Pasolini e la stampa: storia del giornalista eretico dagli esordi al corriere
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Pasolini, il giornalista Storia del giornalista eretico dagli esordi al Corriere
Università degli Studi di Padova corso di laurea in Scienze della Comunicazione
Corso di Teorie e Tecniche del Linguaggio giornalistico prof. Raffaele Fiengo
di Dalmonego Lorenzo
461342/sc
Dalmonego Lorenzo, Pasolini, il giornalista, gennaio 2004 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
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"lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza:
se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall'essermi
messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non
sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca."
"Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io,
purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano (la banalità
del loro linguaggio lo dimostra), ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio
scandalo."
Pier Paolo Pasolini
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Introduzione: perché Pasolini?
La scelta di trattare la figura di Pier Paolo Pasolini e il suo rapporto con il mondo
del giornalismo deriva dalla centralità della figura dello scrittore friulano nel
panorama degli intellettuali che si sono avvicinati al mondo del giornalismo.
Nel periodo che si caratterizza per un forte mutamento del campo giornalistico,
Pasolini rappresenta la categoria degli “intellettuali impegnati” così discussa e
controversa, in un’Italia che cambia e si trasforma. Un critico sempre presente,
che punzecchia con cruenta e impeccabile lucidità le evoluzioni del costume del
nostro paese e i suoi compromessi, mettendone in luce i limiti e le perplessità. A
circa venticinque anni dalla sua morte, rimane ancora oggi immutato l’interesse
per i suoi scritti, come per le sue opere, che sono ora premonizioni (quasi sempre
avveratesi) ora ritratti di un’Italia in evoluzione.
In queste pagine cercherò di delineare il profilo del “Pasolini giornalista”,
incessante creatore di polemiche e di bufere sulle varie pagine dei giornali,
descrivendo i primi passi mossi dallo scrittore nell’ambiente bolognese fino ad
arrivare al suo rapporto controverso con il Corriere della sera di Piero Ottone,
anche alla luce delle ultime scoperte. Tenterò di delineare le tematiche che
emergono in maniera chiara dai numerosi scritti e articoli di Pasolini cercando di
fare anche un’analisi stilistica dei suoi interventi polemici. L’obiettivo è quello di
approfondire un aspetto della vita di Pasolini, un protagonista indiscusso della
cultura e della storia del giornalismo, andando alla ricerca delle innovazioni che il
suo stile ha portato e cercando l’eredità che ci ha lasciato e che ritroviamo in
numerose occasioni.
Il presente lavoro è stato realizzato nell’ambito del corso di teoria e tecniche del
linguaggio giornalistico presso il corso di laurea in Scienza della Comunicazione,
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, tenuto dal prof. Raffaele
Fiengo nell’anno accademico 2003/2004.
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2.Biografia di un giornalista
Ho tentato di ricostruire la vita di Pasolini sottolineando il suo rapporto, fecondo
fin dalla gioventù, con il mondo del giornalismo. Della sua vita e delle sue
molteplici attività (scrittura, poesia cinema e pittura) ho riportato solamente le
tappe salienti e fondamentali per la sua formazione culturale, volendo focalizzare
l’attenzione sulla sua attività giornalistica e di polemista. D’altronde sulla vita
pubblica e sulle opere di Pasolini sono moltissime le pubblicazioni e le
informazioni, molte delle quali presenti anche sulla rete.
Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922 figlio di Carlo Alberto,
tenente di fanteria e di Susanna Colussi insegnante elementare. L’infanzia è
caratterizzata dai continui spostamenti del padre che per lavoro è costretto a
cambiare spesso città: Parma Conegliano, Belluno, Casarsa, Idria, Cremona,
Scandiano.
2.1 Il periodo bolognese
Nel 1937 si trasferisce a Bologna dove rimarrà per alcuni anni: frequenta il liceo
classico e si iscrive all’Università alla facoltà di Lettere. A questi anni risalgono i
suoi primi scritti (soprattutto poesie in italiano e friulano) e le sue prime attività
giornalistiche. Assieme ad alcuni amici, Luciano Serra, Francesco Legnetti,
Roberto Roversi, pensa di costruire una rivista che spazi nell’ambiente letterario e
si occupi di storia dell’arte. La rivista vedrà la luce molti anni più tardi, quando
Pasolini sarà a Roma. Tuttavia i continui rapporti fra i giovani che compongono il
gruppo degli “Eredi” (questo doveva essere il nome del periodico) stimolerà
Pasolini nel suo percorso culturale e lo spingerà a compiere altri passi nel mondo
del giornalismo.
Sempre al periodo universitario bolognese risalgono le collaborazioni di Pasolini
con alcune riviste del regime fascista: in questo periodo collabora con
“Architrave”, rivista dei Giovani Universitari Fascisti, e soprattutto con
“Setaccio”, rivista della Gil, la Gioventù italiana del littorio, che uscirà
complessivamente con 6 numeri dal novembre 1942 al maggio 1943. Le riviste
non trattano solo temi letterari o culturali ma anche tematiche vicine alla politica e
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all’impegno giovanile; in entrambi i casi si tratta di periodici di propaganda anche
se il regime, ormai al collasso a causa della guerra, non esercitava una censura
tanto invadente. Infatti Pasolini trova già nelle pagine di quelle riviste lo spazio
per le polemiche e le invettive: se alcuni interventi sono solo piccole poesie in
friulano e italiano o saggi letterari, altri pezzi riguardano direttamente l’impegno
civile e coinvolgono il regime stesso. Su “Architrave” esce il 31 dicembre un
articolo dal titolo “Filologia e morale” dove tenta di abbozzare una sorta di
ricostruzione del conflitto fra le generazioni delineando i confini della sua.
L’analisi della situazione è molto lucida: “Per quelle che ho chiamato basi morali
e politiche il discorso sarebbe assai più lungo, e non del tutto approfondibile;
crediamo del resto che le presenti condizioni della patria non siano che l’ avvio a
un approfondimento di quelle, un pretesto per un importantissimo esame di
coscienza”. Nell’articolo il ruolo della cultura e del suo insegnamento alle nuove
generazioni si mescola con un’esigenza chiara e naturale di cambiamento morale,
politico e culturale. Nell’articolo intitolato “I giovani, l’attesa” apparso sul primo
numero del “Setaccio” del novembre 1942 parla della sua generazione e dei molti
giovani che come lui vivono l’esperienza della guerra : “Come non siamo fascisti,
se senza mutare il senso della parola, possiamo chiamarci italiani, così non
vogliamo chiamarci genericamente né moderni né tradizionalisti, se modernità o
tradizione non significano altro che viva aderenza alla vita vera”. La polemica è
ancora velata e nascosta e diventa più decisa in un articolo successivo, “Ultimo
discorso sugli intellettuali”, apparso sul penultimo numero della rivista: una vera
difesa del ruolo dell’intellettuale, incapace di inchinarsi alle esigenze di parte:
“Noi vorremmo che finalmente questa nostra posizione di intellettuali venisse considerata alla stregua di un mestiere e, come tale, rispettata. (…) Ma mi si potrebbe obbiettare che ora si va appunto chiedendo agli intellettuali di adeguarsi allo stato di guerra esercitando proprio un definitivo e utile mestiere, quello della propaganda. Ma sta qui, appunto, l’equivoco: e si tratta di un equivoco tra vocazione e vocazione, tra mestiere e mestiere. (…) Non (si può) pretendere che un uomo, di punto in bianco, perché sa tenere la penna in mano e ha fatto, magari, della buona critica debba essere capace di mutare improvvisamente i suoi interessi, la sua forma mentis, le sue aspirazioni, e riempire le pagine della sua rivista di argomenti a cui non è educato, oppure tacere…”.
Ci sono già in queste righe tutti gli elementi che ritroveremo nel “Pasolini
Corsaro”: un intellettuale (così si autodefinisce, curiosamente, a soli vent’anni)
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che difende la sua libertà di espressione contro chi la vuole limitare. Il fascismo
allora, quello che definirà “il nuovo fascismo” qualche decennio più tardi.
2.2 Il periodo friulano
Nel 1942 Pasolini lascia Bologna e si trasferisce con la madre a Casarsa, in Friuli
e successivamente a Versuta per sfuggire alle atrocità della guerra. A questo
periodo sono legati i ricordi più belli dello scrittore e gli anni che passa in queste
zone incideranno in maniera notevole sugli eventi successivi e sul suo carattere.
Questi anni sono caratterizzati dallo stretto legame con la madre Susanna, dalla
sconvolgente morte del fratello Guido nell’eccidio di Porzus nel 1945, dalla presa
di coscienza della sua omosessualità e dall’inizio del suo impegno politico come
attivista marxista. Sempre in questi anni si forma la sensibilità letteraria e critica
di Pasolini: l’amore per la semplicità e la naturalezza di quelle zone e per quei
personaggi che caratterizzano il paesaggio friulano, sono le tematiche principali
che popolano le liriche di Pasolini in quel periodo.
Il tema della lingua e dell’identità friulana è al centro della sua attività di saggista
e di giornalista che prosegue anche dopo il fervido periodo delle riviste bolognesi.
In un centro così piccolo come Casarsa è difficile riproporre i fermenti culturali
degli anni bolognesi o riproporre le discussione e le tematiche trattate con gli
amici del gruppo “Eredi”. Eppure Pasolini è deciso a trattare argomenti importanti
come quello della lingua e successivamente dell’identità friulana, modificando il
linguaggio con cui trasmettere questi concetti.
Risalgono a questi anni la decisione, assieme agli amici Riccardo Castellani e
Cesare Bortotto, di fondare una rivista rivolta alla comunità locale, scritta in un
linguaggio chiaro e semplice (per lo più dialettale) che trattasse accanto alla
poesia anche tematiche importanti come l’impegno civile. L’idea si realizzerà,
nell’aprile del 1944, nello “Stroligut” fondato da Pasolini e dai suoi due amici con
la collaborazione dei ragazzi a cui Pasolini insegnava. L’articolo di apertura del
primo numero, scritto in stretto dialetto perché raggiungesse la popolazione locale
e stampato a spese dei redattori, aveva come ambizioso titolo “Tema del dialetto,
della lingua, dello stile” . Successivamente la rivista ospitò gli interventi di
Pasolini e dei suoi studenti fino al 1945, quando si trasformò dopo la guerra nel
“Quaderno Romanzo”. In questi anni Pasolini si dedica all’insegnamento: a
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Casarsa prima e poi a Versuta organizza, con l’aiuto della madre, una scuola per i
ragazzi del paese e successivamente, grazie anche al loro contributo, fonda l’
“Academiuta”, un associazione che ha lo scopo di difendere e valorizzare la koinè
dialettale locale e sviluppare gli argomenti che riguardano il mondo friulano.
Dopo la guerra, nel 1946, inizia la sua collaborazione con il quotidiano del
Comitato di Liberazione Nazionale “La Libertà”, su cui Pasolini pubblica una
serie di articoli che trattano dell’autonomia del Friuli e affrontano le cocenti
polemiche con gli avversari di tale progetto, concentrati soprattutto a Pordenone.
Il 6 novembre 1946 con un articolo dal titolo “Che cos’è dunque il Friuli“ si
scaglia contro i politici della vicina Pordenone, rei di contrastare il progetto di un
Friuli autonomo: “I dirigenti dei partiti di Pordenone vivono in una città (se così
si può chiamare) che non ha una tradizione friulana; la storia ci fornisce un’
esauriente testimonianza di questo, e, se dovessimo premettere almeno uno, o il
più importante, degli argomenti di questo scritto, diremo che la non-friulanità di
Pordenone è rappresentata lapalissianamente dalla sua lingua”.
A questi anni risale l’adesione al partito comunista (1948). Altri pezzi scritti da
Pasolini che trattano la lingua, il dialetto e le peculiarità linguistiche del Friuli
sono apparsi negli anni successivi alla guerra sulle riviste più importanti e
tradizionali della regione: “Ce Fastu”, “Il Tesaur” e “Lo Strolic furlan”.
Tuttavia riesce a polemizzare anche con i sostenitori delle sue idee e ciò
comporterà anche un allontanamento dal movimento autonomista friulano
suggellato dall’articolo “Il Friuli e il Movimento Popolare Friulano”, apparso su
“Il Mattino del Popolo” del 28 febbraio 1948. La collaborazione con il Mattino
risale sempre a questo periodo con una serie di articoli che trattano maggiormente
della sua esperienza scolastica e di insegnante che dei temi precedentemente
affrontati (lingua o politica). Per un paio di anni (’47-’48) Pasolini scriverà pezzi
che direttamente rispecchiano il lavoro svolto nelle scuole private di Casarsa e di
Versuta e di quella pubblica di Valvasone. Scolari e libri di testo, Dal diario di un
insegnante, Scuola senza feticci, Poesia nella scuola, sono solo alcuni dei titoli
dei pezzi apparsi in quel periodo su “il Mattino del Popolo”.
2.3 Il periodo romano
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Nel 1950 Pier Paolo Pasolini si trasferisce a Roma con la madre. Le motivazioni
che lo costringono ad abbandonare l’amato Friuli sono molteplici: si intrecciano i
contrasti insanabili con il padre e le accuse, a causa della sua omosessualità, che
prima come voci di paese poi con veri e propri atti giudiziari lo colpivano.
L’ultimo motivo per partire glielo offre il Pci che lo espelle, a causa dei suoi guai
giudiziari.
Ha inizio il suo periodo più fecondo sotto tutti i punti di vista e che coinvolge gli
innumerevoli campi nei quali lo scrittore si è cimentato. E’ a Roma che pubblica i
libri di maggior successo (Ragazzi di Vita, Una vita violenta…), inizia nel 1961
con Accattone la carriera di regista e intensifica la sua attività di saggista e di
giornalista. A Roma conosce l’ambiente degradato delle borgate romane che
diventano il centro della sua poetica e del suo realismo romantico, pieno di
rimpianti e di ricordi per un passato lontano. Qui incontra quel mondo di “altri” a
cui “Pasolini sentiva di dover sacrificare i suoi privilegi di classe e di cultura”,
come scrive uno dei massimi conoscitori dello scrittore friulano come Nico
Naldini. Pasolini diventa un protagonista della vita culturale, uno scrittore
affermato grazie ai primi romanzi pubblicati che portano molto successo
all’autore oltre che molte polemiche. Nella capitale frequenta l’ambiente culturale
e incontra gli intellettuali più impegnati e famosi del momento come Alberto
Moravia, Giorgio Bassani ed Elsa Morante. Il contatto con questo nuovo mondo
(il degrado delle borgate e l’ambiente culturale) influenza pesantemente lo stile di
Pasolini, assieme alle idee marxiste che da anni ormai sta sviluppando. A questo
proposito Alberto Moravia, che diventerà un grande amico del poeta friulano,
commenta così i primi anni romani di Pasolini: “È in quel tempo (anni ’50) che si
situa la sua grande scoperta: quella del sottoproletariato, come società
rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un
inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese
edonista e superba. Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora
probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà,
dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno
scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista,
"romantico", cioè animato da una pietà patria arcaica, non comunismo quasi
mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell'utopia. È superfluo dire che un
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comunismo simile era fondamentalmente sentimentale” (L'Espresso" del 9
novembre 1975).
Inizia la sua attività giornalistica come collaboratore delle testate più disparate: il
suo primo articolo, in elzeviro, appare il 9 marzo 1950 su “La libertà d’Italia” ed è
una recensione di un’opera di Sciascia, “Favole della dittatura”. Inizia un lungo
sodalizio con il mondo del giornalismo e della critica : il 12 maggio 1950
incomincia a collaborare a “Il quotidiano”, ironia della sorte foglio della curia
romana, sul quale appariranno, oltre alle recensioni letterarie, vere e proprie
corrispondenze giornalistiche. Sono anni difficili dal punto di vista economico per
lo scrittore e precedenti alla grande notorietà che lo circonderà negli anni
successivi: suoi contributi appariranno negli anni ’50 su “Il popolo di Roma”, su
“Il lavoro” di Genova, su “Il giornale” di Napoli. Riesce a far pubblicare i suoi
primi stralci di racconti su “Il mondo” e collabora attivamente con un’altra rivista
“La fiera letteraria”. Collabora a “Giovedì”, un settimanale di politica e cultura
diretto da Giancarlo Vigorelli e nel 1955 porta a compimento un antico progetto
che coltivava sin dagli anni dell’Università a Bologna: una rivista dedicata ai temi
letterari fondata con gli amici di un tempo Legnetti e Roversi, stampata a
Bologna. Di questa rivista, chiamata “Officina Bolognese”, usciranno 12 numeri
fino al 1958 suscitando un notevole successo.
A questi anni (1956) risale anche un contatto con il «Corriere d’Informazione», la
testata “sorella” del quotidiano di via Solferino. Il “Corriere della sera”, con uno
speciale pubblicato anche sulla versione online del giornale, ha ricostruito i
contatti fra Pasolini e il direttore Gaetano Afeltra che chiedeva allo scrittore dei
racconti da pubblicare per l’edizione del sabato:
«Egregio signore, il "Corriere d’Informazione", come Lei avrà visto, pubblica ogni settimana, al sabato, una pagina intera dedicata alla narrativa, nella quale a racconti famosi di Cechov, Mann, Pirandello, Dostoevskij si alternano a racconti di scrittori italiani viventi già noti e di indiscutibile valore letterario... perciò saremmo lieti di poter contare anche sulla Sua collaborazione...». Pasolini accetta e il 9 novembre 1956 risponde così al direttore: «Caro Afeltra, non so come scusarmi per la mia lunga morosità: ho sempre intenzione, naturalmente, di mandarle un racconto, appena avrò un po’ di tempo per correggere e ricopiare quello che ho pronto» (il testo integrale della lettera è allegato alla tesina).
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Inizia con gli anni ’60 il momento più “politico” di Pasolini e quello socialmente
più impegnato. Al di là dei giudizi che gli etichettano sia i benpensanti di destra
che quelli di sinistra, lo scrittore friulano rappresenta un elemento importante nel
dibattito politico, temuto e senza dubbio contrastato. Ormai la sua notorietà è
diffusa e i movimenti che sconvolgeranno la sopita società occidentale saranno il
trampolino di lancio ideale per le polemiche di Pasolini.
Nel 1960 accetta di collaborare con il settimanale del Pci “Vie Nuove” , con una
rubrica specifica “Dialoghi con Pasolini”. Anche se il giornale esprime la linea
del partito che lo aveva espulso, Pasolini rappresenta comunque un elemento
importante per il giornale e per i suoi lettori, anche alla luce delle opinioni della
direttrice Macciocchi. Nonostante il pubblico del settimanale sia molto omogeneo
e abituato ad un’ informazione unilaterale, Pasolini cercherà di interpretare i
fermenti della sinistra e rappresenterà un collante fra il lettore medio e il mondo
della cultura. E’ interessante notare come alcune tematiche della poetica di
Pasolini riemergano come un fiume carsico in ogni momento professionale della
sua vita di giornalista, senza abbandonarlo fino alla fine. Ecco come descrive il
suo impegno di critico sul numero 51 di Vie nuove” del 28 dicembre 1961:
“Non rinuncerò mai a nulla per la reputazione. Io spero che coloro che mi sono amici, o personali, o in quanto lettori, o come compagni di lotta (e nei cui occhi, lo so, cala un'ombra, ogni volta che la mia reputazione è in gioco: un'ombra che mi dà un dolore terribile) siano così critici, così rigorosi, così puri, da non lasciarsi intaccare dal contagio scandalistico: se così fosse, gli sconfitti sarebbero loro: se solo cedessero per un attimo e dessero un minimo valore alla campagna dei nemici, essi farebbero il gioco dei nemici. Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell'intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti”.
Collabora anche, con pezzi impegnati dal punto di vista politico, a “Nuovi
argomenti”, la rivista curata dall’amico Moravia fino agli inizi degli anni settanta.
Pasolini ormai ha varcato la soglia: il suo essere controcorrente, eternamente
“diverso”, lo porta a scontrarsi con le autorità dello Stato sia per la censura, che
colpisce le sue opere, sia per la nascita dei movimenti di contestazione che
travolge anche il mondo degli intellettuali. Negli anni ’60 bisogna ricordare la
collaborazione di Pasolini al “Giorno”, quotidiano nato da poco e che cercava
interlocutori importanti da poter proporre ai nuovi lettori. Apparirà su questa
testata, a puntate, la cronaca del viaggio che Pasolini compie nel 1961 assieme ad
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Alberto Moravia ed Elsa Morante in India, successivamente pubblicata in un
volume, “L’odore dell’India”, edito da Guanda. Un esempio di cronaca
giornalistica e di poesia pura, oltre che una riflessione sulle condizioni di vita di
quel paese.
2.4 La svolta di Valle Giulia
Nel 1968 c’è un avvenimento fondamentale per la vita giornalistica di Pasolini : la
pubblicazione della poesia “Valle Giulia”. Il pezzo, scritto sotto forma di poesia,
doveva apparire sul numero di giugno della rivista “Nuovi Argomenti”, ma
<<l’Espresso>> ne pubblicherà un’ anticipazione che sarà oggetto di scandalo e di
furiose polemiche verso Pasolini. La poesia è scritta in occasione degli scontri fra
gli studenti della facoltà di architettura e la Polizia, avvenuti a Valle Giulia: è
l’inizio del ’68 a Roma e l’esplosione di protesta si propagherà ben presto nel
resto del paese, con laceranti conseguenze.
Pasolini scrive:
“È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. […] Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. […]
Le polemiche scoppiano inevitabili. Pasolini, il marxista, il collaboratore delle
riviste del Pci insomma l’ex-comunista stava dalla parte delle forze dell’ordine,
secondo la maggior parte degli osservatori politici del tempo. La polemica investe
tutte le forze, con il coinvolgimento di tutti i partiti. A nulla serve l’ “Apologia”
che in seguito scriverà per difendere i suoi versi e per spiegare l’intento
provocatorio delle sue parole: l’obiettivo non era schierarsi dalla parte
dell’autorità, che Pasolini contestava tenacemente, quanto sottolineare la diversità
dei giovani di quegli anni, così simili ai loro antenati “piccolo-borghesi”. Voleva
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stimolare quella nuova generazione di protesta non condannarla: è l’inizio delle
provocazioni, con quello stile contraddittorio e polemico che caratterizzerà gli
interventi scritti di Pasolini fino alla sua morte.
La spinta polemica di quei mesi lo porta ad accettare un’altra collaborazione con
un settimanale importante, “Tempo Illustrato” con una rubrica intitolata “Il Caos”.
Il sottotitolo che accompagna il nome della rubrica consente a Pasolini la libertà
che stava cercando e che riteneva una condizione fondamentale della sua attività:
“Zibaldone di ogni pensiero, dialoghi con i lettori, spunti di critica
cinematografica e letteraria, appunti di costume e di politica”. La collaborazione
durerà fino al 1970 ed è interessante trovare fra quegli articoli un tema, quello del
“Fascismo di sinistra” che infiammerà le polemiche degli anni seguenti e con lo
stesso Pci: il 28 settembre 1968 scrive
“Quanti Cattolici, divenendo comunisti, portano con sé la Fede e la Speranza e trascurano, senza neanche rendersene conto, la Carità. E’ così che nasce il fascismo di sinistra.” Questi sono anche gli anni della sua intensa attività cinematografica che lo
impegna moltissimo nello studio del linguaggio audiovisivo. Suoi interventi
importanti appaiono in questi anni su “Rinascita”, “Cinema e film”, “Cinema
nuovo” e ripercorrono le tematiche del cinema di Pasolini, dallo studio semiotico
del linguaggio audiovisivo passando per osservazioni pratiche sul montaggio e
sulle tecniche di ripresa, fino ad arrivare ad argomenti più teorici come “il cinema
di poesia” e la nascita di un linguaggio universale, il codice dei codici. Una
raccolta di questi articoli, saggi e interventi sono stati pubblicati dall’autore in un
volume, “Empirismo eretico” edito da Garzanti nel 1972.
3. L’approdo al “Corriere della sera”
3.1 Introduzione
L’ultimo periodo della vita di Pasolini, quello che va dal gennaio 1973 all’ottobre
1975, è simboleggiato dal connubio fra lo scrittore e “Il Corriere della sera”. Gli
articoli polemici che scrive in questi anni rispecchiano fedelmente i sentimenti
del poeta: la disillusione verso la modernità, l’avversione per la società dei
consumi e per i suoi abitanti, il contrasto insanabile con la classe dirigente, con la
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Chiesa e con la politica in genere, compresa quella fatta dal Pci. La notorietà
raggiunta, sia per le aspre critiche che per gli elogi ricevuti, gli conferiva una certa
autorità nei confronti dei lettori e la sua personale esperienza umana, persona
controcorrente ed “eternamente condannata ad essere diversa”, connotava
ulteriormente i suoi scritti polemici.
Walter Siti, curatore delle opere di Pasolini per i "Meridiani" di Mondadori,
inquadra in maniera perfetta il nuovo stile che sta alla base degli interventi
polemici sul Corriere e sottolinea l’importanza della presenza dello scrittore
friulano sulle prime pagine del grande quotidiano:
[…] “ho l’impressione che Pasolini a un certo punto abbia pensato ai suoi interventi sui media come esercizi per ottenere il fatto che quando lui avesse pubblicato un testo, questo risultasse carico di questa specie di qualità che assomiglia alla "presenza" degli attori. Pasolini che scriveva sulla prima pagina del Corriere della Sera non aveva lo stesso peso che avrebbe avuto - mettiamo - Palazzeschi (e quindi anche a parità di bravura) se Palazzeschi avesse scritto sullo stesso giornale. Il tipo di "presenza" che Pasolini si era guadagnato con questo rapporto, anche molto conflittuale con i media, è certamente la ragione per cui i suoi interventi hanno un "peso", che diventa poi anche qualità estetica. Pasolini ha sempre avuto uno straordinario talento nel valorizzare al massimo i suoi testi, rendendo ciascuno di essi problematico e sorprendente. A un certo punto credo che lui si sia reso conto che c’era questa sorta di effetto "addizionale" legato proprio alla sua presenza fisica e lo ha usato anche un po’ cinicamente per dare spessore a quello che andava scrivendo. […] ” Qualità estetica, la definisce Walter Siti. A questa indubbia capacità di mescolare
poesia e prosa rendendola viva nella sintassi giornalistica si aggiunge la
consapevolezza di non avere nulla da perdere, insomma di non dover censurare
nulla di ciò che si pensa: ormai Pasolini era “eretico”, come amava definirsi, per
una grande parte di pubblico e di quell’etichetta doveva sfruttare gli aspetti a lui
più congeniali. In questo senso, sono illuminanti le parole che scriverà qualche
anno più tardi: “Qui non ho niente da perdere (e perciò posso dire tutto), ma non
ho neanche niente da guadagnare (e perciò posso dire tutto a maggior ragione)”
– Corriere della Sera, 24 agosto 1975
La condizione a lui più favorevole è quella del cinico critico che disillude,
eternamente impegnato nello screditare le posizioni consolidate senza mai
sottrarsi, nella vita come sulle pagine dei giornali, allo scontro frontale con coloro
che non erano d’accordo. Un eterno bisogno di sfide che Umberto Eco,
protagonista di una polemica in campo semiotico con il poeta friulano, descrive
così : “Pasolini l'attacco lo cercava, lo stimolava quando la reattività pubblica si
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assopiva, si sentiva vivo solo quando poteva dire: "Perché mi sparate addosso?"
("L'Espresso" del 9 novembre 1975).
3.2 Il contesto storico
Non è possibile comprendere l’approdo di Pasolini al Corriere senza ricostruire,
per sommi capi, l’ambito culturale e di profondo rinnovamento che caratterizzava
l’inizio degli anni settanta e che quindi giustifica la presenza di una figura
controversa, schierata su posizioni non certo conciliatorie, sul giornale della
borghesia italiana. Bisogna sottolineare che l’esperienza di Pasolini al Corriere si
inserisce nell’ambito di un rinnovamento complessivo delle strutture dei giornali e
del peso dei giornalisti verso la proprietà stessa dei quotidiani che comportò
modifiche anche sul piano del linguaggio. La partecipazione attiva di numerosi
intellettuali sulle pagine dei quotidiani, dovuta al clima di profondo fermento
culturale successivo ai movimenti degli anni sessanta, è una parentesi che si apre
e si chiude nel giro di pochi anni, anche se le innovazioni apportate si possono
riscontrare ancora oggi.
Dal punto di vista storico, gli inizi degli anni settanta rappresentano da una parte
l’intensificarsi delle proteste che avevano caratterizzato gli anni precedenti, con
la deriva di quei movimenti che finirà per dar vita a gruppi terroristici come le
“brigate rosse”. L’Italia è lacerata dalle stragi di Stato che insanguinano quegli
anni mentre la politica italiana sta transitando verso una nuova fase attraverso
l’apertura, che si concretizzerà qualche anno più tardi, della Dc al Pci. Nel campo
internazionale la tensione fra occidente e Urss è ancora molto forte.
Le proteste degli anni precedenti hanno dato vita a numerosi movimenti con lo
scopo di innovare i vari settori del paese e anche il campo giornalistico vive una
stagione di profondi e radicali mutamenti. La data di partenza può essere collocata
il 15 marzo 1970 quando al club Turati di Milano nasce il movimento dei
giornalisti democratici, in seguito ad analoghe iniziative prese a Roma.
L’obbiettivo è quello di rivendicare la propria autonomia professionale, di
riportare il giornalista al suo ruolo e di valorizzare la soggettività dei giornalisti.
“Il giornale ai giornalisti” recitava uno slogan del tempo che chiarisce il clima di
quegli anni che portava i giornalisti ad aspirare ad una maggiore indipendenza e
un maggiore impegno civile, dalla parte dei lettori. Frutto del movimento che
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stava rinnovando il giornalismo italiano è il BCD (bollettino di
controinformazione democratica), nato ad opera di Bruno Ambrosi, Morando
Morandini, Marco Nozza e molte altre firme del tempo, con il proposito di
puntualizzare fatti, personaggi avvenimenti che non trovavano posto sui giornali.
A Milano il clima è in continuo fermento e tutte le proteste hanno lo stesso
obiettivo: aumentare il peso e l’indipendenza dei giornalisti sia nei confronti della
proprietà che delle forze esterne. Fra le conquiste storiche del movimento
milanese c’è quella del 1972 nota come “consultazione preventiva nella nomina
dei direttori”, a seguito della brusca successione di Spadolini alla direzione del
“Corriere della sera”: i giornalisti devono dare il loro parere alla proposta di
direttore formulata dall’editore. Un istituto importante, presente ancora oggi
anche se con qualche modifica, che limita in maniera decisa l’intervento della
proprietà.
Un altro sintomo di autonomia e indipendenza: nel 1973 al Corriere nasce la
società dei redattori, sull’esempio del giornale francese Le Monde, con lo scopo
di svolgere un ruolo di garanzia formale e giuridica all’indipendenza del giornale.
Dal punto di vista economico e finanziario questi anni rappresentano il passaggio
delle proprietà dei giornali dai gruppi familiari ai gruppi industriali, con tutte le
problematiche che questo passaggio comporta. L’arrivo dei grandi gruppi
industriali, portatori di precisi interessi politici, segnerà la fine della stagione degli
“intellettuali impegnati” sui grandi giornali, ormai incompatibili con le esigenze
di propaganda che i maggiori partiti politici richiedevano ai quotidiani.
4. Il corriere di Ottone
Il “Corriere della sera” è uno dei protagonisti delle innovazioni che sconvolgono
il mondo giornalistico. Molte delle novità che travolgono il modo di fare i giornali
e che mutano il peso che i giornalisti hanno, parte da un fatto pratico come il
cambio di direzione al Corriere che è anche fondamentale per capire l’arrivo di
Pasolini al quotidiano di Milano. Nel 1972 la proprietà del Corriere, in mano a
Giulia Maria Crespi (socio d’opera), porta Piero Ottone alla guida del Corriere,
suscitando anche numerose proteste e polemiche. Giulia Maria Crespi, vicina agli
ambienti della sinistra più moderata, interessata da molto tempo alle tematiche
ambientaliste, lo preferisce a Giovanni Spadolini: si svelerà anche un modo per
difendere la proprietà dagli attacchi esterni. Ottone imprime al quotidiano
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numerosi cambiamenti, rispetto alla linea tenuta fino a quel momento dal
giornale: manifesto di quel giornale sarà un articolo del direttore intitolato “Non
nascondere nulla”, apparso il 15 ottobre dello stesso anno. Il primo merito del
direttore è quello di allargare la cerchia dei collaboratori del Corriere aprendo le
porte a nomi importanti e che diventeranno nel corso degli anni ancora più
popolari come Piero Ostellino e Francesco Alberoni. Stimola giovani inviati come
Giampaolo Pansa e Giuliano Zincone mentre accende sul giornale il dibattito sui
problemi economici e finanziari, con l’ aiuto di Luigi Spaventa, Nino Andreatta,
Bruno Visentini e Franco Modigliani. A questi si univano i contributi di Moravia
e Buzzati. Nel frattempo gli intellettuali entravano a pieno titolo nel mondo
giornalistico grazie a Calvino, Sciascia, Fortini e Natalia Ginzburg. Il giornale si
presenta quindi con una faccia rinnovata che attira nuovi lettori progressisti e
influenza altri grandi quotidiani come “Il Messaggero” e “La Stampa” mentre il
“Giorno” si stava apprestando ad un lento declino, dopo un inizio incoraggiante,
con l’estromissione del direttore Pietra .
La polemica per le aperture eccessive di Ottone si accende sia internamente che
esternamente al quotidiano di via Solferino. Uno dei giornalisti storici e più
autorevoli del Corriere come Indro Montanelli lascia la testata milanese in
disaccordo con la linea di Ottone e fonda nel giugno del 1974 “Giornale nuovo”,
grazie al sostegno finanziario di Cefis, presidente della Montedison, che mirava
ad entrare nella proprietà del Corriere. Montanelli era in contrasto con la proprietà
del giornale fin dalla cacciata di Spadolini. Esternamente, nelle piazze e agli occhi
dei conservatori più intransigenti, il Corriere ha tradito la sua tradizionale linea
liberale, e sono sufficienti due esempi: il 13 febbraio 1973 a Milano si svolse una
manifestazione della “Maggioranza silenziosa” che aveva tappezzato Milano di
manifesti che invitavano al boicottaggio del Corriere della sera, considerato un
“giornale comunista”. Quando le polemiche si faranno più intense, nel 1975, il
numero di “Panorama” del 25 agosto esce con una copertina che si domanda : “Il
Corriere è comunista?”; l’inchiesta non porta a nessuna considerazione, dato che i
pareri raccolti dal settimanale sono discordanti.
E’ dunque in questo clima incandescente che Piero Ottone chiama Pasolini a
collaborare con il suo giornale, dieci mesi dopo la sua nomina. La decisione
matura in un clima di rinnovamento stilistico e di contenuti che sopra ho descritto
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ma è preceduta da un fatto singolare che il “Corriere della sera” ha pubblicato l’1
e il 2 novembre 2000, poi ripreso assieme ad altri materiali in uno speciale del sito
web del giornale milanese. Si tratta di una lettera spedita dallo scrittore friulano il
30 aprile 1972 (pochi mesi prima dell’inizio della collaborazione col Corriere),
nella quale Pasolini non lesina critiche dure e feroci al quotidiano milanese e alla
sua direzione. L’oggetto della disputa è la guerra del Vietnam e il modo in cui il
giornale milanese tratta quei fatti ma si espande toccando la libertà dei giornalisti
e colpendo personalmente il direttore Ottone:
Caro ineffabile Ottone, sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere. Perché non sei ignorante tu, dal momento che una volta almeno il testo del Trattato di Ginevra si deve presumere che l’hai letto; sei solo in malafede, tu come il tuo galoppino Sormani che scrive i suoi sudici e cinici articoli dal Vietnam perché i lettori benpensanti leggano sul tuo giornale «tanto serio e autorevole» quello che s’aspettano da una stampa padrona in casa e serva e servile fuori [...]
Dunque, caro Ottone, se t’insegno a chiamare ogni cosa col nome che gli conviene, vorrai non avertene come uomo (come direttore sarebbe pretendere l’impossibile) se ti dico che sei una triviale e laida puttana. A Cesare quel che è di Cesare, alle puttane... E ora seguita pure a venderti per comprare gli altri
E chiude la lettera con una provocazione:
Scherzi a parte, caro Ottone, attento che la Crespi non scarichi anche te, sarebbe così cattivona e antidemocratica... che faremo tutti quadrato intorno a te e a Indro e a Spadolini contro l’attacco padronale... oibò! Ma tu una cosa ricorda soprattutto, come direttore-difensore-della-libertà-di-stampa-e-non-solo-di-questa-ma-anche-delle-libertà-democratiche: quelli che oggi sono gli sfruttati e gli oppressi spazzeranno via voi e le vostre libertà. Costoro sanno oggi meglio che mai che questa non è retorica millenaristica. Fatto curioso ma in linea con le contraddizioni e lo stile di Pasolini: chiamare
“triviale e laida puttana” il direttore che pochi mesi dopo lo cercherà e lo vorrà
sulla prima pagina del suo giornale. Ottone non darà un peso eccessivo a quella
lettera, come spiega al Corriere: “Non mi ero sentito ferito dalle sue frasi
offensive perché avevo la coscienza a posto. E poi, se lui poteva dire qualcosa
d’interessante sul giornale che dirigevo, impedirglielo per fatto personale
sarebbe stato un errore. In quel momento Pasolini era una voce che andava
ascoltata, indipendentemente dalle proprie opinioni”. Il desiderio di portare
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Pasolini al Corriere è spiegato dallo stesso Ottone in alcune interviste rilasciate
successivamente alla sua uscita dalla direzione del giornale: “Ci si è arrivati
[all’arrivo di Pasolini ndr] nella ricerca delle voci meno conformiste e meno
tradizionali. Ho detto che noi credevamo nella circolazione delle idee: chi può far
circolare le idee se non gli intellettuali, che sono i primi artefici delle idee nella
nostra società? La collaborazione di Pasolini trovò un’ eco vasta, innanzitutto
perché Pasolini era in un periodo di grazia in quei mesi. Noi contribuimmo a far
sì che gli italiani si accorgessero dei suoi articoli, collocandoli in prima pagina”.
Confessa ancora “Certo io non ero sempre d’accordo su tutto ciò che scrivevano
Pasolini o Alberoni ma ci tenevo che scrivessero.”
L’avvicinamento concreto fra Pasolini e il giornale milanese avviene attraverso
Nico Naldini, cugino di Pasolini per via materna e in seguito curatore di numerose
opere sul poeta friulano. Naldini, anche se lavorava a Roma come responsabile
delle relazioni pubbliche del produttore dei film di Pisolini, Grimaldi, era in
contatto con gli ambienti milanesi e sapeva del nuovo corso del giornale di
Ottone. Fece così da semplice intermediario fra il vicedirettore del quotidiano
Gaspare Barbiellini Amidei e lo scrittore, anche se la trattativa portata avanti non
trovò una soluzione immediata. Le garanzie di libertà e indipendenza che
dovevano essere fornite a Pasolini furono sancite dalla creazione di “Tribuna
Aperta” (lo spazio sul giornale dove trovavano posto gli articoli di Pasolini) che
costituiva un’assicurazione di libertà reciproca sia per lo scrittore che per il
giornale. Pasolini aveva voglia di cambiare faccia, dato che il cinema lo aveva
assorbito negli ultimi anni e si lasciò persuadere nell’impresa dall’amico Naldini e
dalle rassicurazioni di Barbiellini Amidei, che era anche responsabile del settore
culturale del Corriere.
L’approdo del poeta al “Corriere della sera” si trattò, come sostiene Giovanni
Raboni, di una delle più straordinarie operazioni mediatiche degli ultimi decenni
che diede vantaggi sia a Pasolini che al Corriere: lo scrittore friulano poté scrivere
i suoi pezzi più memorabili, dando voce a una parte di opposizione che risultò
anche funzionale alla linea del giornale: quella che Raboni chiama “la coscienza
infelice della borghesia con i dubbi e le inquietudini che, almeno la parte più
illuminata, si poneva”.
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5. Il Pasolini Corsaro
La raccolta degli scritti di Pasolini sul Corriere e i suoi interventi su altri
quotidiani e periodici dal gennaio 1973 all’ottobre 1975 sono raccolti in due libri:
“Scritti corsari” che raccoglie i pezzi polemici fino al febbraio 1975, e “Lettere
Luterane” che riunisce i suoi articoli fino al novembre 1975.
Per tutto il 1973 la presenza di Pasolini sul Corriere non fu eccessiva, dato che
comparvero solamente tre articoli: il primo, che segna l’inizio della
collaborazione, compare il 7 gennaio 1973 con il titolo “Contro i capelli lunghi”,
il secondo apparve il 17 maggio (“Il folle slogan dei Jeans Jesus”) il terzo, “Sfida
ai dirigenti della televisione” viene pubblicato in terza pagina come elzeviro il 9
dicembre. Dietro alla mancata pubblicazione di quest’ultimo articolo in prima
pagina c’è la volontà della direzione del giornale di sottolineare l’indipendenza
degli intellettuali che collaboravano con il quotidiano e che non rappresentavano
necessariamente la linea del giornale. La situazione fu risolta prontamente
attraverso la mediazione di Naldini e Barbiellini Amidei. Questi primi articoli
toccano temi che successivamente Pasolini tratterà con maggiore forze ed enfasi;
tuttavia già nel primo articolo emerge il tema di un mondo cambiato e ormai
corrotto dalla modernità, con protagonisti i giovani:
“[..] Essi sono andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate. [...] La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile perché non è più libertà. E’ giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda.” Emerge un tratto importante dello stile inconfondibile di Pasolini: l’attenzione
maniacale al lato estetico della realtà, a tutte le espressioni di costume che
caratterizzano l’uomo nella sua vita sociale, dovuta alla sua attività di artista, oltre
che di scrittore. I capelli appunto, o anche le pubblicità dei blue jeans. L’articolo
sulla televisione anticipa i tempi di una polemica che si infiammerà solo l’anno
successivo, ma porta già alla valutazione del lettore tutti gli elementi contradditori
del nuovo mezzo di massa. E’ interessante notare come l’articolo, nelle battute
iniziali, proponga la visione del nuovo mondo:
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“Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. [...] Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta.”
5.1 Gli italiani non sono più quelli
Nel 1974 vi furono accordi contrattuali con la proprietà del Corriere. L’occasione
dell’incontro tra lo scrittore e Giulia Maria Crespi fu la proiezione a Milano del
“Fiore delle Mille e una notte”, anche se precedentemente aveva già avuto modo
di conoscere la proprietaria del Corriere: nella sua villa sul Ticino era stato
ambientato un film di Pasolini, “Teorema”. All’incontro era presente anche
Barbiellini Amidei e fu stretta una vera intesa. Si parlò anche di una futura rubrica
dal titolo “Che dire” che avrebbe preso il via con la fine del 1975 e che si sarebbe
occupata di critica letteraria, sempre affidata a Pasolini.
In seguito a questi accordi, il 10 giugno 1974 appare in prima pagina “Gli italiani
non sono più quelli” e segna l’inizio delle polemiche più accese. Da pochi giorni
l’Italia aveva vissuto un evento storico come la vittoria del “no” al referendum sul
divorzio del 13 maggio. L’esito del referendum era stato pesantemente
influenzato dal ruolo della stampa mobilitata per difendere un diritto civile sentito
ormai come una conquista; il “Messaggero” di Roma, per comprendere il clima
di quei giorni, stampò un “NO” coprendo l’intera prima pagina, la vigilia del voto.
Pasolini sottolinea non tanto la vittoria del no, quanto un mutamento profondo e
radicale nella società che è ignorato tanto dal Pci quanto dalla Chiesa: era una
vittoria del consumo e dell’omologazione non soltanto una vittoria di diritti civili.
Ma va oltre: l’omologazione ha colpito anche i giovani fascisti, non diversi dai
loro coetanei di sinistra. E infine l’affondo più duro, che riguarda le stragi di stato:
il fascismo che le ha provocate è frutto naturale della nostra società, ormai priva
di caratterizzazioni ideologiche.
“Sia il Vaticano che il Pci hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile. [...] L’omologazione che ne è derivata riguarda tutti: popolo, borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato.
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[....] Infatti essi (i giovani fascisti ndr) sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente, - ripeto – non c’è niente che li distingua. [...] Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria e,inoltre, artificiale.”
Le reazioni all’articolo sono durissime, soprattutto da parte della sinistra.
Maurizio Ferrara sull’”Unità” del 12 giugno lo attacca con forza, definendo
l’atteggiamento del poeta dettato da “irrazionalismo ed estetismo”. A medesime
conclusioni arriva Franco Ferrarotti su “Paese sera”, mentre il distacco e le
incomprensioni, anche con la parte che più naturalmente poteva comprendere
Pasolini, si fanno insanabili. Anche Calvino criticherà le posizioni dello scrittore
friulano, accusandolo di rimpiangere un’Italia arretrata e ormai passata.
Risponderà punto per punto, smontando ogni argomentazione di Ferrara, pochi
giorni dopo (24 giugno) con un articolo sul Corriere dal titolo “Il potere senza
volto” e personalmente a Italo Calvino su “Paese sera” . All’ autore de “Il
visconte dimezzato” Pasolini chiarisce di non rimpiangere “l’Italietta” “piccolo
borghese, fascista, democristiana” ma di nutrire un sentimento di nostalgia verso
“Quel mondo contadino prenazionale e preindustriale”. Emerge un altro tema che
percorre tutti gli scritti polemici di Pasolini: Enzo Siciliano, che ha curato l’opera
più completa e documentata sullo scrittore friulano parla addirittura di “novità
stilistica” che contraddistingue gli articoli di Pasolini. Lo scrivere trovava la
propria legittimazione nel rifiuto e nell’abiura del mondo circostante; il poeta si
sentiva ossessionato dall’urgenza di far conoscere ai suoi lettori la sua
inquietudine e il suo senso di disagio. Lo si capisce bene leggendo l’articolo
“Abrogare Pasolini?” (26/7), volutamente provocatorio, che riprende le polemiche
di quei mesi contro le considerazioni che lo scrittore friulano elaborava sul
Corriere.
A settembre si apre lo scontro con un nemico storico di Pasolini, la Chiesa.
Nonostante le sue origini contadine lo rendessero molto sensibile ai temi della
religiosità, duri erano stati i giudizi delle autorità ecclesiastiche nei confronti delle
sue opere e soprattutto dei suoi film. Si trattava quindi di un conflitto che
coinvolgeva non tanto il senso della religione o il mondo cattolico quanto le
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autorità ecclesiastiche con i loro pregiudizi e la loro moralità L’essere
omosessuale non facilitava il già difficile rapporto.
Il 22 settembre del 1974 sulle pagine del Corriere dà il via allo scontro con un
articolo, “I dilemmi di un Papa, oggi”, che riprende le riflessioni di Paolo VI sui
mutamenti della società, sempre meno legata alla Chiesa e sempre più
secolarizzata. Pasolini si permette di indicare, anche al successore di Pietro, la via
per uscire da questa emarginazione:
[..] Se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo. In una prospettiva radicale, forse utopistica, o, è il caso di dirlo, millenaristica, è chiaro dunque ciò che la Chiesa dovrebbe fare per evitare una fine ingloriosa. Essa dovrebbe passare all'opposizione. [...] Riprendendo una lotta che è peraltro nelle sue tradizioni (la lotta del Papato contro l'Impero), ma non per la conquista del potere, la Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano (e parla un marxista, proprio in quanto marxista) il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; totalitario; violento; falsamente tollerante, anzi, più repressivo che mai; corruttore, degradante (mai più di oggi ha avuto senso l'affermazione di Marx per cui il capitale trasforma la dignità umana in merce di scambio). È questo rifiuto che potrebbe quindi simboleggiare la Chiesa: ritornando alle origini, cioè all'opposizione e alla rivolta. O fare questo o accettare un potere che non la vuole più: ossia suicidarsi [...]
Pasolini in questo articolo sembra voler portare la Chiesa dalla propria parte.
Anche se responsabile, come precedentemente aveva scritto, delle più atroci
barbarie può redimersi attraverso la lotta al consumo e al nuovo degrado sociale
contrapponendosi al potere politico. Le contraddizioni ci sono e lo scontro è solo
incominciato ma mantiene ancora i toni pacati, propri dei consigli. La vera
battaglia si giocherà sul campo dell’etica e della morale.
L’ “Osservatore romano” però lo attacca: “Non sappiamo donde il suddetto
tragga tanta autorevolezza se non da qualche film di un enigmatico e riprovevole
decadentismo, dall’abilità di uno scrivere corrosivo e da taluni atteggiamenti
alquanto eccentrici”. E’ la provocazione che Pasolini cerca e aspetta e di cui si
serve abilmente per chiarire, con una articolo apparso sul Corriere il 6 ottobre col
titolo “Chiesa e Potere”, la propria posizione. E’ un attacco al potere centrale
della Chiesa e un invito a modernizzarsi. E’ anche l’occasione per ribadire il ruolo
che lui ha assunto sulle colonne del “Corriere della sera”:
"lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall'essermi messo in condizione
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di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca."
5.2 “Il romanzo delle stragi”
Le polemiche con la Chiesa vengono interrotte nel novembre del 1974 con una
piccola parentesi dedicata alla situazione politica. E’ uno dei pezzi più interessanti
del “Pasolini Corsaro” e che maggiormente viene citato e ricordato. Si tratta
dell’articolo “Che cos’è questo golpe” apparso il 14 novembre e pubblicato dal
Corriere, a causa del contenuto, solo accompagnato da un pezzo di senso politico
opposto: nessuno si ricorderà di quell’articolo mentre la denuncia, in pieno stile
pasoliniano, della classe dirigente rimarrà impressa ed è feroce e senza appello:
Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). [...] Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. [...]
L’obbiettivo è chiaro: colpire la classe dirigente che aveva retto le sorti del paese
fino a quel tempo chiamandola ad assumersi le responsabilità di tutto ciò che di
losco e vile c’era stato. Chiarisce poi il ruolo dell’intellettuale, chiamato ad un
severo compito di controllo della società e dedica alcune osservazioni al partito
comunista, reo di immischiarsi nelle logiche del potere. Infine propone una
“mozione di sfiducia” nei confronti dell’intera classe politica italiana che l’anno
successivo si trasformerà nella richiesta di un vero e proprio processo.
A gennaio riprende la polemica e questa volta ha come tema l’aborto. I radicali
stavano organizzando un referendum per tutelare il diritto ad interrompere la
gravidanza: Pasolini si schiera apertamente con le posizioni anti-abortiste,
suscitando il solito vespaio di critiche. Il 19 gennaio nel suo articolo apparso sul
Corriere, dal titolo molto chiaro “Sono contro l’aborto”, tenta di spiegare le sue
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ragioni che vanno al di là del giudizio in merito al quesito referendario. Il
problema centrale è, secondo Pasolini, non tanto l’aborto quanto ciò che viene
prima cioè il coito e l’occasione gli consente di parlare ai lettori di molti
argomenti legati alla sessualità. Imputa ancora una volta alla società dei consumi
la colpa di avere trasformato il sesso in un’esigenza imposta e di avere
trasformato al libertà sessuale in una vera e propria nevrosi collettiva. Le
tematiche legate all’omosessualità, alle “tecniche amatorie alternative” si
pongono nella linea delle provocazioni che Pasolini sa di suscitare nei confronti
dei lettori ancora legati a certi tabù e aggrappati ad atavici pregiudizi.
“Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto perché la considero come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini - io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente [...] L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbe più praticamente ostacoli. Ma questa nuova libertà del coito da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo [...] La mia opinione estremamente ragionevole è questa: anziché lottare contro la società che condanna l’aborto repressivamente, sul piano dell’aborto, bisognerebbe lottare contro tale società sul piano della causa dell’aborto cioè sul piano del coito”. Divulgare una serie di “liberalizzazioni reali riguardanti appunto il coito (e dunque i suoi effetti): anticoncezionali, pillole, tecniche amatorie diverse, una moderna moralità dell’onore sessuale ecc. ecc.”
Suscitano la reazione anche dell’amico Moravia le considerazioni in materia
sessuale di Pasolini e la risposta dello scrittore friulano arriverà, sempre dalle
colonne del Corriere con il titolo “Pasolini replica sull’aborto”. Le polemiche
seguiranno per il mese successivo anche su “Paese sera” (dove Pasolini afferma: “
Non c’è nessuna buona ragione pratica che giustifichi la soppressione di un
essere umano, sia pure nei primi stadi della sua evoluzione”) sia sul Corriere,
quando il primo marzo apparirà un articolo che recita “Non avere paura di avere
un cuore”.
5.3 La fine delle lucciole, “il Palazzo” e le ultime sfide:
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Parallelamente a queste polemiche, Pasolini torna a toccare gli argomenti della
politica italiana. Un suo articolo rimarrà particolarmente vivo nell’immaginario
dei lettori di quel tempo: si tratta dell’ “articolo delle lucciole”, uscito sul Corriere
il primo febbraio 1975. E’ un altro esempio del connubio che Pasolini compie fra
poesia e scrittura giornalistica e soprattutto di come riesca a creare immagini
fortemente evocative per i lettori. La scomparsa delle lucciole è vista dal poeta
non solo come conseguenza dell’inquinamento luminoso delle nostre città, bensì
come sintomo insanabile di un cambiamento radicale della società: l’avverarsi di
quella “mutazione antropologica” a cui ampliamente fa riferimento nei suoi
scritti. Il trucco stilistico è sottile e vincente: partire da un dato di fatto semplice e
noto per portare il lettore su argomenti molto concreti; un percorso ideale che il
lettore svolge partendo dall’inizio del pezzo e arrivando alle sue conclusioni.
“Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua sono cominciate a scomparire le lucciole. [...] Quel <<qualcosa>> che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque <<scomparsa delle lucciole>>. Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte che non solo non si possono confrontare fra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole ad oggi.[...]”
La politica rimane al centro delle sue critiche e un suo pezzo del primo agosto
1975 è rimasto famoso, nel gergo giornalistico, per l’invenzione del termine
“Palazzo”. Pasolini lo usa per indicare il luogo del potere e quindi la
concentrazione della corruzione e del malaffare, per contrapporlo al paese reale.
IL titolo dell’articolo recita “Fuori dal Palazzo” e il primo affondo lo dedica ai
giovani della nuova società:
“Dieci anni fa amavo questa folla; oggi essa mi disgusta. E mi disgustano soprattutto i giovani (con un dolore e una partecipazione che finiscono poi col vanificare il disgusto): questi giovani imbecilli e presuntuosi, convinti di essere sazi di tutto ciò che la nuova società offre loro: anzi, di essere, di ciò, esempi quasi venerabili”.
Poi cita “Il palazzo”: è una critica diretta anche al ruolo dell’informazione che in
maniera ossessiva si interessa della vita dei potenti, incensandoli quando è il
momento opportuno, e convincendo i lettori della centralità del loro agire.
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“[...] Ho <<l’Espresso>> in mano, come dicevo. Lo guardo, e ne ricevo un’impressione sintetica: “Come è diversa da me questa gente che scrive delle stesse cose che interessano a me. Ma dov’è, dove vive?” E’ un’idea inaspettata, una folgorazione, che mi mette davanti le parole anticipatrici e,credo, chiare: “Essa vive nel Palazzo”.
La polemica di Pasolini si sposta sui potenti democristiani. Essi sono sempre stati
il bersaglio della sua critica, considerati i responsabili dello sfacelo dell’Italia e i
continuatori dell’esperienza fascista. In questi mesi lo scrittore friulano si espone
in maniera chiara nei loro confronti, più di quanto abbia fatto precedentemente. E’
l’inizio del periodo più provocatorio di Pasolini (per quanto riguarda i suoi
articoli) e la presa di coscienza definitiva della situazione della società. Bisogna
sottolineare, in certi punti, il tono drammaticamente profetico delle sue
considerazioni sul futuro dell’Italia.
L’articolo ha un precedente: si tratta dell’intervento apparso su “Il Mondo” per il
numero del 28 agosto che riporta gli stessi argomenti dell’articolo che apparirà sul
Corriere il 24 dello stesso mese. Il pezzo del Corriere, dal titolo “Il processo”,
dopo una serie di capi d’accusa e un elenco di reati (dall’ indegnità morale, alle
connivenze con la mafia, con i servizi segreti, alla responsabilità del disastro
ambientale e morale dei cittadini) Pasolini chiarisce a chi sono rivolte quelle
accuse:
Ecco l’elenco “morale” dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia negli ultimi trent’anni, e specie negli ultimi dieci: reati che dovrebbero trascinare almeno una dozzina di potenti democristiani sul banco degli imputati, in un regolare processo penale, simile, per la precisione, a quello celebrato contro Papadopulos e gli altri Colonnelli. [...] Perché è appunto negli ultimi dieci anni che un modo di governare non solo tipico ma, direi, naturale, di tutta la storia italiana dall’unità in poi, si è configurato come un reato o come una serie di reati.”
I reati previsti da Pasolini sono aggravati dall’incapacità democristiana di
comprendere le evoluzioni della società. A questo proposito parla di “epoca
finita” che deve lasciare il posto ad un’altra: il ricambio dalla prima alla
cosiddetta seconda repubblica avverrà solo una quindicina di anni dopo. E anche
l’idea stessa del processo, che Pasolini evoca naturalmente anche dal punto di
vista estetico, immaginandosi i responsabili Dc davanti al banco del tribunale,
rimanda alla stagione dei primi anni novanta quando realmente i potenti dovettero
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sfilare nelle aule dei tribunali. Pasolini parla di un potere abusato e quindi
superato, ormai non più in grado di reggere al nuovo corso che la storia ha preso:
anche il Pci corre il rischio di sbagliare, di omologarsi alla politica democristiana
attraverso l’avvicinamento voluto da Moro. Le sue parole hanno assunto un tono
liturgico, quasi profetico e suscitano le polemiche di Leo Valiani, Giorgio Galli e
Luigi Firpo. Il tema del processo è ripreso dallo scrittore sia il 19 settembre che il
28 settembre: in quest’ultima occasione egli elenca nuovamente i capi
d’imputazione dei “gerarchi” democristiani” sottolineando l’ansia e la volontà di
chiarezza del Paese: “Gli italiani vogliono sapere perchè...”.
Nel frattempo il Pci aveva ottenuto un forte incremento nella tornata elettorale
amministrativa del 1975 e ciò contribuì a stimolare le ultime sfide di Pasolini che
hanno come centro l’abbozzo di una nuova riforma: l’abolizione della tv e della
scuola media dell’obbligo. Queste provocazioni iniziano il 18 ottobre dalle
colonne del Corriere con un pezzo dal titolo “due modeste proposte su scuola e
tv” e infiammano le polemiche di quei giorni: “La scuola dell’obbligo è una
scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle
cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori” e continua
dicendo che è meglio abolirla, in attesa di momenti migliori. Sul banco degli
imputati viene portata anche la televisione, colpevole di non trasmettere
insegnamenti seri, ma di proporre modelli che devono essere seguiti
obbligatoriamente.
Non viene colta la voluta provocazione di Pasolini, sembra ormai che i suoi
interlocutori sui giornali e nel mondo della cultura non abbiano ancora capito il
suo stile, la sua ansia di stimolare il dibattito. Le sue proposte sono innanzitutto
critiche senza appello al sistema scolastico e a quello televisivo e si espandono
toccando l’intero mondo giovanile con i suoi valori e ideali. Proporre l’abolizione
della scuola dell’obbligo non serviva, come gli contesteranno i suoi avversari, a
rendere più ignorante il popolo italiano, bensì ad affermare l’inattualità di alcune
forme di insegnamento. Proporre il boicottaggio della televisione era solo un
modo per sottolineare la schiavitù nei confronti del nuovo medium di massa: una
situazione mai risolta, vedendo che questi argomenti li troviamo presenti nel
dibattito di questi anni.
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Queste precisazioni è costretto a darle successivamente, come sempre ha
puntualizzato i suoi interventi per essere più chiaro con chi non sapeva
comprendere il suo linguaggio. Il 29 ottobre dello stesso anno appare la replica
sempre dalle colonne del quotidiano milanese: il titolo del pezzo è “Le mie
proposte su Scuola e tv”.
[...] va detto che le mie “due modeste proposte” di abolizione intendevano chiaramente riferirsi a una abolizione provvisoria. In altre parole chiamavo in causa il Pci, le migliori forze di sinistra ecc., il cui interesse per una radicale riforma della scuola e della televisione non dovrebbe essere messo in dubbio: se è essenziale alla trasformazione dello “sviluppo”. In attesa di una tale radicale riforma, sarebbe meglio abolire (lo so che è utopistico, ma ne sono lo stesso fermamente convinto) sia la scuola d’obbligo che la televisione: perché ogni giorno che passa è fatale sia per gli scolari che per i telespettatori...”
Nell’articolo definisce la sua proposta come la “metafora di una radicale riforma”.
Nelle righe dell’articolo emergono i cambiamenti che Pasolini auspica subentrino
nella scuola (nuove materie e maggior attualità dei programmi) e nel campo
televisivo, con l’abbandono della lottizzazione politica dei canali televisivi. Fa
riflettere, alla luce del dibattito su Politica e televisione che ha investito in questi
anni il nostro paese ciò che Pasolini propone alla fine del suo intervento critico:
[...] “i partiti - com’è ben noto – si sbranano all’interno della televisione, dietro le quinte, dividendosi (finora abbiettamente) il potere televisivo. Si tratterebbe dunque di codificare e di portare alla luce del sole questa situazione di fatto: rendendola così più democratica. Ogni Partito dovrebbe avere diritto alle sue trasmissioni. In modo che ogni spettatore sarebbe chiamato a scegliere e a criticare, cioè a essere coautore, anziché essere un tapino che vede e ascolta, tanto più represso quanto più adulato.”
Molti anni dopo questo principio troverà un inizio di attuazione nelle norme che
regolano la parcondicio all’interno della televisione.
E’ l’ultimo suo intervento sul quotidiano milanese. Pochi giorni dopo (4
novembre) troverà una morte atroce e ancora oggi ricca di lati oscuri e mai
chiariti. Il “Corriere della sera” dedica l’apertura al tragico evento, mentre
l’editoriale recita “Referendum Pci e radicali”: problematiche che Pasolini aveva
affrontato innumerevoli volte nei suoi scritti e sulle quali, come su molti altri
argomenti, avrebbe ancora voluto dire la sua per molti anni. Il mondo della
cultura e del giornalismo perdeva uno dei suoi protagonisti, proprio nel momento
in cui lo scrittore aveva raggiunto una notorietà, un peso e una capacità critica
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formidabile. La sua breve esperienza al Corriere lo dimostra e rimane memorabile
per la novità di contenuti e di forma che hanno caratterizzato i suoi interventi
scritti.
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Riporto i materiali citati nella tesina: le lettere di Pasolini a Piero Ottone e a Gaetano Afeltra: Roma, 30 aprile 1972 Caro ineffabile Ottone, sarebbe ora ti vergognassi per quello che «fai» scrivere ai tuoi disonesti redattori sul Vietnam! È un atto vergognoso che solo i servi e quelli che come te non possiedono alcuna dignità morale hanno l’impudenza di compiere. Perché non sei ignorante tu, dal momento che una volta almeno il testo del Trattato di Ginevra si deve presumere che l’hai letto; sei solo in malafede, tu come il tuo galoppino Sormani che scrive i suoi sudici e cinici articoli dal Vietnam perché i lettori benpensanti leggano sul tuo giornale «tanto serio e autorevole» quello che s’aspettano da una stampa padrona in casa e serva e servile fuori. Non è poi un caso che non ti salterebbe mai in testa, né a te né a nessuno della tua immorale falange, di pubblicare per esteso un documento che parla così chiaro come il testo di quel trattato, che la tua e la vostra vocazione all’illibertà e la tua e la vostra mancanza di coraggio morale offendono quotidianamente. E allora, direttore, con che animo tu, voi avete la spudoratezza di cogliere ogni occasione per parlare di libertà di stampa, quando tu e voi di questa libertà fate volgare mercimonio irridendo ai suoi valori con l’inconfessato e inconfessabile scopo di concimare l’ignoranza e diffondere l’inganno? Dunque, caro Ottone, se t’insegno a chiamare ogni cosa col nome che gli conviene, vorrai non avertene come uomo (come direttore sarebbe pretendere l’impossibile) se ti dico che sei una triviale e laida puttana. A Cesare quel che è di Cesare, alle puttane... E ora seguita pure a venderti per comprare gli altri. Lascia pure lo spazio della tua rubrica alla lettera della gentile signorina Cesira che essendosi fratturata la caviglia sciando a Cortina si interessa tanto ad un nuovo metodo per aggiustarsela (vivaddio, visto che non ci hanno regalato la riforma sanitaria è pur sempre qualcosa che vi interessiate almeno voi di qualche questione spicciola, davvero!). Infatti comprendo perfettamente che questa mia non puoi pubblicarla per non solleticare la pruderie dei tuoi cari lettori che non d’altro arrossirebbero se non di quel «puttana» che ti dò. Prendi però nota di questo, direttore: anche fra i tuoi lettori sono sempre meno quelli che accendono i loro «ceri» con la tua lascivia. È un fatto che potrebbe riuscire utile sapere in Consiglio di amministrazione. Ma aspetta, dove vai, finisci di leggere la lettera prima di andarglielo a dire!? Scherzi a parte, caro Ottone, attento che la Crespi non scarichi anche te, sarebbe così cattivona e antidemocratica... che faremo tutti quadrato intorno a te e a Indro e a Spadolini contro l’attacco padronale... oibò! Ma tu una cosa ricorda soprattutto, come direttore-difensore-della-libertà-di-stampa-e-non-solo-di-questa-ma-anche-delle-libertà-democratiche: quelli che oggi sono gli sfruttati e gli oppressi spazzeranno via voi e le vostre libertà. Costoro sanno oggi meglio che mai che questa non è retorica millenaristica. Ciao e a presto Pier Paolo Pasolini Roma, 9 novembre 1956 Caro Afeltra, non so come scusarmi per la mia lunga morosità: ho sempre intenzione, naturalmente, di mandarle un racconto, appena avrò un po’ di tempo per correggere e ricopiare quello che ho pronto. Ma, per non fare del lavoro inutile, vorrei che prima lei mi facesse avere un racconto, già pubblicato, che per dimensioni e tono le paresse paradigmatico: sul quale regolarmi. Mi perdoni tutte queste storie, ma sono immerso in un impegno cinematografico che non lascia respiro. La saluto cordialmente, suo Pier Paolo Pasolini
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Bibliografia essenziale:
Su Pasolini:
Naldini, E., (1993) Un paese di temporali e primule. Guanda
Pasolini, P.P., (1994) Romans. Guanda (introduzione)
Pasolini, P.P., (1997) Poesie scelte. Tea spa (introduzione)
Siciliano, E., (1978) Vita di Pasolini. Rizzoli
Sul contesto storico:
Appunti del corso di teoria e tecniche del linguaggio giornalistico del prof. Raffaele Fiengo,
Murialdi, Storia del giornalismo. Il mulino
Ottone, P., Preghiera o bordello. Longanesi (pp 300/315)
Sul rapporto fra Pasolini e il Corriere della Sera
Pasolini, P.P.,(1972) Empirismo eretico. Garzanti
Pasolini, P.P., (1976) Lettere luterane. Einaudi
Pasolini, P.P., (1986) Pasolini e il Corriere, Milano: R.C.S. Editoriale Quotidiani S.p.a.
Pasolini, P.P., (1975) Scritti corsari. Garzanti
Materiale online consultato:
www.pasolini.net
www.corriere.it/speciali/pasolini.shtml
Il presente lavoro è stato realizzato nell’ambito del corso di teoria e tecniche del linguaggio giornalistico presso il corso di laurea in Scienza della Comunicazione, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, tenuto dal prof. Raffaele Fiengo nell’anno accademico 2003/2004.