte

10

rimango a crogiolarmi sui dubbi, sui perché e sulle modalità di azione non mi muovo più e già so che abbandono l’impresa. E non posso farlo. Don Chisciotte non lo farebbe mai, soprattutto dopo aver intrapreso questo lungo viaggio ed aver affrontato tutti questi mulini a vento. No, non posso farlo. Mi preparo, ed ammetto che mi preparo bene, cioè metto i vestiti più puliti che ho. Indosso una camicetta a maniche corte verdognola, me la sono conservata con cura in questa settimana e l’ho indossata solo una volta. Mi piace e nella mia testa avevo già deciso che avrebbe fatto al caso mio per l’occasione. Poi jeans lunghi a coprire le superstar. Anche i jeans lunghi li ho messi poco, un po’ per scarsa attitudine ad usarli nel periodo che va da maggio a settembre, un po’ per lo stesso motivo della camicia. Insomma, non mi nascondo, cercavo di vestirmi meglio rispetto alla quotidianità, anche solo di poco per quanto era possibile. Sono pronto, esco dall’ostello e vado. Andrò a fare la storia, la mia storia ed oggi la voglio fare a modo mio.

XIILa sera era già scesa, ma il sole non si è visto tramontare perché alcune nuvole lo coprivano

e se lo tenevano per sé. Il cielo di casa si è rannuvolato e si inizia a sentire l’odore della pioggia. E se senti l’odore della pioggia significa che prima o poi, ma molto probabilmente prima, sta per arrivare acqua dal cielo. Non si fa attendere. Sento le prime goccioline che mi cadono sul braccio, ne sento qualcuna in faccia e poi sento il rumore, il rumore silenzioso e assordante delle gocce che scendono dal cielo e si frantumano al suolo. Come un po’ mi sono frantumato io. Chissà se le gocce lo sanno che si stanno andando a schiantare contro il suolo. Chissà. Io un po’ lo sapevo, me lo sentivo che era meglio rimanere a Foggia a lavorare, a produrre e poi a crepare. Ma io scelgo sempre le strade più difficili e questa “dell’innamorato che andava a rischiare tutto per la sua bella“ mi affascinava ed un po’ lo fa tuttora. No. Non è andata bene. Cioè in realtà a voler essere sinceri: non lo so, ma credo che sia così.

Trovato il suo ostello, mi sono avvicinato quatto per osservare. Come nella guerriglia. Volevo sfruttare il fattore sorpresa. Un fattore che, invece, ho subito. Perché arrivato vicino l’ostello, l’ho vista. L’ho vista felice tra tante persone, tra i suoi amici ed altri che, invece, non conoscevo. Felice come non me l’aspettavo. Aveva gli occhi che le brillavano così tanto che non brillavano da tanto, era veramente tanto tempo che non li vedevo così. Forse troppo. Quindi ho capito che, forse, quella felicità io non la riuscivo a donare. Allora mi sono girato e sono andato via sconfitto e deluso. Quello era il suo destino. Ora dovevo cercare il mio.

XIIIEntro in casa: è in disordine, proprio come l’avevo lasciata, tutti i miei problemi sono lì,

proprio come li avevo lasciati, mentre l’unico che volevo risolvere, si è risolto, ma nel senso che non esiste più. Ho poca voglia di mettere a posto e voglio dormire, ma ho fame quindi decido di soddisfare un istinto per volta e mi metto ai fornelli per cucinare qualcosa da mettere sotto i denti, qualcosa di italiano. Perché, dopo sette giorni e sette notti di curry wurstel, kebab, felafel, cucina cinese, falsa pizza italiana e fast-food statunitensi, ho voglia di pasta e ho voglia di vino: preparo le trofie al pesto e lo accompagno con un bel rosso artigianale di quelli che bastano due bicchieri per salutare il pubblico e farsi un giro con Oniro sul letto. Sì, perché ho anche tanta voglia di dormire, di stendermi sul letto e dormire un anno intero, proprio come Amelie nel suo fantastico mondo, magari svegliarmi dopo dodici mesi e vedere che tutto si è risolto in meglio. Tutto. Ma non è così e domani pomeriggio dovrei già lavorare. Che palle!

Il letto di casa è sempre il più comodo. Non ci sta niente da fare, può essere di paglia o di

Page 11: Piccole Cose E Don Chisciotte

11

mattoni, ma è il tuo e questo gli dona qualcosa in più che riesce a farti stare e rilassare meglio. Steso sul letto, scelgo qualcosa dal mio lettore per addormentarmi senza dover sentire il silenzio, perché potrebbe essere un silenzio pesante e non ho voglia di sentirne. Assolutamente No. Era anche abbastanza presto, era solo mezzanotte e io abituato ormai a ore piccole avrei faticato a dormire, quindi non voglio assolutamente sentire il silenzio della notte, quel silenzio colorato di suoni: auto, cicale e frigorifero, mezzi della spazzatura, non c’è mai il silenzio completo. Ma quel silenzio rumoroso mi porta a pensare. Ovviamente a pensare a lei. E non voglio più farlo. Ormai è così. Quindi scelgo “Sunday Morning” dei Velvet Underground e provo a chiudere gli occhi. Vorrei sognare altre donne, star con loro e magari farci l’amore, purtroppo però sogno ancora lei. Ma i sogni non li puoi governare, quindi me li tengo.

Sogno che stiamo al mare, ci stappiamo una birra e parliamo di cinema, poi ad un tratto lei mi butta un po’ di birra in faccia come faceva spesso. Scherzava e si divertiva a prendermi in giro, perché non amo la sabbia e mi dà alquanto fastidio ritrovarmela appiccata. Così mi alzo e la inseguo, ci facciamo tutta la spiaggia. In teoria avrei potuto raggiungerla in breve tempo, ma mi piaceva vederla correre e muovere il suo corpo e sì, anche il suo culo perfetto. Perché è perfetto. Alla fine della spiaggia l’acchiappo e la getto in acqua ed io mi getto con lei. Esco fuori dall’acqua e mi avvicino per baciarla, poi all’improvviso un rombo. Sì un rumore strano sembrava fosse caduta una montagna, mi giro e non la trovo più. Mi giro ancora e non c’è più nessuno sulla spiaggia. Mi giro nuovamente in cerca di qualcosa e trovo un bagnino con il costume rosso che si pensa di essere a Baywatch e che già mi sta sul cazzo. Voglio lei, almeno nei sogni fatemela avere. Ma il bagnino non si sposta e non scompare, anzi mi parla:

- Rispondi al citofono! - mi dice,- Quale? - chiedo io,- Il tuo! - mi risponde alterato.

XIVMi sveglio e penso che la notte non è iniziata bene: primo sogno primo incubo. Poi ad un

tratto mi rendo conto che suona realmente un citofono, suona con insistenza, quasi con arroganza. È il mio. Basta! Non ce la faccio più, questo sarà qualcuno che rompe, qualche amico che vorrà vedermi e vorrà sapere come sia andata. Ma io non voglio vedere nessuno, voglio stare solo e voglio dormire. E poi chi è quel matto che mi viene a bussare a quest’ora?

- Chi è? - chiedo tramite la cornetta;- Apri - risponde una voce femminile. La sua voce femminile. Eseguo l’ordine attonito. La voce era piuttosto decisa, se sapessi di non aver fatto niente,

direi quasi arrabbiata. Sono assonnato ed in pigiama, un mero pantaloncino con cui gioco anche a calcetto. L’ho cercata per una settimana in terra straniera e sconosciuta e ora, che è l’unico momento in cui non pensavo di vederla, sta salendo proprio da me. Dico da me. La vita sarà strana, ma io così rischio seriamente l’esaurimento. Vado in bagno e cerco di darmi una sistemata almeno in faccia, mi sciacquo e trilla il campanello della porta. Ecco, il momento è arrivato. Cioè lei è arrivata. Apro la porta e la guardo, lei sta un po’ giù come se avesse un fatto importante da dirmi. Non può essere incinta questo lo so, perché sono sempre stato attento, quindi se è così non è mio.

- Ciao - mi dice con molta pacatezza;- Ciao! Entra -- Stavi dormendo? -- No. -

Page 12: Piccole Cose E Don Chisciotte

12

- Invece sì! Hai la faccia di quando ti svegli! - e sorride tra sé. Che senso ha mentire al tuo specchio? Faccio un sì con la testa mi dirigo verso il frigo e lo

apro un attimo per vedere cosa ho da poter offrire.- Posso offrirti un caffé, una birra o un succo di pera. - e mentre pronunciavo queste parole

prendo la birra perchè già lo so cosa vuole. - Vedo che non devo neanche risponderti. -- Io vedo che non hai cambiato gusti. -- Non ci siamo visti solo per una decina di giorni. -- Lo so. - avrei voluto aggiungere qualcosa di freddo tipo “so contare” ma non lo faccio,

perché tanto l’orgoglio in queste cose serve a poco. Vado avanti e chiedo: - Insomma come è stata la vacanza? -- Berlino è stupenda, dovresti andarci perché ti piacerebbe un sacco -- Lo penso pure io -Faccio il finto tonto ed un po’ me la rido sotto i baffi. Mi inizia a raccontare di tutta la vacanza

e di tutti i posti che ha visitato, molti li ho visti pure io ed in molti casi per poco non ci siamo incontrati. Mi parla di tutte le persone che ha conosciuto, dei ragazzi che ha visto ed incontrato (che odio!), insomma il quadro del viaggio era il più bello possibile. Tutto perfetto nelle sue vacanze. Poi però dice:

- Mi sei mancato! -Questo non me l’aspetto proprio, semplici parole che mi svegliano dal torpore che mi era un

po’ calato e mi sorprendono a tal punto che mi cade un po’ di birra addosso. Lei ride, ed è bella quando ride, bellissima. La mia risposta non si fa attendere, è la più sincera possibile, non è neanche passata per il cervello. È uscita diretta.

- Come? Ti sono mancato? -- Significa che mi sei mancato e che mi sono mancate tutte quelle piccole cose che fai. Tutti

quei gesti, quelle parole e quegli sguardi che fai per me. Ne fai così tanti che io non riesco neanche a ricordarmeli tutti alla fine di ogni giornata.

- Ed è sbagliato? - Sono sempre più imbecille quando parlo, ormai non ragiono più, sta parlando il cuore ed il cervello si è andato a fare un thè.

- No, assolutamente! Anzi ti sto dicendo che mi sei mancato! E che mi dispiace essere sparita così all’improvviso, mi sono anche preoccupata, ma io dovevo prima capire cosa volevo e cosa cercavo. Dovevo capire perché non riuscivo ad aprirmi del tutto con te, che cosa mi bloccava e se era giusto continuare questa storia.

- E ora? - continua la serie di domande inutili e senza senso, ed il cervello si è andato a fare anche un pisolino.

- E ora non scappo più. Sto con te! Mi abbraccia e ci baciamo.

XVNemmeno nel migliore dei miei sogni sarebbe successa una cosa simile. Ci stacchiamo e mi

osserva, io sorrido. Non capisco più niente, ma so che lo devo dire, devo dire del mio viaggio e della mia ricerca. Non posso nasconderlo, non saprei neanche farlo. Poi lei mi chiede:

- Lo sai che quando stavo a Berlino, ho visto un ragazzo uguale, ma dico uguale a te? Stava in bici e la cosa strana è che anche lui mi ha guardato per qualche istante. Era proprio uguale a te. Dico uguale.

Il fato per una volta mi dà una mano, prendo la palla al balzo e non aspetto altro.

Page 13: Piccole Cose E Don Chisciotte

13

- Ero io. Spalanca gli occhi ed io mi preparo a ricevere uno schiaffo.- Come eri tu?- Sì! Ero io. Sono stato a Berlino e volevo incontrarti per dirti una cosa, ma non ci sono

riuscito. Cioè alla fine ero riuscito anche a sapere il posto in cui dormivi, ma non me la sono sentita di entrare e rovinarti le vacanze. Allora sono andato via.

- Mi vuoi dire che sei stato a Berlino? E che mi hai cercata? Non potevi chiamarmi? E perché sei venuto?

- Quante domande. Non volevo chiamarti volevo che fosse una sorpresa ed ho fatto tutto il viaggio solo per dirti che ti amo! Ti amo, Marzia! Non te l’ho mai detto e volevo dirtelo. Ecco perché sono venuto a Berlino. Poi, però, non me la sono sentita. Perché ho visto che stavi bene e forse ero io il problema, non sono in grado di farti stare bene.

Mi guarda, mi osserva, mi fa un gesto con la mano come per zittirmi, per rimanere in silenzio e non dire più niente, non continuare a cercare di spiegare la pazzia. Si alza dalla sedia e si avvicina a me, io mi aspetto uno schiaffo, invece si siede su di me e mi bacia. Mi bacia con passione, lo sento. È uno di quei baci che non si dimenticano. Che non vanno via. Non vanno più via. Poi si stacca e dice:

- Ti amo anch’io! -E sono state le più belle parole che io abbia mai sentito fino ad ora. Quelle parole che non mi

sarei mai aspettato, parole che non mi aspettavo più da lei ed invece sono appena uscite dalla sua bocca. Proprio dalla sua. Ed ho capito qualcosa. Don Chisciotte non doveva combattere, non doveva andare alla conquista di niente, l’aveva già fatto. E non lo sapeva. Combatteva già tutti i giorni e lo faceva senza clamori in maniera nascosta, sottile, piccola. Tante piccole cose che fermavano i tanti piccoli mulini a vento che si trovano ogni giorno. E non lo sapeva. Perché le piccole cose non si sanno mai, non si conoscono, non le annuncia nessuno, sembrano troppo facili, troppo banali e un po’ inutili. Invece sono tutto. Perché sono loro, sono le piccole cose, le tante piccole cose a formare il tutto. E don Chisciotte deve stare lì, in ogni momento della vita, in ogni fibra di un tessuto, in ogni mollica di pane, in ogni atomo della materia, in ogni piccola cosa. E ci sarà. Starà sempre lì. Sempre, perché la vita potrà essere anche precaria, ma l’amore è eterno.