Ortoepia vol 1

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1 PERCHE’ ORTOEPIA A tutti capita, prima o poi, di essere colpiti dalla bellezza della voce e dal modo di parlare di alcuni. Ascoltando gli attori a teatro e al cinema, qualche cronista, i doppiatori e, perché no, anche persone della vita di tutti i giorni, è facile accorgersi che essi si esprimono in maniera diversa, migliore della nostra. Lʼammirazione è seguita, a volte, da osservazioni del tipo: “che bella dizione…”, “come parla bene…”, “ha una voce meravigliosa…”, “possiede una pronunzia perfetta…” eccetera. Con queste frasi si vuole mettere in evidenza la chiarezza dellʼesposizione, la bellezza e lʼimpostazione della voce, la correttezza degli accenti nelle parole. Ma accade, qualche volta, che usando o ascoltando la frase “che bella dizione” non sia ben chiaro se ci si riferisce ad una qualità piuttosto che ad unʼaltra. Questo perché la parola “dizione”, che deriva dal latino “dictio-dictionis”, ha una gamma di significati molto ampia: detto, parola, discorso, parte di un discorso, orazione, eccetera. Anche lʼespressione “come parla bene” è ambigua poiché può essere rivolta sia a chi esprime concetti validi in una forma letteraria povera, sia a chi fa discorsi privi di contenuti importanti ma sa parlare in modo originale e corretto. Le frasi “che bella voce”, “che pronunzia perfetta” non suscitano invece alcun dubbio. La bellezza della voce è semplicemente un dono della natura e, a volte, il risultato dellʼimpegno e dello studio. La correttezza della pronunzia, in modo analogo, può essere raggiunta con lʼesercizio e lʼapplicazione od ottenuta con “la fortuna di essere fiorentini”. Ed eccoci arrivati al punto. Lʼortoepia, che dal greco significa letteralmente “dritta parola”, cioè parola corretta, è il termine appropriato per indicare ciò che concerne la qualità della pronunzia. I vocabolari della lingua italiana si avvalgono dei cosiddetti “segni ortoepici” per indicare come devono essere pronunziate le parole. Tali segni, che poi vedremo, sono gli accenti sulle vocali, uguali per tutti

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PERCHE’ ORTOEPIA

A tutti capita, prima o poi, di essere colpiti dalla bellezza della voce e dal modo di parlare di alcuni. Ascoltando gli attori a teatro e al cinema, qualche cronista, i doppiatori e, perché no, anche persone della vita di tutti i giorni, è facile accorgersi che essi si esprimono in maniera diversa, migliore della nostra.

L̓ ammirazione è seguita, a volte, da osservazioni del tipo: “che bella dizione…”, “come parla bene…”, “ha una voce meravigliosa…”, “possiede una pronunzia perfetta…” eccetera. Con queste frasi si vuole mettere in evidenza la chiarezza dellʼesposizione, la bellezza e lʼimpostazione della voce, la correttezza degli accenti nelle parole. Ma accade, qualche volta, che usando o ascoltando la frase “che bella dizione” non sia ben chiaro se ci si riferisce ad una qualità piuttosto che ad unʼaltra. Questo perché la parola “dizione”, che deriva dal latino “dictio-dictionis”, ha una gamma di significati molto ampia: detto, parola, discorso, parte di un discorso, orazione, eccetera. Anche lʼespressione “come parla bene” è ambigua poiché può essere rivolta sia a chi esprime concetti validi in una forma letteraria povera, sia a chi fa discorsi privi di contenuti importanti ma sa parlare in modo originale e corretto. Le frasi “che bella voce”, “che pronunzia perfetta” non suscitano invece alcun dubbio. La bellezza della voce è semplicemente un dono della natura e, a volte, il risultato dellʼimpegno e dello studio. La correttezza della pronunzia, in modo analogo, può essere raggiunta con lʼesercizio e lʼapplicazione od ottenuta con “la fortuna di essere fiorentini”.

Ed eccoci arrivati al punto. L̓ ortoepia, che dal greco significa letteralmente “dritta parola”, cioè parola corretta, è il termine appropriato per indicare ciò che concerne la qualità della pronunzia. I vocabolari della lingua italiana si avvalgono dei cosiddetti “segni ortoepici” per indicare come devono essere pronunziate le parole. Tali segni, che poi vedremo, sono gli accenti sulle vocali, uguali per tutti

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i vocabolari ed un segno, che può variare da dizionario a dizionario, riguardante le consonanti “s” e “z”.

Dicevamo della “fortuna” di essere fiorentini. A Firenze nasce infatti la lingua italiana e lʼAccademia della Crusca, fondata nel 1583 da Leonardo Salviati, aveva lo scopo, separando il buono dal mediocre, di redigere un vocabolario seguendo il canone illustre del fiorentino del Trecento. Il “Vocabolario degli Accademici della Crusca” aveva la sua prima edizione a Venezia nel 1612 ed è da considerarsi il più antico “vocabolario moderno” delle letterature europee.

E ̓ comprensibile allora come a Firenze, in Toscana e in gran parte dellʼItalia centrale, dallʼUmbria al Lazio e alle Marche, si parli un italiano ortoepicamente migliore.

In questi ultimi 50 anni ci sono stati grandi mutamenti sociali. La televisione e il trasferimento in massa dalle campagne alle città e da regione a regione hanno causato un sempre più ridotto uso dei dialetti. Siamo tutti dʼaccordo che si deve evitare la perdita di un patrimonio culturale così importante, ma se deve essere mantenuta e difesa la tradizione dialettale a maggior ragione è necessario tutelare la nostra lingua nazionale, lʼitaliano, che è il “primo” dei dialetti e il più nobile.

I nostri antenati sono i Liguri, i Sardi, i Sicani, i Veneti, gli Umbri, i Sanniti, i Piceni, i Bruzii, i Lucani, gli Apuli, i Siculi, gli Iapigi, i Latini, i Sabini, gli Equi, i Volsci ed anche i Fenici, i Cartaginesi ed i Greci.

L̓ Italia è proprio al centro di quel Mediterraneo che ha visto sorgere e svilupparsi lo splendore del mondo greco e romano. Nessun altro popolo è stato a contatto, come noi, con le civiltà più elevate. Non a caso, forse, a partire dal tredicesimo secolo, parallelamente alla nascita della lingua e della letteratura italiana, cʼè stato un fiorire delle opere dʼarte che è culminato nellʼincredibile produzione del nostro Rinascimento.

A noi piace credere che nella nostra lingua ci sia tutto questo e che la struttura del periodo, la rigorosità, lʼestrema logica e tutta la bellezza del pensiero greco e latino siano felicemente tradotte e rese in italiano.

Nelle più famose università degli Stati Uniti si dà molta impor-tanza, in questo periodo, allo studio del greco e del latino perché queste lingue avrebbero, secondo gli esperti americani, un grande potere formativo. E ̓divertente sapere che vi sono studiosi stranieri che sostengono, ora, quello che anche noi abbiamo sempre pensato. E ̓un

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po ̓meno divertente constatare che purtroppo ci sia, se non a parole certamente di fatto, una tendenza di pensiero contraria proprio in Italia e che poco alla volta ci accingiamo ad abbandonare lo studio di quelle meravigliose lingue.

Unʼaltra stranezza, e questa è strettamente ortoepica, ci pare la seguente. Nello studio delle lingue straniere diamo molta importanza alla pronunzia. Facciamo un esempio. In francese la parola “padre” è “père” e si legge con la “e larga” come indica lʼaccento ortoepico grave (\) od ottuso. Qualsiasi insegnante considera giustamente un grave errore il dire “pére” con la “e stretta”. In italiano invece, che è la nostra lingua, non si dà importanza ad errori del genere. E questo accade non soltanto a scuola. Sui manifesti della pubblicità, nei giornali, alla TV capita sempre più spesso di osservare errori del tipo: “é bello”, “perchè”, “cʼé”, eccetera. Ora, se lungo la strada o presso un negozio leggiamo “Natale é bello”, possiamo non accorgercene o dare al fatto lʼimportanza che merita. Ma se, durante trasmissioni di natura politico-culturale, tra le più seguite ed interessanti, si notano frasi del tipo: “Ma questa é…” o “PERCHÈ” (a caratteri cubitali ed in rosso), si può rimanere veramente perplessi!

Poiché tutto quello che è in movimento attira maggiormente lʼattenzione di ciò che è fermo, ci siamo accorti, allʼennesima ricomparsa della scritta, di quanto avveniva. I personaggi presenti, giornalisti, intellettuali ed esponenti del mondo della cultura e della politica, fra i più cari al pubblico, discutevano sullʼargomento con eleganza, intelligenza e, perché non dirlo, anche con un bellʼitaliano ed una piacevole ortoepia. E dietro di loro quel piccolo, insignificante ma fastidiosissimo errore… E ̓ sempre accaduto che nella lingua parlata si prendessero licenze “ortoepiche” del genere; è del tutto naturale e comprensibile, ma nel passato era molto raro “leggere” errori così.

Anche le altre lingue nazionali hanno, nelle varie zone, inflessioni e cadenze diverse e, proprio come in Italia, si parla in maniera più o meno ortoepicamente corretta.

Noi sappiamo capire facilmente se una persona è veneta o siciliana, se unʼaltra è ligure o pugliese dallʼinflessione che, nel loro italiano, deriva dal corrispondente dialetto. Se queste stesse persone potessero esprimersi senza quelle cadenze rivelatrici, ci sarebbe molto difficile individuarne la provenienza perché le differenze che le caratterizzano si ridurrebbero solo a quelle ortoepiche. A parte qualche caso noto a tutti come certe “e aperte” (barchètta…) dei milanesi o certe “o chiuse”

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(uóvo…) dei napoletani che possono rivelarcene lʼorigine, per riuscire nellʼintento è necessario non solo conoscere lʼortoepia ma anche le caratteristiche ortoepiche buone e meno buone delle varie regioni.

Unʼultima osservazione. Teniamo a ribadire che noi consideriamo estremamente importanti i dialetti, sia dal punto di vista culturale che espressivo, e riteniamo che la tradizione dialettale non debba morire; lʼinflessione e la cadenza di una parlata però (non il dialetto!), per quanto “simpatiche” possano essere, non sono certamente una caratteristica positiva in relazione alla lingua italiana. E questo vale anche per il fiorentino. Quando diciamo che a Firenze è nata la nostra lingua e che vi si parla il miglior italiano ci riferiamo unicamente alla esattezza degli accenti ortoepici che, sulle sponde dellʼArno, sono esattamente quelli indicati dal vocabolario. Si potrebbe, in sintesi, dire che la lingua italiana è il fiorentino privo di ogni cadenza e della sua più caratteristica inflessione: la nota aspirazione della “c” che la rende praticamente muta.

Questo libro non vuole essere un manuale con lo scopo di insegnare a parlare un italiano ortoepicamente corretto, ma nasce con lʼintento, molto meno ambizioso, di far parlare un italiano migliore. Non daremo pertanto consigli metafisici su come esercitarsi per ottenere le “e” e le “o” aperte o chiuse; né inviteremo alcuno a mettere una matita, ad esempio, fra i denti per ottenere suoni stretti o più acuti. Siamo sicuri che “giocando” con le labbra, aprendole e socchiudendole di più o di meno, si possa riuscire con un poco dʼesercizio e pazienza ad ottenere soddisfacenti risultati.

Alcune delle regole che riporteremo si possono trovare sparse qua e là in quasi tutti i testi di italiano e nei vocabolari; noi le abbiamo raccolte, ampliate e corredate delle relative eccezioni. Le altre, la maggior parte, sono il risultato del nostro lavoro di ricerca, analisi e comparazione.Sarà necessario applicarsi un poco per memorizzarle il più possibile ma, anche non facendolo, si può passare direttamente alla lettura delle “poesie e dei brani ortoepici”.

Nella seconda parte del libro sono riportate alcune poesie e brani, fra i più noti della nostra letteratura, e alcune fra le più famose romanze liriche, con lʼindicazione degli accenti ortoepici (che di norma non vengono messi) in modo da poterli leggere o … cantare, senza la fatica di cercare le varie parole sul vocabolario, proprio con i suoni corretti, secondo le regole dellʼitaliano.

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Presentiamo anche la poesia e la romanza nella sua forma originale, in modo che ci si possa rendere conto di come le leggeremmo senza lʼaiuto di cui sopra. Questo può anche servire da esercizio per scoprire se commettiamo errori, in quale misura, e se facciamo dei progressi. Noi abbiamo provato, leggendo non come avremmo fatto solitamente, ma secondo lʼindicazione degli accenti ortoepici, la sensazione di trovarci di fronte ad una poesia, ad un brano più belli. E la lingua stessa appare migliore.

Indubbiamente le poesie lette dai grandi attori hanno un fascino del tutto particolare. La bellezza naturale della loro voce, lʼimpostazione della stessa ottenuta con lo studio e lʼesercizio, unite alla correttezza dellʼortoepia, sono per la poesia quello che per la musica sono unʼorchestra, un direttore e dei solisti eccezionali.

Ma è altrettanto vero che oltre al piacere di ascoltare le poesie cʼè anche quello di leggerle e tutto ciò che facciamo per rendere la nostra lettura migliore, e rispettosa di quanto la poesia stessa richiede, è bello.

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PARTE PRIMAORTOEPIA

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GLI ACCENTI E I SEGNI ORTOEPICI

ACCENTO FONICO

Le vocali del nostro alfabeto sono cinque per quanto riguarda la scrittura (grafemi vocalici) e sette in relazione al suono (fonemi vocalici). Mentre “a”, “i” ed “u” si pronunziano in un sol modo e non vi è regione o zona dʼItalia ove questo non accada, le vocali “e” ed “o” possono essere dette in due maniere diverse e ce ne accorgiamo facilmente ascoltando parlare delle persone provenienti dalle varie parti del nostro Paese.

La “e” e la “o” chiuse (strette), come in “tela ed in onda”

rispettivamente, sono caratterizzate da un accento posto sopra di esse,

detto “acuto” e ascendente da sinistra a destra ( / ).

La “e” e la “o” aperte (larghe), come in “tema” ed in

“pioggia”, si indicano con lʼaccento “grave” e discendente da sinistra

a destra ( \ ).

E ̓ opportuno dire che questi accenti, come quelli tonici non obbligatori dei quali parleremo più avanti, non devono essere scritti ma, consultando il dizionario, li troviamo messi sulle vocali per indicarci lʼesatta pronunzia. Ad esempio scriviamo “tema” e “tela” e sul vocabolario troviamo scritto: “tema-tèma” e “tela-téla”.

A semplice titolo di curiosità, ma anche allo scopo di memorizzare i due tipi di accenti, possiamo dire che quello acuto corrisponde ad una inclinazione inferiore ai 90° e lʼaltro, che pertanto potremmo chiamare

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“ottuso”, ad una superiore agli stessi. Ma le definizioni “acuto e grave” hanno la loro spiegazione nella Fisica e precisamente in quella sua parte che studia il suono: lʼAcustica. Se vogliamo pronunziare una “e” od una “o” chiuse (strette) dobbiamo stringere leggermente le labbra e questo produce automaticamente un aumento della frequenza del suono emesso, e quindi della sua altezza (suono più acuto). Allargando invece la bocca otterremo dei suoni di minor frequenza, più bassi e, per quanto ci interessa, delle “e” e delle “o” più aperte (suono più grave).Restando nella Fisica possiamo ricorrere ad unʼanalogia, nel campo dei fluidi, che può essere interessante. Quando si innaffia un orto o si lava una macchina il getto è più o meno stretto (acuto-chiuso) o più o meno largo (grave-aperto) a secondo che stringiamo o allarghiamo lʼorifizio della lancia. L̓ acqua è la voce proprio come lʼorifizio del tubo è la bocca.

Ogni zona, che corrisponde molto approssimativamente alla regione di appartenenza, si differenzia dalle altre anche per come vengono pronunziate le “e” e le “o”. Ed è necessario dire che, fatta eccezione per la Toscana e parte delle zone ad essa più prossime, i pregi ed i difetti si compensano su tutto il territorio nazionale. Così ad esempio in certi luoghi si usa dire “tempo” con la “e chiusa” (errato) e “merito” con la “e aperta”(corretto), in altri si pronunzia esattamente la prima parola e si commette lʼerrore nella seconda.In alcuni posti si dice giustamente “buon giorno” con la prima “o” aperta, la seconda chiusa e la terza ancora chiusa. Ma se si potesse fare unʼindagine su come gli italiani si scambiano a vicenda il classico augurio mattutino si vedrebbe come, a parte lʼordine degli errori, ci si sbaglia quasi ovunque, da Milano a Napoli, da Venezia a Palermo, con una percentuale intorno al 50%.La spiegazione di questo fatto, che cioè lʼitaliano parlato sia così pesantemente soggetto ad errori fonetici, è che le regole della grammatica italiana non impongono, se non in casi particolari (come vedremo a proposito dellʼaccento tonico), lʼuso obbligatorio degli accenti grafici (fonici e tonici) nella lingua scritta.

E allora, se leggendo un libro volessimo sapere la pronunzia di alcune parole, come ad esempio quelle che abbiamo appena incontrato (tempo, credito…), noi dovremmo consultare il vocabolario. La nostra curiosità verrebbe subito appagata perché troveremmo scritto “tempo (pron. tèmpo)”, “credito (pron. crédito)” e saremmo in grado di pronunziarle correttamente. Ma quanta fatica e soprattutto quanto tempo impiegheremmo per leggere un libro!

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Sarebbe una gran bella cosa - e di grande utilità - se fosse consuetu-dine, per i canali di informazione e di cultura, indicare gli accenti fonici, o perlomeno quelli tonici. Ci rendiamo conto dellʼimpossibilità di realizzare unʼidea del genere, ma non passerebbero due generazioni che tutti, per quanto concerne lʼortoepia, sarebbero in grado di parlare un soddisfacente italiano. Si potrebbe ottenere questo senza compiere il minimo sforzo mentre oggi, come da sempre, le varie grammatiche della scuola media dedicano poche pagine allo studio dellʼortoepia che solitamente, forse anche per mancanza di tempo, vengono ignorate. È difficile incontrare insegnanti che trattino questo argomento, che dicano agli allievi: “Ragazzi, si pronunzia tèma e non téma. Non dite parlamènto, ma parlaménto. Non stória, ma stòria.”. I programmi sono lunghi, impegnativi e il tempo sempre più limitato. Ci sono cose che vengono prima delle sfumature, dei particolari della nostra lingua… In fin dei conti lʼortoepia può interessare soltanto gli attori. Si può essere dʼaccordo. Ma cʼè una domanda alla quale noi non troviamo una risposta: “A cosa serve la perfetta dizione a teatro se noi spettatori non siamo in grado di apprezzarla?”. Sono molti anni che seguiamo le rappresentazioni teatrali e soltanto da quando abbiamo iniziato ad occuparci di ortoepia gli spettacoli ci appaiono diversi, con qualcosa in più.

Prima, quando lʼopera proposta era di qualità scadente, se non addirittura un “fiasco”, ciò che a noi rimaneva non poteva che essere un ricordo di assoluta negatività. Ora è diverso. Può essere un fallimento la regia, la stessa recitazione, ma cʼè sempre almeno un attore che, ascoltandolo, riesce a rendere, in qualche modo, vivo e interessante lo spettacolo.

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ACCENTO TONICO

Il suono che noi emettiamo nel pronunziare una qualsiasi parola non è mai distribuito uniformemente sulla stessa, ma risulta più intenso, più lungo su una delle sue sillabe, detta tonica, ed in particolare la voce appoggia su una vocale della sillaba tonica, chiamata “vocale tonica”.

Lʼaccento tonico viene messo sulla vocale omonima ed è

graficamente uguale a quello fonico; acuto o grave per le “e” e le “o”,

sempre grave(convenzionalmente) per le altre tre vocali in quanto esse

non hanno suono doppio.

Anche per lʼaccento tonico vale quanto detto per quello fonico: le

regole della grammatica cʼimpongono di scrivere ad esempio “uomo”,

ma sul vocabolario troviamo scritto “uomo-uòmo”. In questo caso il

dizionario ci insegna che la parola in questione si scrive senza accento,

che il suono insiste sulla prima “o” (vocale tonica con sopra lʼaccento

tonico) e che essa è aperta (accento grave fonico).

Nella maggior parte delle parole non è obbligatorio indicare lʼaccento tonico (anzi, in alcuni casi si commette errore nel metterlo), e dʼaltra parte non troviamo alcuna difficoltà nel leggerle e nel pronunziarle. Se leggiamo la parola “amore” facciamo pesare il suono sulla “o” con estrema naturalezza, come leggendo “rugiada” la voce insiste sulla “a” della seconda sillaba senza che alcun accento su queste parole ci dia delle indicazioni.

Vi sono però delle situazioni nelle quali viene meno la nostra sicurezza. Chi non si trova in difficoltà di fronte a parole come “rubrica, zaffiro…”? Dobbiamo appoggiare la voce sulla “u” o la “i” nella prima, e sulla “a” o la “i” nella seconda? E ̓il momento di consultare

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il vocabolario. Se questo è di modesta qualità riporta semplicemente la parola con il suo accento. Nel nostro caso troviamo “rubrica” e “zaffìro” con lʼaccento grave sulla “i”. Un vocabolario più importante, completo, fornisce anche lʼetimo, lʼorigine della parola e, ad esempio, per la parola “rubrica” ci dice che questa deriva dal latino e che significa letteralmente “terra rossa”. I titoli, le regole, gli elenchi che si trovano in alcuni codici antichi e nelle leggi erano scritti in rosso. Ci viene data così la spiegazione del significato della parola “rubrica”.

Le pochissime parole sulle quali vediamo messo lʼaccento tonico

(che nel caso di “e” ed “o” è anche fonico), o per le quali consultiamo

il vocabolario allo scopo di sapere se dobbiamo indicare lʼaccento

oppure no, sono quelle che, secondo le regole della grammatica,

devono essere scritte con lʼaccento.

L̓ uso dellʼaccento è obbligatorio nei seguenti casi:

1) Nelle parole tronche (hanno lʼaccento sullʼultima sillaba).

Ad es: perché, caffè, carità, inciampò, divertì, ecc.

2) Nei monosillabi che terminano con due vocali.

Ad es: più, già, scià, ecc.

3) In alcuni monosillabi per distinguerli dagli stessi con altro significato. Ad esempio:

da giovane. ti dà il pane.

la luna. andiamo là.

di giorno. il dì di festa.

io li conosco. sei lì?

si dice che… dimmi di sì!

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Consideriamo ora il seguente esempio:

egli pensa a sé. imparo se (sé) studio.

Nel primo caso lʼaccento acuto sul sé-pronome ci insegna a pronunziarlo chiuso. Nel caso del se-congiunzione, non essendoci alcuna indicazione grafica, siamo in difficoltà se ci poniamo il problema della pronunzia corretta. Il vocabolario indica “se (sé)” e risolve lʼeventuale dubbio.

Altri esempi analoghi sono:

domani è domenica. lavoro e (é) studio.

né oggi né mai. non ne (né) posso più.

mi piace il tè. ci andrò con te (té).

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OMONIMI OMOFONI ED OMONIMI OMOGRAFI

Le parole dellʼitaliano, come in genere accade in tutte le lingue, hanno molti significati che rientrano tuttavia in una gamma di affinità. Così se diciamo “casa” non vi è alcun dubbio, a prescindere dal contesto del discorso, su che cosa intendiamo. Può essere un edificio, lʼabitazione, anche la famiglia, unʼazienda… ma non certamente un elefante.

Esistono però delle parole, come ad esempio “fiera” e “colto”, che hanno due significati del tutto diversi e dobbiamo capire, dal discorso, quale va loro attribuito. Gli esempi portati sono due, come i gruppi di parole che presentano la caratteristica del doppio significato e che formano lʼinsieme degli omonimi (stesso nome). Distinguiamo questi in omofoni ed in omografi.

Omonimi-omofoni (stesso nome-stesso suono).

Sono le parole che, identiche nella scrittura e nel suono,

posseggono due (o più) significati diversi. Per maggior precisione e

completezza andrebbero chiamati omonimi-omofoni-omografi. Per

semplicità li chiamiamo omofoni.

Omofoni come ad esempio “lira” (moneta, strumento musicale) non hanno alcun interesse per quanto riguarda lʼortoepia. Riportiamo alcuni omofoni con lʼindicazione della corretta dizione anche se, rispettando le regole grammaticali, non dobbiamo mettere lʼaccento su queste parole.

cera (céra) la céra delle api hai una brutta céra

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chiese (chièse) visitare delle chièse lui le chièse di…

fiera (fièra) andare alla fièra la tigre è una fièra tu sei fièra di me

conti (cónti) tu cónti male i cónti tornano sono arrivati i duchi, i cónti…

fondo (fóndo) toccare il fóndo io fóndo il metallo fóndo un partito

letto (lètto) andare a lètto ho lètto un libro

verso (vèrso) vado vèrso la piazza io vèrso del vino il vèrso del passero

Omonimi-omografi (stesso nome-stessa grafia).

Sono le parole che, uguali nella scrittura ma non nel suono,

posseggono due (o più) significati. Gli omografi, a differenza degli

omofoni, si differenziano per la pronunzia delle “e” o delle “o”, oppure

per la diversa posizione dellʼaccento tonico. La grammatica consiglia,

poiché vi è la possibilità di distinguere le due parole omografe, lʼuso

dellʼaccento che le caratterizza.

Presentiamo una parte degli omografi di uso più frequente (con e).

omografo é chiusa è aperta

accetta lʼaccétta (lʼascia) egli accètta

affetto io affétto (io taglio) lʼaffètto (sentimento)

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collega ti colléga a Roma è un mio collèga

corresse se lui corrésse lui corrèsse (da correre) (da correggere)

dei lʼaria dei (déi) boschi gli dei (dèi)

esca lʼésca (del pescatore) lei èsca!

legge la légge lei lègge

mento si è rotto il ménto io mènto

messe le rose sono mésse sono andato a due mésse è stata una buona mèsse (raccolto)

messi i méssi (uscieri, commessi) mèssi abbondanti

pesca la pésca (il pescare) la pèsca (il frutto)

peste seguire le péste (impronte) cʼè la pèste

tema “niun mi téma…” è un bel tèma

venti vénti uomini i vènti del Nord

E ̓opportuno osservare che gli omografi (identica scrittura) sono tali,

in realtà, se non hanno lʼaccento che li esplicita.

Ad esempio “tema” è un omografo. Il “tèma” non è più omografo poiché

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è stato eliminato il dubbio sul suo significato e soprattutto perché non è graficamente uguale a “tema”. Le regole della grammatica consigliano (!) lʼuso dellʼaccento negli omografi; ma che cosa accade se chi scrive non sa di trovarsi di fronte ad uno di questi? Semplicemente che il significato si dedurrà dal contesto, che lʼautore ha scritto un omografo e che la parola sarà pronunziata correttamente o no in modo del tutto casuale.

Vediamo ora un elenco di omografi con la vocale “o”.

omografo ó chiusa ò aperta

botte la bótte piena ha preso delle bòtte

colta (o) una persona cólta la frutta còlta

corso io ho córso Napoleone era còrso

foro fóro (buco) fòro (piazza-principe del fòro)

fosse se lei fósse… ho scavato delle fòsse

importi vorrei impórti di.. non è che mi impòrti

indotto ti ha indótto a… indòtto (non dotto-idiota)

mozzo 1) il mózzo delle navi il mòzzo della ruota 2) un dito mózzo

porci vuoi pórci il pane? i pòrci nel cortile

porsi pórsi allʼopera io ti pòrsi il pane

pose póse le fondamenta assumere delle pòse

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posta pósta in salvo cʼè pòsta per te

rocca la rócca per filare una ròcca medioevale

rosa rósa di rabbia ti dono una ròsa

scopo io scópo il pavimento avere uno scòpo

scorsi scórsi ( feci scorrere) io scòrsi il mare le pagine

sorta è sórta la luna una sòrta (specie) di…

torta la tórta è buona con la bocca tòrta

volgo si rivolse al vólgo io vòlgo lo sguardo al…

volto ha un bel vólto con lo sguardo vòlto a…

Omografi con diversa posizione dellʼaccento tonico.

Ne esistono molti del tipo:

àmbito-ambìto / càpitano-capitàno / circùito-circuìto

rùbino-rubìno / sùbito-subìto

Questi omografi non hanno lʼaccento sulle vocali “e” ed “o” e pertanto lʼinteresse per quanto riguarda la fonetica è minore dei seguenti:

altero io àltero i dati tu sei altèro

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ancora dimmelo ancóra gettare lʼàncora

benefici ho tratto benefìci siate benèfici

compito è cómpito tuo è molto compìto

desideri tu desìderi… i tuoi desidèri

leggere imparo a lèggere nuvole leggère

malefici i malefìci del reo i rei sono malèfici

predico io predìco la fine io prèdico al vento

regia la regìa del film la potenza règia

retina uso una retìna la rètina dellʼocchio

seguito io sono seguìto tu sei al séguito

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ORTOEPIA DI “E”

Ogni parola della nostra lingua ha il suo etimo, la sua storia e, pertanto, le regole dellʼortoepia non hanno pretese di rigorosità, non sono dei teoremi di matematica né delle leggi fisiche; alcune non presentano eccezioni, altre ne hanno poche ed altre ancora molte.La parola “eccezione”, in questo lavoro come nelle grammatiche e nei dizionari che riportano regole ortoepiche, deve essere interpretata con una certa elasticità.Trovare affinità nelle parole allo scopo di dare loro un certo ordine e di classificarle, in relazione al suono, non è stato facile.Più ci si addentra in questa materia, più si costruiscono regole e si amplia la classificazione, maggiore diventa la probabilità che le “eccezioni” ad una regola siano “non eccezioni” per unʼaltra.

Ricordiamo inoltre che abbiamo deciso di presentare le parole proprio come avviene nei vocabolari: “prima la parola come deve essere scritta, poi la scrittura ortoepica”. Molte volte ci siamo chiesti se non fosse un lavoro inutile, ma la scelta è stata determinata dai vantaggi che si possono ottenere con questo metodo anche se è un poco pesante.Se noi leggiamo “amóre” capiamo che dobbiamo pronunziare la “o” chiusa; ma ci potrebbe venire il dubbio sulla obbligatorietà o meno di scrivere lʼaccento.

Se invece leggiamo: amore (amóre) oppure “amore-amóre”, la nostra mente è indubbiamente più libera nellʼapprendere e nel memorizzare.

“e” chiuso

Il grafema “e” si pronunzia chiuso in tutte le parole nelle quali lʼaccento tonico non cade sulla sua sillaba, cioè quando non è vocale tonica.

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Ad esempio: in “sempre” la prima “e” è tonica ed il vocabolario insegna che è aperta; la seconda non è tonica e pertanto deve avere suono chiuso. La pronunzia è: “sèmpré”.

In “verde” è ancora tonica la prima ma ora il dizionario dice che è chiusa; la seconda è chiusa perché non tonica.La pronunzia è “vérdé”.

Ricordiamo che il suono delle vocali non toniche è meno intenso,

la voce vi scorre sopra più velocemente, e lʼeventuale errore ed

imperfezione di pronunzia risulta meno evidente.

Casi nei quali il grafema “e” si pronunzia chiuso

1) quando rappresenta semplicemente la vocale e (é)

2) quando è congiunzione: oggi e (é) domani… tu ed ( éd ) io

3) in “eh” interiezione: con suono chiuso e di breve durata per esprimere esortazione o rimprovero:

“eh (éh ) dai, un pò di impegno!” … “eh (éh ), che stai facendo?”

4) in “ehi” interiezione per esprimere stupore e per richiamare lʼattenzione:

“ehi (éhi ), che errore”… “ehi (éhi ), cʼè qualcuno?”

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5) in “ei” termine poetico in luogo di “egli, essi”:

ei (éi ) disse… ei (éi) andarono

6) in tutti i pronomi personali : egli, ella, esso, essa, essi, esse:

egli (égli ) disse… esse (ésse ) vennero, ecc.

7) nel pronome “ce”:

ce (cé) lo disse… ce (cé) ne vuole…..

8) in “ne” pronome, preposizione, avverbio ed in “né” congiunzione:

ne (né) voglio ancora…

è riportato ne (né) “ La Divina Comedia” me ne (né) allontanai… né a Roma né a Milano….

9) in “se” congiunzione e pronome:

se (sé) tu mi aiuti…se (sé) li vide davanti… lo fece per sé

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Vocabolarietto

Presentiamo un elenco di pronomi, preposizioni, congiunzioni,

avverbi, numeri, nomi propri di persona, nomi di città e termini

matematici e scientifici per una pronta consultazione.

Ovviamente ritroveremo le parole di questo elenco laddove dovranno essere inserite per le loro caratteristiche ortoepiche.

Ad esempio, troveremo la parola “segmento” fra quelle che terminano in “mento” e che richiedono la “e” chiusa.

Pronomi, preposizioni, congiunzioni e avverbi

codesto-a-i-e (codésto-a-i-e ) questo-a-i-e (quésto-a-i-e )

quello-a-i-e ( quéllo-a-i-e ) quegli (quégli)

del (dél) dello-a-gli-e ( déllo, délla, dégli, délle ) dei (déi )

dentro (déntro ) entro (éntro) per (pér)

spesso (spésso) seguito (séguito)

Numeri

tre (tré) tredici (trédici) sedici (sédici)

venti (vénti) ventitre (ventitré)

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Nomi propri

Antonietta (Antoniétta) Benedetto (Benedétto)

Elisabetta (Elisabétta) Francesco (Francésco)

Simonetta (Simonétta) Stella (Stélla)

Vera (Véra) e pochi altri.

La maggior parte dei nomi ha, come vedremo, la “e” aperta.

Nomi di città

Albenga (Albénga) Arezzo (Arézzo)

Barletta (Barlétta) Brescia (Bréscia)

Caltanissetta (Caltanissétta) Empoli (Émpoli)

Gaeta (Gaéta) Grosseto (Grosséto)

Pesaro (Pésaro) Ravenna (Ravénna)

Spoleto (Spoléto) Varese (Varése)

Termini matematici e scientifici

altezza (altézza) ampiezza (ampiézza)

argomento (argoménto) cerchio (cérchio)

coseno (coséno) larghezza (larghézza)

lunghezza (lunghézza) meno (méno)

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segmento (segménto) segno (ségno)

seno (séno)

antenna (anténna) assorbimento (assorbiménto)

battimenti (battiménti) candela (candéla)

catena (caténa) credito (crédito)

decadimento (decadiménto) debito (débito)

elemento (eleménto) esperimento (esperiménto)

grandezza (grandézza) innesco (innésco)

irraggiamento (irraggiaménto) legge (légge)

movimento (moviménto) orientamento (orientaménto)

peso (péso) pianeta (pianéta)

potere (potére) rocchetto (rocchétto)

rotolamento (rotolaménto) spostamento (spostaménto)

strumento (struménto) stella (stélla)

vetro (vétro)

Terminazioni verbali notevoli

1) “é-ei” del passato remoto.

egli credé, perdé, pendé… io perdei (perdéi), credei (credéi)

E ̓eccezione “ pendei-pendèi”.

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2) “emo” del futuro.

noi correremo (correrémo ), giocheremo (giocherémo ), ecc.

3) “emmo-erono” del passato remoto.

noi perdemmo ( perdémmo), loro crederono (credérono)…

4) “enni-enne-ennero”, “evvi-evve-evvero”, “eci-ece-ecero” del passato remoto.

io ritenni (riténni )… avvenné (avvénne) che…

loro ténnero (ténnero) …

io tenni (ténni)... egli venne (vénne)…

essi sostennero (sosténnero)…io bevvi ( bévvi )… egli bevve (bévve)…

essi bevvero (bévvero)…

io feci (féci)… egli fece (féce )… essi fecero (fécero)…

5) “erci-ergli-erlo-erla-erli-erle-erne-ervi” dopo lʼinfinito.

goderci (godérci)… avergli (avérgli)… averlo (avérlo)…

poterla (potérla)… saperli (sapérli )… volerle (volérle)…

doverne (dovérne)… piacervi (piacérvi)…

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6) “ere” dellʼinfinito.

appartenere (appartenére), sapere (sapére), volere (volére)…

7) “esa- eso-esi-ese” del participio passato.

lei (lui) è stata contesa (contésa-contéso)…

essi (esse) furono presi (prési-prése), ecc.

8) “esi-ese-esero” del passato remoto.

io resi (rési)… lui tese (tése)… essi presero (présero), ecc.

Esiste qualche eccezione come “io chiesi” (chièsi) poiché, lo vedremo,

la “e” preceduta dalla “i” si pronunzia aperta.

9) “essi-esse-essimo-essero” del congiuntivo imperfetto.

se io (tu) dicessi (dicéssi )… se lei leggesse (leggésse)…

se noi corressimo (corréssimo)… se loro dicessero (dicéssero)…

10) “esti-este” del passato remoto e del condizionale presente.

tu avesti (avésti )… voi prendéste…

tu saresti (sarésti )… voi avreste (avréste)…

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11) “ete” del presente indicativo, dellʼimperativo e del futuro.

voi conoscete (conoscéte)… correte (corréte)…

leggete! (leggéte)… spingete! (spingéte)…

voi direte (diréte)… studierete (studieréte)…

E ̓eccezione “siete (siète)”, come tutti i casi simili, poiché (lo vedremo)

la “ e preceduta dalla i ha pronunzia aperta”.

12) “evo-evi-eva-evano ” dellʼimperfetto indicativo.

io avevo (avévo)… tu perdevi (perdévi)…

egli vinceva (vincéva)… essi correvano (corrévano)…

Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali

“ebbia-ebbio-ebbi-ebbe-ebbero”

nebbia (nébbia) trebbia (trébbia) rebbio (rébbio)

io trebbio (trébbio) il trebbio (trébbio)

N.B.

io crebbi (crébbi), egli crebbe (crébbe), essi crébbero.

Ma si dice: io ebbi (èbbi), egli ebbe (èbbe), essi ebbero (èbbero).

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“ebbra-ebbro”

lebbra (lébbra), ebbro (ébbro).

Ebbro ammette anche la forma aperta “èbbro”.

“eccio-eccia-ecci”

leccio (léccio) libeccio (libéccio)

mangereccio (mangeréccio) breccia (bréccia)

freccia (fréccia) leccia (léccia)

io cicaleccio (cicaléccio), tu cicalecci (cicalécci), ecc.

io intreccio (intréccio) , tu intrecci (intrécci), ecc.

Sono “eccezioni”: feccio (fèccio-tipo di botte) e feccia (fèccia).

“ecco-ecca-ecchi”

becco (bécco), io becco (bécco), secco (sécco),

stambecco (stambécco), lui becca (bécca), bistecca (bistécca),

cilecca (cilécca), lei stecca (stécca), tu lecchi (lécchi), ecc.

Un omonimo-omofono è “zecca-zécca” che significa “aracnide-parassita” ed anche “luogo, officina di conio”.

Rare le “eccezioni”: ecco (ècco) e Mecca (Mècca).

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“efice”

artefice (artéfice), pontefice (pontéfice), ecc.

“eggio”

albeggio (albéggio) alpeggio (alpéggio)

armeggio (arméggio) brandeggio (brandéggio)

carteggio (cartéggio) conteggio (contéggio)

corteggio (cortéggio) parcheggio (parchéggio)

posteggio (postéggio) punteggio (puntéggio)

solfeggio (solféggio) sorteggio (sortéggio)…

Rare le“eccezioni”: peggio (pèggio) e seggio (sèggio).

Per “seggio” è ammessa anche la forma “séggio”.

“eglio-eglia”

risveglio (risvéglio), la sveglia (svéglia), sei sveglio (svéglio)…

Ma, ricordiamolo, si dice “meglio-mèglio”.

“egna-egno”

contegno (contégno) degna (dégna) impegno (impégno)

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ingegno (ingégno) legno (légno) pegno (pégno)

regno (régno) sostegno (sostégno) lei insegna (inségna)

segna (ségna) il limite, ecc.

“elva” belva (bélva), selva (sélva), ecc.

“embo”

grembo (grémbo), sghembo (sghémbo), ecc.

Ma si dice “zembo-zèmbo”.

Omografo: lembo (lémbo) per indicare “orlo-zona”.lembo (lèmbo) è una nave leggera.

“emmia-emmio-emmi”

bestemmia (bestémmia) vendemmia (vendémmia)

io bestemmio (bestémmio) tu vendemmi (vendémmi)

“enno”

cenno (cénno), senno (sénno), io accenno (accénno), ecc.

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“eno-ena”

alleno (alléno) ceno (céno) freno (fréno)

meno (méno) seno (séno) sereno (seréno)

terreno (terréno) veleno (veléno)

appena (appéna) balena (baléna) cena (céna)

lena (léna) pena (péna)…

“Eccezioni”: ameno (amèno), novena (novèna), osceno (oscèno),

scena (scèna), sirena (sirèna), treno (trèno).

Omografi:

arena (aréna) se rappresenta la sabbia.

arena (arèna) per rappresentare un luogo di spettacoli come un anfiteatro, uno stadio, ecc.

“eppo-eppa”

ceppo (céppo), zeppo (zéppo), teppa (téppa), ecc.

“ermo-erma”

fermo (férmo), schermo (schérmo), scherma (schérma)…

È eccezione “ermo-èrmo”.

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“esco-esca”

io cresco (crésco) io innesco (innésco) io tresco (trésco)

lʼinnesco (innésco) fantesca (fantésca) tresca (trésca)

Francesco (Francésco), ecc.

E poi tutti gli aggettivi:

fresco (frésco) grottesco (grottésco) pazzesco (pazzésco)

studentesco (studentésco), ecc.

Ricordiamo gli omografi “pesca” e “esca”:

pesca (pésca) è lʼazione, il risultato, del pescare.

pesca (pèsca) è il frutto.

esca (ésca) è tutto ciò che serve ad adescare.

esca (èsca) è congiuntivo e imperativo dal verbo uscire.

E ̓“eccezione”: io esco (èsco).

“eso-esa-esi-ese” degli aggettivi (e, come abbiamo visto, dei participi

passati):

illeso (illéso), sospesa (sospésa), stesi (stési), tese (tése)…

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ed anche nei sostantivi:

attesa (attésa)… contesa (contésa)… intesa (intésa)…

ripresa (riprésa)… resa (résa)… spesa (spésa)…

mese (mése)… paese (paése), ecc.

Ma si dice Teresa (Terèsa).

“espo-espa”

cespo (céspo), crespo (créspo), la crespa (créspa-piega, ruga).

“ete”

abete (abéte), parete (paréte), rete (réte), sete (séte), ecc.

Sono eccezioni “magnete-magnète” e “prete-prète”.

“etto-etta-ette-etti” in tutti i diminutivi

poveretto (poverétto), amichetta (amichétta), casette (casétte),

animaletti (animalétti), ecc.

“evole-ebole”

gradevole (gradévole) piacevole (piacévole)

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debole ( débole ), ecc.

“ezza”

bellezza (bellézza) brezza (brézza)

carezza (carézza) delicatezza (delicatézza)

destrezza (destrézza) finezza (finézza)

giovinezza (giovinézza) prelibatezza (prelibatézza)…

E ̓eccezione “pezza-pèzza”.

“ezzo”

lezzo (lézzo) malvezzo (malvézzo) olezzo (olézzo)

vezzo (vézzo) grezzo (grézzo) io accarezzo (accarézzo)…

E ̓“eccezione” (pezzo-pèzzo).

Un omografo è “mezzo”:

mezzo (mézzo) significa “bagnato, fradicio”.

mezzo (mèzzo) vuol dire “metà, medio” ed anche “espediente”.

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“mente-o-a”

in tutti gli avverbi:

facilmente (facilménte)… ingiustamente (ingiustaménte)…

realmente (realménte)… spiritualmente (spiritualménte)…

e nelle parole:

mente (ménte) argomento (argoménto)

monumento (monuménto) parlamento (parlaménto)

segmento (segménto) menta (ménta)…

Ricordiamo lʼomografo “mento”:

Il “mento-ménto”.

Io “mento-mènto”.

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“e” aperto

Casi nei quali il grafema “e” ha suono aperto

“è”, voce del verbo essere, ha pronunzia aperta, come indica lo stesso,

obbligatorio, accento tonico-fonico.

è buono, è piccolo, ecc.

“eh” (èh) interiezione. Ha pronunzia aperta e prolungata per esprimere

dolore, ansia, stupore ed in forma interrogativa:

eh (èh), che disgrazia! eh (èh) che spettacolo!

eh (èh), cosa dici?

“deh” (dèh) interiezione, per esprimere esortazione, desiderio:

deh (dèh), non fare così! ecc.

“ex” (èx) preposizione latina.

ex (èx) allievo, ex (èx) giocatore, ecc.

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Preposizioni ed avverbi

adesso (adèsso) dietro (diètro) eccetto (eccètto)

eccetera (eccètera) ecco (ècco) meglio (mèglio)

sempre (sèmpre) senza (sènza) sovente (sovènte)

Numeri

sei (sèi) sette (sètte) dieci (dièci) diciassette (diciassètte)

ventisei (ventisèi) ventisette (ventisètte) cento (cènto)

Trenta ammette le due forme (trénta e trènta).

Nomi di mesi

settembre (settèmbre) novembre (novèmbre)

dicembre (dicèmbre).

Nomi propri di persona

Adelio (Adèlio) Adele (Adèle) Alberto (Albèrto)

Alessio (Alèssio) Amelia (Amèlia) Amedeo (Amedèo)

Amerio (Amèrio) Andrea (Andrèa) Angelica (Angèlica)

Antenore (Antènore) Aurelio (Aurèlio) Azeglio (Azèglio)

Berta (Bèrta) Elena (Èlena) Emanuele (Emanuèle)

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Emma (Èmma) Ennio (Ènnio) Ercole (Èrcole)

Ezio (Èzio) Gabriele (Gabrièle) Giuseppe (Giusèppe)

Lorenzo (Lorènzo) Lucrezia (Lucrèzia) Manuela (Manuèla)

Michele (Michèle) Piero (Pièro) Pietro (Piètro)

Remo (Rèmo) Renzo (Rènzo) Roberto (Robèrto)

Teresa (Terèsa)…

Nomi mitologici

Acheo (Achèo) Agamennone (Agamènnone) Agenore (Agènore)

Alceo (Alcèo) Alfeo (Alfèo) Antenore (Antènore)

Anteo (Antèo) Artemide (Artèmide) Astreo (Astrèo)

Atena (Atèna) Cassiopea (Cassiopèa) Cefalo (Cèfalo)

Ceice (Cèice) Cerbero (Cèrbero) Cerere (Cèrere)

Citerea (Citerèa) Clitennestra (Clitennèstra) Dedalo (Dèdalo)

Demetra (Dèmetra) Diomede (Diomède) Ecuba (Ècuba)

Egida (Ègida) Egeo (Egèo) Elena (Èlena)

Elettra (Elèttra) Ellade (Èllade) Elio (Èlio)

Enea (Enèa) Eolo (Èolo) Eracle (Èracle)

Erato (Èrato) Ercole (Èrcole) Ermes (Èrmes)

Eros (Èros) Eteocle (Etèocle) Etere (Ètere)

Ettore (Èttore) Euterpe (Eutèrpe) Febo (Fèbo)

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Fedra (Fèdra) Ganimede (Ganimède) Gea (Gèa)

Ismene (Ismène) Leda (Lèda) Medea (Medèa)

Megera (Megèra) Mentore (Mèntore) Minerva (Minèrva)

Morfeo (Morfèo) Nemesi (Nèmesi) Nereo (Nerèo)

Nestore (Nèstore) Oceano (Ocèano) Odissea (Odissèa)

Oreste (Orèste) Orfeo (Orfèo) Panacea (Panacèa)

Pegaso (Pègaso) Peleo (Pelèo) Penelope (Penèlope)

Persefone (Persèfone) Pleiadi (Plèiadi) Polifemo (Polifèmo)

Prometeo (Promèteo) Proserpina (Prosèrpina) Rea (Rèa)

Remo (Rèmo) Selene (Selène) Sirene ( Sirène)

Stentore (Stèntore) Tea (Tèa) Telefo (Tèlefo)

Telegono (Telègono) Telesforo (Telèsforo) Telemaco (Telèmaco)

Tellure (Tèllure) Temi (Tèmi) Teseo (Tèseo o Tesèo)

Teti (Tèti) Tevere (Tèvere) Tiresia (Tirèsia)

Tirreno (Tirrèno) Venere (Vènere) Vesta (Vèsta)

Zefiro (Zèfiro) Zeus (Zèus)

Nomi di città

Agrigento (Agrigènto) Benevento (Benevènto) Bergamo (Bèrgamo)

Cosenza (Cosènza) Enna (Ènna) Firenze (Firènze)

Genova (Gènova) Iglesias (Iglèsias) Imperia (Impèria)

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Isernia (Isèrnia) Ivrea (Ivrèa) La Spezia (La Spèzia)

Matera (Matèra) Orvieto (Orvièto) Palermo (Palèrmo)

Piacenza (Piacènza) Potenza (Potènza) Salerno (Salèrno)

Siena (Sièna) Teramo (Tèramo) Venezia (Venèzia)

Vicenza (Vicènza) Voghera (Voghèra)

Termini matematici e scientifici

algebrico (algèbrico) anello (anèllo) apotema (apotèma)

aritmetica (aritmètica) baricentro (baricèntro) cateto (catèto)

centro (cèntro) circocentro (circocèntro)

circonferenza (circonferènza) coefficiente (coefficiènte)

convergenza (convergènza) convesso (convèsso)

corrispondenza (corrispondènza) divergenza (divergènza)

ennesimo (ennèsimo) equivalenza (equivalènza)

esponente (esponènte) incentro (incèntro)

insieme (insième) intero (intèro)

inverso (invèrso) iperbole (ipèrbole) lemma (lèmma)

media (mèdia) metodo (mètodo) metrica (mètrica)

poliedro (polièdro) quoziente (quoziènte)

parametro (paramètro) potenza (potènza)

problema (problèma) prostaferesi (prostafèresi)

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resto (rèsto) scaleno (scalèno) sfera (sfèra)

sistema (sistèma) teorema (teorèma) tesi (tèsi)

trapezio (trapèzio)

afelio (afèlio) apogeo (apogèo) atmosfera (atmosfèra)

cella (cèlla) cibernetica (cibernètica) cinetica (cinètica)

corrente (corrènte) dielettrico (dielèttrico) eco (èco)

effetto (effètto) elettromagnetico (elettromagnètico)

energetico (energètico) etere (ètere) evento (evènto)

isotermo (isotèrmo) lente (lènte) leva (lèva)

materia (matèria) mezzo (mèzzo) molecola (molècola)

particella (particèlla) pendolo (pèndolo) perielio (perièlio)

perigeo (perigèo) tempo (tèmpo) Terra (Tèrra)

Venere (Vènere) treno (trèno) universo (univèrso)

valenza (valènza)

“e” preceduta dalla i, nel dittongo “ie”

dieci (dièci), ieri (ièri), fiera (fièra), chiedere (chièdere), ecc.

Piero (Pièro), Pietro (Piètro), ecc.

Sono eccezioni “chierico” (che ammette le due pronunzie: chièrico e

chiérico), “ampiezza-ampiézza” e “gaiezza-gaiézza”.

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Unʼaltra eccezione un poco particolare è biglietto: non è un diminutivo

ma una parola di origine francese (billet-con la e chiusa): biglietto

(bigliétto).

È interessante osservare che la regola sulle “e chiuse” dei diminutivi è più vincolante di quella sul dittongo “ie”.

Pertanto avremo:

arietta (ariétta), vizietto (viziétto), Orietta (Oriétta), ecc.

“e” seguita da una vocale

apnea (apnèa) assemblea (assemblèa)

epopea (epopèa) idea (idèa) livrea (livrèa)

marea (marèa) meteora (metèora) piorrea (piorrèa)

rea (rèa) colei (colèi) gli dei (dèi)

corteo (cortèo) giubileo (giubilèo) ipogeo (ipogèo)

museo (musèo) neo (nèo) oceano (ocèano)

perigeo (perigèo) trofeo (trofèo) euro (èuro)

Sono “eccezione” o seguono la regola contraria, come abbiamo visto,

i passati remoti: credei (credéi), perdei (perdéi), ecc.

ed anche la preposizione “dei”: dei (déi) miei pensieri.

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“e” seguita da una consonante (ad eccezione della g gutturale) e poi

da due vocali

“edio-edia”

medio (mèdio) rimedio (rimèdio) commedia (commèdia)

inedia (inèdia) tragedia (tragèdia)...

“egio-egia” “eguo-egua”

collegio (collègio) fregio (frègio) sortilegio (sortilègio)

lui si pregia (prègia) di…

Come detto, fa eccezione la “g-gutturale”: io inseguo (inséguo), tregua

(trégua), ecc.

“elio-elia”

afelio (afèlio), cimelio (cimèlio), perielio (perièlio),

camelia (camèlia), celia (cèlia), ecc.

Adelio (Adèlio), Amelia (Amèlia), Aurelio (Aurèlio), ecc.

“emio-emia”

premio (prèmio), astemio (astèmio), egli premia (prèmia), ecc.

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“erio-eria-erie”

desiderio (desidèrio) deuterio (deutèrio) serio (sèrio)

materia (matèria) miseria (misèria) imperio (impèrio)

ferie (fèrie) serie (sèrie)

Amerio (Amèrio) Tiberio (Tibèrio)…

“ezio-ezia”

screzio (scrèzio) trapezio (trapèzio) La Spezia (Spèzia)

Ezio (Èzio) Lucrezia (Lucrèzia)…

Altre parole che rientrano nello schema sono:

aereo (aèreo) ardesia (ardèsia) ceduo (cèduo)

etereo (etèreo) meteo (mèteo) ossequio (ossèquio)

perpetuo (perpètuo) spezie (spèzie)…

Terminazioni verbali notevoli

“ei-ebbe-ebbero” del condizionale presente

amerei (amerèi)… giocherebbe (giocherèbbe)…

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studierebbero (studierèbbero)…

“endo” del gerundio

essendo (essèndo), avendo (avèndo), leggendo (leggèndo), ecc.

“ente” del participio presente

avente (avènte), discente (discènte), fremente (fremènte), ecc.

È interessante osservare che questa regola è più vincolante di quella

relativa alle “e chiuse” delle finali in “mente”.

“essi-esse-essero” del passato remoto

io lessi (lèssi), egli diresse (dirèsse), essi corressero (corrèssero), ecc.

N.B.

“corressero” è un omografo: “corressero” (corrèssero) è passato

remoto da “correggere”, mentre “corressero” (corréssero) è congiuntivo

imperfetto dal verbo “correre”.

“etti-ette-ettero” del passato remoto

io (credètti), lui stette (stètte), essi bevettero (bevèttero), ecc.

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Terminazioni di parola ed eventuali femminili e plurali

“eca-eco”

bacheca (bachèca) biblioteca (bibliotèca) cineteca (cinetèca)

discoteca (discotèca) enoteca (enotèca) eco (èco)

spreco (sprèco) io acceco (accèco) arreco (arrèco)

impreco (imprèco) spreco (sprèco) egli acceca (accèca)

arreca (arrèca) impreca (imprèca) spreca (sprèca)…

“edine-enide”

redine (rèdine) salsedine (salsèdine) teredine (terèdine)

eumenide (eumènide) sirenide (sirènide)…

“effa-effo”

beffa (bèffa), ceffo (cèffo), ecc.

“egnere-enero-enere”

spegnere (spègnere) genero (gènero) tenero (tènero)

genere (gènere) degenere (degènere) io rigenero (rigènero)

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48 49

io venero (vènero) Venere (Vènere)…

E ̓eccezione “cenere-cénere”.

“ele”

stele (stèle) Babele (Babèle) Gabriele (Gabrièle)

Michele (Michèle) Raffaele (Raffaèle)…

Gabriele (dallʼebraico Gabriel) ammette anche la forma (Gabriéle).

“ella-ello-elle”

caramella (caramèlla) cella (cèlla) particella (particèlla)

anello (anèllo) cappello (cappèllo) lavello (lavèllo)

imbelle (imbèlle) pelle (pèlle)…

La regola non è seguita da capello (capéllo), stella (stélla) e, come

visto, dai pronomi e dalle preposizioni: quello (quéllo), dello (déllo).

Non vi sono eccezioni per i diminutivi:

stupidello (stupidèllo), vinello (vinèllo), ecc.

“ema-eme-emo”

apotema (apotèma) fonema (fonèma) grafema (grafèma)

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poema (poèma) problema (problèma) tema (tèma)

teorema (teorèma)…

lui preme (prème)… io tremo (trèmo)… remo (rèmo)…

Remo (Rèmo) Sanremo (Sanrèmo)…

Fanno “eccezione”:

1) io temo (témo), egli teme (téme), ecc.

Il “ tema (timore)” dantesco:

“sì che la tema (téma) si volge in desio” (Dante-Inferno-3-126).

2) il dolore scema (scéma-diminuisce), ecc.

“La sesta compagnia in due si scema (scéma)” (Dante-Inferno-4-148).

“monte scemo (scémo)”, un monte con una cavità.

“arco scemo (scémo)”, un arco la cui corrispondente corda è minore

del diametro, cioè un arco minore della semicirconferenza.

“cervello scemo (scémo)”, un cervello non completo, dimezzato,

ed è questa lʼorigine dellʼaggettivo “scemo” come sinonimo di

“sciocco, imbecille”, ecc.

3) seme (séme).

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“embra-embre-embro”

membra (mèmbra), settembre (settèmbre), novembre (novèmbre),

dicembre (dicèmbre), grembo (grèmbo), membro (mèmbro),

smembro (smèmbro), ecc.

E ̓eccezione “sembro-sémbro”.

“emma”

dilemma (dilèmma) gemma (gèmma) lemma (lèmma)

stemma (stèmma) Emma (Èmma)

Da notare che è “maremma-marémma”.

“emore”

femore (fèmore) memore (mèmore) remore (rèmore)

“empero-emplo-empo”

contempero (contèmpero) tempero-a (tèmpero-a)

contemplo (contèmplo) tempo (tèmpo)

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“enda”

agenda (agènda) leggenda (leggènda)

merenda (merènda) tenda (tènda)

“endio”

vilipendio (vilipèndio) incendio (incèndio)

“endo”

apprendo (apprèndo) attendo (attèndo)

comprendo (comprèndo) intendo (intèndo)…

Sono “eccezioni”: scendo (scéndo) e vendo (véndo).

“ene”

il benzene (benzène) il gene (gène)

il pene (pène) il rene (rène)

Invece, ricordiamolo, si dice: le cene (céne), le pene (péne), le vene

(véne), ecc.

“engo”

convengo (convèngo) spengo (spèngo)

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ritengo (ritèngo) vengo (vèngo)...

“enna”

Enna (Ènna) renna (rènna) strenna (strènna)

Ma si dice “antenna-anténna”, “penna-pénna” e “Ravenna-Ravénna”.

“enne”

Tutti gli aggettivi in “enne”:

ventenne (ventènne), perenne (perènne), solenne (solènne), ecc.

“ennio”

Ennio (Ènnio) biennio (biènnio) triennio (triènnio)…

“ense-enso-ensa”

amanuense (amanuènse) censo (cènso) denso (dènso)

immenso (immènso) incenso (incènso) intenso (intènso)

melenso (melènso) propenso (propènso) senso (sènso)

mensa (mènsa) egli pensa (pènsa)…

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“ente”

ente (ènte), gente (gènte), incidente (incidènte), lente (lènte),

niente (niènte), ecc.

Nella terminazione “ente”, è utile rivederlo, si hanno tre regole che,

dalla meno alla più vincolante, sono:

1) le parole in “ente” vogliono la “e-aperta”.

2) quelle in “mente” richiedono la “e-chiusa”.

3) i participi presenti hanno la “e-aperta”.

Possiamo unificarle in una sola regola: le terminazioni in “ente”

vogliono la “e - aperta” ad eccezione di quelle che hanno la“m-

davanti alla e” con esclusione dei participi presenti.

Pertanto si dice:

il dente (dènte), la mente (ménte), sono fremente (fremènte),

amorevolmente (amorevolménte), ecc.

“ento-enta”

accento (accènto) argento (argènto) cento (cènto)

attento (attènto) intento (intènto) portento (portènto)

lenta (lènta) polenta (polènta) io sento (sènto)

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Trento (Trènto)…

Nelle finali in “ento-enta”, ricordiamolo, abbiamo due regole:

1. le parole in “ento-enta” hanno la “e-aperta”.

2. quelle in “mento-menta” richiedono la “e-chiusa” ed è più vincolante.

Si potrebbe sintetizzarle in unʼunica regola: le finali in “ento-enta”

vogliono la “e-aperta”, ad eccezione di quelle che hanno la “m-

davanti alla e”.

Pertanto diremo:

il vento (vènto) sei contenta (contènta)

il mento (ménto) la giumenta (giuménta)…

“enza-enzo”

eminenza (eminènza) emittenza (emittènza)

essenza (essènza) esperienza (esperiènza)

frequenza (frequènza) pazienza (paziènza)

Renzo (Rènzo)…

“erbero-enzero”

berbero (bèrbero) cerbero (cèrbero) zenzero (zènzero)

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“erbo-erba”

acerbo (acèrbo) io serbo (sèrbo) serbo (sèrbo)

riserbo (risèrbo) superbo (supèrbo) verbo (vèrbo)

egli serba (sèrba) erba (èrba)...

“ergo-erge-erga”

albergo (albèrgo) io ergo (èrgo) ergo (èrgo-deduco che…)

gergo (gèrgo) tergo (tèrgo) si immerge (immèrge)

stamberga (stambèrga)…

Ma si dice: la verga (vérga), il Verga (Vérga).

“erlo-erla”

merlo (mèrlo) perla (pèrla ) sberla (sbèrla)

Invece, lo ricordiamo: averlo (avérlo), poterlo (potérlo), ecc.

“erme”

inerme (inèrme) terme (tèrme) verme (vèrme)

“erno-erna”

eterno (etèrno) governo (govèrno) interno (intèrno)

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inverno (invèrno) lanterna (lantèrna) moderno (modèrno)

perno (pèrno) terno (tèrno)

Ma si dice “scherno-schérno”.

“ero-era-eri-ere”

altero (altèro) bufera (bufèra) chimera (chimèra)

cimitero (cimitèro) colera (colèra) cratere (cratère)

era (èra) galera (galèra) io ero (èro)

tu eri (èri) lui cʼera (cʼèra) impero (impèro)

leggero (leggèro) menzognero (menzognèro)

mero (mèro) messaggero (messaggèro)

ministero (ministèro) severo (sevèro)

sincero (sincèro) io spero (spèro)

sfera (sfèra) zero (zèro)…

Esistono poche eccezioni:

la cera (céra) nero (néro) parere (parére)

sedere (sedére) sera (séra) vero (véro)

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Ma nei verbi, lo ricordiamo, la terminazione in “ere” è chiusa:

avere (avére) bere (bére) godere (godére)

sapere (sapére) sedere (sedére) vedere (vedére)...

Omografo:

pera (péra-il frutto) pera (pèra-tipo di borsa, tasca)

“erro-erra”

erro (èrro) ferro (fèrro) io ferro (fèrro)

serro (sèrro) guerra (guèrra) serra (sèrra)

terra (tèrra)

“erto-erta”

concerto (concèrto) inserto (insèrto) Alberto (Albèrto)

Roberto (Robèrto) Berta (Bèrta) incerto (incèrto)

esperto (espèrto) io accerto (accèrto)…

Da notare che:

allʼerta ed erto ammettono sia la forma “aperta” che quella “chiusa”.

L̓ aggettivo “certo” ha la “e-aperta” quando significa “sicuro” come

in“stai certo (cèrto)”.

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Se “certo” ha significato di “indefinito-approssimativo” si pronuncia

con la “e- chiusa” come in:

“un certo (cérto) ingegno - una certa (cérta) età”.

“ervo-erva-erve”

cervo (cèrvo) nervo (nèrvo) protervo (protèrvo)

servo (sèrvo) conserva (consèrva) riserva (risèrva)

io conservo (consèrvo) osservo (ossèrvo) servo (sèrvo)

egli conserva (consèrva) osserva (ossèrva) serve (sèrve)…

“erza-erzo”

ferza (fèrza), sferza (sfèrza), sterzo (stèrzo), terzo (tèrzo), ecc.

Invece si dice “scherzo-schérzo”.

“estia”

modestia (modèstia) molestia (molèstia)...

Bestia ammette entrambe le forme bèstia e béstia.

“esto-esta-este”

il contesto (contèsto) io contesto (contèsto) gesto (gèsto)

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io infesto (infèsto) incesto (incèsto) l ̓innesto (innèsto)

io innesto (innèsto) lesto (lèsto) mesto (mèsto)

molesto (molèsto) onesto (onèsto) il resto (rèsto)

io resto (rèsto) io vesto (vèsto)

festa (fèsta) foresta (forèsta) gesta (gèsta)

protesta (protèsta) siesta (sièsta) egli resta (rèsta)

tempesta (tempèsta)

celeste (celèste) la peste (pèste) lei veste (vèste)

la veste (vèste)…

Vi sono alcune eccezioni:

cesto (césto), desto (désto), io pesto (pésto), il pesto (pésto),

è buio pesto (pésto), questo (quésto), cesta (césta), cresta (crésta).

“estro-estra”

canestro (canèstro) capestro (capèstro) destro (dèstro)

estro (èstro) finestra (finèstra) ginestra (ginèstra)

maestro (maèstro) minestra (minèstra)…

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La parola “maestro” ammette anche la pronunzia “maéstro”.

“etra-etro”

cetra (cètra) pietra (piètra) arretro (arrètro)

metro (mètro) Pietro (Piètro) retro (rètro)…

Ma si dice “vetro-vétro”.

Omografo:

metro (mètro) è unità di misura dello spazio lineare.

metro (métro-dal francese métro che vuole la “e”chiusa) per indicare la

metropolitana.

“ettro”

scettro (scèttro), spettro (spèttro), ecc.

“eva-evo-eve”

Eva (Èva) leva (lèva) evo (èvo) allevo (allèvo)

coevo (coèvo) devo (dèvo) levo (lèvo) breve (brève)

deve (dève)

Sono eccezioni: “bevo-bévo” , “beve-béve” e “neve-néve”.

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Ricordiamo che la prima persona dellʼimperfetto ha sempre la “e-

chiusa”:

avevo (avévo), dicevo (dicévo), ecc.

“e-consonanti-ico-ica”

è una sequenza che, negli aggettivi, presenta la “e-aperta”:

accademico (accadèmico) allergico (allèrgico)

benefico (benèfico) cinetico (cinètico)

concentrico (concèntrico) diuretico (diurètico)

egocentrico (egocèntrico) eliocentrico (eliocèntrico)

endemico (endèmico) ermetico (ermètico)

etico (ètico) famelico (famèlico)

identico (idèntico) maledico (malèdico)

metrico (mètrico) periferico (perifèrico)

tecnico (tècnico)…

Fra i sostantivi abbiamo:

lessico (lèssico), dedica (dèdica).

solletico (sollètico) ammette anche la forma (sollético).

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Nei verbi si ha solitamente la “e-chiusa”:

dimentico (diméntico) mendico (méndico)

nevica (névica) vendico (véndico)…

È “eccezione”: dedico (dèdico).

“e-consonanti-ito-ita”

anelito (anèlito) gemito (gèmito) medito (mèdito)

merito (mèrito) recito (rècito) reddito (rèddito)

tremito (trèmito) cernita (cèrnita) recita (rècita)…

Sono eccezioni: “crescita-créscita”, “debito-débito”, “credito-

crédito”, illecito (illécito) e lecito (lécito).

“e-consonante-ora”

pecora (pècora), remora (rèmora), ecc.

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Terminazioni che presentano difficoltà di classificazione

Ogni parola con queste finali è un caso a sé e soltanto lʼesercizio,

la memoria e, perché no, lʼorecchio ci possono aiutare.

Il “grafema e” si trova, nei seguenti elenchi, distribuito con una

frequenza non molto disuguale sia nella forma “aperta” sia in quella

“chiusa”.

“ecchio”

orecchio (orécchio) specchio (spècchio)

parecchio (parécchio) vecchio (vècchio)

secchio (sécchio)

“eda-ede-edo”

Leda (Léda) preda (prèda) - scheda (schèda)

fede (féde) cede (cède) - erede (erède)

vede (véde) lede (lède) - sede (sède)

credo (crédo) accedo (accèdo) - arredo (arrèdo)

auledo (aulèdo) - corredo (corrèdo)

N.B. È accettabile anche la forma “credo-crèdo”.

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“ega-ego”

bottega (bottéga) - lega (léga) bega (bèga)

sega (séga) - strega (stréga) collega (collèga)

lego (légo) - frego (frégo) nego (nègo)

sego (ségo) - strego (strégo) prego (prègo)

Sono accettabili anche “bega-béga” e “nego-négo”

“egola - egolo”

fregola (frégola) regola (règola)

tegola (tégola) regolo (règolo)

“ela-elo”

candela (candéla) cautela (cautèla)

mela (méla) parentela (parentèla)

tela (téla) sequela (sequèla)

vela (véla) tutela (tutèla)

melo (mélo) gelo (gèlo)

pelo (pélo) stelo (stèlo)

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velo (vélo) zelo (zèlo)

io pelo (pélo) io anelo (anèlo)

io velo (vélo) io belo (bèlo)-io celo (cèlo)

parallelo (parallèlo)

“empio”

empio (émpio) esempio (esèmpio)

scempio (scémpio) tempio (tèmpio)

le tempia (témpia)

“entro”

dentro (déntro) il centro (cèntro)

io entro (éntro) io centro (cèntro-faccio cèntro)

non cʼentro (cʼéntro)

“e-consonanti-imo-ima”

battesimo (battésimo) tutti i numeri ordinali come:

cattolicesimo (cattolicésimo) decimo ( dècimo)…

cristianesimo (cristianésimo) sedicesimo (sedicèsimo)…

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66 67

protestantesimo (protestantésimo) estimo (èstimo)

quaresima (quarésima) etimo (ètimo)

cresima (crèsima)

celeberrimo (celebèrrimo)

pessimo (pèssimo)

“e-due consonanti-ola”

bettola (béttola) mensola (mènsola)

pentola (péntola) sventola (svèntola)

“essa”

commessa (comméssa) compressa (comprèssa)

contessa (contéssa) pressa (prèssa)

duchessa (duchéssa) ressa (rèssa)

messa (méssa) - rimessa (riméssa) - scommessa (scomméssa)

“esso”

commesso (commésso) accesso (accèsso)

esso (ésso) cesso (cèsso) - consesso (consèsso)

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fesso (fésso) flesso (flèsso) - gesso (gèsso)

lesso (lésso) possesso (possèsso) - processo (procèsso)

stesso (stésso) nesso (nèsso) - sesso (sèsso)

E ̓accettabile anche la forma “gesso-gésso”.

Omografo:

fesso (fésso) significa “spaccato, sciocco, ecc”.

fesso (fèsso) per indicare, è una forma arcaica, “stanco-lasso”.

“eto-eta”

discreto (discréto) completo (complèto) - consueto (consuèto)

segreto (segréto) desueto (desuèto) - mansueto (mansuèto)

obsoleto (obsolèto)

amuleto (amuléto) alfabeto (alfabèto) - cateto (catèto)

uliveto (ulivéto) decreto (decrèto)

vigneto (vignéto) feto (fèto) - veto (vèto)

cometa (cométa) analfabeta (analfabèta)

pianeta (pianéta) beta (bèta)

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pineta (pinéta) meta (mèta)

seta (séta) poeta (poèta)

N.B. È accettabile anche la forma “cometa-comèta”.

“Omonimo-omofono”

io vieto (vièto) è vieto (vièto-antico,vecchio)

Terminazioni in “etta-etto”

A causa dellʼabbondanza delle parole con tali desinenze e della

complessità delle possibili regole, abbiamo ritenuto opportuno inserirle

in questa parte.

“etta”

accetta (accétta) retta (rètta)

fetta (fétta) setta (sètta)

fretta (frétta) ricetta (ricètta)

racchetta (racchétta) - saetta (saétta) - tetta (tétta)

vendetta (vendétta) - vetta (vétta)

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Ricordiamo lʼomografo:

accetta (accétta) è un tipo di scure.

accetta (accètta) è voce del verbo accettare.

Sono con la “e-chiusa” tutte le terminazioni dei diminutivi:

casetta (casétta), pievetta (pievétta), Rosetta (Rosétta), ecc.

“etto”

architetto (architétto) affetto (affètto)

berretto (berrétto) aspetto (aspètto)

biglietto (bigliétto) concetto (concètto)

detto (détto)

merletto (merlétto) confetto (confètto)

netto (nétto) etto (ètto)

scudetto (scudétto) getto (gètto)

stretto (strétto)

letto (lètto) - oggetto (oggètto)

petto (pètto) - perfetto (perfètto) prefetto (prèfetto) - rigetto (rigètto)

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rispetto (rispètto) - sospetto (sospètto)

Tutti i diminutivi hanno la “e-chiusa”:

carretto (carrétto), goccetto (goccétto), ecc.

“etto” negli aggettivi e nelle voci verbali

benedetto (benedétto) abbietto (abbiètto)

detto (détto) accetto (accètto)

maledetto (maledétto) annetto (annètto)

corretto (corrètto) - eccetto (eccètto)

getto (gètto) - inetto (inètto)

infetto (infètto) - letto (lètto)

perfetto (perfètto) - proietto (proiètto)

retto (rètto)

reietto (reiètto) - rifletto (riflètto)

Tutti i diminutivi si pronunciano con la “e-chiusa”:

furbetto (furbétto), moretto (morétto), ecc.

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Terminazioni con frequenza piccola

allegro (allégro) accelero (accèlero)

becero (bécero) aneddoto (anèddoto)

cece (céce) berbero (bèrbero)

cembalo ( cémbalo) celebre (cèlebre)-celere (cèlere)

cencio (céncio) cellula (cèllula)

cerchio (cérchio) celibe (cèlibe)

elmo (élmo) cespite (cèspite)

felpa (félpa) crepa (crèpa)

feltro (féltro) decade (dècade)

parere (parére) dedalo (dèdalo)

parete (paréte) delta (dèlta)

peltro (péltro) deroga (dèroga)

pepe (pépe) despota (dèspota)

prezzemolo (prezzémolo) ebete (èbete)

scevro (scévro) epoca (època)

selce (sélce) egro (ègro)

semplice (sémplice) ergere (èrgere)

semola (sémola) inerzia (inèrzia)

separi (sépari) leggere (lèggere)

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seppia (séppia) merce (mèrce)

trespolo (tréspolo) pendolo (pèndolo)

vedovo (védovo) petalo (pètalo)

vergine (vérgine)

vescovo (véscovo)

pettine (pèttine)-questua (quèstua)-record (rècord)

reduce (rèduce)-retore (rètore)-scheletro (schèletro)

sebo (sèbo)-secolo (sècolo)-sedano (sèdano)

sempre (sèmpre)-svelto (svèlto)-telefono (telèfono)

tesi (tèsi)-tremulo (trèmulo)-trepido (trèpido)

veneto (vèneto)-vertice (vèrtice)-vespro (vèspro)

zebra (zèbra)-zenit (zènit)

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ORTOEPIA DI “O”

“o” chiuso

Il grafema “o” si pronunzia chiuso in tutte le parole nelle quali

lʼaccento tonico non cade sulla sua sillaba, cioè quando non è vocale

tonica.

Ad esempio nella parola “uomo” la prima “o” è tonica ed il dizionario

ci indica che è aperta ( uòmo). La seconda “o” è atona e pertanto la sua

pronunzia sarà chiusa con il seguente risultato finale : “uòmó”.

Nel caso della parola “colpo” il vocabolario ci dice che la prima “o”

(tonica) è chiusa (cólpo); la seconda è atona e la pronunzia risulta essere

“cólpó”.

Ricordiamo ancora che il suono, nelle vocali atone, è meno intenso,

meno prolungato e pertanto lʼeventuale errore di pronunzia viene

percepito più difficilmente.

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Casi nei quali il grafema “o” ha suono chiuso

o (ó) con valore disgiuntivo, esplicativo ed enfatico

Esempi:

- Essere o (ó) non essere.

- La cinematica, o (ó) scienza del moto a prescindere dalle cause

dello stesso, ha in Galilei uno dei fondatori più insigni.

- O (Ó) Dio, che paura!

Avverbi, preposizioni e pronomi

allora (allóra) altrove (altróve) ancora (ancóra)

cogli (cógli) coi (cói) colle (cólle)

come (cóme) con (cón) contro (cóntro)

dopo (dópo) dove (dóve) eccome (eccóme)

molto (mólto) noi (nói) oltre (óltre)

ogni (ógni) non (nón) onde (ónde)

or (ór) ora (óra) ove (óve)

sopra (sópra) sotto (sótto) voi (vói)

N.B.

La negazione “non” ha suono chiuso.

Esempio: non (nón) esco.

La negazione “no” si pronunzia aperta.

Esempio: no (nò), non (nón) voglio.

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Omografo:

colle (cólle- con le) ha suono chiuso.

il colle (còlle) vuole la “o” aperta.

Numeri

dodici (dódici) quattordici (quattórdici)

centododici (centodódici)…

Nomi di mesi

Agosto (Agósto) Ottobre (Ottóbre)

Nomi propri di persona

Sono rari i nomi con la “o” chiusa. Ricordiamone alcuni:

Giorgio (Giórgio) Ottone (Ottóne) Salvatore (Salvatóre)

Nomi mitologici

Acheronte (Acherónte) Adone (Adóne)

Anfione (Anfióne) Anfitrione (Anfitrióne)

Chirone (Chiróne) Creonte (Creónte)

Didone (Didóne) Dione (Dióne)

Emone (Emóne) Ermione (Ermióne)

Fetonte (Fetónte) Flegetonte (Flegetónte)

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Giasone (Giasóne) Giunone (Giunóne)

Iperione (Iperióne) Laocoonte (Laocoónte)

Latona (Latóna) Orione (Orióne) Partenone (Partenóne) Pigmalione (Pigmalióne)

Plutone (Plutóne) Posidone (Posidóne)

Tifone (Tifóne) Titone (Titóne)

Tritone (Tritóne)

Nomi di città

Ancona (Ancóna) Bologna (Bológna)

Cremona (Cremóna) Crotone (Crotóne)

Frosinone (Frosinóne) Livorno (Livórno)

Pordenone (Pordenóne) Roma (Róma)

Savona (Savóna) Sondrio (Sóndrio)

Verona (Veróna)

Termini matematici e scientifici

addizione (addizióne) bisezione (bisezióne)

circuitazione (circuitazióne) conto (cónto)

contorno (contórno) definizione (definizióne)

dimensione (dimensióne) divisione (divisióne)

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78 79

duplicazione (duplicazióne) equazione (equazióne)

errore (erróre) espressione (espressióne)

funzione (funzióne) interpolazione (interpolazióne)

intorno (intórno) moltiplicazione (moltiplicazióne)

prodotto (prodótto) rombo (rómbo)

somma (sómma) sottrazione (sottrazióne)

tensore (tensóre) versore (versóre)

vettore (vettóre)

aberrazione (aberrazióne) abrasione (abrasióne)

accelerazione (accelerazióne) adesione (adesióne)

adrone (adróne) aeriforme (aerifórme)

alternatore (alternatóre) anione (anióne)

azione (azióne) barione (barióne)

bomba (bómba) bosone (bosóne)

calore (calóre) coesione (coesióne)

colore (colóre) composizione (composizióne)

compressione (compressióne) concentrazione (concentrazióne)

condensatore (condensatóre) condensazione (condensazióne)

conduttore (conduttóre) conduzione (conduzióne)

conservazione (conservazióne) contrazione (contrazióne)

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78 79

convezione (convezióne) declinazione (declinazióne)

deutone (deutóne) deviazione (deviazióne)

diffrazione (diffrazióne) dilatazione (dilatazióne)

disordine (disórdine) dispersione (dispersióne)

ebollizione (ebollizióne) elettrizzazione (elettrizzazióne)

elettrone (elettróne) equipartizione (equipartizióne)

espansione (espansióne) esplosione (esplosióne)

evaporazione (evaporazióne) fermione (fermióne)

fissione (fissióne) fusione (fusióne)

generatore (generatóre) giunzione (giunzióne)

gravitazione (gravitazióne) gravitone (gravitóne)

implosione (implosióne) inclinazione (inclinazióne)

induzione (induzióne) infrarosso (infrarósso)

ionizzazione (ionizzazióne) lavoro (lavóro)

leptone (leptóne) liquefazione (liquefazióne)

mesone (mesóne) motore (motóre)

neutrone (neutróne) nucleone (nucleóne)

onda (ónda) ordine (órdine)

oscillazione (oscillazióne) ossidazione (ossidazióne)

polarizzazione (polarizzazióne) precessione (precessióne)

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80 81

pressione (pressióne) protone (protóne)

radiazione (radiazióne) reazione (reazióne)

riflessione (riflessióne) rifrazione (rifrazióne)

rotazione (rotazióne) rotore (rotóre)

scissione (scissióne) statore (statóre)

sublimazione (sublimazióne) torsione (torsióne)

trasformazione (trasformazióne)

Voci del verbo essere (èssere)

io (essi) sono (sóno) tu fosti (fósti) voi foste (fóste)

che io fossi (fóssi) che tu fossi (fóssi) che egli fosse (fósse)

che noi fossimo (fóssimo) che voi foste (fóste)

che essi fossero (fóssero)

Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali

“oce”

croce (cróce), foce (fóce), noce (nóce), veloce (velóce), ecc.

Una eccezione è “precoce-precòce”.

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80 81

N.B.

Se davanti alla “o” cʼè la “u” dobbiamo pronunciare aperta la “o”

poiché, come vedremo, la regola sul “dittongo-uo” è più vincolante.

E si ha, ad esempio, “cuoce-cuòce” e “nuoce-nuòce”, ecc.

“ogna-ogno”

Bologna (Bológna) fogna (fógna) gogna (gógna)

menzogna (menzógna) rogna (rógna)

vergogna (vergógna) agogno (agógno)

bisogno (bisógno) sogno (sógno)

Omografo:

cogno (cógno) è una sorta di cuneo di legno.

cogno (cògno) un tipo di barile, ed anche antica misura del vino e del

volume in genere.

“ognolo”

giallognolo (giallógnolo) verdognolo (verdógnolo)...

“oio”

accappatoio (accappatóio) avvoltoio (avvoltóio)

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82 83

corridoio (corridóio) levatoio (levatóio)

rasoio (rasóio)

N.B.

Se davanti ad “oio” cʼè la “u” bisogna pronunciare la “o” aperta,

come vuole una regola più vincolante sul dittongo “uo”.

Esempi: cuoio (cuòio), muoio (muòio), ecc.

“olco-oldo-olfo-olmo-olpo-olpa-olso”

solco (sólco) manigoldo (manigóldo) golfo (gólfo)

zolfo (zólfo) colmo (cólmo) io colmo (cólmo)

olmo (ólmo) colpo (cólpo) polpo (pólpo)

colpa (cólpa) bolso (bólso) polso (pólso)

“omba-ombra-ombro-ombo-ombola”

bomba (bómba) tomba (tómba)

tromba (trómba) ombra (ómbra)

ingombro (ingómbro) colombo (colómbo)

incombo (incómbo) piombo (piómbo)

rimbombo (rimbómbo) rombo (rómbo)

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82 83

tombola (tómbola)

“omma-ommo”

gomma (gómma) somma (sómma)

io sgommo (sgómmo) io sommo (sómmo)

mommo (mómmo) il sommo (sómmo)

Ma si dice “comma-còmma”.

“ona” negli accrescitivi

barcona (barcóna) casona (casóna)

macchinona (macchinóna) melona (melóna)

zuccona (zuccóna)

“onca-onco-oncia-oncio”

conca (cónca) spelonca (spelónca)

bronco (brónco) stronco (strónco)

tronco (trónco) concia (cóncia)

concio (cóncio) sconcio (scóncio)

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“onda-ondo-ondio-ondolo-ondola”

fionda (fiónda) onda (ónda) ronda (rónda)

sonda (sónda) abbondo (abbóndo) biondo (bióndo)

immondo (immóndo) mondo (móndo)

nascondo (nascóndo) rotondo (rotóndo)

secondo (secóndo) sfondo (sfóndo)

io sfondo (sfóndo) tondo (tóndo)

don (dòn) Abbondio (Abbóndio) ciondolo (cióndolo)

dondolo (dóndolo) gondola (góndola)

“one-ome”

canzone (canzóne) equazione (equazióne)

elettrone (elettróne) fotone (fotóne)

furgone (furgóne) fusione (fusióne)

leone (leóne) passione (passióne)

polmone (polmóne) poltrone (poltróne)

proporzione (proporzióne) come (cóme)

nome (nóme)…

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84 85

Tutti gli “accrescitivi” come ad esempio :

ditone (ditóne) piedone (piedóne) testone (testóne)...

Esistono rare eccezioni come “lacone-lacòne” e “gnome-gnòme”,

parole di origine greca, che significano rispettivamente “spartano” e

“motto, proverbio”.

“onfio-onfo”

gonfio (gónfio) tronfio (trónfio) tonfo (tónfo)

trionfo (triónfo)…

“onta-onte-onto”

conta (cónta) impronta (imprónta)

monta (mónta) onta (ónta)

rimonta (rimónta) bisonte (bisónte)

conte (cónte) fonte (fónte)

monte (mónte) conto (cónto)

pronto (prónto) sconto (scónto)

tonto (tónto)…

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86 87

“ontro-ontra”

contro (cóntro) incontro (incóntro) scontro (scóntro)

lontra (lóntra)…

“onzo-onza”

abbronzo (abbrónzo) bonzo (bónzo) bronzo (brónzo)

gonzo (gónzo) ronzo (rónzo) lonza (lónza)…

“onzolo”

lattonzolo (lattónzolo) mediconzolo (medicónzolo)

pretonzolo (pretónzolo)…

“ordo-orda”

abbordo (abbórdo) balordo (balórdo)

bordo (bórdo) ingordo (ingórdo)

lordo (lórdo) sordo (sórdo)

tordo (tórdo) abborda (abbórda)

balorda (balórda)…

Hanno la “o”aperta: accòrdo (accordo), corda (còrda), orda (òrda), io mordo (mòrdo).

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86 87

“orgo”

borgo (bórgo) gorgo (górgo) ingorgo (ingórgo)...

Le voci del verbo “sorgere-sórgere”:

io sorgo (sórgo), tu sorgi (sórgi), ecc.

e del verbo “sgorgare”come:

lʼacqua sgorga (sgórga), le parole sgorgano (sgórgano), ecc.

N.B.

Le voci del verbo “porgere-pòrgere”, “scorgere-scòrgere” e

“accorgere-accòrgere” hanno la “o” aperta:

porgo (pòrgo) porgi (pòrgi) porge (pòrge)

scorgo (scòrgo) mi accorgo (accòrgo)…

“ore”

amore (amóre) ardore (ardóre)

candore ( candóre) fiore (fióre)

furore ( furóre) malore ( malóre)

tenore (tenóre) sapore (sapóre)

timore ( timóre)…

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88 89

Ma, attenzione, si dice “cuore-cuòre” poiché il dittongo “uo” richiede

la “o-aperta”.

“orma-e-o”

forma (fórma) orma (órma)

conforme (confórme) deforme (defórme)

formo (fórmo) informo (infórmo)…

Hanno la “o-aperta”: dormo (dòrmo), norma (nòrma) e le parole che

ne derivano: tu dormi (dòrmi), abnorme (abnòrme), ecc.

“orno-ornio”

contorno (contórno) forno (fórno)

giorno (giórno) intorno (intórno)

ritorno (ritórno) storno (stórno)

tornio (tórnio)…

Unʼeccezione è “corno-còrno”.

“orre”

comporre (compórre) deporre (depórre)

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88 89

disporre (dispórre) porre (pórre)

lui corre (córre) lui scorre (scórre)

torre (tórre) …

“orso-orsa-orse-orsi”

orso (órso) sorso (sórso) ho corso (córso)

borsa (bórsa) corsa (córsa) risorsa (risórsa)

lui sorse (sórse) io corsi (córsi)…

Sono eccezioni “dorso-dòrso, morso-mòrso, morsa-mòrsa” e le voci del

verbo mordere ( mòrdere):

morsi (mòrsi), morse (mòrse), morso ( mòrso).

Ricordiamo, è un buon esercizio, gli omografi “scorsi”, “corso” e

“porsi”:

- io scorsi (scórsi), dal verbo “scorrere-scórrere”.

- io scorsi (scòrsi), dal verbo” scorgere-scòrgere”.

∗ io sono corso (córso), dal verbo “correre-córrere”.

∗ io sono corso (còrso), cioè abitante della Corsica.

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90 91

o porsi (pórsi) in salvo, dal verbo “porre-pórre”.

o io porsi (pòrsi) la mano, dal verbo “porgere-pòrgere”.

“osco-osca”

fosco (fósco) losco (lósco) mosca (mósca)…

Ma si ha : “bosco-bòsco” e “cosca-còsca”.

Un omografo è “tosco”.

tosco (tósco) per indicare la persona toscana.

tosco (tòsco) significa il veleno, il velenoso.

“oso” negli aggettivi e participi passati

amoroso ( amoróso) bellicoso (bellicóso)

corroso (corróso) grandioso (grandióso)

lussuoso (lussuóso) luttuoso (luttuóso)

permaloso (permalóso)…

Sono eccezioni “esploso-esplòso” ed “imploso-implòso”.

N.B.

Lussuoso (lussuóso) e luttuoso (luttuóso) sono eccezioni alla regola sul

dittongo “uo” che vuole la “o” aperta.

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90 91

“ovo”

covo (cóvo) rovo (róvo)…

N.B.

Se prima della “o” cʼè la “u” bisogna pronunciarla aperta poiché lo

esige la regola sul dittongo “uo”.

Pertanto si ha: “nuovo-nuòvo”, “uovo-uòvo”, ecc.

“o” aperto

Casi nei quali il grafema “o” ha suono aperto

1) quando rappresenta semplicemente la tredicesima lettera del nostro

alfabeto tradizionale: “o-ò”.

2) in “oh” ed in “ohi” per esprimere gioia, stupore, dolore come in:

oh (ò), che bello! ohi (òi), che disgrazia!

Avverbi, preposizioni, pronomi

ciò (ciò) fuori (fuòri) nostro (nòstro) vostro (vòstro)

oggi (òggi) poi (pòi) ovest (òvest) volta (vòlta)

Numeri

otto (òtto ) nove (nòve) diciotto (diciòtto)

diciannove (diciannòve)…

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92 93

Nomi propri di persona

Adolfo (Adòlfo) Alfonso (Alfònso)

Ambrogio (Ambrògio) Antonio (Antònio)

Arnolfo (Arnòlfo) Aroldo (Aròldo)

Ausonio (Ausònio) Eleonora (Eleonòra)

Leopoldo (Leopòldo) Vittorio (Vittòrio)…

Nomi mitologici

Acropoli (Acròpoli) Ambrosia (Ambròsia)

Andromaca (Andròmaca) Andromeda (Andròmeda)

Apollo (Apòllo) Borea (Bòrea)

Ciclopi (Ciclòpi) Coclite (Còclite)

Colchide (Còlchide) Crono (Cròno)

Dioniso (Diòniso) Dioscuri (Diòscuri)

Discordia (Discòrdia) Enotrope (Enòtrope)

Gorgone (Gòrgone) Minosse (Minòsse)

Moire (Mòire) Noto (Nòto)

Pandora (Pandòra) Polidoro (Polidòro)

Proteo (Pròteo) Troia (Tròia)

Troilo (Tròilo)…

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92 93

Nomi di città

Aosta (Aòsta) Como (Còmo)

Domodossola (Domodòssola) Foggia (Fòggia)

Modena (Mòdena) Olbia (Òlbia)…

Termini matematici e scientifici

assioma (assiòma) binomio (binòmio)

cicloide (ciclòide) concoide (concòide)

conica (cònica) cono (còno)

corda (còrda) corpo (còrpo)

epicicloide (epiciclòide) formula (fòrmula)

fuoco (fuòco) polinomio (polinòmio)

rapporto (rappòrto)

amperometro (amperòmetro) armonico (armònico)

atomico (atòmico) barometro (baròmetro)

baroscopio (baroscòpio) binocolo (binòcolo)

cosmo (còsmo) cronometro (cronòmetro)

dinamometro (dinamòmetro) equinozio (equinòzio)

forza (fòrza) idrogeno (idrògeno)

isobara (isòbara) isocora (isòcora)

isotropo (isòtropo) manometro (manòmetro)

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moto (mòto) occhio (òcchio)

ondoscopio (ondoscòpio) orbita (òrbita)

orologio (orològio) osmosi (osmòsi)

ottica (òttica) paradosso (paradòsso)

reostato (reòstato) suono (suòno)

tempo (tèmpo)

tempo-proprio (tèmpo-pròprio) traiettoria (traiettòria)…

Dittongo “uo”

aiuola (aiuòla) buono (buòno) cuocio (cuòcio)

cuoco (cuòco) cuore (cuòre) mariuolo (mariuòlo)

ruolo (ruòlo) ruota (ruòta) uomo (uòmo)

uopo (uòpo) uovo (uòvo)…

N.B.

Ricordando che la terminazione in “ore” richiede la “o-chiusa”,

osserviamo, dalla parola “cuòre”, che la regola sul dittongo “uo” è più

vincolante.

Sono eccezioni “delittuóso, lussuóso e luttuóso”( uno di quei casi di

intreccio di regole nei quali lʼeccezione diventa norma) che seguono

la regola, anchʼessa molto forte, sulla terminazione in “oso” degli

aggettivi e participi passati.

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94 95

“o” seguita da una consonante scempia ( semplice ) e da due vocali

odio (òdio) podio (pòdio) elogio (elògio)

orologio (orològio) mogio (mògio) olio (òlio)

binomio (binòmio) ammonio (ammònio)

nonio (nònio) copia (còpia)

caleidoscopio (caleidoscòpio) giroscopio (giroscòpio)

accessorio (accesssòrio) boria (bòria)

cicoria (cicòria ) illusorio (illusòrio)

memoria (memòria) storia (stòria)

ambrosia (ambròsia) sosia (sòsia)

negozio (negòzio) ozio (òzio)

sacerdozio (sacerdòzio)…

Sono eccezioni “sfocio-sfócio” e “incrocio-incrócio”.

“o” seguita da due consonanti non uguali (eccetto “mp-nc-nd-nf”) e da due vocali.

bolgia (bòlgia ) Borgia (Bòrgia) discordia (discòrdia)

foglio (fòglio) foglia (fòglia) improprio (impròprio)

orgia (òrgia) ostia (òstia) scoglio (scòglio)

sfoglio (sfòglio) smorfia (smòrfia ) sobrio (sòbrio)

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spoglio (spòglio) storpio (stòrpio) torcia (tòrcia)

voglia (vòglia ) io voglio (vòglio)…

E diremo: compio (cómpio), broncio (bróncio), Abbondio (Abbóndio),

tronfio (trónfio), ecc.

Ricordiamo lʼomonimo-omofono “voglia”:

voglia (vòglia ) il cielo…. cong. pres. da “volere-volére”.

ho voglia (vòglia) di suonare.

N.B.

“Cordoglio-cordòglio” e “orgoglio-orgóglio”.

Sequenza “io-consonante- vocale”

ciotola (ciòtola) figliola (figliòla) fiocina (fiòcina)

fioco (fiòco) gioco (giòco) Giove (Giòve)

giovine (giòvine) iodio (iòdio) ionico (iònico)

iosa (iòsa) paiolo (paiòlo) piolo (piòlo)

viole (viòle) yoga (yòga) yogurt (yògurt)…

Alcune eccezioni sono: giogo (giógo), giovane (gióvane), io giovo

(gióvo), io sfioro (sfióro)...

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96 97

N.B.

Le terminazioni “ore-one-oso” seguono, come abbiamo visto, delle

regole più vincolanti e pertanto si ha:

fióre (fiore) rione (rióne) gioioso (gioióso)…

Terminazioni di parola e relativi, eventuali, femminili e plurali

“iolo-iola”

paiolo (paiòlo) piolo (piòlo)

figliola (figliòla) viola (viòla)…

“occhio-occio-occia”

cocchio (còcchio) crocchio (cròcchio)

finocchio (finòcchio) ginocchio (ginòcchio)

occhio (òcchio) approccio (appròccio)

bamboccio (bambòccio) cartoccio (cartòccio)

coccio (còccio) figlioccio (figliòccio)

scoccio (scòccio) boccia (bòccia)

roccia (ròccia ) saccoccia (saccòccia)…

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98 99

Sono eccezioni: “doccia-dóccia”, “goccia-góccia”.

“occiolo-occiola-occolo-ocolo-ossolo-ottolo-ottola”

bernoccolo (bernòccolo) moccolo (mòccolo)

binocolo (binòcolo) monocolo (monòcolo)

bossolo (bòssolo) bottolo (bòttolo)

pianerottolo (pianeròttolo) viottolo (viòttolo)

collottola (collòttola) pallottola (pallòttola)…

Hanno la “o-chiusa”:

gocciolo (gócciolo), gocciola (gócciola) e boccolo (bóccolo).

N.B.

“Nocciolo”, parola sdrucciola, ammette entrambe le forme “nócciolo e

nòcciolo”.

“nocciola (nocciòla)”, il frutto del “nocciolo (nocciòlo)”, è stata inserita

nella terminazione “olo-ola-ole” di parole piane.

“odo-oda-ode”

brodo (bròdo) frodo (fròdo) io frodo (fròdo)

sodo (sòdo) moda (mòda) frode (fròde)

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98 99

lode (lòde) ode (òde)

Le voci dei verbi “udire”, “godere-godére” e “lodare”:

io odo (òdo) tu odi (òdi) egli ode (òde)….

io godo (gòdo) tu godi (gòdi) egli gode (gòde)…

io lodo (lòdo)… che io loda (lòda)…

“nodo” ammette entrambe le forme : “nódo” e “nòdo”.

Hanno la “o” chiusa :

1. coda (códa).

2. le voci del verbo “accodarsi”: io mi accodo (accódo), tu ti

accodi (accódi), egli si accoda (accóda)…

3. le voci di “rodere-ródere”: io rodo (ródo), tu rodi (ródi), egli

rode (róde) …

“oggia-oggio”

foggia (fòggia) Foggia (Fòggia) loggia (lòggia)

pioggia (piòggia) appoggio (appòggio)

poggio (pòggio) sfoggio (sfòggio) sloggio (slòggio)…

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“oide”

discoide (discòide) tiroide (tiròide)…

“olgo-olga”

io accolgo (accòlgo)… io colgo (còlgo)…

io svolgo (svòlgo)… io tòlgo (tòlgo)…

che io accolga (accòlga)… che io svolga (svòlga)…

Un omografo è “volgo”:

il volgo (vólgo), dal latino “vulgus”, cioè “ popolino”.

io volgo (vòlgo), dal latino “volvo-volvere” che ha originato il

nostro “girare-volgere”.

“olo-ola”

dolo (dòlo) mola (mòla) molo (mòlo)

nolo (nòlo) polo (pòlo)…

Anche le parole che presentano la “i” o la “u” davanti alla “o”, come

abbiamo visto, vogliono la “o” aperta:

piolo (piòlo), ruolo (ruòlo)…

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Hanno la “o” chiusa:

gola (góla) volo (vólo) io volo (vólo)...

“ologo-ogico-ogolo”

apologo (apòlogo) biologo (biòlogo)

ginecologo (ginecòlogo) meteorologo (meteoròlogo)

prologo (pròlogo) ginecologico (ginecològico)

logico (lògico) merceologico (merceològico)

meteorologico (meteorològico) trogolo (trògolo)…

“omo-oma”

cromo (cròmo) domo (dòmo) gnomo (gnòmo)

tomo (tòmo) aroma (aròma) boma (bòma)

coma (còma) croma (cròma) idioma (idiòma)

soma (sòma)…

N.B. Roma (Róma) e pomo (pómo) hanno la “o”chiusa.

“onaco-onaca”

intonaco (intònaco) monaco (mònaco)

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cronaca (crònaca) tònaca (tonaca)…

“onimo-onomo-olico-omico-onico-opico-otico”

anonimo (anònimo) omonimo (omònimo)

astronomo (astrònomo) gastronomo (gastrònomo)

apostolico (apostòlico) eolico (eòlico)

astronomico (astronòmico) comico (còmico)

gastronomico (gastronòmico) gnomonico (gnomònico)

ionico (iònico) mnemonico (mnemònico)

platonico (platònico) antropico (antròpico)

entropico (entròpico) topico (tòpico)

gotico (gòtico) zotico (zòtico)…

“onna-onno”

donna (dònna) nonna (nònna) nonno ( nònno)…

Gonna ammette sia la forma “gònna” che la forma “gónna”.

Ma si dice “sonno-sónno” e “tonno-tónno”.

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“ono-ona”

abbono (abbòno) cono (còno) nono (nòno)

ozono (ozòno) stono (stòno) tono (tòno)

trono (tròno) zona (zòna)…

e tutte le parole, lo ricordiamo, con il “dittongo-uo”:

buono (buòno) suono (suòno) tuono (tuòno)…

Hanno la “o” chiusa:

abbottono (abbottóno) corona (coróna)

io corono (coróno) dono (dóno)

io dono (dóno) condono (condóno)

perdono (perdóno) maratona (maratóna)

persona (persóna) io sono (sóno)

Cremona (Cremóna) Savona (Savóna)

Verona (Veróna)…

“oppio-oppia-oppo-oppa”

oppio (òppio) coppia (còppia) accoppo (accòppo)

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galoppo (galòppo) pioppo (piòppo)

sciroppo (sciròppo) troppo (tròppo)

zoppo (zòppo) coppa (còppa)…

Sono eccezioni: “doppio-dóppio” e “poppa-póppa”.

“orchio-orco-orca-orcia-orcio”

rimorchio (rimòrchio) torchio (tòrchio) orco (òrco)

porco (pòrco) sporco (spòrco) torcia (tòrcia)…

Ma si dice: “inforco-infórco”, “forca-fórca”, “scorcio-scórcio” e

“sorcio-sórcio”.

“oro-ora”

boro (bòro) coro (còro) decoro (decòro)

ignoro (ignòro) moro (mòro) oro (òro)

poro (pòro) toro (tòro) aurora (auròra)

bora (bòra) flora (flòra)

Il pronome “loro-lóro”, lo ricordiamo, vuole la “o” chiusa, come le

voci dei verbi “adorare , assaporare, infervorare”:

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io adoro (adóro)… tu adori (adóri)… io assaporo (assapóro)…

mi infervoro (infervóro)…

Ed anche gli avverbi “ora (óra)”, “allora (allóra)”, “ancora (ancóra)”.

Ricordiamo lʼomografo “foro”:

foro (fóro) indica un buco, unʼapertura.

foro (fòro) è la piazza degli antichi romani ed il luogo sede del

tribunale.

Omonimo-omofono:

“toro (tòro)” rappresenta sia il maschio della vacca (e la

Costellazione), sia una figura geometrica (e il relativo dispositivo

fisico).

“orto-orta-orte”

aborto (abòrto) conforto (confòrto) morto (mòrto)

orto (òrto) porto (pòrto) rapporto (rappòrto)

ritorto (ritòrto) torto (tòrto) porta (pòrta)

scorta (scòrta) sorta (sòrta) storta (stòrta)

forte (fòrte) morte (mòrte) sorte (sòrte)…

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Sono eccezioni: “corte (córte)”, “torta (tórta)”, il participio passato

“sorto (sórto)” (dal verbo sorgere-sórgere) e lʼaggettivo “corto

(córto)”.

E ̓utile esercizio ricordare gli omografi “ sorta (sórta)” e “sorta (sòrta)”

già presentati e lʼomonimo-omofono “porto”:

Genova ha un porto (pòrto) importante.

Mario mi ha porto (pòrto, da porgere-pòrgere) il pane.

“orza-orzo”

forza (fòrza) scamorza (scamòrza) scorza (scòrza)

forzo (fòrzo) orzo (òrzo) rinforzo (rinfòrzo)

sforzo (sfòrzo)

“osa-oso-ose”

cosa (còsa) posa (pòsa) prosa (pròsa)

rosa (ròsa) io poso (pòso) riposo (ripòso)

dose (dòse)

Ma si dice “io toso-tóso”.

Ricordiamo che i participi passati e gli aggettivi hanno la “o” chiusa:

amoroso (amoróso), gioioso (gioióso), roso (róso), ecc.

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“ossa-osso-osse”

fossa (fòssa) mossa (mòssa) ossa (òssa)

bosso (bòsso) dosso (dòsso) fosso (fòsso)

grosso (gròsso) ingrosso (ingròsso) osso (òsso)

ridosso (ridòsso) la tosse (tòsse) le fosse (fòsse)

Le voci del verbo “potere-potére”:

io posso (pòsso)… che io possa (pòssa)…

I participi passati:

percosso (percòsso-percuòtere)

promosso (promòsso-promuòvere)

scosso (scòsso-scuòtere)

Ricordiamo lʼomografo “fossi”:

se io fossi (fóssi), con “fossi” congiuntivo di “essere”.

i fossi (fòssi), con “fossi” plurale di “fosso-fòsso”.

Analogo è il caso dellʼomografo “fosse”.

N.B. Una eccezione è “rosso-rósso”.

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“ostato-ostata”

reostato (reòstato) termostato (termòstato)

apostata (apòstata) prostata (pròstata)

“oto-ota-ote”

azoto (azòto) moto (mòto) noto (nòto)

gota (gòta) pilota (pilòta) trota (tròta)

dote (dòte) litote (litòte) sacerdote (sacerdòte)

Sono eccezioni : “ il voto-vóto” e “io voto-vóto” con le relative voci.

“otto-otta-otte”

botto (bòtto) cotto (còtto) dotto (dòtto)

fagotto (fagòtto) fiotto (fiòtto) lotto (lòtto)

motto (mòtto) troppo (tròppo) trotto (tròtto)

zoppo (zòppo) botta (bòtta) flotta (flòtta) marmotta (marmòtta) notte (nòtte)

Hanno la “o-chiusa”:

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1) prodotto (prodótto), gotta (gótta), io sfotto (sfótto).

2) condotto (condótto), oleodotto (oleodótto) e ridotto (ridótto), derivanti dal “duco-is-duxi-ductum-ducere” latino.

3) rotto (rótto), participio passato di rompere (rómpere) e avente origine dal latino “rumpo-is-rupi-ruptum-rumpere”.

N.B:

I participi “ductum e ruptum” hanno generato la “o” chiusa di

“condótto e rótto”, come il participio “doctum” del latino “doceo-es-

docui- doctum- docere” (insegnare) ha reso aperta la “o” dellʼitaliano

“dòtto”.

E ̓utile ricordare gli omografi “botte” e “botti”:

le botte (bòtte), plurale di “botta-bòtta”.

la botte (botte-bótte), nome del recipiente.

i botti (bòtti), plurale di “botto-bòtto”.

le botti (bótti), plurale di “botte-bótte”.

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Frequenze quasi uguali

Il grafema “o” si trova, nelle seguenti terminazioni, nella forma

“chiusa” ed in quella “aperta” con frequenze non molto diverse.

“occo-occa”

abbocco (abbócco) balocco (balòcco) - blocco (blòcco)

ciocca (ciòcca) - cocca (còcca)

bocca (bócca) cocco (còcco) - fiocco (fiòcco)

rimbocco (rimbócco) nocca (nòcca) - scocca (scòcca)

io tocco (tócco) Rocco (Ròcco)

scirocco (sciròcco) - scrocco (scròcco)

Ricordiamo gli omografi “tocco” e “rocca”:

Il tocco (tócco) è lʼatto del toccare.

Il tocco (tòcco) è il berretto dei giudici e degli avvocati.

La rocca (rócca) è l ̓attrezzo per filare.

La rocca (ròcca) è la rupe, la fortezza.

“oga-ogo-oge”

doga (dóga)-foga (fóga) toga (tòga)

rogo (rógo)-sfogo (sfógo) doge (dòge)

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“oia”

feritoia (feritóia) boia (bòia)-gioia (giòia)

ingoia (ingóia) noia (nòia)

mangiatoia (mangiatóia) soia (sòia)

Pistoia (Pistóia) Troia (Tròia)

Ricordiamo, “repetita iuvant”, che il “dittongo-uo” richiede la “o-

aperta” e pertanto si ha:

cuoia (cuòia), muoia (muòia), ecc.

“oldo”

manigoldo (manigóldo) soldo (sòldo)

Aroldo (Aròldo) Leopoldo (Leopòldo)

“olo-ola-ole”

solo (sólo) nocciolo (nocciòlo)

nocciola (nocciòla)volo (vólo) molo (mòlo)-nolo (nòlo)

io volo (vólo) polo (pòlo)-fola (fòla)

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gola (góla) parola (paròla)-Pola (Pòla)

sole (sóle) prole (pròle)

“ollo-olla”

pollo (póllo) crollo (cròllo)-sfollo (sfòllo)

ampolla (ampólla) colla (còlla)-collo (còllo)

bolla (bólla) bricolla (bricòlla)

cipolla (cipólla) corolla (coròlla)

midollo (midóllo) molla (mòlla )

midolla (midólla) zolla (zòlla)

“olto-olta”

colto (cólto), aggettivo :

uomo colto (cólto) terreno colto (cólto)

colto (còlto), participio passato da “cogliere-cògliere”:il frutto è stato colto (còlto)

folto (fólto): un bosco (bòsco) folto (fólto)

molto (mólto): molto (mólto) folto (fólto)

sepolto (sepólto), aggettivo e participio passato da “seppellire”

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112 113

il volto (vólto): col (cól) volto (vólto) rivolto (rivòlto)

assolto (assòlto), participio passato da “assolvere-assòlvere”

risolto (risòlto), participio passato da “risolvere-risòlvere”

rivolto (rivòlto), participio passato da “rivolgere-rivòlgere”

tolto (tòlto), participio passato da “togliere-tògliere”

volto (vòlto), participio passato da “volgere-vòlgere”

la volta (vòlta), una volta (vòlta).

Ricordiamo che “colto e volto” sono “omografi”.

“opo-opa”

io scopo (scópo) lo scopo (scòpo)

la scopa (scópa) topo (tòpo)

“scopo” è un omografo.

“orro”

corro (córro)… borro (bòrro)

scorro (scórro) porro (pòrro)

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“orvo”

torvo (tórvo) corvo (còrvo)

“osto-osta-oste-ostro-ostra ”

mosto (mósto) accosto (accòsto)

il posto (pósto) arrosto (arròsto)

opposto (oppósto) costo (còsto)

nascosto (nascósto) la posta (pòsta)

voi foste (fóste) oste (òste)

mostro (móstro) costa (còsta)-crosta (cròsta)

io mostro (móstro) nostro (nòstro)-rostro (ròstro)

Sono omografi “imposto” e “imposta”:

1) imposto (impósto) è part.pass. da “imporre-impórre”:

“mi è stato imposto (impósto) di studiare”.

Imposto (impòsto) è ind. pres. da “impostare”:

io imposto (impòsto) un calcolo.

2) imposta (impósta): unʼimposta, una tassa.

imposta (impòsta): la persiana.

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114 115

“ozzo-ozza-ozze”

gozzo (gózzo) abbozzo (abbòzzo)

ingozzo (ingózzo) bozzo (bòzzo)-bozza (bòzza)

pozzo (pózzo) cozzo (còzzo)-cozza (còzza)

rozzo (rózzo) tinozza (tinòzza)-tozzo (tòzzo)

sozzo (sózzo) nozze (nòzze)

Ricordiamo lʼomografo “mozzo”:

1) mozzo (mózzo) è l ̓aiutante-marinaio.

2) mozzo (mòzzo) per indicare lʼasse della ruota ed anche, come

aggettivo, un qualcosa di “tronco-tagliato”.

“ove”

altrove (altróve) bove (bòve)

ove (óve) nove (nòve)

ovest (òvest)

Ripassiamo:

1) Se cʼè il dittongo “uo” la “o” si pronuncia aperta:

buone (buòne) nuove (nuòve).

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2) Se cʼè la sequenza “io-consonante-vocale” vale la stessa regola

con esclusione delle terminazioni in “ore-one-oso”:

Giove (Giòve), piolo (piòlo), piove (piòve), … ma fiore (fióre),

fusione (fusióne), ione (ióne), ionizzazione (ionizzazióne),

gioioso (gioióso), mafioso (mafióso), ecc.

Frequenze piccole

Presentiamo un elenco di parole che hanno caratteristiche

fonetiche e terminazioni con una frequenza piccola da poter essere

inserite in nuovi gruppi o in quelli già considerati.

agrodolce (agrodólce) accomodo (accòmodo)

acropoli (acròpoli)

io assolsi (assòlsi)

io annovero (annòvero)

brontolo (bróntolo) apostrofo (apòstrofo)

compero (cómpero) briozoi (briozòi)

compiere (cómpiere) codice (còdice)

compito (cómpito) cogliere (cògliere)

correre (córrere) congruo (còngruo)

disordine (disórdine) console (cònsole)

dodici (dódici) corpo (còrpo)-cross (cròss)

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116 117

dolce (dólce) dogma (dògma)

forbice (fórbice) floscio (flòscio)

golpe (gólpe) gobbo (gòbbo)

gomena (gómena) goffo (gòffo)

gomito (gómito) golgota (gòlgota)

gongolo (góngolo) ippodromo (ippòdromo)

interrompo (interrómpo) insonne (insònne)

insomma (insómma) ipotesi (ipòtesi)

insorgere (insórgere) isobara (isòbara)

Labrador (Labradór) lobo (lòbo)

logoro (lógoro) loculo (lòculo)

io logoro (lógoro) manovra (manòvra)

io mormoro (mórmoro) misogino (misògino)

egli mormora (mórmora) la mormora (mòrmora)

noi (nói) mobile (mòbile)

non (nón) nomina (nòmina)

onde (ónde) oasi (òasi)-onere (ònere)

ordine (órdine) opera (òpera)

orlo (órlo) organo (òrgano)

otre (ótre) ospite (òspite)

ottobre (ottóbre) polca (pòlca)

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118 119

polvere (pólvere) pollice (pòllice)-polline (pòlline)

pomice (pómice) popolo (pòpolo)

porpora (pórpora) porgere (pòrgere)

precorrere (precórrere) povero (pòvero)

quattordici (quattórdici) profugo (pròfugo)

rondine (róndine) proposito (propòsito)

rodere (ródere) rospo (ròspo)

rovere (róvere) rorido (ròrido)-solido (sòlido)

sordido (sòrdido)

sepolcro (sepólcro) togliere (tògliere)

soffio (sóffio) vomere (vòmere)

vongola (vóngola) vomito (vòmito)

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118 119

ORTOEPIA DI “S”

Il grafema “s” presenta, come la “e” e la “o”, due differenti pronunce. I due diversi suoni vengono di solito chiamati “sonoro o dolce” e

“sordo o aspro”.

Nella frase “una rosa senza spine” si riconoscono facilmente queste

sonorità: la prima “s” è “sonora”, le altre due sono “sorde”.

A noi personalmente sembra che la “s” detta “sorda” sia come “soffiata”,

pronunziata con la bocca più aperta rispetto a quella “sonora” che, a sua

volta, ci appare come “vibrata”.

Abbiamo cioè la sensazione che la “s-sonora” sorga più nel profondo,

con un maggior coinvolgimento delle “corde vocali”( in realtà sono

come dei dischi che vibrano in un tubo); la “s-sorda” ci sembra, a sua

volta, formarsi più in alto, quasi nella bocca, con forte spinta dellʼaria

fra i denti che sarebbe la causa di quel certo “soffio”.

Queste considerazioni, che possono aiutarci nella ricerca di

una “dizione” corretta o per lo meno migliore, sono basate sulle

sensazioni del nostro orecchio che non è uno strumento fisico artificiale

e oggettivo, ma un organo naturale e soggettivo. Non a caso si dice:

“avere orecchio”!

Pertanto le osservazioni che noi abbiamo fatto, che altri fanno o faranno,

e le stesse definizioni riportate (sordo e sonoro), non hanno alcunché di

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120 121

assoluto nel senso che ciascuno in realtà sente alla sua maniera.

Ad esempio Marisa ed io non “sentiamo” nello stesso modo: a me viene

da associare alla denominazione “sordo” lʼalternativa “dolce” ed alla

“sonoro” la “aspro”. Evidentemente sono io che ho un modo di sentire

“strano” se è vero che tutte le grammatiche dicono lʼinverso.

Anche i più o meno “daltonici dellʼudito” sono coscienti della loro

“stranezza” e, pur non sentendo il “sonoro” o il “sordo” come la

maggioranza degli altri, possono comunque trarre utilità dal sapere che

spingendo maggiormente lʼaria fra i denti si ottiene la “s-sorda”.

Ricordiamo che a proposito dellʼortoepia della “e” e della “o”

abbiamo parlato molto sulla obbligatorietà o meno di porre gli accenti

nella lingua scritta.

Per quanto riguarda la “s” (ed anche la “z”) le cose sono più semplici.

La “s-sorda” si scrive “s” ( anche nel vocabolario); la “s-sonora” viene

indicata dal dizionario con un piccolo segno postole sopra o sotto,

ma nella lingua scritta non vi è alcun obbligo di metterlo (lʼitaliano

diverrebbe ancora più difficile!).

Scrivendo pertanto una parola con la “s-sorda” non ricorreremo più alla

doppia scrittura ( come per la “e” e la “o”) riportando in parentesi quella

del dizionario, poiché le due coincidono.

“s” sordo

“s”allʼinizio di parola e seguito da vocale

sabato salto sapiente sazio sella seme

senza sette sicuro silenzio simile siluro

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120 121

sodo solo sonda sotto subito

sublimato sublime subordinare…

“s” preceduto da una qualsiasi consonante

arso borsa corsa immergersi

impulso insaziabile insulso percorso

transalpino transatlantico transenna transetto

transigere transito transoceanico transumanza…

“s” doppio

assalto assegno asso basso

bassofondo bassorilievo cassa cassiere

cessare cessione dessert dosso

dissesto dissidente essenza essere

esso essoterico fessura fissione

fisso fosso gassato gassista

gassosa gassoso issare lassismo

lasso lassù lossodromia masseria

masso messere messo nassa

nesso nessuno nossignore ossatura

osservatorio ossequio ossigeno pessimo

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plesso possesso prossimo ressa

rissa rissoso rosso salasso

sasso sessione sesso tassa

tassello tasso tessere vassallo

vassoio vessare vessillo…

È interessante ricordare, al di là dellʼaspetto ortoepico, la differenza

fra “esoterico ed essoterico” (parole di origine greca):

“ešotèrico” significa “interno” e viene (veniva) usato per indicare un

insegnamento per pochi (i discepoli dei filosofi greci), una dottrina

con caratteristiche di segretezza e di mistero per coloro che non vi

partecipano.

“Essotèrico” è il contrario di “ešotèrico”; ha il significato di “esterno”

e si usa (si usava) nel caso di un insegnamento aperto a tutti (e non ai

soli allievi dei maestri), una dottrina semplice ed accessibile senza

limitazione alcuna.

“s” seguito da una delle consonanti (sorde) “c, f, p, q, t”

ascolto asfalto aspetto astronomo

basco basta bisticcio casco

cosca cospetto costo disco

disfare dispetto distorto esca

estrapolare fresco festa guascone

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guasto ischemia ispirazione istanza

lisca lustro miscela misfatto

mestolo nascere nastro oscenità

ospite osteria pesca pestare

raschiare raspare resto scelta

sferzare spettro squame stranezza

tasca tasto usciere ustione

vasca vastità…

Terminazioni in “eso-esa-esi-ese” dei participi passati e degli aggettivi

appeso (esa, esi, ese) conteso (esa, esi, ese)

difeso (esa, esi, ese) inatteso (esa, esi, ese)

preso (esa, esi, ese) sospeso (esa, esi, ese)

trasceso (esa, esi, ese) vilipeso (esa, esi, ese)

Terminazioni in “oso-osa-osi-ose” dei participi passati e degli aggettivi

amoroso (osa, osi, ose) bellicoso (osa, osi, ose)

corroso (osa, osi,ose) costoso (osa, osi, ose)

delizioso (osa, osi, ose) esploso (osa, osi, ose)

estroso (osa, osi, ose) goloso (osa, osi, ose)

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imploso (osa, osi, ose) maestoso (osa, osi, ose)

odioso (osa, osi, ose) permaloso ( osa, osi, ose)

roso (osa, osi, ose) vanitoso (osa, osi, ose)

Da osservare che “esploso” ed “imploso” ammettono anche la forma

“esplošo” ed “ implošo” con la “s” sonora e che, contrariamente a

tutti gli altri, hanno la “o” aperta (come si era già visto).

Terminazioni in “esi-ese-esero” dei passati remoti

attesi (ese-esero) compresi (ese-esero) difesi (ese-esero)

estesi (ese-esero) presi (ese-esero) sospesi (ese-esero)

tesi (ese-esero)…

Terminazioni in “ese-esi” negli aggettivi

albanese (esi) barese (esi) borghese (esi) danese (esi)

genovese (esi) inglese (esi) milanese (esi) norvegese (esi)

scozzese (esi)…

Sono eccezioni “francese-franceše” e “cortese-corteše”.

N.B.

E ̓utile, per memorizzare le numerose “regole” che stiamo incontrando,

ricordare che per i participi passati, gli aggettivi ed i passati remoti,

a parte alcune rarissime eccezioni, le “e” e le “o” sono chiuse ( come

visto a suo tempo) e le “s” sorde.

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124 125

E diremo:

atteso (attéso-attésa-attési-attése)

vilipeso (vilipéso-vilipésa-vilipési-vilipése)

odoroso (odoróso-odorósa-odorósi-odoróse)

oneroso (oneróso-onerósa-onerósi-oneróse)

bolognese (bolognése-bolognési)

presi (prési-prése-présero)

scesi (scési-scése-scésero)

posi (pósi-póse-pósero)

nascosi (nascósi-nascóse-nascósero)

Parole che presentano la “s” fra due vocali

Vi sono moltissime parole che presentano la “s” sorda fra due

vocali ed altrettante, come vedremo, che hanno la “s” sonora.

Purtroppo queste parole non rientrano nei casi appena esaminati

(participi passati, aggettivi, passati remoti), non si possono assegnare

delle regole ed ogni parola ha, nellʼetimo, la ragione della sua

pronunzia.

Diamo ora un elenco delle prime e, scorrendolo, ognuno di noi troverà

senzʼaltro motivi di curiosità e di stupore:

asino bisezione bramosia casa casale

casalinga casato casella casello casino

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casotto chiusa chiusura cinese cinepresa

cosa così cosiddetto cosiffatto difesa

disegno disopra disotto fuso gas

gassato gassista gazzosa gelosia generosità

manganese mese naso offesa pesato

pesante peso posa posata presa

preside presidente pretesa raso rasoio

resa resistenza risacca risaia risalto

riserbo riserva riso risolutezza risorsa

sorriso susina turchese...

Voci verbali con la “s” fra due vocali

Valgono le stesse considerazioni fatte poco sopra a proposito delle

parole con la “s” fra due vocali:

annusare (annuso, annusai, annusato)

desumere (desumo, desunsi, desunto)

incasellare (incasello, incasellai, incasellato)

chiudere (chiusi, chiuso)

pesare (peso, pesai, pesato)

posare (poso, posai, posato)

presupporre (presuppongo, presupposi, presupposto)

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126 127

pretendere (pretesi, preteso)

radere ( rasi, raso)

rasare (raso, rasai, rasato)

resistere (resisto, resistei, resistito)

risalire ( risali, risalii, risalito)

risaltare (risalto, risaltai, risaltato)

risanare (risano, risanai, risanato)

risapere ( risò, riseppi, risaputo)

risarcire (risarcisco, risarcii, risarcito)

risentire (risento, risentii, risentito)

riservare (riservo, riservai, riservato)

ridere (risi, riso)

risolvere (risolvo, risolsi, risolto)

risorgere (risorgo, risorsi, risorto)

rosicare (rosico, rosicai, rosicato)

rosicchiare (rosicchio, rosicchiai, rosicchiato)

rodere (rosi, roso)

sorridere (sorrisi-sorriso)

trasecolare ( trasecolo, trasecolai, trasecolato)

trasudare (trasudai, trasudato)

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128 129

“s” sonoro

“s” seguito da “b-d-g-l-m-n-r-v” (consonanti sonore)

sbalzo ( šbalzo) sdegno (šdegno) sguardo (šguardo)

sloggio (šloggio) smercio (šmercio) šnello (snello)

sragiono (šragiono) sveglio (šveglio) bisbiglio (bišbiglio)

disdegno (dišdegno) disguido (dišguido)

dislivello (dišlivello) legislatore (legišlatore)

risveglio (rišveglio) altruismo (altruišmo)

dismisura (dišmišura) egocentrismo (egocentrišmo)

egoismo (egoišmo) razzismo (razzišmo) sisma (sišma)

“s” fra due vocali e la parola termina in “sione”

abrasione (abrašione) adesione (adešione)

corrosione (corrošione) diffusione (diffušione)

erosione (erošione) evasione (evašione)

fusione (fušione) occasione (occašione)

“s”fra due vocali e la parola termina in “esimo-esima”

battesimo (battešimo) cattolicesimo (cattolicešimo)

protestantesimo (protestantešimo) medesimo (medešimo)

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ennesimo (ennešimo) centesimo (centešimo)

millesimo (millešimo) milionesima (milionešima)

cresima (crešima)…

“s” fra due vocali e la parola ( sostantivo al singolare e non aggettivo o voce verbale) termina in “asi-esi-isi-osi”

stasi (staši) estasi (estaši) cosmesi (cošmeši)

dieresi (diereši) diocesi (dioceši) genesi (geneši)

ipotesi (ipoteši) parentesi (parenteši) protesi (proteši)

tesi (teši) brindisi (brindiši) crisi (criši)

ipofisi (ipofiši) tisi (tiši) artrosi (artroši)

ipnosi (ipnoši) narcosi (narcoši) nevrosi (nevroši)

psicosi (psicoši) prognosi (prognoši) scoliosi (scolioši)

trombosi (tromboši) tubercolosi (tubercološi)…

“s” fra due vocali e la parola inizia con “disa-disi-diso-disu”

disagio (dišagio) disamina (dišamina) disarmo (dišarmo)

disastro (dišastro)…

disidratazione (dišidratazione) disimpegno (dišimpegno)

disobbedienza (dišobbedienza) disoccupato (dišoccupato)

disordine (dišordine)…

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130 131

disuguale (dišuguale) disumano (dišumano)

disunione (dišunione)…

N.B.: uniche eccezioni sono: disopra (disopra) e disotto (disotto).

“s” fra due vocali e la parola inizia con “esa-ese-esi-eso-esu”

esame (ešame) esatto (ešatto)

esempio (ešempio) esercito (ešercito)

esilio (ešilio) esistenza (ešistenza)

esordio (ešordio) esoterico (ešoterico)

esule (ešule)…

“s” fra due vocali e la parola inizia con “fisi”

fisiatra (fišiatra) fisica (fišica) fisima (fišima)

fisiognomia (fišiognomia) fisiologia (fišiologia)

fisionomia (fišionomia) fisioterapia (fišioterapia)…

“s” fra due vocali e la parola inizia con “frase-fresa”

frase (fraše) fraseggio (frašeggio) fraseologia (frašeologia)

fresa (freša) fresatrice (frešatrice)…

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“s” fra due vocali e la parola inizia con “inesa-inesi-ineso”

inesattezza (inešattezza) inesauribile (inešauribile)

inesigibile (inešigibile) inesistente (inešistente)

inesorabile (inešorabile) inesorabilmente (inešorabilmente)…

“s” fra due vocali e la parola inizia con “iso”

isobara (išobara) isobata (išobata) isoclina (išoclina)

isocora (išocora) isocronismo (išocronišmo)

isoipsa (išoipsa) isola (išola) isoscele (išoscele)

isosismica (išosišmica) isoterma (išoterma) isotopo (išotopo)…

“s” fra due vocali e la parola inizia con “misa-mise-miso-misu”

misantropia (mišantropia) miseria (mišeria)

misericordia (mišericordia) misoginia (mišoginia)

misoneismo (mišoneišmo) misura (mišura)…

“s” fra due vocali e la parola inizia con “musa-muse-musi-muso”

musa (muša) museo (mušeo)

musica (mušica) muso (mušo)…

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“s” fra due vocali e la parola inizia con “usa-use-usi-uso-usu”

usanza (ušanza) usevole (uševole)

usignolo (ušignolo) uso (ušo)

usucapione (ušucapione) usura (ušura)…

“s”fra due vocali e la parola inizia con “visa-vise-visi-viso-visu”

visagista (višagista) visetto (višetto)

visita (višita) viso (višo) visuale (višuale) …

Voci verbali con la“s” fra due vocali e che iniziano con “disa-disi-diso-disu”

disabituare (dišabituare-dišabituo-dišabituai-dišabituato)

disaminare (dišaminare-dišamino-dišaminai-dišaminato)

disamorare (dišamorare-dišamoro-dišamorai-dišamorato)

disarmare (dišarmare-dišarmo-dišarmai-dišarmato)

disidratare (dišidratare-dišidrato-dišidratai-dišidratato)

disilludere (dišilludere-dišilludo-dišilluši-dišillušo)

disingannare (dišingannare-dišinganno-dišingannai-dišingannato)

disobbedire (dišobbedire-dišobbedisco-dišobbedii-dišobbedito)

disonorare (dišonorare-dišonoro-dišonorai-dišonorato)

disunire (dišunire-dišunisco-dišunii-dišunito)

Page 133: Ortoepia vol 1

132 133

Parole con la “s” fra due vocali

Come per la “s” sorda diamo un elenco delle numerose parole che

hanno la “s” fra due vocali ma che non possono venir raccolte in

gruppi mediante regole e analogie:

abrasivo (abrašivo) alesaggio (alešaggio)

ambrosia (ambrošia) amnesia (amnešia)

applauso (applaušo) apposito (appošito)

ardesia (ardešia) asilo (ašilo)

asola (ašola) assise (assiše)

ausiliario (aušiliario) avviso (avvišo)

basalto (bašalto) basamento (bašamento)

base (baše) basico (bašico)

basilare (bašilare) basilica (bašilica)

basilico (bašilico) basilisco (bašilisco)

basista (bašista) basito (bašito)

bifase (bifaše) bisaccia (bišaccia)

bisestile (bišestile) bisettrice (bišettrice)

bisogno (bišogno) bisonte (bišonte)

blasone (blašone) blusa (bluša)

bradisismo (bradišišmo) brusio (brušio)

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casacca (cašacca) casaccio (cašaccio)

caseificio (cašeificio) caso (cašo)

causa (cauša) certosa (certoša)

cesareo (cešareo) cesello (cešello)

cesoia (cešoia) cesura (cešura)

chiesa (chieša) chiosa (chioša)

clausola (claušola) clausura (claušura)

compositore (compošitore) composito (compošito)

composizione (compošizione) conclusivo (conclušivo)

contuso (contušo) cornamusa (cornamuša)

cortese (corteše) cortesia (cortešia)

cortisone (cortišone) crisantemo (crišantemo)

deserto (dešerto) desolato (dešolato)

diapason (diapašon) diapositiva (diapošitiva)

diesis (diešis) diseguale (dišeguale)

disertore (dišertore) diserzione (dišerzione)

disposizione (dispošizione) divisa (diviša)

divisore (divišore) dose (doše)

ecclesiastico (ecclešiastico) elemosina (elemošina)

elettrolisi (elettroliši) elisir (elišir)

Page 135: Ortoepia vol 1

134 135

entusiasmo (entušiašmo) episodio (epišodio)

eresia (erešia) esposizione (espošizione)

eutanasia (eutanašia) evasore (evašore)

fase (faše) fasullo (fašullo)

fusoliera (fušoliera)

gasolio (gašolio) gasista (gašista)

indeciso (indecišo) inquisitore (inquišitore )

inquisizione (inquišizione) intriso (intrišo)

intruso (intrušo) ipocrisia (ipocrišia)

irrisorio (irrišorio)

lasagna (lašagna) lesena (lešena)

lesione (lešione) lesivo (lešivo)

losanga (lošanga) lusinga ( lušinga)

marchese (marcheše) mausoleo (maušoleo)

medusa (meduša)

nausea (naušea) nosocomio (nošocomio)

osanna (ošanna) ottuso (ottušo)

paese (paeše) pausa (pauša)

penisola (penišola) pisolino (pišolino)

plausibile (plaušibile) positivo (pošitivo)

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posologia (pošologia) presagio (prešagio)

presepio (prešepio) presule (prešule)

prosa (proša) proselito (prošelito)

prosodia (prošodia) prosopopea (prošopopea)

pusillanime (pušillanime)

quasi (quaši)

requisito (requišito) resina (rešina)

revisore (revišore) rinfusa (rinfuša)

risico (rišico) rosa (roša)

rosario (rošario) rosolia (rošolia )

rosolio (rošolio)

scusa (scuša) sintesi (sinteši)

sosia (sošia) sposo (spošo)

sproposito (spropošito) suasivo (suašivo)

tesoro (tešoro)

vanesio (vanešio) vaselina (vašelina)

vaso (vašo) visiera (višiera)…

Page 137: Ortoepia vol 1

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Voci verbali con la “s” fra due vocali

Anche le voci verbali che hanno la “s” fra due vocali e che non sono

riducibili in schemi e classificazioni sono numerose.

Eccone un elenco:

alesare (alešare-alešo-alešai-alešato)

basare (bašare-bašo-bašai-bašato)

biasimare (biašimare-biašimo-biašimai-biašimato)

concludere (concluši-conclušo)

confondere (confuši-confušo)

diffondere (diffuši-diffušo)

diseredare (dišeredare-dišeredo-dišeredai-dišeredato)

disertare (dišertare-dišerto-dišertai-dišertato)

disquisire (disquišisco- disquišii- disquišito)

elemosinare (elemošinare-elemošino-elemošinai-elemošinato)

eludere (eluši- elušo)

entusiasmare (entušiasmare-entušiašmo-entušiašmai-entušiašmato)

esaminare (ešaminare-ešamino-ešaminai-ešaminato)

esplodere (esploši- esplošo)

esultare (ešultare-ešulto-ešultai-ešultato)

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evadere (evaši-evašo)

fondere (fuši-fušo)

improvvisare (improvvišare-improvvišo-improvvišai-improvvišato)

includere (incluši-inclušo)

infondere (infuši-infušo)

inquisire (inquišire-inquišisco-inquišii-inquišito)

invadere (invaši-invašo)

ledere (leši-lešo)

lusingare ( lušingare-lušingai-lušingato)

mettere (miši-miše-mišero)

occludere (occluši-occlušo)

osannare (ošannare-ošanno-ošannai-ošannato)

osare (ošare-ošo-ošai-ošato)

palesare (palešare-palešo-palešai-palešato)

perquisire (perquišire-perquišisco-perquišii-perquišito)

persuadere (persuaši-persuašo)

pervadere (pervaši-pervašo)

precisare (precišare-precišo- precišai-precišato)

presagire (prešagire-prešagisco-prešagii-prešagito)

presentare (prešentare-prešento-prešentai-prešentato)

presenziare (prešenziare- prešenzio-prešenziai-prešenziato)

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138 139

presumere (prešumo-prešunsi-prešunto)

profondere (profuši-profušo)

rappresentare (rapprešentare-rapprešento-rapprešentai-rapprešentato)

ravvisare (ravvišare-ravvišo-ravvišai-ravvišato)

recidere (reciši-recišo)

recludere (recluši-reclušo)

ricusare (ricušare-ricušo-ricušai-ricušato)

rimanere (rimaši)

rosolare (rošolare-rošolo-rošolai-rošolato)

scommettere (scommiši)

scusare (scušare-scušo-scušai-scušato)

sfasare (sfašare-sfašo-sfašai-sfašato)

sottomettere (sottomiši)

spasimare (spašimare-spašimo-spašimai-spašimato)

sposare (spošare-spošo-spošai-spošato)

tosare (tošare-tošo-tošai-tošato)

travasare (travašare-travašo-travašai-travašato)

travisare (travišare-travišo-travišai-travišato)

uccidere (ucciši-uccišo)

visitare (višitare-višito-višitai-višitato)

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ORTOEPIA DI “Z”

Per il grafema “z” valgono le stesse considerazioni fatte per il grafema “s”.I due suoni si chiamano ancora “sordo o aspro” e “sonoro o dolce” e si

ottengono nello stesso modo indicato per la “s”.

Le differenze viste fra la “s” sorda e quella sonora, di “senza-spine” e

di “rosa” rispettivamente, sono come quelle che possiamo trovare fra la

“z” sorda di “zucchero” e quella sonora di “zanzara”.

La “z” sorda (come la “s”sorda) si scrive semplicemente “z”.

Ricorreremo pertanto alla scrittura “ortoepica” soltanto per la “z”

sonora. Il simbolo che abbiamo scelto è la “z” greca ( ζ ) che si

pronunzia esattamente come la “z” di “zanzara” e di “brezza”.

“z” sordo

“z” seguito da “ia-ie-io”

furbizia liquirizia zia balbuzie

calvizie consenziente convocazione equazione

funzione servizio spazio zio…

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E ̓eccezione “ azienda-aζienda”.

“z” nelle parole che terminano in “anza-enza”

abbondanza baldanza costanza distanza

quietanza risonanza sostanza essenza

frequenza impedenza incompetenza lenza

potenza resistenza sonnolenza supplenza

tendenza turbolenza veemenza…

“z”nelle parole che terminano in “ezzo-ezza”

disprezzo pezzo bellezza carezza

dolcezza ebbrezza finezza morbidezza

pezza scaltrezza…

Sono eccezioni lʼomografo“mezzo” (incontrato nellʼortoepia di “e”):

“mezzo-mézzo” significa “bagnato, fradicio”

“mezzo-mèζζo” per indicare “ metà, modo, veicolo”

“brezza-bréζζa” e “olezzo-oléζζo”

“z” nelle parole che terminano in “ozzo-ozza”

mozzo pozzo sozzo tozzo carrozza tinozza…

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Ricordiamo lʼomonimo-omofono “gozzo” (già visto nellʼortoepia di “o” ):

“gozzo-gózzo” (parte dellʼesofago)

“gozzo-gózzo” (piccola imbarcazione)

Esistono alcune “eccezioni”:

1) lʼomografo “mozzo” (ortoepia di “o”)

mozzo (mózzo) significa “garzone, aiutante” ed anche

“tagliato”

mozzo (mòζζo) è il centro della ruota

2) “rozzo-róζζo”

“z” preceduta da “l-n-r”

Tutte le parole prima viste come “…arroganza, scienza..”

(terminazioni“anza-enza”) e come “…funzione,…” (“z” seguito da

“ia-ie-io-ii”), e inoltre:

anzi balza balzano calza calzone

canzone lattonzolo marzo mediconzolo pretonzolo

rincalzo scalzo scorza sterzo striminzito

terzo….

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142 143

Tutte le voci verbali di:

alzare balzare calzare danzare infilzare

innalzare inzuppare rimpinzare rincalzare scalzare

scherzare sferzare sterzare

“z” nelle terminazioni “azzo-azza”

arazzo intrallazzo mazzo palazzo ragazzo

mazza piazza stazza tazza…

Sono eccezioni: “lazzo-laζζo”, “razzo-raζζo”e “gazza-gaζζa”.

Ricordiamo lʼomografo “razza”:

1. “razza” è la specie, la qualità.

2. “razza-raζζa” è un pesce.

“z” a inizio di parola, con la seconda sillaba che inizia con “c-f-p-t”

nelle parole:

zappa zattera zecca zeppa zeppo

zitella zitto zoccolo zoppo zucca

zucchero zuffa zufolo zuppa zuppo

Page 144: Ortoepia vol 1

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e nelle voci verbali di:

zappare (zappo, zappai, zappato)

zufolare (zufolo, zufolai, zufolato)

zittire (zittisco, zittii, zittito)

Esistono alcune “eccezioni”:

zafferano (ζafferano) zaffiro (ζaffiro) zeffiro (ζeffiro)

zeta (ζeta) zotico (ζotico)

“z”nelle voci dei verbi il cui infinito termina in “azzare”

ammazzare intrallazzare rimpiazzare spazzare

starnazzare stazzare stramazzare strapazzare

“z”nelle voci di alcuni verbi il cui infinito termina in “izzare”

aizzare drizzare indirizzare raddrizzare rizzare strizzare

Voci verbali con la “z” sorda

abbozzare aguzzare azzeccare azzittire azzoppare

azzuffare bazzicare razzolare ruzzolare stuzzicare

Parole con la “z” sorda

altezzoso azzeccagarbugli bizzarro

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brizzolato capezzale lazo

lizza mazzata mazzetto

mazziere merluzzo mozzicone

nozze pagliuzza piccozza

pizzico pizzo polizza

pupazzo puzza razzismo

scavezzacollo spazzaneve spazzola

stizza struzzo zampa

zampillo zampogna zampone

zanna zappa zar

zazzera zigano zimbello

zinco zingaro zolfo

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“z” sonoro

“z” allʼinizio della parola e la seconda sillaba inizia con “b-d-g-l-m-n-

r-v-z” (consonanti sonore)

zabaione (ζabaione) zagara (ζagara) zampirone(ζampirone)

zanzara (ζanζara) zavorra (ζavorra) zebra (ζebra)

zelo (ζelo) zenit (ζenit) zenzero (ζenζero)

zero (ζero) zibaldone (ζibaldone) zibellino (ζibellino)

zibibbo (ζibibbo) zigomo (ζigomo) zigrinare (ζigrinare)

zigrìno (ζigrìno) zizzania (ζiζζania) zodiaco (ζodiaco)

zolla ( ζolla) zona (ζona) zonzo (ζonζo)

Sono “eccezioni”:

zanna, zazzera, zimbello, zigano, zingaro.

“z”allʼinizio di parola e seguita da due vocali che non siano”ia-ie-io-ii”

zaino (ζaino), zoo(ζoo).

“z” scempia (semplice-non doppia) e posta fra due vocali

azalea (aζalea) azimut (aζimut) azotemia (aζotemia)

azoto (aζoto) ozono (oζono)

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E ̓eccezione “nazismo-nazišmo”.

Se la seconda vocale è lʼorigine della coppia “ia-ie-io” è più vincolante

la regola vista per la “z-sorda” e si ha:

arguzia calvizie azione

con lʼeccezione di “azienda-aζienda”.

“z” nelle voci verbali dei verbi il cui infinito termina in “izzare”

acutizzare (acutiζζare-acutiζζo-acutiζζai-acutiζζato)

agonizzare (agoniζζare-agoniζζo-agoniζζai-agoniζζato)

armonizzare (armoniζζare-armoniζζo-armoniζζai-armoniζζato)

aromatizzare (aromatiζζare-aromatiζζo-aromatiζζai-aromatiζζato)

coalizzare (coaliζζare-coaliζζo-coaliζζai-coalizzato)

drammatizzare (drammatiζζare-drammatiζζo-drammatiζζai-drammatiζζato)

evangelizzare (evangiliζζare-evangeliζζo-evangeliζζai-evangeliζζato)

fertilizzare (fertiliζζare-fertiliζζo-fertiliζζai-fertiliζζato)

frizzare (friζζare-friζζo-friζζai-friζζato)

focalizzare (focaliζζare-focaliζζo-focaliζζai-focaliζζato)

immunizzare (immuniζζare-immuniζζo-immuniζζai-immuniζζato)

indennizzare (indenniζζare-indenniζζo-indenniζζai-indenniζζato)

ipotizzare (ipotiζζare-ipotiζζo-ipotiζζai-ipotiζζato)

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nazionalizzare (nazionaliζζare-nazionaliζζo-nazionaliζζai-nazionaliζζato)

localizzare (localiζζare-localiζζo-localiζζai-localiζζato)

narcotizzare (narcotiζζare-narcotiζζo-narcotiζζai-narcotiζζato)

omogeneizzare (omogeneiζζare-omogeneiζζo-omogeiζζai-omogeneiζζato)

organizzare (organiζζare-organiζζo-organiζζai-organiζζato)

pastorizzare (pastoriζζare-pastoriζζo-pastoriζζai-pastoriζζato)

razionalizzare (razionaliζζare-razionaliζζo-razionaliζζai-razionaliζζato)

realizzare (realiζζare-realiζζo-realiζζai-realiζζato)

Esistono alcune eccezioni:

aizzare drizzare indirizzare raddrizzare rizzare

“z-doppia” nella terminazione “izzazione”

Nei sostantivi relativi ai verbi del punto precedente , come:

evangelizzazione (evangeliζζazione)

nazionalizzazione (nazionaliζζazione)

organizzazione (organiζζazione)

realizzazione (realiζζazione)…

N.B.

Si osserva facilmente che non esistono le parole corrispondenti alle

eccezioni del punto precedente.

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“z” preceduta da “l-n-r”

a) nelle seguenti parole:

arzillo (arζillo) barzelletta (barζelletta)

benzina (benζina) bonzo (bonζo) bronzo (bronζo)

donzella (donζella) elzeviro (elζeviro) enzima (enζima)

garza (garζa) garzone (garζone) gonzo (gonζo)

manzo (manζo) melanzana (melanζana) orzo (orζo)

penzoloni (penζοloni) pranzo (pranζo) romanza (romanζa)

romanzo (romanζo) ronzino (ronζino) zanzara (ζanζara)

zenzero (ζenζero) zonzo (ζonζo)

b) Nelle voci verbali di:

abbronzare (abbronζare-abbronζo-abbronζai-abbronζato)

gironzolare ( gironζolare-gironζolo-gironζolai-gironζolato)

penzolare (penζolare-penζolo-penζolai-penζolato)

pranzare (pranζare-pranζo-pranζai-pranζato)

ronzare (ronζare-ronζo-ronζai-ronζato)

“z” nelle parole che iniziano con “mezza-mezze-mezzo”

mezzadria (meζζadria) mezzala (meζζala)

mezzeria (meζζeria) mezzogiorno (meζζogiorno)

mezzosoprano (meζζosoprano)…

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Parole con la “z” sonora

aguzzino (aguζζino) azzardo (aζζardo) azzurro (aζζurro)

bazzecola (baζζecola) bazar (baζar) bizza (biζζa)

bizzoso (biζζoso) dozzina (doζζina) gazzella (gaζζella)

gazzosa (gaζζosa) lazzarone (laζζarone)

magazzino (magaζζino) rozzezza (roζζezza)

Può essere interessante osservare che lʼaggettivo aguzzo e il verbo

aguzzare e le sue voci hanno la “z-sorda”:

aguzzare (aguzzo-aguzzai-aguzzato), mentre è aguzzino (aguζζino).

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PARTE SECONDA

POEŠIE É BRANI ORTOÈPICI

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Tanto gentile e…

Tanto gentile e tanto onesta parela donna mia quand ̓ella altrui saluta,ch ̓ogne lingua deven tremando muta,e li occhi no l ̓ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,benignamente dʼumiltà vestuta;e par che sia una cosa venutada cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,che dà pér li occhi una dolcezza al coreche ̓ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si movaun spirito soave pien d ̓amore,che va dicendo a l ̓anima: Sospira.

da la “Vita nuova” di Dante Alighieri

Vede perfettamente onne salute

Vede perfettamente onne salutechi la mia donna tra le donne vede;quelle che vanno con lei son tenutedi bella grazia a Dio render merzede.

E sua bieltate è di tanta vertute,che nulla invidia a lʼaltre ne procede,anzi le face andar seco vestutedi gentilezza, dʼamore e di fede.

La vista sua fa onne cosa umile;e non fa sola sé parer piacente,ma ciascuna per lei riceve onore.

Ed è ne li atti suoi tanto gentile,che nessun la si può recare a menteche non sospiri in dolcezza dʼamore.

da la “Vita nuova” di Dante Alighieri

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Tanto gentile é…

Tanto gentile é tanto onèsta parela dònna mia quand ̓élla altrui saluta,ch ̓ógne lingua devèn tremando muta,é li òcchi nò l ̓ardiscon di guardare.

Élla si va, sentèndosi laudare,benignaménte dʼumiltà vestuta;é par ché sia una còsa venutada cièlo in tèrra a miracol mostrare.

Móstrasi sì piacènte a chi la mira,ché dà pér li òcchi una dolcézza al còreché ̓ntènder nò la può chi nò la pròva;

é par ché dé la sua labbia si mòvaun spirito soave pièn d ̓amóre,ché va dicèndo a l ̓anima: Sospira.

da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri

Véde perfettaménte ónne salute

Véde perfettaménte ónne salutechi la mia dònna tra lé dònne véde;quélle ché vanno có lèi són tenutedi bèlla grazia a Dio rènder merzéde.

É sua bieltate è di tanta vertute,ché nulla invidia a lʼaltre né procède,anzi lé face andar séco vestutedi gentilézza, dʼamóre é di féde.

La vista sua fa ónne còsa umile;è nón fa sóla sé parér piacènte,ma ciascuna pér lèi ricéve onóre.

Éd è né li atti suòi tanto gentile,ché nessun la si può recare a ménteché nón sospiri in dolcézza dʼamóre.

da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri

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Guido, i ̓vorrei che tu e Lapo ed io…

Guido, i ̓vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamentoe messi in un vasel chʼad ogni ventoper mare andasse al voler vostro e mio,

sì che fortuna od altro tempo rionon ci potesse dare impedimento,anzi, vivendo sempre in un talento,di stare insieme crescesse ʻl disio.

E monna Vanna e monna Lagia poicon quella chʼè sul numer delle trentacon noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre dʼamore,e ciascuna di lor fosse contenta,sì come i ̓credo che saremmo noi.

da le “Rime” di Dante Alighieri

Deh peregrini che pensosi andate

Deh peregrini che pensosi andate,forse di cosa che non vʼè presente, venite voi da sì lontana gente,com ̓a la vista voi ne dimostrate,che non piangete quando voi passateper lo suo mezzo la città dolente,come quelle persone che neentepar che ʻntendesser sua gravitate?

Se voi restaste per volerlo audire,certo lo cor de ̓sospiri mi diceche lagrimando nʼuscireste pui.

Ellʼha perduta la sua beatrice;e le parole chʼom di lei può direhanno vertù di far piangere altrui.

da la “Vita nuova” di Dante Alighieri

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Guido, i ̓vorrèi ché tu é Lapo éd io…

Guido, i ̓vorrèi ché tu é Lapo éd io fóssimo prési pér incantaméntoé méssi in un vasèl chʼad ógni vèntopér mare andasse al volér vòstro é mio,

sì ché fortuna ód altro tèmpo rionón ci potésse dare impediménto,anzi, vivèndo sèmpre in un talènto,di stare insième crescésse ʻl dišio.

É mònna Vanna é mònna Lagia pòicón quélla chʼè sul numer délle trèntacón nói ponésse il buòno incantatóre:

é quivi ragionar sèmpre dʼamóre,é ciascuna di lór fósse contènta,sì cóme i ̓crédo ché sarémmo nói.

da lé “Rime” di Dante Alighièri

Dèh peregrini ché pensósi andate

Dèh peregrini ché pensósi andate,fórse di còsa ché nón vʼè prešènte, venite vói da sì lontana gènte,cóm ̓a la vista vói né dimostrate,ché nón piangéte quando vói passatepér ló suo mèζζo la città dolènte,cóme quélle persóne ché neèntepar ché ʻntendésser sua gravitate?

Sé vói restaste pér volérlo audire,cèrto ló còr dé ̓sospiri mi diceché lagrimando nʼusciréste pui.

Éllʼha perduta la sua beatrice;é lé paròle chʼòm di lèi può direhanno vertù di far piangere altrui.

da la “Vita nuòva” di Dante Alighièri

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Nel mezzo del cammin…

Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura,che la diritta via era smarrita.

Ah quanto a dir qual era è cosa duraesta selva selvaggia e aspra e forteche nel pensier rinova la paura!

Tant ̓è amara che poco è più morte;ma per trattar del ben chʼio vi trovai,dirò dellʼaltre cose chʼi ̓vʼho scorte.

Io non so ben ridir com ̓io vʼentrai,tant ̓era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.

Ma poi chʼi ̓fui al piè dʼun colle giunto,là dove terminava quella valleche mʼavea di paura il cor compunto,

guardai in alto, e vidi le sue spallevestite già de ̓raggi del pianetache mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco quetache nel lago del cor mʼera duratala notte chʼi ̓passai con tanta pièta.

Divina Commedia: Inferno. Canto I, v. 1-21.

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Nél mèζζo dél cammin…

Nél mèζζo dél cammin di nòstra vitami ritrovai pér una sélva oscura,ché la diritta via èra smarrita.

Ah quanto a dir qual èra è còsa duraésta sélva selvaggia é aspra é fòrteché nél pensièr rinòva la paura!

Tant ̓è amara ché pòco è più mòrte;ma pér trattar dél bèn chʼio vi trovai,dirò dellʼaltre còse chʼi ̓vʼhò scòrte.

Io nón sò bèn ridir cóm ̓io vʼentrai,tant ̓èra pièn di sónno a quél punto ché la verace via abbandonai.

Ma pòi chʼi ̓fui al piè dʼun còlle giunto,là dóve terminava quélla valleché mʼavéa di paura il còr compunto,

guardai in alto, é vidi lé sue spallevestite già dé ̓raggi dél pianétaché ména dritto altrui pér ógne calle.

Allór fu la paura un pòco quètaché nél lago dél còr mʼèra duratala nòtte chʼi ̓passai cón tanta pièta.

Divina Commèdia: Infèrno. Canto I, v. 1-21.

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Quali colombe, dal disio chiamate…

Quali colombe, dal disio chiamate,con l ̓ali alzate e ferme al dolce nidovegnon per lʼaere dal voler portate;

cotali uscir della schiera ov ̓è Dido,a noi venendo per lʼaere maligno,sì forte fu lʼaffettuoso grido.

«O animaI grazioso e benignoche visitando vai per lʼaere personoi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de lʼuniverso,noi pregheremmo lui della tua pace,poi cʼhai pietà dél nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,noi udiremo e parleremo a voi,mentre che ʻl vento, come fa, si tace.

Siede la terra dove nata fuisulla marina dove ʻl Po discendeper aver pace co ̓seguaci sui.

Amor, chʼal cor gentil ratto sʼapprendeprese costui della bella personache mi fu tolta; e ʻl modo ancor mʼoffende.

Amor, ch ̓a nullo amato amar perdona,mi prese del costui piacer sì forte,che, come vedi, ancor non mʼabbandona.

Amor condusse noi ad una morte:Caina attende chi a vita ci spense».Queste parole da lor ci fur porte.

Quand ̓io intesi quell ̓anime offense,china ̓il viso e tanto il tenni basso,fin che il poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Òh lasso,quanti dolci pensier, quanto disiomenò costoro al doloroso passo! ».

Inferno. Canto V, v. 82-114.

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Quali colómbe, dal dišio chiamate…

Quali colómbe, dal dišio chiamate,cón l ̓ali alzate é férme al dólce nidovègnon pér lʼaere dal volér portate;

cotali uscir délla schièra ov ̓è Dido,a nói venèndo pér lʼaere maligno,sì fòrte fu lʼaffettuóso grido.

«Ó animal grazióso é benignoché višitando vai pér lʼaere pèrsonói ché tignémmo il móndo di sanguigno,

sé fósse amico il ré dé lʼunivèrso,nói pregherémmo lui délla tua pace,pòi cʼhai pietà dél nòstro mal pervèrso.

Di qué1 ché udire é ché parlar vi piace,nói udirémo é parlerémo a vói,méntre ché ʻl vènto, cóme fa, si tace.

Siède la tèrra dóve nata fuisulla marina dóve ʻl Pò discéndepér avér pace có ̓seguaci sui.

Amór, chʼal còr gentil ratto sʼapprèndeprése costui délla bèlla persónaché mi fu tòlta; é ʻl mòdo ancór mʼoffènde.

Amór, ch ̓a nullo amato amar perdóna,mi prése dél costui piacér sì fòrte,ché, cóme védi, ancór nón mʼabbandóna.

Amór condusse nói ad una mòrte:Caina attènde chi a vita ci spènse».Quéste paròle da lór ci fur pòrte.

Quand ̓io intési quéll ̓anime offènse,china ̓il višo é tanto il ténni basso,fin ché ʻl poèta mi disse: «Ché pènse?».

Quando rispuòsi, cominciai: «Òh lasso,quanti dólci pensièr, quanto dišiomenò costóro al doloróso passo! ».

Infèrno. Canto V, v. 82-114.

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La preghiera delle anime

Era già lʼora che volge il disioai navicanti e ʻntenerisce il corelo dì cʼhan detto ai dolci amici addio;

e che lo novo peregrin dʼamorepunge, se ode squilla di lontanoche paia il giorno pianger che si more;

quandʼio incominciai a render vanolʼudire e a mirare una de lʼalmesurta, che lʼascoltar chiedea con mano.

Ella giunse e levò ambo le palme,ficcando li occhi verso lʼoriente,come dicesse a Dio: «Dʼaltro non calme».

“Te lucis ante” sì devotamentele uscìo di bocca e con sì dolci note,che fece me a me uscir di mente;

e lʼaltre poi dolcemente e devoteseguitar lei per tutto lʼinno intero,avendo li occhi a le superne rote.

Divina Commedia: Purgatorio. CantoVIII, 1-18

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La preghièra délle anime

Èra già lʼóra ché vòlge il dišioai navicanti é ʻntenerisce il còreló dì cʼhan détto ai dólci amici addio;

é ché ló nòvo peregrin dʼamórepunge, sé òde squilla di lontanoché paia il giórno pianger ché si mòre;

quandʼio incominciai a rènder vanolʼudire é a mirare una dé lʼalmesurta, ché lʼascoltar chiedéa cón mano.

Élla giunse é levò ambo lé palme,ficcando li òcchi vèrso lʼoriènte,cóme dicésse a Dio: «Dʼaltro nón calme».

“Té lucis ante” sì devotaméntelé uscìo di bócca è cón sì dólci nòte,ché féce mé a mé uscir di ménte;

é lʼaltre pòi dolceménte é devòteseguitar lèi pér tutto lʼinno intèro,avèndo li òcchi a lé supèrne ròte.

Divina Commèdia: Purgatòrio. Canto VIII, 1-18

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Vergine madre

“Vergine madre, figlia del tuo figlio,umile e alta più che creatura,termine fisso dʼetterno consiglio,

tu se ̓colei che lʼumana naturanobilitasti sì, che ʼl suo fattorenon disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese lʼamoreper lo cui caldo nellʼetterna pacecosì è germinato questo fiore.

Qui se ̓a noi meridiana facedi caritate, e giuso, intra i mortali,se ̓di speranza fontana vivace.

Donna, se ̓tanto grande e tanto vali,che qual vuol grazia ed a te non ricorre,sua disianza vuol volar sanzʼali.

La tua benignità non pur soccorrea chi domanda, ma molte fiateliberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,in te magnificenza, in te sʼadunaquantunque in creatura è di bontate…”

Divina Commedia: Paradiso. Canto XXXIII, vv.1-21

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Vérgine madre

“Vérgine madre, figlia dél tuo figlio,umile é alta più ché creatura,tèrmine fisso dʼettèrno consiglio,

tu sè ̓colèi ché lʼumana naturanobilitasti sì, ché ʼl suo fattórenón disdegnò di farsi sua fattura.

Nél vèntre tuo si raccése lʼamóreper ló cui caldo néllʼettèrna pacecosì è germinato quésto fióre.

Qui sè ̓a nói meridiana facedi caritate, é giuso, intra i mortali,sè ̓di speranza fontana vivace.

Dònna, sè ̓tanto grande é tanto vali,ché qual vuòl grazia éd a té nón ricórre,sua dišianza vuòl volar sanzʼali.

La tua benignità nón pur soccórrea chi domanda, ma mólte fiateliberaménte al dimandar precórre.

In té mišericòrdia, in té pietate,in té magnificènza, in té sʼadunaquantunque in creatura è di bontate…”

Divina Commèdia: Paradišo. Canto XXXIII, vv.1-21

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Solo e pensoso i più deserti campi

Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti,e gli occhi porto per fuggire intentiove vestigio uman lʼarena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampidal manifesto accorger de le genti,perché ne gli atti dʼalegrezza spentidi fuor si legge comʼio dentro avampi.

Sì chʼio mi credo ormai che monti e piagge,e fiumi e selve sappian di che tempresia la mia vita, ch ʼè celata altrui.

Ma pur sì aspre vie, né sì selvaggecercar non so, chʼAmor non venga sempreragionando con meco; et io co llui.

da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura ) di Francesco Petrarca

Erano i capei dʼoro a Laura sparsi

Erano i capei dʼoro a Laura sparsi,che ʼn mille dolci nodi gli avvolgea,e ʼl vago lume oltre misura ardeaei quei begli occhi, chʼor ne son sì scarsi,

e ʼl viso di pietosi color farsi,non so se vero o falso, mi parea:i ̓che lʼésca amorosa al petto avea,qual meraviglia se di subito arsi?

Non era lʼandar suo cosa mortale,ma dʼangelica forma, e le parolesonavan altro che pur voce umana:

uno spirto celeste, un vivo solefu quel chʼi ̓vidi; e se non fosse or tale,piaga per allentar dʼarco non sana.

da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura) di Francesco Petrarca

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Sólo é pensóso i più dešèrti campi

Sólo é pensóso i più dešèrti campi vò mesurando a passi tardi é lènti,é gli òcchi pòrto pér fuggire intèntióve vestigio uman lʼaréna stampi.

Altro schérmo nón tròvo ché mi scampidal manifèsto accòrger dé lé gènti,perché né gli atti dʼalegrézza spèntidi fuòr si lègge cómʼio déntro avampi.

Sì chʼio mi crédo ormai ché mónti é piagge,é fiumi é sélve sappian di ché tèmpresia la mia vita, ch ʼè celata altrui.

Ma pur sì aspre vie, né sì selvaggecercar nón sò, chʼAmór nón vènga sèmpreragionando cón méco; ét io có llui.

da Rime sparse ( Rime in vita di Madònna Laura ) di Francésco Petrarca

Èrano i capéi dʼòro a Laura sparsi

Èrano i capéi dʼòro a Laura sparsi,ché ʼn mille dólci nòdi gli avvolgéa,é ʼl vago lume óltre mišura ardéaéi quéi bègli òcchi, chʼór né són sì scarsi,

é ʼl višo di pietósi colór farsi,nón sò sé véro ó falso, mi paréa:i ̓ché lʼésca amorósa al pètto avéa,qual meraviglia sé di subito arsi?

Nón èra lʼandar suo còsa mortale,ma dʼangèlica fórma, é lé paròlesonavan altro ché pur vóce umana:

uno spirto celèste, un vivo sólefu quél chʼi ̓vidi; é sé nón fósse ór tale,piaga pér allentar dʼarco nón sana.

da Rime sparse (Rime in vita di Madònna Laura) di Francésco Petrarca

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Chiare, fresche, e dolci acque…

Chiare, fresche, e dolci acque,ove le belle membrapose colei che sola a me par donna;gentil ramo ove piacque(con sospir mi rimembra)a lei di fare al bel fianco colonna;erba e fior che la gonnaleggiadra ricoverseco lʼangelico seno;aere sacro, sereno,ove Amor co ̓begli occhi il cor mʼaperse;date udienza insiemea le dolenti mie parole estreme.

Sʼegli è pur mio destino,e ʼl cielo in ciò sʼadopra,chʼAmor questʼocchi lagrimando chiuda,qualche grazia il meschinocorpo fra voi ricopra,e torni lʼalma al proprio albergo ignuda.La morte fia men crudase questa spene portoa quel dubbioso passo;ché lo spirito lassonon porìa mai in più riposato porto,né in più tranquilla fossafuggir la carne travagliata e lʼossa.

Tempo verrà ancor forsechʼa lʼusato soggiornotorni la fera bella e mansueta,e là ʼvʼella mi scòrsenel benedetto giorno,volga la vista disïosa e lietacercandomi; et o pièta,già terra infra le pietrevedendo, Amor lʼinspiri

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Chiare, frésche, é dólci acque…

Chiare, frésche, é dólci acque,óve lé bèlle mèmbrapóse colèi ché sóla a mé par dònna;gentil ramo óve piacque(cón sospir mi rimèmbra)a lèi di fare al bèl fianco colónna;èrba é fiór ché la gónnaleggiadra ricovèrsecó lʼangèlico séno;aere sacro, seréno,óve Amór có ̓bègli òcchi il còr mʼapèrse;date udiènza insièmea lé dolènti mie paròle estrème.

Sʼégli è pur mio destino,é ʼl cièlo in ciò sʼadòpra,chʼAmór questʼòcchi lagrimando chiuda,qualche grazia il meschinocòrpo fra vói ricòpra,é tórni lʼalma al pròprio albèrgo ignuda.La mòrte fia mén crudasé quésta spène pòrtoa quél dubbióso passo;ché ló spirito lassonón porìa mai in più riposato pòrto,né in più tranquilla fòssafuggir la carne travagliata é lʼòssa.

Tèmpo verrà ancór fórsechʼa lʼušato soggiórnotórni la fèra bèlla é mansuèta,é là ʼvʼélla mi scòrsenél benedétto giórno,vòlga la vista disïósa é liètacercandomi; ét ó pièta,già tèrra infra lé piètrevedèndo, Amór lʼinspiri

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in guisa che sospirisì dolcemente che mercé m ̓impètre,e faccia forza al cielo,asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da ̓be ̓rami scendea(dolce ne la memoria)una pioggia di fior sovra ʼl suo grembo;et ella si sedeaumile in tanta gloria,coverta già de lʼamoroso nembo.Qual fior cadea sul lembo,qual su le trecce bionde,chʼoro forbito e perleeran quel dì a vederle;qual si posava in terra e qual su lʼonde;qual con un vago erroregirando parea dir:-Qui regna Amore-.

Quante volte dissʼioallor pien di spavento:-Costei per fermo nacque in paradiso!-Così carco dʼoblioil divin portamento,e ʼl volto, e le parole, e ʼl dolce risomʼaveano, e sì divisoda lʼimagine vera,chʼi ̓dicea sospirando:-Qui come vennʼio, o quando?-credendo esser in ciel, non là dovʼera.Da indi in qua mi piacequesta erba sì, chʼaltrove non ho pace.

Se tu avessi ornamenti, quantʼhai voglia,potresti arditamenteuscir del bosco, e gir in fra la gente.

da Rime sparse (Rime in vita di Madonna Laura) di Francesco Petrarca

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in guiša ché sospirisì dolceménte ché mercé m ̓impètre,é faccia fòrza al cièlo,asciugandosi gli òcchi cól bèl vélo.

Da ̓bè ̓rami scendéa(dólce né la memòria)una piòggia di fiór sóvra ʼl suo grèmbo;ét élla si sedéaumile in tanta glòria,covèrta già dé lʼamoróso némbo.Qual fiór cadéa sul lémbo,qual su lé trécce biónde,chʼòro forbito é pèrleèran quél dì a vedérle;qual si posava in tèrra é qual su lʼónde;qual cón un vago erróregirando paréa dir:-Qui régna Amóre-.

Quante vòlte dissʼioallór pièn di spavènto:-Costèi pér férmo nacque in paradišo!-Così carco dʼoblioil divin portaménto,é ʼl vólto, é lé paròle, é ʼl dólce risomʼavéano, é sì divišoda lʼimagine véra,chʼi ̓dicéa sospirando:-Qui cóme vennʼio, ó quando?-credèndo èsser in cièl, nón là dovʼèra.Da indi in qua mi piacequésta èrba sì, chʼaltróve nón hò pace.

Sé tu avéssi ornaménti, quantʼhai voglia,potrésti arditaménteuscir dél bòsco, é gir in fra la gènte.

da Rime sparse (Rime in vita di Madònna Laura) di Francésco Petrarca

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Zefiro torna e ̓l bel tempo rimena

Zefiro torna e ʼl bel tempo rimena,e i fiori e lʼerbe, sua dolce famiglia, e garrir Progne, e pianger Filomena,e primavera candida e vermiglia.

Ridono i prati, e ʼl ciel si rasserena;Giove sʼallegra di mirar sua figlia;lʼaria, e lʼacqua, e la terra è dʼamor piena;ogni animal dʼamar si riconsiglia.

Ma per me, lasso! tornano i più gravisospiri, che del cor profondo traggequella chʼal ciel se ne portò le chiavi;

e cantar augelletti, e fiorir piagge,e ʼn belle donne oneste atti soavisono un deserto, e fere aspre e selvagge.

da Rime sparse (Rime in morte di Madonna Laura) di Francesco Petrarca

Quanto più m ̓avvicino al giorno estremo

Quanto più mi avvicino al giorno estremoche lʼumana miseria vuol far breve,più veggio il tempo andar veloce e leve,e ʻl mio di lui sperar fallace e scemo.I ̓dico a ̓miei pensier: “Non molto andremodʼamor parlando omai, ché ʻl duro e greveterreno incarco come fresca nevesi va struggendo; onde noi pace avremo:perché con lui cadrà quella speranzache ne fe ̓vaneggiar sì lungamente,e ʻl riso e ʻl pianto, e la paura e lʼira.

Sì vedrem chiaro poi come soventeper le cose dubbiose altri sʼavanza;e come spesso indarno si sospira.”.

dal “Canzoniere” di Francesco Petrarca

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Z(ζ)èfiro tórna é ̓l bèl tèmpo riména

Ζ(ζ)èfiro tórna é ʼl bèl tèmpo riména,é i fióri é lʼèrbe, sua dólce famiglia, é garrir Prògne, é pianger Filoména,é primavèra candida é vermiglia.

Ridono i prati, é ʼl cièl si rasseréna;Giòve sʼallégra di mirar sua figlia;lʼaria, é lʼacqua, é la tèrra è dʼamór pièna;ógni animal dʼamar si riconsiglia.

Ma pér mé, lasso! tórnano i più gravisospiri, ché dél còr profóndo traggequélla chʼal cièl sé né portò lé chiavi;

é cantar augellétti, é fiorir piagge,é ʼn bèlle dònne onèste atti soavisóno un dešèrto, é fère aspre é selvagge.

da Rime sparse (Rime in mòrte di Madònna Laura) di Francésco Petrarca

Quanto più m ̓avvicino al giórno estrèmo

Quanto più mi avvicino al giórno estrèmoché lʼumana mišéria vuòl far brève,più véggio il tèmpo andar velóce é lève,é ʻl mio di lui sperar fallace é scémo.I ̓dico a ̓mièi pensièr: “Nón mólto andrémodʼamór parlando omai, ché ʻl duro é grèveterréno incarco cóme frésca névesi va struggèndo; ónde nói pace avrémo:perché cón lui cadrà quélla speranzaché né fé ̓vaneggiar sì lungaménte,é ʻl riso é ʻl pianto, é la paura é lʼira.

Sì vedrém chiaro pòi cóme sovèntepér lé còse dubbióse altri sʼavanza;é cóme spésso indarno si sospira.”.

dal “Canzonière” di Francésco Petrarca

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A Zacinto

Né più mai toccherò le sacre spondeove il mio corpo fanciulletto giacque,Zacinto mia, che te specchi nellʼondedel greco mar, da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole fecondecol suo primo sorriso, onde non tacquele tue limpide nubi e le tue frondelʼinclito verso di colui che lʼacque

cantò fatali, ed il diverso esiglio,per cui bello di fama e di sventurabaciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,o materna mia terra; a noi prescrisseil fato illacrimata sepoltura.

dai “ Sonetti” di Ugo Foscolo

In morte del fratello Giovanni

Un dì, sʼio non andrò sempre fuggendodi gente in gente, me vedrai sedutosu la pietra, o fratel mio, gemendo il fior de ̓tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol, suo dì tardo traendo,parla di me col tuo cenere muto;ma io deluse a voi le palme tendo,e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi Numi, e le secretecure ché al viver tuo furon tempesta, e prego anchʼio nel tuo porto quïete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!Straniere genti, lʼossa mie rendeteallora al petto della madre mesta.

dai “ Sonetti” di Ugo Foscolo

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A Z(ζ)acinto

Né più mai toccherò lé sacre spóndeóve il mio còrpo fanciullétto giacque,Z(ζ)acinto mia, ché té spècchi néllʼóndedél grèco mar, da cui vérgine nacque

Vènere, é féa quélle išole fecóndecól suo primo sorriso, ónde nón tacquelé tue limpide nubi é lé tue fróndelʼinclito vèrso di colui ché lʼacque

cantò fatali, éd il divèrso ešiglio,pér cui bèllo di fama é di sventurabaciò la sua petrósa Itaca Ulisse.

Tu nón altro ché il canto avrai dél figlio,ó matèrna mia tèrra; a nói prescrisseil fato illacrimata sepoltura.

dai “ Sonétti” di Ugo Fóscolo

In mòrte dél fratèllo Giovanni

Un dì, sʼio nón andrò sèmpre fuggèndodi gènte in gènte, mé vedrai sedutosu la piètra, ó fratèl mio, gemèndo il fiór dé ̓tuòi gentili anni caduto.

La madre ór sól, suo dì tardo traèndo,parla di mé cól tuo cénere muto;ma io deluše a vói lé palme tèndo,é sól da lunge i mièi tétti saluto.

Sènto gli avvèrsi Numi, é lé secrètecure ché al viver tuo furon tempèsta, é prègo anchʼio nél tuo pòrto quïète.

Quésto di tanta spème òggi mi rèsta!Stranière gènti, lʼòssa mie rendéteallóra al pètto délla madre mèsta.

dai “ Sonétti” di Ugo Fóscolo

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Alla sera

Forse perché della fatal quïetetu sei lʼimmago, a me sì cara vieni,o Sera! E quando ti corteggian lietele nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquietetenebre e lunghe allʼuniverso meni,sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co ̓miei pensier su lʼormeche vanno al nulla eterno; e intanto fuggequesto reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;e mentre io guardo la tua pace, dormequello spirto guerrier ch ̓entro mi rugge.

dai “Sonetti” di Ugo Foscolo

Alla musa

Pur tu copia versavi alma di cantosu le mie labbra un tempo, aonia Diva,quando de ̓miei fiorenti anni fuggivala stagion prima, e dietro erale intantoquesta, che meco per la via del piantoscende di Lete vèr la muta riva:non udito or tʼinvoco, oimé! soltantouna favilla del tuo spirto è viva.

E tu fuggisti in compagnia dellʼore,o Dea! tu pur mi lasci alle pensosemembranze, e del fururo al timor cieco:però mi accorgo, e mel ridice Amoreche mal ponno sfogar rade, operoserime il dolor che deve albergar meco.

dai “Sonetti” di Ugo Foscolo

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Alla séra

Fórse perché délla fatal quïètetu sèi l ̓immago, a mé sì cara vièni,ó Séra! É quando ti cortéggian liètelé nubi estive é i ζèffiri seréni,

é quando dal nevóso aere inquïète tènebre é lunghe allʼunivèrso méni, sèmpre scéndi invocata, é le secrète vie dél mio còr soaveménte tièni.

Vagar mi fai có ̓mièi pensièr su lʼórmeché vanno al nulla etèrno; é intanto fugge quésto rèo tèmpo, é van cón lui lé tórme

délle cure ónde méco égli si strugge;é méntre io guardo la tua pace, dòrme quéllo spirto guerrièr ch ̓éntro mi rugge.

dai “Sonétti” di Ugo Fóscolo

Alla muša

Pur tu còpia versavi alma di cantosu lé mie labbra un tèmpo, aònia Diva,quando dé ̓mièi fiorènti anni fuggivala stagión prima, é diètro èrale intantoquésta, ché méco pér la via dél piantoscénde di Lète vèr la muta riva:nón udito ór tʼinvòco, oimé! soltantouna favilla dél tuo spirto è viva.

É tu fuggisti in compagnia dellʼóre,ó Dèa! tu pur mi lasci alle pensósemembranze, é dél fururo al timór cièco:però mi accòrgo, é mél ridice Amóreché mal pònno sfogar rade, operóserime il dolór ché dève albergar méco.

dai “Sonétti” di Ugo Fóscolo

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La Pentecoste

Madre dei Santi; immaginedella città superna;del Sangue incorruttibileconservatrice eterna;tu che, da tanti secoli,soffri, combatti e preghi,che le tue tende spieghidallʼuno allʼaltro mar; campo di quei che sperano,Chiesa del Dio vivente;dovʼeri mai? qual angoloti raccogliea nascente,quando il tuo Re, dai perfiditratto a morir sul colle,imporporò le zolledel suo sublime altar? E allor che dalle tenebrela diva spoglia uscita,mise il potente anelitodella seconda vita;e quando, in man recandosiil prezzo del perdono,da questa polve al tronodel Genitor salì: compagna del suo gemito,conscia de ̓suoi misteri,tu, della vittoriafiglia immortal, dovʼeri?In tuo terror sol vigile,sol nellʼobblio secura,stavi in riposte mura,fino a quel sacro dì, quando su te lo Spiritorinnovator discesee lʼinconsunta fiaccolanella tua destra accese,quando, segnal de ̓popoli,ti collocò sul monte,e ne ̓tuoi labbri il fontedella parola aprì.

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La Pentecòste

Madre déi Santi; immaginedélla città supèrna;dél Sangue incorruttibileconservatrice etèrna;tu ché, da tanti sècoli,sòffri, combatti é prèghi,ché lé tue tènde spièghidallʼuno allʼaltro mar; campo di quéi ché spèrano,Chièša dél Dio vivènte;dovʼèri mai? qual angoloti raccogliéa nascènte,quando il tuo Ré, dai perfiditratto a morir sul còlle,imporporò lé ζòlledél suo sublime altar? É allór ché dalle tènebrela diva spòglia uscita,miše il potènte anèlitodélla secónda vita;é quando, in man recandosiil prèzzo dél perdóno,da quésta pólve al trònodél Genitór salì: compagna dél suo gèmito,cònscia dé ̓suòi mistèri,tu, délla vittòriafiglia immortal, dóvʼèri?In tuo terrór sól vigile,sól néllʼobblìo secura,stavi in ripóste mura,fino a quél sacro dì, quando su té ló Spiritorinnovatór discéseé lʼinconsunta fiaccolanélla tua dèstra accése,quando, segnal dé ̓pòpoli,ti collocò sul mónte,é né ̓tuòi labbri il fóntedélla paròla aprì.

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Come la luce rapidapiove di cosa in cosa,e i color vari suscita,dovunque si riposa;tal risonò molteplicela voce dello Spiro:lʼArabo, il Parto, il Siroin suo sermon lʼudì. Adorator deglʼidoli,sparso per ogni lido,volgi lo sguardo a Solima,odi quel santo grido:stanca del vile ossequio,la terra a Lui ritorni: e voi che aprite i giornidi più felice età, spose che desta il sùbitobalzar del pondo ascoso;voi già vicine a sciogliereil grembo doloroso;alla bugiarda pronubanon sollevate il canto:cresce serbato al Santoquel che nel sen vi sta. Perché, baciando i pargoli,la schiava ancor sospira?e il sen che nutre i liberiinvidïando mira?Non sa che al regno i miseriseco il Signor solleva?che a tutti i figli dʼEvanel suo dolor pensò? Nova franchigia annunzianoi cieli, e genti nove;nove conquiste, e gloriavinta in più belle prove;nova, ai terrori immobilee alle lusinghe infide,pace che il mondo irride,ma che rapir non può. O Spirto! supplichevolia ̓tuoi solenni altari; soli per selve inospite;vaghi in deserti mari;

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Cóme la luce rapidapiòve di còsa in còsa,é i colór vari suscita,dovunque si ripòsa;tal risonò moltéplicela vóce déllo Spiro:lʼArabo, il Parto, il Siroin suo sermón lʼudì. Adoratór déglʼidoli,sparso pér ógni lido,vòlgi ló sguardo a Sòlima,òdi quél santo grido:stanca dél vile ossèquio,la tèrra a Lui ritórni: é vói ché aprite i giórnidi più felice età, spòše ché désta il sùbitobalzar dél pòndo ascóso;vói già vicine a sciògliereil grèmbo doloróso;alla bugiarda prònubanón sollevate il canto:crésce serbato al Santoquél ché nél sén vi sta. Perché, baciando i pargoli,la schiava ancór sospira?é il sén ché nutre i liberiinvidïando mira?Nón sa ché al régno i mišeriséco il Signór sollèva?ché a tutti i figli dʼÈvanél suo dolór pensò? Nòva franchigia annunzianoi cièli, é gènti nòve;nòve conquiste, é glòriavinta in più bèlle pròve;nòva, ai terróri immòbileé alle lušinghe infide,pace ché il móndo irride,ma ché rapir nón può. Ó Spirto! supplichévolia ̓tuòi solènni altari; sóli pér sélve inòspite;vaghi in dešèrti mari;

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dallʼAnde algenti al Libano,dʼErina allʼirta Haiti,sparsi per tutti i liti,uni per te di cor, noi Tʼimploriam! PlacabileSpirto discendi ancora,a ̓tuoi cultor propiziopropizio a chi Tʼignora:scendi e ricrea; rianimai cor nel dubbio estinti;e sia divina ai vintimercede il vincitor. Discendi Amor; negli animilʼire superbe attuta;dona i pensier che il memoreultimo dì non muta:i doni tuoi beneficanutra la tua virtude;siccome il sol, che schiudedal pigro germe il fior; che lento poi sullʼumilierbe morrà non colto,né sorgerà coi fulgidicolor del lembo sciolto, se fuso a lui nellʼeterenon tornerà quel mitelume dator di vitee infaticato altor. Noi Tʼimploriam! Nei languidipensier dellʼinfelicescendi piacevol alito,aura consolatrice:scendi bufera ai tumidipensier del vïolento;vi spira uno sgomento,che insegni la pietà. Per Te sollevi il poveroal ciel, chʼè suo, le ciglia,volga i lamenti in giubilo,pensando a cui somiglia:cui fu donato in copia,doni con volto amico,con quel tacer pudico,che accetto il don ti fa.

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dallʼAnde algènti al Libano,dʼErina allʼirta Haiti,sparsi pér tutti i liti,uni pér té di còr, nói Tʼimploriam! PlacabileSpirto discéndi ancóra,a ̓tuòi cultór propizio,propizio a chi Tʼignóra:scéndi é ricrèa; rianimai còr nél dubbio estinti;é sia divina ai vintimercéde il vincitór. Discéndi Amór; négli animilʼire supèrbe attuta;dóna i pensièr ché il mèmoreultimo dì nón muta:i dóni tuòi benèficanutra la tua virtude;siccóme il sól, ché schiudedal pigro gèrme il fiór; ché lènto pòi sullʼumilièrbe morrà nón còlto,né sorgerà cói fulgidicolór del lémbo sciòlto, sé fušo a lui néllʼèterenón tornerà quél mitelume datór di viteé infaticato altór. Nói Tʼimploriam! Néi languidipensièr déllʼinfelicescéndi piacévol alito,aura consolatrice:scéndi bufèra ai tumidipensièr dél vïolènto;vi spira uno sgoménto,ché inségni la pietà. Pér Té sollèvi il pòveroal cièl, chʼè suo, lé ciglia,vòlga i laménti in giubilo,pensando a cui somiglia:cui fu donato in còpia,dóni cón vólto amico,cón quél tacér pudico,ché accètto il dón ti fa.

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Spira dei nostri bambolinellʼineffabil riso:spargi la casta porporaalle donzelle in viso;manda alle ascose verginile pure gioie ascose;consacra delle sposeil verecondo amor. Tempra de ̓baldi giovaniil confidente ingegno;reggi il viril propositoad infallibil segno;adorna la caniziedi liete voglie sante;brilla nel guardo errantedi chi sperando muor.

da “Inni Sacri” di Alessandro Manzoni

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Spira déi nòstri bambolinellʼineffabil riso:spargi la casta pórporaalle donζèlle in višo;manda alle ascóse vérginile pure giòie ascóse;consacra délle spòšeil verecóndo amór. Tèmpra dé ̓baldi gióvaniil confidènte ingégno;règgi il viril propòšitoad infallibil ségno;adórna la caniziedi liète vòglie sante;brilla nél guardo errantedi chi sperando muòr.

da “Inni Sacri” di Alessandro Manzóni

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Marzo 1821

Soffermàti sull ̓arida sponda,volti i guardi al varcato Ticino,tutti assorti nel nuovo destino,certi in cor dell ̓antica virtù,han giurato: non fia che questʼonda scorra più tra due rive straniere;non fia loco ove sorgan barrieretra lʼltalia e lʼltalia, mai più!

Lʼhan giurato: altri forti a quel giurorispondean da fraterne contrade, affilando nellʼombra le spadeche or levate scintillano al sol.Già le destre hanno strette le destre;già le sacre parole son porte.O compagni sul letto di morte,o fratelli su libero suol.

Chi potrà della gemina Dora,della Bormida al Tanaro sposa,del Ticino e dellʼOrba selvosascerner l ̓onde confuse nel Po;chi stornargli del rapido Mellae dell ̓Oglio le miste correnti,chi ritorgliergli i mille torrenti,che la foce dell ̓Adda versò,

quello ancora una gente risortapotrà scindere in volghi spregiati,e a ritroso degli anni e dei fati,risospingerla ai prischi dolor:una gente che libera tutta,o fia serva tra l ̓Alpe ed il mare;una d ̓arme, di lingua, d ̓altare,di memorie, di sangue e di cor.

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Marzo 1821

Soffermàti sull ̓arida spónda,vòlti i guardi al varcato Ticino,tutti assòrti nél nuòvo destino,cèrti in còr déll ̓antica virtù,han giurato: nón fia ché quéstʼónda scórra più tra due rive stranière;nón fia lòco óve sórgan barrièretra lʼltalia é lʼltalia, mai più!

L̓ han giurato: altri fòrti a quél giuro rispondéan da fratèrne contrade, affilando néllʼómbra lé spadeché ór levate scintillano al sól.Già lé dèstre hanno strétte lé dèstre;già lé sacre paròle són pòrte.Ó compagni sul lètto di mòrte,ó fratèlli su libero suòl.

Chi potrà délla gèmina Dòra,della Bórmida al Tanaro spòša,del Ticino é déll ̓Órba selvósascèrner l ̓ónde confuše nél Pò;chi stornargli dél rapido Mèllaé déll ̓Òglio lé miste corrènti,chi ritòrgliergli i mille torrènti,ché la fóce déll ̓Adda versò,

quéllo ancóra una gènte risórtapotrà scindere in vólghi spregiati,é a ritróso dégli anni é déi fati,risospingerla ai prischi dolór:una gènte ché libera tutta,ó fia sèrva tra l ̓Alpe éd il mare;una d ̓arme, di lingua, d ̓altare,di memòrie, di sangue é di còr.

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Con quel volto sfidato e dimesso,con quel guardo atterrato ed incerto,con che stassi un mendico soffertoper mercede nel suolo stranier,star doveva in sua terra il Lombardo;l ̓altrui voglia era legge per lui;il suo fato, un segreto d ̓altrui;la sua parte, servire e tacer.

O stranieri, nel proprio retaggiotorna Italia, e il suo suolo riprende;o stranieri, strappate le tendeda una terra che madre non v ̓è.Non vedete che tutta si scuote,dal Cenisio alla balza di Scilla? Non sentite che infida vacillasotto il peso de ̓barbari piè?

O stranieri ! sui vostri stendardista lʼobbrobrio dʼun giuro tradito;un giudizio da voi proferitovʼaccompagna all ̓iniqua tenzon;voi che a stormo gridaste in quei giorni:Dio rigetta la forza straniera;ogni gente sia libera, e peradella spada lʼiniqua ragion.

Se la terra ove oppressi gemeste,preme i corpi de ̓vostri oppressori,se la faccia d ̓estranei signoritanto amara vi parve in quei dì,chi vʼha detto che sterile, eternosaria il lutto dell ʻ itale genti ?chi vʼha detto che ai nostri lamenti saria sordo quel Dio che vʼudì?

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Cón quél vólto sfidato é dimésso,cón quél guardo atterrato éd incèrto,cón ché stassi un mendìco soffèrtopér mercéde nél suòlo stranièr,star dovéva in sua tèrra il Lombardo;l ̓altrui vòglia èra légge pér lui;il suo fato, un segréto d ̓altrui;la sua parte, servire é tacér.

Ó stranièri, nél pròprio retaggiotórna Italia, é il suo suòlo riprènde;ó stranièri, strappate lé tèndeda una tèrra ché madre nón v ̓è.Nón vedéte ché tutta si scuòte,dal Cenišio alla balza di Scilla ? Nón sentite ché infida vacillasótto il péso dé ̓barbari piè?

Ó stranièri ! sui vòstri stendardista lʼobbròbrio dʼun giuro tradito;un giudizio da vói proferitovʼaccompagna all ̓iniqua tenzón;vói ché a stórmo gridaste in quéi giorni:Dio rigètta la fòrza stranièra;ógni gènte sia libera, é pèradélla spada lʼiniqua ragión.

Sé la tèrra óve opprèssi geméste,prème i còrpi dé ̓vòstri oppressóri,sé la faccia d ̓estranei signóritanto amara vi parve in quéi dì,chi vʼha détto ché stèrile, etèrnosaria il lutto déll ̓itale gènti ?chi vʼha détto ché ai nòstri laménti saria sórdo quél Dio ché vʼudì?

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Sì: quel Dio che nell ̓onda vermiglia chiuse il rio che inseguiva Israele,quel che in pugno alla maschia Giaelepose il maglio ed il colpo guidò:quel che è Padre di tutte le genti,che non disse al Germano giammai:vaʼ, raccogli ove arato non hai;spiega lʼugne, lʼItalia ti do.

Cara Italia! dovunque il dolentegrido uscì del tuo lungo servaggio;dove ancor dellʼumano lignaggioogni speme deserta non è;dove già libertade è fiorita,dove ancor nel segreto matura,dove ha lacrime un ̓alta sventura,non cʼè cor che non batta per te.

Quante volte sullʼAlpe spiastilʼapparir dʼun amico stendardo! quante volte intendesti lo sguardone ̓deserti del duplice mar!Ecco alfin dal tuo seno sbocciati, stretti intorno a ̓tuoi santi colori,forti, armati de ̓propri dolori,i tuoi figli son sorti a pugnar.

Oggi, o forti, sui volti baleniil furor delle menti segrete:per lʼItalia si pugna, vincete!Il suo fato sui brandi vi sta.O risorta per voi la vedremo al convito de ̓popoli assisa,o più serva, più vil, più derisa sotto l ̓orrida verga starà.

Oh giornate del nostro riscatto!Oh dolente per sempre coluiche da lunge, dal labbro d ̓altrui,come un uomo straniero, le udrà!che a ̓suoi figli narrandole un giorno,dovrà dir sospirando: io non cʼera;che la santa vittrice bandierasalutata quel dì non avrà.

dalle “Odi” di Alessandro Manzoni

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Sì: quél Dio ché néll ̓ónda vermiglia chiuse il rio ché inseguiva Išraèle,quél ché in pugno alla maschia Giaèlepóse il maglio ed il cólpo guidò;quél ché è Padre di tutte lé gènti,ché nón disse al Germano giammai:vaʼ, raccògli óve arato nón hai;spièga lʼugne, lʼItalia ti dò.

Cara Italia! dovunque il dolèntegrido uscì dél tuo lungo servaggio;dóve ancór déllʼumano lignaggioógni spème dešèrta nón è;dóve già libertade è fiorita,dóve ancór nél segréto matura,dóve ha lacrime un ̓alta sventura,nón cʼè còr ché nón batta pér té.

Quante vòlte sullʼAlpe spiasti lʼapparir dʼun amico stendardo! quante vòlte intendésti ló sguardoné ̓dešèrti dél duplice mar!Ècco alfin dal tuo séno sbocciati, strétti intórno a ̓tuòi santi colóri,fòrti, armati dé ̓pròpri dolóri,i tuòi figli són sórti a pugnar.

Òggi, ó fòrti, sui vólti baléniil furór délle ménti segréte:pér lʼItalia si pugna, vincéte!Il suo fato sui brandi vi sta.Ó risórta pér vói la vedrémo al convito dé ̓pòpoli assiša,ó più sèrva, più vil, più derisa sótto l ̓òrrida vérga starà.

Òh giornate dél nòstro riscatto!Òh dolènte pér sèmpre coluiché da lunge, dal labbro d ̓altrui,cóme un uòmo stranièro, lé udrà!ché a ̓suòi figli narrandole un giórno,dovrà dir sospirando: io nón cʼèra;ché la santa vittrice bandièrasalutata quél dì nón avrà.

dalle “Òdi” di Alessandro Manzóni

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Lʼinfinito

Sempre caro mi fu questʼermo colle,e questa siepe, che da tanta partedellʼultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminatispazi di là da quella, e sovrumanisilenzi, e profondissima quïeteio nel pensier mi fingo; ove per pocoil cor non si spaura. E come il ventoodo stormir fra queste piante, io quelloinfinito silenzio a questa vocevo comparando: e mi sovvien lʼeterno,e le morte stagioni, e la presentee viva, e il suon di lei. Così tra questaimmensità sʼannega il pensier mio:e il naufragar mʼè dolce in questo mare.

da gli “ Idilli” di Giacomo Leopardi

Alla luna

O graziosa luna, io mi rammentoche, or volge lʼanno, sovra questo colleio venia pien dʼangoscia a rimirarti:e tu pendevi allor su quella selvasiccome or fai, che tutta la rischiari.

Ma nebuloso e tremulo dal piantoche mi sorgea sul ciglio, alle mie luciil tuo volto apparia, ché travagliosaera mia vita: ed è, né cangia stile,o mia diletta luna. E pur mi giovala ricordanza, e il noverar lʼetatedel mio dolore. Oh come grato occorrenel tempo giovanil, quando ancor lungola speme e breve ha la memoria il corso,il rimembrar delle passate cose,ancora che triste, e che lʼaffanno duri!

da gli “ Idilli” di Giacomo Leopardi

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L̓ infinito

Sèmpre caro mi fu quéstʼèrmo còlle,é quésta sièpe, ché da tanta partedéllʼultimo oriζζónte il guardo esclude.

Ma sedèndo é mirando, interminatispazi di là da quélla, é sovrumanisilènzi, é profondissima quïèteio nél pensièr mi fingo; óve pér pòcoil còr nón si spaura. É cóme il vèntoòdo stórmir fra quéste piante, io quélloinfinito silènzio a quésta vócevò comparando: é mi sovvièn lʼetèrno,é lé mòrte stagióni, é la prešènteé viva, é il suòn di lèi. Così tra quéstaimmensità sʼannéga il pensièr mio:é il naufragar mʼè dólce in quésto mare.

da gli “Idilli” di Giacomo Leopardi

Alla luna

Ó graziósa luna, io mi ramméntoché, ór vòlge lʼanno, sóvra quésto còlleio venìa pièn dʼangóscia a rimirarti:é tu pendévi allór su quélla sélvasiccóme ór fai, ché tutta la rischiari.

Ma nebulóso é trèmulo dal piantoché mi sorgéa sul ciglio, alle mie luciil tuo vólto apparia, ché travagliósaèra mia vita: éd è, né cangia stile,ó mia dilètta luna. É pur mi gióvala ricordanza, é il noverar lʼetatedél mio dolóre. Òh cóme grato occórrenél tèmpo giovanil, quando ancór lungola spème é brève ha la memòria il córso,il rimembrar délle passate còse,ancóra ché triste, é ché lʼaffanno duri!

da gli “Idilli” di Giacomo Leopardi

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A Silvia

Silvia, rimembri ancoraquel tempo della tua vita mortale,quando beltà splendeanegli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,e tu, lieta e pensosa, il limitaredi gioventù salivi?

Sonavan le quïetestanze, e le vie dintorno,al tuo perpetuo canto,allor che allʼopre femminili intentasedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi.Era il maggio odoroso: e tu solevicosì menare il giorno.

Io gli studi leggiadritalor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primoe di me si spendea la miglior parte,dʼin su i veroni del paterno ostelloporgea gli orecchi al suon della tua voce,ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela.Mirava il ciel sereno,le vie dorate e gli orti,e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.Lingua mortal non dicequel chʼio sentiva in seno.

Che pensieri soavi,che speranze, che cori, o Silvia mia!Quale allor ci appariala vita umana e il fato!Quando sovviemmi di cotanta speme,un affetto mi premeacerbo e sconsolato,e tornami a doler di mia sventura.O natura, o natura,perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tantoinganni i figli tuoi?

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A Silvia

Silvia, rimèmbri ancóraquél tèmpo délla tua vita mortale,quando beltà splendéanégli òcchi tuòi ridènti é fuggitivi,é tu, lièta é pensósa, il limitaredi gioventù salivi?

Sonavan lé quïètestanze, é lé vie dintórno,al tuo perpètuo canto,allór ché allʼòpre femminili intèntasedévi, assai contènta di quél vago avvenir che in ménte avévi.Èra il maggio odoróso: é tu solévicòsì menare il giórno.

Io gli studi leggiadritalór lasciando é lé sudate carte,óve il tèmpo mio primoé di mé si spendéa la migliór parte,dʼin su i veróni del patèrno ostèlloporgéa gli orécchi al suòn délla tua vóce,éd alla man velóceché percorréa la faticósa téla.Mirava il cièl seréno,lé vie dorate é gli òrtì,é quinci il mar da lungi, é quindi il mónte.Lingua mortal nón dicequél chʼio sentiva in séno.

Ché pensièri soavi,ché speranze, ché còri, ó Silvia mia!Quale allór ci appariala vita umana é il fato!Quando sovvièmmi di cotanta spème,un affètto mi prèmeacèrbo é sconsolato,é tornami a dolér di mia sventura.Ó natura, ó natura,perché nón rèndi pòi quél ché prométti allór? perché di tantoinganni i figli tuòi?

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Tu pria che lʼerbe inaridisse il verno,da chiuso morbo combattuta e vinta,perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi;non ti molceva il corela dolce lode or delle nere chiome,or degli sguardi innamorati e schivi;né teco le compagne ai dì festiviragionavan dʼamore.

Anche peria fra poco la speranza mia dolce: agli anni mieianche negaro i fatila giovinezza. Ahi come,come passata sei,cara compagna dellʼetà mia nova,mia lacrimata speme!Questo è quel mondo? questii diletti, lʼamor, lʼopre, gli eventionde cotanto ragionammo insieme?questa la sorte delle umane genti?Allʼapparir del verotu, misera, cadesti: e con la manola fredda morte ed una tomba ignudamostravi di lontano.

da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi

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Tu pria ché lʼèrbe inaridisse il vèrno,da chiuso mòrbo combattuta é vinta,perivi, ó tenerèlla. É nón vedéviil fiór dégli anni tuòi;nón ti molcéva il còrela dólce lòde ór délle nére chiòme,ór dégli sguardi innamorati é schivi;né téco lé compagne ai dì festiviragionavan dʼamóre.

Anche peria fra pòco la speranza mia dólce: agli anni mièianche negaro i fatila giovinézza. Ahi cóme,cóme passata sèi,cara compagna dellʼetà mia nòva,mia lacrimata spème!Quésto è quél móndo? quéstii dilètti, lʼamór, lʼòpre, gli evèntiónde cotanto ragionammo insième?quésta la sòrte délle umane gènti?Allʼapparir dél vérotu, mišera, cadésti: é cón la manola frédda mòrte éd una tómba ignudamostravi di lontano.

da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi

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Il sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna,in sul calar del sole,col suo fascio dellʼerba; e reca in manoun mazzolin di rose e di viole,onde, siccome suole,ornare ella si apprestadimani, al dì di festa, il petto e il crine.

Siede con le vicinesu la scala a filar la vecchierella,incontro là dove si perde il giorno;e novellando vien del suo buon tempo,quando ai dì della festa ella si ornava, ed ancor sana e snellasolea danzar la sera intra di queichʼebbe compagni dellʼetà più bella.

Già tutta lʼaria imbruna,torna azzurro il sereno, e tornan lʼombre giù da ̓colli e da ̓tetti,al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segnodella festa che viene ;ed a quel suon direstiche il cor si riconforta.

I fanciulli gridandosu la piazzola in frotta,e qua e là saltandofanno un lieto romore:e intanto riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore,e seco pensa al dì del suo riposo.

Poi, quando intorno è spenta ogni altra face,e tutto lʼaltro tace,odi il martel picchiare, odi la segadel legnaiuol, che veglianella chiusa bottega alla lucerna,e sʼaffretta, e sʼadopradi fornir lʼopra anzi il chiarir dellʼalba.

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Il sabato dél villaggio

La donζellétta vièn dalla campagna,in sul calar dél sóle,cól suo fascio déllʼèrba; é rèca in manoun mazzolin di ròše é di viòle,ónde, siccóme suòle,ornare élla si apprèstadimani, al dì di fèsta, il pètto é il crine.

Siède cón lé vicinesu la scala a filar la vecchierèlla,incóntro là dóve si pèrde il giórno;é novellando vièn dél suo buòn tèmpo,quando ai dì délla fèsta élla si ornava, éd ancór sana é snèllasoléa danzar la séra intra di quéichʼèbbe compagni dellʼetà più bèlla.

Già tutta lʼaria imbruna,tórna aζζurro il seréno, é tórnan lʼómbre giù da ̓còlli é da ̓tétti,al biancheggiar délla recènte luna.

Ór la squilla dà ségnodélla fèsta ché viène;éd a quél suòn diréstiché il còr si riconfòrta.

I fanciulli gridandosu la piazzòla in fròtta,é qua é là saltandofanno un lièto romóre:é intanto riède alla sua parca mènsa, fischiando, il zappatóre,é séco pènsa al dì dél suo ripòso.

Pòi, quando intórno è spènta ógni altra face,é tutto lʼaltro tace,òdi il martèl picchiare, òdi la ségadél legnaiuòl, ché véglianélla chiusa bottéga alla lucèrna,é sʼaffrétta, e sʼadòpradi fornir lʼòpra anzi il chiarir déllʼalba.

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Questo di sette è il più gradito giorno,pien di speme e di gioia:diman tristezza e noiarecheran lʼore, ed al travaglio usatociascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,cotesta età fioritaè come un giorno d ̓allegrezza pieno,giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita.Godi, fanciullo mio; stato soave,stagion lieta è cotesta.Altro dirti non voʼ; ma la tua festachʼanco tardi a venir non ti sia grave.

da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi

A se stesso

Or poserai per sempre, stanco mio cor. Perì lʼinganno estremo,chʼeterno io mi credei. Perì. Ben sento,in noi di cari inganni,non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assaipalpitasti. Non val cosa nessunai moti tuoi, né di sospiri è degnala terra. Amaro e noiala vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

Tʼacqueta omai. Disperalʼultima volta. Al gener nostro il fatonon donò che il morire. Omai disprezzate, la natura, il bruttopoter che, ascoso, a comun danno impera,e lʼinfinita vanità del tutto.

dai “Canti” di Giacomo Leopardi

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Quésto di sètte è il più gradito giórno,pièn di spème é di giòia:diman tristézza é nòiarecheran lʼóre, éd al travaglio usatociascuno in suo pensièr farà ritórno.

Garζoncèllo scherzóso,cotésta età fioritaè cóme un giórno d ̓allegrézza pièno,giórno chiaro, seréno, ché precórre alla fèsta di tua vita.Gòdi, fanciullo mio; stato soave,stagión lièta è cotésta.Altro dirti nón vò; ma la tua fèstachʼanco tardi a venir nón ti sia grave.

da i “Grandi Idilli” di Giacomo Leopardi

A se stésso

Ór poserai pér sèmpre, stanco mio còr. Perì lʼinganno estrèmo,chʼetèrno io mi credéi. Perì. Bèn sènto,in nói di cari inganni,nón ché la spème, il desidèrio è spènto.

Pòsa pér sèmpre. Assaipalpitasti. Nón val còsa nessunai mòti tuòi, né di sospiri è dégnala tèrra. Amaro é nòiala vita, altro mai nulla; é fango è il móndo.

Tʼacquèta omai. Dispèralʼultima vòlta. Al gèner nòstro il fatonón donò ché il morire. Omai disprèzzaté, la natura, il bruttopotér ché, ascóso, a comun danno impèra,é lʼinfinita vanità dél tutto.

dai “Canti” di Giacomo Leopardi di Giacomo Leopardi

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Traversando la Maremma toscana

Dolce paese, onde portai conformelʼabito fiero e lo sdegnoso cantoe il petto ovʼodio e amor mai non sʼaddorme,pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate formecon gli occhi incerti tra ʻl sorriso e il pianto,e in quelle seguo de ̓miei sogni lʼormeerranti dietro il giovanile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu invano;e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;e dimani cadrò. Ma di lontano

pace dicono al cor le tue collinecon le nebbie sfumanti e il verde pianoridente ne le piogge mattutine.

da “Rime nuove” di Giosuè Carducci

San Martino

La nebbia a gl ̓irti colli Gira su ̓ceppi accesi piovigginando sale, lo spiedo scoppiettando: e sotto il maestrale sta il cacciator fischiandourla e biancheggia il mar; su lʼuscio a rimirarma per le vie del borgo tra le rossastre nubi dal ribollir de ̓tini stormi dʼuccelli neri,va lʼaspro odor de i vini comʼesuli pensieri, lʼanime a rallegrar. nel vespero migrar. da “Rime nuove” di Giosuè Carducci

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Traversando la Marémma toscana

Dólce paéše, ónde portai confórmelʼabito fièro é ló sdegnóso cantoé il pètto óvʼòdio é amór mai nón sʼaddòrme,pur ti rivéggo, é il cuòr mi balza in tanto.

Bèn riconósco in té lé ušate fórmecón gli òcchi incèrti tra ʻl sorriso é il pianto,é in quélle séguo dé ̓mièi sógni lʼórmeerranti diètro il giovanile incanto.

Òh, quél ché amai, quél ché sognai, fu invano;é sèmpre córsi, é mai nón giunsi il fine;é dimani cadrò. Ma di lontano

pace dicono al còr lé tue collinecón lé nébbie sfumanti é il vérde pianoridènte né lé piògge mattutine.

da “Rime nuòve” di Giosuè Carducci

San Martino

La nébbia a gl ̓irti còlli Gira su ̓céppi accési piovigginando sale, ló spièdo scoppiettando: é sótto il maestrale sta il cacciatór fischiandourla é bianchéggia il mar; su lʼuscio a rimirarma pér lé vie dél bórgo tra lé rossastre nubi dal ribollir dé ̓tini stórmi dʼuccèlli néri,va lʼaspro odór dé i vini comʼèšuli pensièri, lʼanime a rallegrar. nél vèspero migrar.

da “Rime nuòve” di Giosuè Carducci

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Il comune rustico

O che tra faggi e abeti erma sui campismeraldini la fredda orma si stampial sole del mattin puro e leggero,o che foscheggi immobile nel giornomorente su le sparse ville intornoa la chiesa che prega o al cimitero

che tace, o noci della Carnia, addio!Erra tra i vostri rami il pensier miosognando lʼombre dʼun tempo che fu.Non paure di morti ed in congreghe diavoli goffi con bizzarre streghe,ma del comun la rustica virtù

accampata a lʼopaca ampia frescuraveggo ne la stagion de la pasturadopo la messa il giorno de la festa.Il consol dice, e poste ha pria le manisopra i santi segnacoli cristiani:“Ecco, io parto fra voi quella foresta

dʼabeti e pin ove al confin nereggia.E voi trarrete la mugghiante greggiae la belante a quelle cime là.E voi, se lʼunno o se lo slavo invadeeccovi, figli, lʼaste, ecco le spade,morrete per la nostra libertà”.

Un fremito dʼorgoglio empieva i petti,ergea le bionde teste; e de gli elettiin su le fronti il sol grande feriva.Ma le donne piangenti sotto i veliinvocavan la madre alma de ̓cieli.Con la man tesa il console seguiva:

“Questo, al nome di Cristo e di Maria,ordino e voglio che nel popol sia”.A man levata il popolo dicea Sì.E le rosse giovenche di su ʻl pratovedean passare il piccolo senato,brillando su gli abeti il mezzodì.

da “Rime Nuove” di Giosuè Carducci

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Il comune rustico

Ó ché tra faggi é abéti èrma sui campismeraldini la frédda órma si stampial sóle dél mattin puro é leggèro,ó ché foschéggi immobile nél giórnomorènte su lé sparse ville intórnoa la chiéša ché prèga ó al cimitèro

ché tace, ó nóci délla Carnia, addio!Èrra tra i vòstri rami il pensièr miosognando lʼómbre dʼun tèmpo ché fu.Nón paure di mòrti éd in congrèghe diavoli gòffi cón biζζarre stréghe,ma dél comun la rustica virtù

accampata a lʼopaca ampia frescuravéggo né la stagión dé la pasturadópo la méssa il giórno dé la fèsta.Il cònsol dice, é póste ha pria lé manisópra i santi segnacoli cristiani:“Ècco, io parto fra vói quélla forèsta

dʼabéti é pin óve al confin neréggia.É vói trarréte la mugghiante gréggiaé la belante a quélle cime là.É vói, sé lʼunno ó sé ló šlavo invadeèccovi, figli, lʼaste, ècco lé spade,morréte pér la nòstra libertà”.

Un frèmito dʼorgóglio empièva i pètti,ergéa lé biónde tèste; é dé gli elèttiin su lé frónti il sól grande feriva.Ma lé dònne piangènti sótto i véliinvocavan la madre alma dé ̓cièli.Cón la man tésa il cònsole seguiva:

“Quésto, al nóme di Cristo é di Maria,órdino é vòglio ché nél pòpol sia”.A man levata il pòpolo dicéa Sì.É le rósse giovènche di su ʻl pratovedéan passare il piccolo senato,brillando su gli abéti il mezzodì.

da “Rime Nuòve” di Giosuè Carducci

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Il gelsomino notturno

E sʼaprono i fiori notturni,nellʼora che penso aʼmiei cari.Sono apparse in mezzo a ̓viburnile farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:là sola una casa bisbiglia.Sotto lʼali dormono i nidi,come gli occhi aperti sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esalalʼodore di fragole rosse.Splende un lume là nella sala.Nasce lʼerba sopra le fosse.

Unʼape tardiva sussurratrovando già prese le celle.La Chioccetta per lʼaia azzurrava col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte sʼesalalʼodore che passa col vento.Passa il lume su per la scala;brilla al primo piano: sʼè spento…

È ̓lʼalba: si chiudono i petaliun poco gualciti; si cova,dentro lʼurna molle e segreta,non so che felicità nuova.

da “I canti di Castelvecchio” di Giovanni Pascoli

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Il gelsomino notturno

É sʼaprono i fióri notturni,néllʼóra ché pènso aʼmièi cari.Sóno apparse in mèζζo a ̓viburnilé farfalle crepuscolari.

Da un pèzzo si tacquero i gridi:là sóla una casa bišbiglia.Sótto lʼali dòrmono i nidi,cóme gli òcchi apèrti sótto le ciglia.

Dai calici apèrti si ešalalʼodóre di fragole rósse.Splènde un lume là nélla sala.Nasce lʼèrba sópra lé fòsse.

Unʼape tardiva sussurratrovando già prése lé cèlle.La Chioccétta pér lʼaia aζζurrava col suo pigolio di stélle.

Pér tutta la nòtte sʼešalalʼodóre ché passa cól vènto.Passa il lume su pér la scala;brilla al primo piano: sʼè spènto…

È lʼalba: si chiudono i pètaliun pòco gualciti; si cóva,déntro lʼurna mòlle é segréta,nón sò ché felicità nuòva.

da “I canti di Castelvècchio” di Giovanni Pascoli

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Nella nebbia

E guardai nella valle: era sparitotutto! sommerso! Era un gran mare piano,grigio, senzʼonde, senza lidi, unito.

E c ̓era appena, qua e là, lo stranovocio di gridi piccoli e selvaggi:uccelli spersi per quel mondo vano.

E alto, in cielo, scheletri di faggi,come sospesi, e sogni di rovinee di silenziosi eremitaggi.

Ed un cane uggiolava senza fine,né seppi donde, forse a certe pésteche sentii, né lontane né vicine;

eco di péste né tarde né preste,alterne, eterne. E io laggiù guardai:nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.

Chiesero i sogni di rovine: -Mainon giungerà? -Gli scheletri di piantechiesero: -E tu chi sei, che sempre vai?

Io, forse, unʼombra vidi, unʼombra errantecon sopra il capo un largo fascio. Vidi,e più non vidi, nello stesso istante.

Sentii soltanto glʼinquieti grididʼuccelli spersi, lʼuggiolar del cane,e, per il mar senzʼonde e senza lidi,

le peste né vicine né lontane.

da i “Primi poemetti” di Giovanni Pascoli

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Nélla nébbia

É guardai nélla valle: èra sparitotutto! sommèrso! Èra un gran mare piano,grigio, senzʼónde, sènza lidi, unito.

É cʼèra appéna, qua é là, ló stranovocìo di gridi piccoli é selvaggi:uccèlli spèrsi pér quél móndo vano.

É alto, in cièlo, schèletri di faggi,cóme sospési, é sógni di rovineé di silenzïósi eremitaggi.

Éd un cane uggiolava sènza fine,né sèppi dónde, fórse a cèrte pésteché sentii, né lontane né vicine;

èco di péste né tarde né prèste,altèrne, etèrne. É io laggiù guardai:nulla ancóra é nessuno, òcchi, vedéste.

Chièsero i sógni di rovine: -Mainón giungerà? -Gli schèletri di piantechièsero: -É tu chi sèi, ché sèmpre vai?

Io, fórse, unʼómbra vidi, unʼómbra errantecón sópra il capo un largo fascio. Vidi,é più nón vidi, néllo stésso istante.

Sentii soltanto glʼinquïèti grididʼuccèlli spèrsi, lʼuggiolar dél cane,é, pér il mar senzʼónde é sènza lidi,

lé péste né vicine né lontane.

da i “Primi poemétti” di Giovanni Pascoli

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La pioggia nel pineto Taci. Su le sogliedel bosco non odoparole che dici umane; ma odoparole più nuoveche parlano gocciole e foglielontane.Ascolta.Piovedalle nuvole sparse.

Piove su le tamericisalmastre ed arse,piove su i piniscagliosi ed irti,piove su i mirtidivini,su le ginestre fulgentidi fiori accolti,su i ginepri foltidi coccole aulenti,piove su i nostri voltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche lʼanima schiudenovella,su la favola bellache ieritʼilluse, che oggi mʼillude,o Ermione.

Odi? La pioggia cadesu la solitaria verduracon un crepitìo che durae varia nellʼariasecondo le frondepiù rade, men rade.

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La piòggia nél pinéto

Taci. Su lé sògliedél bòsco nón òdoparòle ché dici umane; ma òdoparòle più nuòveché parlano gócciole é fòglielontane.Ascólta.Piòvedalle nuvole sparse.

Piòve su lé tamericisalmastre éd arse,piòve su i piniscagliósi éd irti,piòve su i mirtidivini,su lé ginèstre fulgèntidi fióri accòlti,su i ginépri fóltidi còccole aulènti,piòve su i nòstri vóltisilvani,piòve su lé nòstre maniignude,su i nòstri vestiméntileggièri,su i fréschi pensièriché lʼanima schiudenovèlla,su la favola bèllaché ièritʼilluše, ché òggi mʼillude,ó Ermióne.

Òdi? La piòggia cadesu la solitaria verduracón un crepitìo ché duraé varia néllʼariasecóndo lé fróndepiù rade, mén rade.

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Ascolta. Rispondeal pianto il cantodelle cicaleche il pianto australenon impaura,né il ciel cinerino.E il pinoha un suono, e il mirtoaltro suono, e il gineproaltro ancora, stromentidiversisotto innumerevoli dita.E immersinoi siam nello spirtosilvestre,dʼarborea vita viventi;e il tuo volto ebroè molle di pioggiacome una foglia,e le tue chiome auliscono comele chiare ginestre,o creatura terrestreche hai nomeErmione.

Ascolta, ascolta.Lʼaccordodelle aeree cicalea poco a pocopiù sordosi fa sotto il piantoche cresce;ma un canto vi si mescepiù rocoche di laggiù sale,dallʼumida ombra remota.Più sordo e più fiocosʼallenta, si spegne.Solo una notaancor trema, si spegne,risorge, trema, si spegne.Non sʼode voce del mare.

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Ascólta. Rispóndeal pianto il cantodélle cicaleché il pianto australenón impaura,né il cièl cinerino.É il pinoha un suòno, é il mirtoaltro suòno, é il ginéproaltro ancóra, stroméntidivèrsisótto innumerévoli dita.É immèrsinói siam néllo spirtosilvèstre,dʼarbòrea vita vivènti;é il tuo vólto èbroè mòlle di piòggiacóme una fòglia,é lé tue chiòme auliscono cómelé chiare ginèstre,ó creatura terrèstreché hai nómeErmióne.

Ascólta, ascólta. L̓ accòrdodélle aèree cicalea pòco a pòcopiù sórdosi fa sótto il piantoché crésce;ma un canto vi si méscepiù ròco ché di laggiù sale,dallʼumida ómbra remòta.Più sórdo é più fiòcosʼallènta, si spègne.Sólo una nòtaancór trèma, si spègne,risórge, trèma, si spègne.Nón sʼòde vóce dél mare.

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Or sʼode su tutta la frondacrosciarelʼargentea pioggia che monda,il croscio che variasecondo la frondapiù folta, men folta.Ascolta.La figlia dellʼariaè muta; ma la figlia del limo lontana,la rana,canta nellʼombra più fonda,chi sa dove, chi sa dove!E piove su le tue ciglia,Ermione.

Piove su le tue ciglia neresì che par tu piangama di piacere; non biancama quasi fatta virente,par da scorza tu esca.E tutta la vita è in noi frescaaulente,il cuor nel petto è come pescaintatta,tra le palpebre gli occhison come polle tra lʼerbe,i denti negli alveolison come mandorle acerbe.E andiam di fratta in fratta,or congiunti or disciolti(e il verde vigor rudeci allaccia i malleolicʼintrica i ginocchi)chi sa dove, chi sa dove!E piove su i nostri voltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimenti leggieri,su i freschi pensieriche lʼanima schiudenovella,su la favola bellache ieri mʼilluse, che oggi tʼillude,o Ermione.

da “Alcyone” di Gabriele DʼAnnunzio

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Ór sʼòde su tutta la fróndacrosciarelʼargèntea piòggia ché mónda,il cròscio ché variasecóndo la fróndapiù fólta, mén fólta.Ascólta.La figlia déllʼariaè muta; ma la figlia dél limo lontana,la rana,canta néllʼómbra più fónda,chi sa dóve, chi sa dóve!É piove su lé tue ciglia,Ermióne.

Piòve su lé tue ciglia néresì ché par tu piangama di piacére; nón biancama quaši fatta virènte,par da scòrza tu èsca.É tutta la vita è in nói fréscaaulènte,il cuòr nél pètto è cóme pèscaintatta,tra lé palpebre gli òcchisón cóme pólle tra l ̓èrbe,i dènti négli alvèolisón cóme mandorle acèrbe.É andiam di fratta in fratta,ór congiunti ór disciòlti(é il vérde vigór rudeci allaccia i mallèolicʼintrica i ginòcchi)chi sa dóve, chi sa dóve!É piòve su i nòstri vóltisilvani,piòve su lé nòstre maniignude,su i nòstri vestiménti leggièri,su i fréschi pensièriché lʼanima schiudenovèlla,su la favola bèllaché ièri mʼilluše, ché òggi tʼillude,ó Ermióne.

da “Alcyóne” di Gabriéle DʼAnnunzio

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I pastori

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.Ora in terra dʼAbruzzi i miei pastorilascian gli stazzi e vanno verso il mare:scendono allʼAdriatico selvaggioche verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fontialpestri, che sapor dʼacqua natìarimanga neʼcuori esuli a conforto,che lungo illuda la lor sete in via.Rinnovato hanno verga dʼavellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,quasi per un erbal fiume silente,su le vestigia degli antichi padri.O voce di colui che primamenteconosce il tremolar della marina!

Ora lungh ̓esso il litoral camminala greggia. Senza mutamento è lʼaria.Il sole imbionda sì la viva lanache quasi dalla sabbia non divaria.Isciacquìo, calpestìo, dolci romori.

Ah perché non son io co ̓miei pastori?

da “Alcyone” di Gabriele DʼAnnunzio

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I pastóri

Settèmbre, andiamo. È tèmpo di migrare.Óra in tèrra dʼAbruzzi i mièi pastórilascian gli stazzi é vanno vèrso il mare:scéndono allʼAdriatico selvaggioché vérde è cóme i pascoli déi mónti.

Han bevuto profondaménte ai fóntialpèstri, ché sapór dʼacqua natìarimanga néʼcuòri èšuli a confòrto,ché lungo illuda la lór séte in via.Rinnovato hanno vérga dʼavellano.

É vanno pél tratturo antico al piano,quaši pér un erbal fiume silènte,su lé vestigia dégli antichi padri.Ó vóce di colui ché primaménteconósce il tremolar délla marina!

Óra lungh ̓ésso il litoral camminala gréggia. Sènza mutaménto è lʼaria.Il sóle imbiónda sì la viva lanaché quaši dalla sabbia nón divaria.Isciacquìo, calpestìo, dólci romóri.

Ah perché nón són io có ̓mièi pastóri?

da “Alcyóne” di Gabriéle DʼAnnunzio

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Sono una creatura

Come questa pietra del San Michelecosì freddacosì duracosì prosciugatacosì refrattariacosì totalmentedisanimata.

Come questa pietraè il mio piantoche non si vede.

La morte si scontavivendo. da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

San Martino del Carso

Di queste casenon è rimastoche qualche brandello di muro.

Di tantiche mi corrispondevanonon è rimasto neppure tanto.

Ma nel cuorenessuna croce manca.

E ̓il mio cuoreil paese più straziato.

da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

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Sóno una creatura

Cóme quésta piètra dél San Michèlecosì fréddacosì duracosì prosciugatacosì refrattariacosì totalméntedišanimata.

Cóme quésta piètraè il mio piantoché nón si véde.

La mòrte si scóntavivèndo.

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

San Martino dél Carso

Di quéste casenón è rimastoché qualche brandèllo di muro.

Di tantiché mi corrispondévanonón è rimasto neppure tanto.

Ma nél cuòrenessuna cróce manca.

È il mio cuòreil paéše più straziato.

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

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Veglia

Unʼintera nottatabuttato vicino al compagno massacratocon la sua bocca digrignatavolta al pleniluniocon la congestionedelle sue manipenetratanel mio silenzioho scrittolettere piene dʼamore.

Non sono mai statotanto attaccato alla vita.

da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

Fratelli

Di che reggimento sietefratelli?

Parola tramantenella notte

Foglia appena nata

Nellʼaria spasimanteinvolontaria rivolta dellʼuomo presente alla suafragilità

Fratelli

da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

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Véglia

Unʼintèra nottatabuttato vicino al compagno massacratocón la sua bócca digrignatavòlta al pleniluniocón la congestiónedélle sue manipenetratanél mio silènziohò scrittolèttere piène dʼamóre.

Nón sóno mai statotanto attaccato alla vita.

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

Fratèlli

Di ché reggiménto siètefratèlli?

Paròla tramantenélla nòtte

Fòglia appéna nata

Néllʼaria spašimanteinvolontaria rivòlta déllʼuòmo prešènte alla suafragilità

Fratèlli

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

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Soldati

Si sta come dʼautunnosugli alberile foglie da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

Natale

Non ho voglia di tuffarmiin un gomitolo di strade

Ho tanta stanchezzasulle spalle Lasciatemi cosìcome una cosa posatain un angoloe dimenticata

Qui non si sentealtroche il caldo buono

Stocon le quattro caprioledi fumodel focolare

da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

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Soldati

Si sta cóme dʼautunnosugli alberilé fòglie.

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

Natale

Nón hò vòglia di tuffarmiin un gomitolo di strade

Hò tanta stanchézzasulle spalle Lasciatemi cosìcóme una còsa posatain un angoloé dimenticata

Qui nón si sèntealtroché il caldo buòno

Stòcón lé quattro capriòledi fumodél focolare

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

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Vanità

Dʼimprovvisoè alto sulle macerieil limpidostuporedellʼimmensità

E lʼuomocurvato sullʼacquasorpresa dal solesi rinvieneunʼombra

Cullata e pianofranta

da “L̓ allegria” di Giuseppe Ungaretti

Non gridate più

Cessate dʼuccidere i morti,non gridate più, non gridatese li volete ancora udire,se sperate di non perire.

Hanno lʼimpercettibile sussurro,non fanno più rumoredel crescere dellʼerba,lieta dove non passa lʼuomo.

da “Il dolore” di Giuseppe Ungaretti

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Vanità

Dʼimprovvisoè alto sulle macèrieil limpidostupóredellʼimmensità

É lʼuòmocurvato sullʼacquasorprésa dal sólesi rinvièneunʼómbra

Cullata é pianofranta

da “L̓ allegria” di Giusèppe Ungarétti

Nón gridate più

Cessate dʼuccidere i mòrti,nón gridate più, nón gridatesé li voléte ancóra udire,sé sperate di nón perire.

Hanno lʼimpercettibile sussurro,nón fanno più rumóredél créscere déllʼèrba,lièta dóve nón passa lʼuòmo.

da “Il dolóre” di Giusèppe Ungarétti

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Padre, se anche tu non fossi…

Padre, se anche tu non fossi il miopadre,per te stesso egualmente tʼamerei.Ché mi ricordo dʼun mattin dʼinvernoche la prima viola sullʼoppostomuro scopristi dalla tua finestrae ce ne desti la novella allegro.E subito la scala tolta in spalladi casa uscisti e lʼappoggiavi al muro.Noi piccoli dai vetri si guardava.

E di quellʼaltra volta mi ricordoche la sorella, bambinetta ancora,per la casa inseguivi minacciando.Ma raggiuntala che strillava fortedalla paura, ti mancava il cuore:tʼeri visto rincorrere la tua piccola figlia e, tutta spaventata,tu vacillando lʼattiravi al pettoe con carezze la ricoveravitra le tue braccia come per difenderlada quel cattivo chʼeri tu prima.

Padre, se anche tu non fossi il miopadre, se anche fossi a me un estraneo,fra tutti quanti gli uominipel tuo cuore fanciullo tʼamerei.

da “Poesie” di Camillo Sbarbaro

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Padre, sé anche tu nón fossi…

Padre, sé anche tu nón fóssi il mio padre,pér té stésso egualménte tʼamerèi.Ché mi ricòrdo dʼun mattin dʼinvèrnoché la prima viòla sullʼoppóstomuro scopristi dalla tua finèstraé cé né désti la novèlla allégro.É subito la scala tòlta in spalladi casa uscisti é lʼappoggiavi al muro.Nói piccoli dai vétri si guardava.

É di quéllʼaltra vòlta mi ricòrdoché la sorèlla, bambinétta ancóra,pér la casa inseguivi minacciando.Ma raggiuntala ché strillava fòrtedalla paura, ti mancava il cuòre:tʼèri visto rincórrere la tua piccola figlia é, tutta spaventata,tu vacillando lʼattiravi al pèttoé cón carézze la ricoveravitra lé tue braccia cóme pér difènderlada quél cattivo chʼèri tu prima.

Padre, sé anche tu nón fóssi il miopadre, sé anche fóssi a mé un estraneo,fra tutti quanti gli uòminipél tuo cuòre fanciullo tʼamerèi.

da “Poešie” di Camillo Sbarbaro

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Taci, anima stanca di godere

Taci, anima stanca di goderee di soffrire (allʼuno e allʼaltro vai rassegnata).Ascolto e non mi giunge una tua voce.Non di rimpianto per la miserabilegiovinezza, non dʼira e di speranza, e neppure di tedio. Ammutolita giaci col corpo in una disperata indifferenza. Noi ci stupiremmonon è vero, mia anima, se adessoil cuore sʼarrestasse, se sospesoci fosse il fiato… Invece camminiamo.E gli alberi son alberi, le casesono case, le donneche passano son donne e tutto è quelloche è – soltanto quello che è.

La vicenda di gioia e di dolorenon ci tocca. Perduto ha la vocela sirena del mondo e il mondo è un grandedeserto. Nel desertoio guardo con occhi asciutti me stesso.

da “Poesie” di Camillo Sbarbaro

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Taci, anima stanca di godére

Taci, anima stanca di godéreé di soffrire (allʼuno é allʼaltro vai rassegnata).Ascólto é nón mi giunge una tua vóce.Nón di rimpianto pér la mišerabilegiovinézza, nón dʼira é di speranza, é neppure di tèdio. Ammutolita giaci cól còrpo in una disperata indifferènza. Nói ci stupirémmonón è véro, mia anima, sé adèssoil cuòre sʼarrestasse, sé sospésoci fósse il fiato… Invéce camminiamo.É gli alberi són alberi, lé casesóno case, lé dònneché passano són dònne é tutto è quélloché è – soltanto quéllo ché è.

La vicènda di giòia é di dolórenón ci tócca. Perduto ha la vócela sirèna dél móndo é il móndo è un grandedešèrto. Nél dešèrtoio guardo cón òcchi asciutti mé stésso.

da “Poešie” di Camillo Sbarbaro

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Ora che sei venuta

Ora che sei venuta,che con passo di danza sei entratanella mia vitaquasi folata in una stanza chiusaa festeggiarti, bene tanto atteso,le parole mi mancano e la vocea tacerti vicino già mi basta.

Il pigolìo così che assorda il boscoal nascere dellʼalba, ammutoliscequando sullʼorizzonte balza il sole.

Ma te la mia inquietudine cercavaquando ragazzonella notte dʼestate mi facevoalla finestra come soffocato:che non sapevo, mʼaffannava il cuore.E tutte tue sono le paroleche, come lʼacqua allʼorlo che trabocca,alla bocca venivano da sole,lʼore deserte, quando sʼavanzavanpuerilmente le mie labbra dʼuomoda sé, per desiderio di baciare….

da “Versi a Dina”, in “Poesia e prosa” di Camillo Sbarbaro

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Óra ché sèi venuta

Óra ché sèi venuta,ché cón passo di danza sèi entratanélla mia vitaquaši folata in una stanza chiusaa festeggiarti, bène tanto attéso,lé paròle mi mancano é la vócea tacérti vicino già mi basta.

Il pigolìo così ché assórda il bòscoal nascere déllʼalba, ammutoliscequando sullʼoriζζónte balza il sóle.

Ma té la mia inquietudine cercavaquando ragazzonélla nòtte dʼestate mi facévoalla finèstra cóme soffocato:ché nón sapévo, mʼaffannava il cuòre.É tutte tue sóno lé paròleché, cóme lʼacqua allʼórlo ché trabócca,alla bócca venivano da sóle,lʼóre dešèrte, quando sʼavanzavanpuerilménte lé mie labbra dʼuòmoda sé, pér desidèrio di baciare….

da “Vèrsi a Dina”, in “Poešia é pròša” di Camillo Sbarbaro

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La bambina che va sotto gli alberi

La bambina che va sotto gli alberinon ha che il peso della sua treccia,un fil di canto in gola.Canta sola e salta per la strada; ché non sache mai bene più grande non avràdi quel po ̓dʼoro vivo per le spalle,di quella gioia in gola.

A noi che non abbiamoaltra felicità che di parole, e non lʼacceso fiocco e non la moltasperanza che fa grosso a quella il cuore,se non è troppo chiedere, sia toltaprima la vita di quel solo bene.

da “Poesie” di Camillo Sbarbaro

Sonno, dolce fratello della Morte

Sonno, dolce fratello della Morte,che dalla Vita per un po ̓ci affranchima ci rilasci tosto in sua baliacome gatto che gioca col gomitolo;di te, finché la mia vita giustifichila vita della mia sorella e un segnoche son vissuto anchʼio finché non lasci,io mi contenterò e del tuo inganno. Vieni, consolatore degli afflitti.Abolisci per me lo spazio e il tempoe nel nulla dissolvi questo io.Nessun bambino mai così fidentesʼabbandonò sul seno della madre comʼio nelle tue mani mʼabbandono. Quando si dorme non si sa più nulla.

da “Poesie” di Camillo Sbarbaro

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La bambina ché va sótto gli alberi

La bambina ché va sótto gli alberinón ha ché il péso délla sua tréccia,un fil di canto in góla.Canta sóla é salta pér la strada; ché nón saché mai bène più grande nón avràdi quél pò dʼòro vivo pér lé spalle,di quélla giòia in góla.

A nói ché nón abbiamoaltra felicità ché di paròle, é nón lʼaccéso fiòcco é nón la móltasperanza ché fa gròsso a quélla il cuòre,sé nón è tròppo chièdere, sia tòltaprima la vita di quél sólo bène.

da “Poešie” di Camillo Sbarbaro

Sónno, dólce fratèllo délla Mòrte

Sónno, dólce fratèllo délla Mòrte,ché dalla Vita pér un pò ̓ci affranchima ci rilasci tòsto in sua baliacóme gatto ché giòca cól gomitolo;di té, finché la mia vita giustifichila vita délla mia sorèlla é un ségnoché són vissuto anchʼio finché nón lasci,io mi contenterò é dél tuo inganno. Vièni, consolatóre dégli afflitti.Abolisci pér mé ló spazio é il tèmpoé nél nulla dissòlvi quésto io.Nessun bambino mai così fidèntesʼabbandonò sul séno délla madre cómʼio nélle tue mani mʼabbandóno. Quando si dòrme nón si sa più nulla.

da “Poešie” di Camillo Sbarbaro

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Meriggio

Meriggiare pallido e assortopresso un rovente muro dʼorto,ascoltare tra i pruni e gli sterpischiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la vecciaspiar le file di rosse formichechʼora si rompono ed ora sʼintreccianoa sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitarelontano di scaglie di marementre si levano tremuli scricchidi cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbagliasentire con triste meraviglia comʼè tutta la vita e il suo travaglioin questo seguitare una muragliache ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni latolʼanimo nostro informe, e a lettere di fuocolo dichiari e risplenda come un crocoperduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah lʼuomo che se ne va sicuro,agli altri ed a se stesso amico,e lʼombra sua non cura che la canicolastampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.Codesto solo oggi possiamo dirti,ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale

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Meriggio

Meriggiare pallido é assòrtoprèsso un rovènte muro dʼòrto,ascoltare tra i pruni é gli stèrpischiòcchi di mèrli, frusci di sèrpi.

Nélle crèpe dél suòlo ó su la vécciaspiar lé file di rósse formichech ̓óra si rómpono éd óra sʼintréccianoa sómmo di minuscole biche.

Osservare tra fróndi il palpitarelontano di scaglie di mareméntre si lèvano trèmuli scricchidi cicale dai calvi picchi.

É andando nél sóle ché abbagliasentire cón triste meraviglia comʼè tutta la vita é il suo travaglioin quésto seguitare una muragliaché ha in cima còcci aguzzi di bottiglia.

da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale

Nón chièderci la paròla

Nón chièderci la paròla ché squadri da ógni latolʼanimo nòstro infórme, é a lèttere di fuòcoló dichiari é risplènda cóme un cròcoperduto in mèzzo a un polveróso prato.

Ah lʼuòmo ché sé né va sicuro,agli altri éd a sé stésso amico,é lʼómbra sua nón cura ché la canicolastampa sópra uno scalcinato muro!

Nón domandarci la fòrmula ché móndi pòssa aprirti,sì qualche stòrta sillaba é sécca cóme un ramo.Codésto sólo òggi possiamo dirti,ciò ché nón siamo, ciò ché nón vogliamo.

da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale

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Ho sceso dandoti il braccio…

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scalee ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.Il mio dura tuttora, né più mi occorronole coincidenze, le prenotazioni,le trappole, gli scorni di chi credeche la realtà sia quella che si vede.Ho sceso milioni di scale dandoti il braccionon già perché con quattrʼocchi forse si vede di più.Con te le ho scese perché sapevo che di noi duele sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,erano le tue.

da “Satura” di Eugenio Montale

Forse un mattino

Forse un mattino andando in unʼaria di vetro,arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:il nulla alle mie spalle, il vuoto dietrodi me, con un terrore di ubriaco.Poi come uno schermo, sʼaccamperanno di gittoalberi case colli per lʼinganno consueto.Ma sarà troppo tardi; ed io me nʼandrò zittotra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale

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Hò scéso dandoti il braccio…

Hò scéso, dandoti il braccio, alméno un milióne di scaleé óra ché nón ci sèi è il vuòto ad ógni gradino.Anche così è stato brève il nòstro lungo viaggio.Il mio dura tuttóra, né più mi occórronolé coincidènze, lé prenotazióni,lé trappole, gli scòrni di chi crédeché la realtà sia quélla ché si véde.Hò scéso milióni di scale dandoti il braccionón già perché cón quattrʼòcchi fórse si véde di più.Cón té lé hò scése perché sapévo ché di nói duelé sóle vére pupille, sebbène tanto offuscate,èrano lé tue.

da “Satura” di Eugènio Montale

Fórse un mattino

Fórse un mattino andando in unʼaria di vétro,arida, rivolgèndomi, vedrò compirsi il miracolo:il nulla alle mie spalle, il vuòto diètrodi mé, cón un terróre di ubriaco.Pòi cóme uno schérmo, sʼaccamperanno di gittoalberi case còlli pér lʼinganno consuèto.Ma sarà tròppo tardi; éd io mé nʼandrò zittotra gli uòmini ché nón si voltano, cól mio segréto.

da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale

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Ripenso il tuo sorriso Ripenso il tuo sorriso, ed è per me unʼacqua limpidascorta per avventura tra le pietraie dʼun greto,esiguo specchio in cui guardi unʼellera i suoi corimbi;e su tutto lʼabbraccio dʼun bianco cielo quieto.Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,se dal tuo volto sʼesprime libera unʼanima ingenua,o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenuae recano il loro soffrire con sé come un talismano.Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigiesommerge i crucci estrosi in unʼondata di calma,e che il tuo aspetto sʼinsinua nella mia memoria grigiaschietto come la cima dʼuna giovinetta palma…

da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale

Spesso il male di vivere Spesso il male di vivere ho incontrato:era il rivo strozzato che gorgoglia,era lʼincartocciarsi della fogliariarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigioche schiude la divina Indifferenza :era la statua nella sonnolenzadel meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

da “Ossi di seppia” di Eugenio Montale

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Ripènso il tuo sorriso Ripènso il tuo sorriso, éd è pér mé unʼacqua limpidascòrta pér avventura tra lé pietraie dʼun gréto,ešiguo spècchio in cui guardi unʼéllera i suòi corimbi;é su tutto lʼabbraccio dʼun bianco cièlo quièto.Codésto è il mio ricòrdo; nón saprèi dire, ó lontano,sé dal tuo vólto sʼesprime libera unʼanima ingènua,ó véro tu sèi déi raminghi ché il male dél móndo estènuaé rècano il lóro soffrire cón sé cóme un tališmano.Ma quésto pòsso dirti, ché la tua pensata effigiesommèrge i crucci estrósi in unʼondata di calma,é ché il tuo aspètto sʼinsinua nélla mia memòria grigiaschiètto cóme la cima dʼuna giovinétta palma…

da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale

Spésso il male di vivere Spésso il male di vivere hò incontrato:èra il rivo strozzato ché gorgóglia,èra lʼincartocciarsi délla fògliariarsa, èra il cavallo stramazzato.

Bène nón sèppi, fuòri dél prodigioché schiude la divina Indifferènza:èra la statua nélla sonnolènzadél meriggio, é la nuvola, é il falco alto levato.

da “Òssi di séppia” di Eugènio Montale

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Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terratrafitto da un raggio di sole:ed è subito sera.

da “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo

Alle fronde dei salici

E come potevamo noi cantarecon il piede straniero sopra il cuore,fra i morti abbandonati nelle piazzesullʼerba dura di ghiaccio, al lamento dʼagnello dei fanciulli, allʼurlo nerodella madre che andava incontro al figliocrocifisso sul palo del telegrafo?Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese,oscillavano lievi al triste vento.

da “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo

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Éd è subito séra

Ognuno sta sólo sul cuòr délla tèrratrafitto da un raggio di sóle:éd è subito séra. da “Éd è subito séra” di Salvatóre Quašimodo

Alle frónde déi salici

É cóme potevamo nói cantarecón il piède stranièro sópra il cuòre,fra i mòrti abbandonati nélle piazzesullʼèrba dura di ghiaccio, al laménto dʼagnèllo déi fanciulli, allʼurlo nérodélla madre ché andava incóntro al figliocrocifisso sul palo dél telègrafo?Alle frónde déi salici, pér vóto, anche lé nòstre cétre èrano appése,oscillavano lièvi al triste vènto.

da “Giórno dópo giórno” di Salvatóre Quašimodo

Nota: cétra è lʼantico e noto strumento musicale.cètra è uno scudo piuttosto piccolo e rotondo in uso fin dalla antichità presso popolazioni africane ed ispaniche.

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Uomo del mio tempo

Sei ancora quello della pietra e della fionda,uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,con le ali maligne, le meridiane di morte,-tʼho visto- dentro il carro di fuoco, alle forche,alle ruote di tortura. Tʼho visto: eri tucon la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,come sempre, come uccisero i padri, come ucciserogli animali che ti videro per la prima volta.E questo sangue odora come nel giornoquando il fratello disse allʼaltro fratello:“Andiamo ai campi”. E quellʼeco fredda, tenace,è giunta fino a te, dentro la tua giornata.Dimenticate, o figli, le nuvole di sanguesalite dalla terra, dimenticate i padri:le loro tombe affondano nella cenere,gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

da “Giorno dopo giorno” di Salvatore Quasimodo

Milano, agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere,povera mano, la città è morta.È morta: sʼè udito lʼultimo rombosul cuore del Naviglio. E lʼusignoloè caduto dallʼantenna, alta sul convento,dove cantava prima del tramonto.Non scavate pozzi dai cortili:i vivi non hanno più sete.Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:lasciateli nella terra delle loro case:la città è morta, è morta.

da “Tutte le poesie” di Salvatore Quasimodo

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Uòmo dél mio tèmpo

Sèi ancóra quéllo délla piètra é délla fiónda,uòmo dél mio tèmpo. Èri nélla carlinga,cón lé ali maligne, lé meridiane di mòrte,-tʼhò visto- déntro il carro di fuòco, alle fórche,alle ruòte di tortura. Tʼhò visto: èri tucón la tua sciènza ešatta persuaša allo sterminio,sènza amóre, sènza Cristo. Hai uccišo ancóra,cóme sèmpre, cóme uccišero i padri, cóme uccišerogli animali ché ti videro pér la prima vòlta.É quésto sangue odóra cóme nél giórnoquando il fratèllo disse allʼaltro fratèllo:“Andiamo ai campi”. É quéllʼèco frédda, tenace,è giunta fino a té, déntro la tua giornata.Dimenticate, ó figli, lé nuvole di sanguesalite dalla tèrra, dimenticate i padri:lé lóro tómbe affóndano nélla cénere,gli uccèlli néri, il vènto, còprono il lóro cuòre.

da “Giórno dópo giórno” di Salvatóre Quašimodo

Milano, agósto 1943

Invano cérchi tra la pólvere,pòvera mano, la città è mòrta.È mòrta: sʼè udito lʼultimo rómbosul cuòre dél Naviglio. É lʼušignòloè caduto dallʼanténna, alta sul convènto,dóve cantava prima dél tramónto.Nón scavate pózzi dai cortili:i vivi nón hanno più séte.Nón toccate i mòrti, così róssi, così gónfi:lasciateli nélla tèrra délle lóro case:la città è mòrta, è mòrta.

da “Tutte lé poešie” di Salvatóre Quašimodo

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ESERCIZI DI LETTURA ORTOEPICA

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GALILÈO GALILÈI

Galilèi enuncia il principio dʼinèrzia

Rinserratevi cón qualche amico nélla maggióre stanza ché sia sótto covèrta di alcun gran navilio, é quivi fate dʼavér mósche, farfalle é simili animalétti volanti; siavi anco un gran vašo dʼacqua é déntrovi dé ̓ pescétti; sospèndasi anco in alto qualche secchièllo ché a góccia a góccia vadia versando déllʼacqua in un altro vašo di angusta bócca, ché sia pósto a basso é, stando férma la nave, osservate diligenteménte cóme quélli animalétti volanti cón pari velocità vanno vèrso tutte lé parti délla stanza; i pésci si vedranno andar notando indifferenteménte pér tutti i vèrsi, lé stille cadènti entreranno tutte nél vašo sottopósto; é vói, gettando allʼamico alcuna còsa, nón più gagliardaménte la dovréte gettare vèrso quélla parte ché vèrso quésta quando lé lontananze sièno eguali; é saltando vói, cóme si dice, a piè giunti, eguali spazii passeréte vèrso tutte lé parti. Osservate ché avréte diligenteménte tutte quéste còse, benché niun dubbio ci sia ché méntre il vascèllo stà férmo nón dèbbano succèder còsì, fate muòver la nave cón quanta si vòglia velocità; (purché il mòto sia unifórme é nón fluttuante in qua é in là) vói nón riconosceréte una minima mutazióne in tutti li nominati effètti, né da alcuno di quélli potréte comprènder sé la nave cammina ó pure sta férma: vói saltando passeréte nél tavolato i medéšimi spazii ché prima, né, perché la nave si muòva velocissimaménte, faréte maggióri salti vèrso la póppa ché vèrso la prua, benché, nél tèmpo ché vói state in aria, il tavolato sottopóstovi scórra vèrso la parte contraria al vòstro salto; é gettando alcuna còsa al compagno, nón cón più fòrza bišognerà tirarla, pér arrivarlo, sé égli sarà vèrso la prua é vói vèrso la póppa, che sé vói fuste situati pér lʼoppòšito; lé gócciole cadranno cóme prima nél vašo inferióre, sènza cadérne pur una vèrso póppa, benché, méntre la gócciola è pér aria, la nave scórra mólti palmi; i pésci nélla lóro acqua nón cón più fatica noteranno vèrso la precedènte ché vèrso la susseguènte parte dél vašo, ma cón pari agevolézza verranno al cibo pósto su qualsivòglia luògo déllʼórlo dél vašo; é finalménte lé farfalle é lé mósche continueranno i lóro vóli indifferenteménte vèrso tutte lé parti, né mai accadrà ché si riduchino vèrso la parte ché riguarda la póppa, quaši ché fussero stracche in tenér diètro al velóce córso délla

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nave, dalla quale pér lungo tèmpo, trattenèndosi pér aria, saranno state separate; é sé abbruciando alcuna lagrima dʼincènso si farà un pòco di fumo, vedrassi ascénder in alto éd a guiša di nuvolétta trattenérvisi, é indifferenteménte muòversi nón più vèrso quésta ché vèrso quélla parte. É di tutta quésta corrispondènza dʼeffètti né è cagióne lʼèsser il mòto délla nave comune a tutte lé còse contenute in éssa éd allʼaria ancóra, ché pér ciò dissi io ché si stésse sótto covèrta ; ché quando si stésse di sópra é néllʼaria apèrta é nón seguace dél córso délla nave, differènze più é mén notabili si vedrèbbero in alcuni dégli effètti nominati: é nón è dubbio ché il fumo resterèbbe in diètro, quanto lʼaria stéssa; lé mósche pariménti é lé farfalle, impedite dallʼaria, nón potrèbber seguir il mòto délla nave, quando da éssa pér spazio assai notabile si separassero; ma trattenèndovisi vicine, perché la nave stéssa, cóme di fabbrica anfrattuósa, pòrta séco parte déllʼaria sua pròssima, sènza intòppo ó fatica seguirèbber la nave, é pér simil cagióne veggiamo tal vòlta, nél córrer la pòsta, lé mósche importune é i tafani seguir i cavalli, volandogli óra in quésta éd óra in quélla parte dél còrpo; ma nélle gócciole cadènti pochissima sarèbbe la differènza, é né i salti é né i proiètti gravi, dél tutto impercettibile.

da “Dialogo sópra i due massimi sistèmi dél móndo” di Galilèo Galilèi

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UGO FÓSCOLO

Da ̓Còlli Euganei, 11 ottóbre 1797

Il sacrificio délla patria nòstra è consumato: tutto è perduto; é la vita, seppure né verrà concèssa, nón ci resterà ché pér piangere lé nòstre sciagure é la nòstra infamia. Il mio nóme è nélla lista di proscrizióne, ló sò: ma vuòi tu chʼio pér salvarmi da chi mʼopprime mi commétta a chi mi ha tradito? Consóla mia madre: vinto dalle sue lacrime lé hò ubbidito, é hò lasciato Venèzia pér evitare lé prime persecuzióni, é lé più feróci. Ór dovrò io abbandonare anche quésta mia solitudine antica, dóve, sènza pèrdere dagli òcchi il mio sventurato paéše, pòsso ancóra sperare qualche giórno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorènzo; quanti sóno dunque gli sventurati? É nói, purtròppo, nói stéssi Italiani ci laviamo lé mani nél sangue déglʼItaliani. Pér mé ségua ché può. Poiché hò disperato é délla mia patria é di mé, aspètto tranquillaménte la prigióne é la mòrte. Il mio cadavere alméno nón cadrà tra braccia stranière; il mio nóme sarà sommessaménte compianto da ̓ pòchi uòmini buòni, compagni délle nòstre mišèrie; é lé mie òssa poseranno su la tèrra dé ̓miéi padri.

26 ottóbre 1797

L̓ hò veduta, ó Lorènzo, la divina fanciulla; é té né ringrazio. La trovai seduta, miniando il pròprio ritratto. Si rizzò salutandomi cóme sʼélla mi conoscésse, é ordinò a un servitóre ché andasse a cercare di suo padre. Égli nón sperava, mi dissʼélla, ché vói saréste venuto; sarà pér la campagna; né starà mólto a tornare. Una ragazzina lé córse fra lé ginòcchia dicèndole nón sò ché allʼorécchio.È lʼamico di Lorènzo, lé rispóse Terèsa, è quéllo ché il babbo andò a trovare lʼaltrʼièri…Io tornava a casa cól cuòre in fèsta.- Ché? ló spettacolo délla bellézza basta fórse ad addormentare in nói tristi mortali tutti i dolóri? Védi pér mé una sorgènte di vita: unica cèrto, é chi sa! fatale.Ma sé io sóno predestinato ad avére lʼanima perpetuaménte in tempèsta, nón è tuttʼuno?

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17 marzo 1798

Da due mési nón ti dò ségno di vita, é tu ti sè ̓ sgomentato; é témi chʼio sia vinto oggimai dallʼamóre da dimenticarmi di té é délla patria. Fratèl mio Lorènzo, tu conòsci pur pòco mé é il cuòre umano éd il tuo, sé prešumi ché il desidèrio di patria pòssa temperarsi, mai , nón ché spègnersi; sé crédi ché cèda ad altre passióni — bèn irrita lé altre passióni, é nʼè più irritato; éd è pur véro, é in quésto hai détto pur bène! L̓ amóre in unʼanima ešulcerata, é dóve lé altre passióni sóno disperate, rièsce onnipotènte — é io ló pròvo; ma ché rièsca funèsto, tʼinganni: sènza Terèsa, io sarèi fórse òggi sottèrra. La Natura crèa di pròpria autorità tali ingégni da nón potér èssere sé nón generósi; vénti anni addiètro sì fatti ingégni si rimanévano inèrti éd assiderati nél sopóre universale dʼItalia: ma i tèmpi dʼòggi hanno ridestato in éssi lé virili é natìe lóro passióni: éd hanno acquistato tal tèmpra, ché spezzarli puòi, piegarli nón mai. É nón è sentènza metafišica quésta: la è verità ché splènde nélla vita di mólti antichi mortali gloriosaménte infelici; verità di cui mi sóno accertato convivèndo fra mólti nòstri concittadini; é li compiango insième é gli ammiro; da ché sé Dio nón ha pietà déllʼItalia, dovranno chiudere nél lóro secrèto il desidèrio di patria — funestissimo! perché ó strugge ó addolóra tutta la vita; é nondiméno anziché abbandonarlo, avranno cari i pericoli, é quéllʼangòscia, é la mòrte. Éd io mi sóno uno di quésti; é tu, mio Lorènzo. Ma sʼio scrivéssi intórno a quéllo chʼio vidi é sò délle còse nòstre, farèi còsa superflua é crudèle ridestando in vói tutti il furóre ché vorrèi pur sopire déntro di mé: piango, crédimi, la patria — la piango secretaménte, é desidero

Ché lé lagrime mie si spargan sóle.

Unʼaltra spècie di amatóri dʼItalia si querèli ad altissima vóce a sua pòsta.Esclamano dʼèsser stati venduti é traditi: ma sé si fóssero armati, sarèbbero stati vinti fórse, nón mai traditi, é sé si fóssero difési sino allʼultimo sangue, né i vincitóri avrèbbero potuto vénderli, né i vinti si sarèbbero attentati di comperarli.Sé nón ché moltissimi dé ̓ nòstri prešumono ché la libertà si pòssa comperare a danaro; prešumono ché lé nazióni stranière vèngano pér

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amóre déllʼequità a trucidarsi scambievolménte su ̓nòstri campi ónde liberare lʼItalia! Ma i Francéši ché hanno fatto parére ešecrabile la divina teoria délla pubblica libertà, faranno da Timoleóni in prò nòstro? — Moltissimi intanto si fidano nél Giòvine Eròe nato di sangue italiano: nato dóve si parla il nòstro idiòma. Io da un animo basso é crudèle, nón mʼaspetterò mai còsa utile éd alta pér nói.Ché mʼimpòrta chʼabbia il vigóre é il frèmito dél leóne, sé ha la ménte volpina, é sé né compiace?Sì, basso é crudèle — né gli epiteti sóno ešagerati. A ché nón ha égli venduto Venèzia cón apèrta é generósa feròcia? Selim I ché féce scannare sul Nilo trènta mila guerrièri Circassi arrésisi alla sua féde, é Nadir Schah ché nél nòstro sècolo trucidò trecènto mila Indiani, sóno più atróci, bensì méno sgradévoli. Vidi cón gli òcchi mièi una costituzióne democratica postillata dal Giòvine Eròe, postillata di mano sua; é mandata da Passeriano a Venèzia perché sʼaccettasse: é il trattato di Campo Fòrmio èra già da più giórni firmato é Venèzia èra trafficata; é la fiducia ché lʼEròe nutriva in nói tutti ha riempito lʼItalia di proscrizióni, dʼemigrazióni, é dʼešilj.—Nón accušo la ragióne di stato ché vénde, cóme branchi di pècore, lé nazióni: così fu sèmpre, é così sarà: piango la patria mia,

Ché mi fu tòlta, é il mòdo ancór mʼoffènde. Nasce Italiano, é soccorrerà un giórno alla patria: altri sél créda; io rispósi, é risponderò sèmpre: - La natura ló ha creato tiranno: é il tiranno nón guarda a patria; é nón lʼha.

da “Ultime lèttere di Jacopo Òrtis” di Ugo Fóscolo

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ALESSANDRO MANZÓNI

Addio, mónti…

Addio, mónti sorgènti dallʼacque, éd elevati al cièlo; cime inuguali, nòte a chi è cresciuto tra vói, é imprèsse nélla sua ménte, nón méno ché ló sia lʼaspètto déʼsuòi più familiari; torrènti, dé ̓quali distingue ló scròscio, cóme il suòno délle vóci domèstiche; ville sparse é biancheggianti sul pendio, cóme branchi di pècore pascènti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra vói, sé né allontana! Alla fantašia di quéllo stésso ché sé né parte volontariaménte, tratto dalla speranza di fare altróve fortuna, si dišabbelliscono, in quel moménto, i sógni délla ricchézza; égli si maraviglia dʼèssersi potuto risòlvere, é tornerèbbe allóra indiètro, sé nón pensasse ché, un giórno, tornerà dovizióso.Quanto più sʼavanza nél piano, il suo òcchio si ritira, dišgustato é stanco, da quéllʼampiézza unifórme; lʼaria gli par gravósa é mòrta; sʼinóltra mèsto é dišattènto nélle città tumultuóse; lé case aggiunte a case, lé strade ché sbóccano nélle strade, pare ché gli lèvino il respiro; é davanti agli edifizi ammirati dallo stranièro, pènsa, cón desidèrio inquièto, al campicèllo dél suo paéše, alla casuccia a cui ha già mésso gli òcchi addòsso, da gran tèmpo, é ché comprerà, tornando ricco a ̓suòi mónti.Ma chi nón avéva mai spinto al di là di quélli neppure un desidèrio fuggitivo, chi avéva compósti in éssi tutti i disegni déllʼavvenire, é nʼè sbalzato lontano, da una fòrza pervèrsa! Chi, staccato a un tèmpo dalle più care abitudini, é disturbato nélle più care speranze, lascia quéi mónti, pér avviarsi in traccia di sconosciuti ché nón ha mai desiderato di conóscere, é nón può cón lʼimmaginazióne arrivare a un moménto stabilito pér il ritórno! Addio, casa natìa, dóve, sedèndo, cón un pensièro occulto, sʼimparò a distinguere dal rumóre dé ̓passi comuni il rumóre dʼun passo aspettato cón un misterióso timóre. Addio, casa ancóra stranièra, casa sogguardata tante vòlte alla sfuggita, passando, é nón sènza rossóre; nélla quale la ménte si figurava un soggiórno tranquillo é perpètuo di spòša. Addio, chièša, dóve lʼanimo tornò tante vòlte seréno, cantando lé lòdi dél Signóre; dovʼèra promésso, preparato un rito; dóve il sospiro segréto dél cuòre dovéva èssere solenneménte benedétto, é lʼamóre venir comandato, é chiamarsi santo; addio! Chi dava a vói tanta giocondità è pér tutto; é nón turba mai la giòia dé ̓suòi figli, sé nón pér prepararne lóro una più cèrta é più grande….

da “I Proméssi spòši” di A. Manζóni

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IGNAZIO SILÓNE

La scélta délla libertà

La libertà nón è una còsa ché si pòssa ricévere in regalo…Si può vivere anche in paéše di dittatura éd èssere libero, a una sémplice condizióne, basta lottare cóntro la dittatura. L̓ uòmo ché pènsa cón la pròpria tèsta é consèrva il suo cuòre incorrótto, è libero.L̓ uòmo ché lòtta pér ciò ché égli ritiène giusto, è libero. Pér cóntro, si può vivere nél paéše più democratico délla tèrra, ma sé si è interiorménte pigri, ottuši, servili, nón si è liberi; malgrado lʼassènza di ógni coercizióne violènta, si è schiavi. Quésto è il male, nón bišógna implorare la pròpria libertà dagli altri. La libertà bišógna prèndersela, ognuno la porzióne ché può….

da “Vino é Pane” di I. Silóne

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ARIE LIRICHEORTOEPICHE

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L’ORTOEPIA NELLA MUSICA

Da quando ci occupiamo di ortoepia ci siamo accorti che anche nella musica lirica e nel canto in generale gli effetti di una buona dizione hanno un grande importanza.

A prescindere dalle preferenze che ciascun melomane ha per questo o quel cantante, si possono infatti “osservare”, se ci si impegna a farlo come nel caso della poesia, delle differenze molto significative. Ad esempio noi abbiamo imparato ad apprezzare e a provare maggior gioia nellʼascoltare quei cantanti che, a parità (per quanto questo sia possibile) di qualità tecniche e interpretative, hanno una miglior ortoepia. Abbiamo anche notato che i cantanti stranieri, a parte gli immancabili “accenti” dovuti alle caratteristiche della loro lingua originaria, sono a volte in possesso di una dizione che fa intravvedere impegno e studio in senso ortoepico. La ragione di questo è che forse, proprio perché stranieri, hanno cercato o comunque ricevuto lʼaiuto di validi maestri di dizione: cosa della quale non si sono preoccupati in genere i cantanti italiani.

Noi siamo convinti che sia una cosa totalmente diversa, tanto per fare un esempio, sentire Enzo iniziare la famosa romanza da “La Gioconda”, con “Cièlo é mar!- lʼetèreo vélo…” , oppure con “Ciélo è mar!-lʼetéreo vèlo…”. Ma forse siamo semplicemente suggestionati da questa nostra idea…, al punto che vi sono dei cantanti, da sempre amati e presenti nella nostra memoria, che ci diventano ogni giorno più cari poiché “rivisti” sotto questo aspetto. Possiamo proprio dire che per noi il parametro “dizione” riesce , ricorrendo a unʼespressione forse troppo usata, a “fare la differenza”.

Un altro aspetto interessante è che, riascoltando ora le voci dei grandi cantanti lirici in riferimento a momenti diversi della loro carriera ( che in alcuni casi si è protratta per molti decenni ), si possono cogliere dei cambiamenti, dei miglioramenti legati alla pronuncia; pensiamo che alcuni di essi siano giunti a capire lʼimportanza di una buona dizione al fine di accrescere la qualità e la bellezza del loro canto.

Le stesse considerazioni si possono fare anche nel campo della musica leggera, dove vi sono dei brani “immortali” che sono stati, e continuano a esserlo, interpretati da molti cantanti. Chi di noi, in alcuni

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momenti della giornata, non ha intonato qualche volta “Tu che mi hai preso il cuor…” ? Ebbene, ci sono una sostanziale differenza e una diversa musicalità fra “Tu ché mi hai préso il cuòr…” e “Tu chè mi hai prèšo il cuór…”.

L̓ ascolto di certi cantanti, oltre che procurarci una gioia in sé, ci ha fatto nascere una speranza. Poiché i brani da loro interpretati sono delle vere e proprie lezioni di ortoepia e un potente mezzo di comunicazione, e poiché i giovani spesso imitano, copiano i loro miti con estrema facilità, forse un domani potremo sentire le nuove generazioni esprimersi con un migliore italiano.

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Norma

Qual cor tradisti, qual cor perdestiquestʼora orrenda ti manifesti.Da me fuggire tentasti invano;crudel Romano, tu sei con me.

Un nume, un fato di te più forteci vuole uniti in vita e in morte.Sul rogo istesso che mi divora,sotterra ancora sarò con te.

Pollione

Ah! troppo tardi tʼho conosciuta…sublime donna, io tʼho perduta…Col mio rimorso è amor rinato,più disperato, furente egli è.

Moriamo insieme, ah! si, moriamo:lʼestremo accento sarà chʼio tʼamo.Ma tu morendo non mʼaborrire,pria di morire perdona a me.

Duetto Norma-Pollione dal 2° atto di “Norma” di V. Bellini. Libretto di Felice Romani.

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Nòrma

Qual còr tradisti, qual còr perdéstiquéstʼóra orrènda ti manifèsti.Da mé fuggire tentasti invano;crudèl Romano, tu sèi cón mé.

Un nume, un fato di té più fòrteci vuòle uniti in vita é in mòrte.Sul rógo istésso ché mi divóra,sottèrra ancóra sarò cón té.

Pollióne

Ah! tròppo tardi tʼhò conosciuta…sublime dònna, io tʼhò perduta…Cól mio rimòrso è amór rinato,più disperato, furènte égli è.

Moriamo insième, ah! sì, moriamo:lʼestrèmo accènto sarà chʼio tʼamo.Ma tu morèndo nón mʼaborrire,pria di morire perdóna a mé.

Duétto Nòrma-Pollióne dal 2° atto di “Nòrma” di V. Bellini. Librétto di Felice Romani.

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Arturo

A te, o cara, amor talorami guidò furtivo e in pianto;or mi guida a te dʼaccantotra la gioia e lʼesultar.Al brillar di sì bellʼora,se rammento il mio tormentosi raddoppia il mio contento,mʼè più caro il palpitar.

Aria di Arturo dal 1° atto de “I Puritani” di V. Bellini. Libretto di Carlo Pepoli.

Elvira

Qual mai funereavoce funestami scuote e desta dal mio martir!Se fui sì barbara,nel trarlo a morte,mʼavrà consortenel suo martir!!

Arturo

Credeasi, misera!da me tradita,traea sua vita in tal martir!Or sfido i fulmini,disprezzo il fato,se teco al latopotrò morir!

Duetto Elvira-Arturo dal 3° atto de “I Puritani” di V. Bellini.

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Arturo

A té , ó cara, amór talórami guidò furtivo é in pianto;ór mi guida a té dʼaccantotra la giòia é lʼešultar.Al brillar di sì bèllʼóra,sé ramménto il mio torméntosi raddóppia il mio contènto,mʼè più caro il palpitar.

Aria di Arturo dal 1° atto dé “I Puritani” di V. Bellini. Librétto di Carlo Pépoli.

Elvira

Qual mai funèreavóce funèstami scuòte é désta dal mio martir!Sé fui sì barbara,nél trarlo a mòrte,mʼavrà consòrtenél suo martir!!

Arturo

Credéasi, mišera!da mé tradita,traéa sua vita in tal martir!Ór sfido i fulmini,disprèzzo il fato,sé téco al latopotrò morir!

Duétto Elvira-Arturo dal 3° atto dé “I Puritani” di V. Bellini.

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Edgardo

Mʼodi e trema.Sulla tomba che rinserra il tradito genitore,al tuo sangue eterna guerraio giurai nel mio furore:Ma ti vidi…in cor mi nacquealtro affetto, e lʼira tacque…Pur quel voto non è infranto…Io potrei compirlo ancor!

Lucia

Deh! ti placa…deh! ti frena…Può tradirne un solo accento!Non ti basta la mia pena?Vuoi chʼio mora di spavento?Cela, cela ognʼaltro affetto,solo amor tʼinfiammi il petto…Ah! il più nobile, il più santode ̓tuoi voti è un puro amor!…………………………………

Lucia-Edgardo

Verranno a te sullʼaurai miei sospiri ardenti,udrai nel mar che mormoralʼeco de ̓miei lamenti…Pensando chʼio di gemitimi pasco e di dolor,spargi una mesta lagrimasu questo pegno allor!

Duetto Lucia-Edgardo dal 1° atto di “ Lucia di Lammermoor” di G. Donizetti. Libretto di Salvatore Cammarano.

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Edgardo

Mʼòdi é trèma.Sulla tómba ché rinsèrra il tradito genitóre,al tuo sangue etèrna guèrraio giurai nél mio furóre:Ma ti vidi…in còr mi nacquealtro affètto, é lʼira tacque…Pur quél vóto nón è infranto…Io potrèi compirlo ancór!

Lucia

Dèh! ti placa…dèh! ti fréna…Può tradirne un sólo accènto!Nón ti basta la mia péna?Vuòi chʼio mòra di spavènto?Céla, céla ognʼaltro affètto,sólo amór tʼinfiammi il pètto…Ah! il più nòbile, il più santodé ̓tuòi vóti è un puro amór!…………………….

Lucia-Edgardo

Verranno a té sullʼaurai mièi sospiri ardènti,udrai nél mar ché mórmoralʼèco dé ̓mièi laménti…Pensando chʼio di gèmitimi pasco é di dolór,spargi una mèsta lagrimasu quésto pégno allór!

Duétto Lucia-Edgardo dal 1° atto di “Lucia di Lammermoor” di G. Donizétti. Libretto di Salvatóre Cammarano.

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Va pensiero…

Va, pensiero, sullʼali dorate:va, ti posa sui clivi, sui colli,ove olezzano trepide e mollilʼaure dolci del suolo natal!

Del Giordano le rive saluta,di Sïonne le torri atterrate…Oh, mia patria sì bella e perduta!Oh, membranza sì cara e fatal!

Arpa dʼor dei fatidici vati,perché muta dal salice pendi?Le memorie nel petto riaccendi, ci favella del tempo che fu!

O simile di Solima ai fatitraggi un suono di crudo lamento,o tʼispiri il Signore un concentoche ne infonda al patire virtù!

Coro dal 3° atto del “Nabucco” di G. Verdi. Libretto di Temistocle Solera.

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Va pensièro…

Va, pensièro, sullʼali dorate:va, ti pòsa sui clivi, sui còlli,óve oléζζano trèpide é mòllilʼaure dólci dél suòlo natal!

Dél Giordano lé rive saluta,di Sïònne lé tórri atterrate…Òh, mia patria sì bèlla é perduta !Òh, membranza sì cara é fatal !

Arpa dʼòr déi fatidici vati,perché muta dal salice pèndi?Lé memòrie nél pètto riaccèndi, ci favèlla dél tèmpo ché fu!

Ó simile di Solima ai fatitraggi un suòno di crudo laménto,ó tʼispiri il Signóre un concèntoché né infónda al patire virtù!

Còro dal 3° atto dél “Nabucco” di G. Vérdi. Librétto di Temistocle Solèra.

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Patria oppressa…

Patria oppressa! Il dolce nomeno, di madre aver non puoi,or che tutta ai figli tuoisei conversa in un avel.

Dʼorfanelli e di piangentichi lo sposo e chi la proleal venir del nuovo Solesʼalza un grido e fere il Ciel.

A quel grido il Ciel rispondequasi voglia impietositopropagar per lʼinfinito,patria oppressa, il tuo dolor.

Suona a morto ognor la squilla,ma nessuno audace è tantoche pur doni un vano piantoa chi soffre e a chi muor.

Coro dal 4° atto del “Macbeth” di G. Verdi. Libretto di F.M. Piave.

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Patria opprèssa…

Patria opprèssa! Il dólce nómenò, di madre avér nón puòi,ór ché tutta ai figli tuòisèi convèrsa in un avèl.

Dʼorfanèlli é di piangèntichi ló spòšo é chi la pròleal venir dél nuòvo Sólesʼalza un grido é fére il Cièl.

A quél grido il Cièl rispóndequaši vòglia impietositopropagar pér lʼinfinito,patria opprèssa, il tuo dolór.

Suòna a mòrto ognór la squilla,ma nessuno audace è tantoché pur dóni un vano piantoa chi sòffre é a chi muòr.

Còro dal 4° atto dél “Macbeth” di G. Vérdi. Librétto di F.M. Piave.

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Cortigiani, vil razza dannata

Cortigiani, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il mio bene?A voi nulla per lʼoro sconviene,ma mia figlia è impagabil tesor.

La rendete… o, se pur disarmata, questa man per voi fora cruenta;nulla in terra più lʼuomo paventa,se dei figli difende lʼonor.

Quella porta, assassini, mʼaprite.Ah! Voi tutti a me contro venite!Ebben, piango, Marullo…signore,tu chʼhai lʼalma gentil come il core,dimmi tu dove lʼhanno nascosta?

E ̓là?…E ̓vero?…tu taci!…perché?…Miei signori…perdono, pietate… Al vegliardo la figlia ridate…Ridonarla a voi nulla ora costa,tutto il mondo è tal figlia per me.

dallʼaria di Rigoletto dal 2° atto di “Rigoletto” di G. Verdi. Libretto di F.M. Piave.

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Cortigiani, vil razza dannata

Cortigiani, vil razza dannata, pér qual prèzzo vendéste il mio bène?A vói nulla pér lʼòro sconviène,ma mia figlia è impagabil tešòr.

La rendéte… ó, sé pur dišarmata, quésta man pér vói fòra cruènta;nulla in tèrra più lʼuòmo pavènta,sé déi figli difènde lʼonór.

Quélla pòrta, assassini, mʼaprite.Ah! Vói tutti a mé cóntro venite!Ebbèn, piango, Marullo…signóre,tu chʼhai lʼalma gentil cóme il còre,dimmi tu dóve lʼhanno nascósta?

È là?…È véro?…tu taci!…perché?…Mièi signóri…perdóno, pietate… Al vegliardo la figlia ridate…Ridonarla a vói nulla óra còsta,tutto il móndo è tal figlia pér mé.

dallʼaria di Rigolétto dal 2° atto di “Rigolétto” di G. Vérdi. Librétto di F.M. Piave.

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Tutte le feste al tempio

Gilda

( Ciel! Dammi coraggio! )

Tutte le feste al tempiomentre pregava Iddiobello e fatale un giovanesʼofferse al guardo mio…Se i labbri nostri tacquerodagli occhi il cor parlò.Furtivo fra le tenebresolo ieri a me giungeva…Sono studente, povero,commosso, mi diceva,e con ardente palpitoamor mi protestò.Partì…. il mio core aprivasi a speme più gradita,quando improvvisi apparverocolor che mʼhan rapita, e a forza qui mʼaddusseronellʼansia più crudel.

Rigoletto

( Solo per me lʼinfamiaa te chiedeva, o Dio…Chʼella potesse ascenderequanto caduto erʼio….Ah, presso del patibolobisogna ben lʼaltare!Ma tutto ora scomparelʼaltar si rovesciò! )Piangi, fanciulla, e scorrerefa il pianto sul mio cor.

Scena sesta del 2° atto di “Rigoletto” di G. Verdi. Libretto di F.M. Piave.

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Tutte lé fèste al tèmpio

Gilda

( Cièl! Dammi coraggio! )

Tutte lé fèste al tèmpioméntre pregava Iddiobèllo é fatale un gióvanesʼoffèrse al guardo mio…Sé i labbri nòstri tacquerodagli òcchi il còr parlò.Furtivo fra lé tènebresólo ièri a mé giungéva…Sóno studènte, pòvero,commòsso, mi dicéva,é cón ardènte palpitoamór mi protestò.Partì…. il mio còre aprivasi a spème più gradita,quando improvviši apparverocolór ché mʼhan rapita, é a fòrza qui mʼaddusseronellʼansia più crudèl.

Rigolétto

( Sólo pér mé lʼinfamiaa té chiedéva, ó Dio…Chʼélla potésse ascénderequanto caduto erʼio….Ah, prèsso dél patibolobišógna bèn lʼaltare!Ma tutto óra scomparelʼaltar si rovesciò! )Piangi, fanciulla, é scórrerefa il pianto sul mio còr.

Scèna sèsta dél 2° atto di “Rigolétto” di G. Vérdi. Librétto di F.M. Piave.

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Tacea la notte placida…

Tacea la notte placidae bella in ciel serenola luna il viso argenteomostrava lieto e pieno…

Quando suonar per lʼaere,infino allor sì muto,dolci sʼudiro e flebiligli accordi dʼun lïuto,e versi melanconiciun Trovator cantò.

Versi di prece ed umilequal dʼuom che prega Iddioin quella ripeteasi un nome….il nome mio!…Corsi al veron sollecita….Egli era! egli era desso!…Gioia provai che agli angelisolo è provar concesso!….Al core, al guardo estaticola terra un ciel sembrò.

Aria di Leonora dal 1° atto de “Il Trovatore” di G.Verdi. Librétto di Salvatore Cammarano.

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Tacéa la nòtte placida…

Tacéa la nòtte placidaé bèlla in cièl serénola luna il višo argènteomostrava lièto é pièno…

Quando suonar pér lʼaere,infino allór sì muto,dólci sʼudiro é flèbiligli accòrdi dʼun lïuto,é vèrsi melancòniciun Trovatór cantò.

Vèrsi di prèce éd umilequal dʼuòm ché prèga Iddioin quélla ripetéasi un nóme….il nóme mio!…Córsi al verón sollècita….Égli èra! égli èra désso!…Giòia provai ché agli angelisólo è provar concèsso!….Al còre, al guardo estaticola tèrra un cièl sembrò.

Aria di Leonòra dal 1° atto dé “ Il Trovatóre” di G.Vérdi. Librétto di Salvatóre Cammarano.

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Libiam ne ̓lieti calici…

Alfredo

Libiam ne ̓lieti caliciche la bellezza infiora,e la fuggevol orasʼinebri a voluttà.Libiam nei dolci fremitiche suscita lʼamore,poiché quellʼocchio al coreonnipotente va.Libiamo, amor fra i calicipiù caldi baci avrà.

Violetta

Tra voi saprò dividereil tempo mio giocondo;tutto è follia nel mondociò che non è piacer.Godiam, fugace e rapidoè il gaudio dellʼamore.E ̓un fior che nasce e muore,né più si può goder. Godiam….cʼinvita un fervidoaccento lusinghier.

Duetto dal 1° atto di “La Traviata” di G. Verdi. Librétto di F. M. Piave.

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Libiam né ̓lièti calici…

Alfrédo

Libiam né ̓lièti caliciché la bellézza infióra,é la fuggévol órasʼinèbri a voluttà.Libiam néi dólci frèmitiché suscita lʼamóre,poiché quéllʼòcchio al còreonnipotènte va.Libiamo, amór fra i calicipiù caldi baci avrà.

Violétta

Tra vói saprò dividereil tèmpo mio giocóndo;tutto è follia nél móndociò ché nón è piacér.Godiam, fugace é rapidoè il gaudio déllʼamóre.È un fiór ché nasce é muòre,né più si può godér.Godiam….cʼinvita un fèrvidoaccènto lušinghièr.

Duétto dal 1° atto di “La Traviata” di G. Vérdi. Librétto di F. M. Piave.

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Celeste Aida

Se quel guerrier io fossi! Se il mio sognosi avverasse!….Un esercito di prodida me guidato… e la vittoria - e il plausodi Menfi tutta! – E a te, mia dolce Aida,tornar di lauri cinto….Dirti: per te ho pugnato e per te ho vinto!

Celeste Aida, forma divina,mistico serto di luce e fior;del mio pensiero tu sei regina,tu di mia vita sei lo splendor.

Il tuo bel cielo vorrei ridarti,le dolci brezze del patrio suol,un regal serto sul crin posarti,ergerti un trono vicino al sol.

Aria di Radames dal 1° atto di “Aida” di G.Verdi. Libretto di Antonio Ghislanzoni.

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Celèste Aida

Sé quél guerrièr io fóssi! Sé il mio sógnosi avverasse!….Un ešercito di pròdida mé guidato… é la vittòria - é il plaušodi Mènfi tutta! – É a té, mia dólce Aida,tornar di lauri cinto….Dirti: pér té ho pugnato é pér té hò vinto!

Celèste Aida, fórma divina,mistico sèrto di luce é fiór;dél mio pensièro tu sèi regina,tu di mia vita sèi ló splendór.

Il tuo bèl cièlo vorrèi ridarti,lé dólci bréζζe dél patrio suòl,un regal sèrto sul crin posarti,èrgerti un tròno vicino al sól.

Aria di Radames dal 1° atto di “Aida” di G.Vérdi. Librétto di Antònio Ghislanzóni.

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Ella giammai mʼamò

Ella giammai mʼamò!…No, quel cor chiuso è a me,amor per me non ha!…Io la rivedo ancor contemplar triste in voltoil mio crin bianco il dì che qui di Francia venne.No, amor per me non ha!…

Ove son?…Quei doppierpresso a finir!…Lʼaurora imbianca il mio veron!Già spunta il dì! Passar veggo i miei giorni lenti!Il sonno, o Dio! sparì da ̓miei occhi languenti!Dormirò sol nel manto mio regalquando la mia giornata è giunta a sera;dormirò sol sotto la volta neralà, nell ̓avello dellʼEscurïal.Se il serto regal a me desse il poteredi leggere nei cor, che Dio può sol veder!…Se dorme il prence, veglia il traditore;il serto perde il Re, il consorte lʼonore!

Dormirò sol nel manto mio regalquando la mia giornata è giunta a sera, dormirò sol sotto la volta neralà nellʼavello dellʼEscurïal.

Aria di Filippo dal 3° atto, scena prima, del “Don Carlo” di G. Verdi. Versione del 1884. Revisione del libretto di Angelo Zanardini.

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Élla giammai mʼamò

Élla giammai mʼamò!… Nò, quél còr chiuso è a mé,amór pér mé nón ha!…Io la rivédo ancór contemplar triste in vóltoil mio crin bianco il dì ché qui di Francia vénne.Nò, amór pér mé nón ha!…

Óve són?…Quéi doppièrprèsso a finir!…L̓ auròra imbianca il mio verón!Già spunta il dì! Passar véggo i mièi giórni lènti!Il sónno, ó Dio! sparì da ̓mièi òcchi languènti!Dormirò sól nél manto mio regalquando la mia giornata è giunta a séra;dormirò sól sótto la vòlta néralà, nell ̓avèllo déllʼEscurial.Sé il sèrto regal a mé désse il potéredi lèggere néi còr, ché Dio può sól vedér!…Sé dòrme il prènce, véglia il traditóre;il sèrto pèrde il Ré, il consòrte lʼonóre!

Dormirò sól nél manto mio regalquando la mia giornata è giunta a séra, dormirò sól sótto la vòlta néralà nellʼavèllo déllʼEscurïal.

Aria di Filippo dal 3° atto, scèna prima, del “Dòn Carlo” di G. Vérdi. Versióne dél 1884. Revisióne dél librétto di Angelo Zanardini.

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O don fatale, o don crudel

O don fatale, o don crudelche in suo furor mi fece il cielo!Tu che ci fai sì vane, altere,ti maledico, o mia beltà.

Versar, versar sol posso il pianto,speme non ha, soffrir dovrò;il mio delitto è orribil tantoche cancellar mai non potrò!

O mia Regina, io tʼimmolaial folle error di questo cor.Solo in un chiostro al mondo ormaidovrò celar il mio dolor!

Oh ciel! E Carlo! a morte domani andar vedrò!…Ah! un dì mi resta, la speme mʼarride.Sia benedetto il ciel! Lo salverò!

Aria di Eboli dal 3° atto di “Don Carlo” di G. Verdi.

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Ó dón fatale, ó dón crudèl

Ó dón fatale, ó dón crudèlché in suo furór mi féce il cièlo!Tu ché ci fai sì vane, altère,ti maledico, ó mia beltà.

Versar, versar sól pòsso il pianto,spème nón ha, soffrir dovrò;il mio delitto è orribil tantoché cancellar mai nón potrò!

Ó mia Regina, io tʼimmolaial fòlle errór di quésto còr.Sólo in un chiòstro al móndo ormaidovrò celar il mio dolór!

Òh cièl! É Carlo! a mòrte domani andar vedrò!…Ah! un dì mi rèsta, la spème mʼarride.Sia benedétto il cièl! Ló salverò!

Aria di Èboli dal 3° atto di “Dòn Carlo” di G. Vérdi.

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Cielo e mar

Cielo e mar!-lʼetereo velosplende come un santo altare.Lʼangiol mio verrà dal cielo?!Lʼangiol mio verrà dal mare?!

Qui lʼattendo, ardente spiraoggi il vento dellʼamor.Quel mortal che vi sospiravi conquide, o sogni dʼor!

Cielo e mar!-per lʼaura fondanon appar né suol, né monte,lʼorizzonte bacia lʼonda,lʼonda bacia lʼorizzonte!

Qui nellʼombra ovʼio mi giaciocollʼanelito del cor,vieni, o donna, vieni al baciodella vita incantator.

dallʼaria di Enzo dal 2° atto di “La Gioconda” di A.Ponchielli. Libretto di Tobia Gorrio.

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Cièlo é mar Cièlo é mar!-lʼetèreo vélosplènde cóme un santo altare.L̓ angiol mio verrà dal cièlo?!L̓ angiol mio verrà dal mare?!

Qui lʼattèndo, ardènte spiraòggi il vènto déllʼamór.Quél mortal ché vi sospiravi conquide, ó sógni dʼòr!

Cièlo é mar!-pér lʼaura fóndanón appar né suòl, né mónte,lʼorizzónte bacia lʼónda,lʼónda bacia lʼoriζζónte!

Qui néllʼómbra óvʼio mi giaciocóllʼanèlito dél còr,vièni, ó dònna, vièni al baciodélla vita incantatór.

dallʼaria di Ènzo dal 2° atto di “La Giocónda” di A.Ponchièlli. Librétto di Tobia Gorrio.

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Che gelida manina

Che gelida manina!se la lasci riscaldar.Cercar che giova? Al buio non si trova.Ma per fortuna è una notte di luna,e qui la luna lʼabbiamo vicina.Aspetti, signorina,le dirò con due parolechi son, che faccio e come vivo. Vuole?

Chi son? Sono un poeta.Che cosa faccio? Scrivo.E come vivo? Vivo.In povertà mia lietascialo da gran signorerime ed inni dʼamore.Per sogni, per chimeree per castelli in arialʼanima ho milionaria.Talor dal mio forziereruban tutti i gioiellidue ladri: gli occhi belli.Vʼentrar con voi pur ora,ed i miei sogni usatitosto son dileguati.Ma il furto non mʼaccora,poiché vi ha preso stanzala dolce speranza!Or che mi conoscete,parlate voi. Chi siete?Vi piaccia dir?

Aria di Rodolfo dal duetto del 1° atto de “La Bohème” di G. Puccini. Libretto di L. Illica e G. Giacosa.

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Ché gèlida manina

Ché gèlida manina!sé la lasci riscaldar.Cercar ché giòva? Al buio nón si tròva.Ma pér fortuna è una nòtte di luna,é qui la luna lʼabbiamo vicina.Aspètti, signorina,lé dirò cón due paròlechi són, che faccio é cóme vivo. Vuòle?

Chi són? Sóno un poèta.Ché còsa faccio? Scrivo.É cóme vivo? Vivo.In povertà mia liètascialo da gran signórerime éd inni dʼamóre.Pér sógni, pér chimèreé pér castèlli in arialʼanima hò milionaria.Talór dal mio forzièreruban tutti i gioièllidue ladri: gli òcchi bèlli.Vʼentrar cón vói pur óra,éd i mièi sógni ušatitòsto són dileguati.Ma il furto nón mʼaccòra,poiché vi ha préso stanzala dólce speranza!Ór ché mi conoscéte,parlate vói. Chi siète?Vi piaccia dir?

Aria di Rodòlfo dal duétto del 1° atto dé “La Bohème” di G. Puccini. Librétto di L. Illica é G. Giacòsa.

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Sì. Mi chiamano Mimì

Sì.Mi chiamano Mimì,ma il mio nome è Lucia.La storia mia è breve. A tela o a setaricamo in casa e fuori…Son tranquilla e lietaed è mio svagofar gigli e rose.Mi piaccion quelle coseche han sì dolce malìa,che parlano dʼamor, di primavere,di sogni e di chimere,quelle cose che han nome poesia…lei mʼintende? …Mi chiamano Mimì,il perché non so.Sola, mi foil pranzo da me stessa.Non vado sempre a Messa,ma prego assai il Signore.Vivo sola, solettalà in una bianca cameretta:guardo sui tetti e in cielo;ma quando vien lo sgeloil primo sole è mioil primo bacio dellʼaprile è mio!Germoglia in un vaso una rosa…foglia a foglia la spio!Così gentileil profumo dʼun fiore!Ma i fior chʼio faccio, ahimé! non hanno odore.Altro di me non le saprei narrare.Sono la sua vicinache la vien fuori dʼora a importunare.

Aria di Mimì dal duetto del 1° atto de “ La Bohème” di G. Puccini. Libretto di L. Illica e G. Giacosa.

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Sì. Mi chiamano Mimì

Sì.Mi chiamano Mimì,ma il mio nóme è Lucia.La stòria mia è brève. A téla ó a sétaricamo in casa é fuòri…Són tranquilla é liètaéd è mio svagofar gigli é ròše.Mi piaccion quélle còseché han sì dólce malìa,ché parlano dʼamór, di primavère,di sógni é di chimère,quélle còse ché han nóme poešia…lèi mʼintènde? …Mi chiamano Mimì,il perché nón sò.Sóla, mi fòil pranζo da mé stéssa.Nón vado sèmpre a Méssa,ma prègo assai il Signóre.Vivo sóla, soléttalà in una bianca camerétta:guardo sui tétti é in cièlo;ma quando vièn ló sgèloil primo sóle è mioil primo bacio déllʼaprile è mio!Germóglia in un vašo una ròša…fòglia a fòglia la spio!Così gentileil profumo dʼun fióre!Ma i fiór chʼio faccio, ahimé! nón hanno odóre.Altro di mé nón lé saprèi narrare.Sóno la sua vicinaché la vièn fuòri dʼóra a importunare.

Aria di Mimì dal duétto dél 1° atto dé “ La Bohème” di G. Puccini. Librétto di L. Illica é G. Giacòsa.

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Recondita armonia

Recondita armoniadi bellezze diverse!…E ̓bruna Floria,lʼardente amante mia,e te, beltade ignota,cinta di chiome bionde!Tu azzurro hai lʼocchio, Tosca ha lʼocchio nero!Lʼarte nel suo misterole diverse bellezze insiem confonde:ma nel ritrar costeiil mio solo pensiero, Tosca, tu sei!……………………………………

Qual occhio al mondo

Qual occhio al mondo può star di paroallʼardente occhio tuo nero?E ̓qui che lʼesser mio sʼaffisa intero.Occhio allʼamor soave, allʼira fiero,qual altro al mondo può star di paro,allʼocchio tuo nero?

Arie di Cavaradossi dal 1° atto di “Tosca”di G. Puccini. Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa.

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Recòndita armonia

Recòndita armoniadi bellézze divèrse!…È bruna Flòria,lʼardènte amante mia,é té, beltade ignòta,cinta di chiòme biónde!Tu aζζurro hai lʼòcchio, Tósca ha lʼòcchio néro!L̓ arte nél suo mistèrolé divèrse bellézze insièm confónde:ma nél ritrar costèiil mio sólo pensièro, Tósca, tu sèi!……………………………………

Qual òcchio al móndo

Qual òcchio al móndo può star di paroallʼardènte òcchio tuo néro?È qui ché lʼèsser mio sʼaffiša intèro.Òcchio allʼamór soave, allʼira fièro,qual altro al móndo può star di paro,allʼòcchio tuo néro?

Arie di Cavaradòssi dal 1° atto di “Tósca”di G. Puccini. Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa.

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Vissi dʼarte

Vissi dʼarte, vissi dʼamore,non feci mai male ad anima viva!Con man furtivaquante miserie conobbi, aiutai.

Sempre con fe ̓sincerala mia preghieraai santi tabernacoli salì,sempre con fe ̓sinceradiedi fiori agli altar.Nellʼora del doloreperché, perché Signore, perché me ne rimuneri così?

Diedi gioiellidella Madonna al manto,e diedi il cantoagli astri, al ciel, che ne ridean più belli.Nellʼora del dolorperché, perché, Signor,perché me ne remuneri così?

Aria di Tosca dal 2° atto di “Tosca” di G. Puccini. Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa.

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Vissi dʼarte

Vissi dʼarte, vissi dʼamóre,nón féci mai male ad anima viva!Cón man furtivaquante mišèrie conóbbi, aiutai.

Sèmpre cón fé ̓sincèrala mia preghièraai santi tabernacoli salì,sèmpre cón fé ̓sincèradièdi fióri agli altar.Néllʼóra dél dolóreperché, perché Signóre,perché mé né rimuneri così?

Dièdi gioièllidélla Madònna al manto,é dièdi il cantoagli astri, al cièl, ché né ridéan più bèlli.Néllʼóra dél dolórperché, perché, Signór,perché mé né remuneri così?

Aria di Tósca dal 2° atto di “Tósca” di G. Puccini. Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa.

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E lucean le stelle

E lucean le stelle…e olezzavala terra… stridea lʼuscio dellʼorto… e un passo sfiorava la rena.Entrava ella fragrante,mi cadea tra le braccia.Oh! dolci baci , o languide carezze,mentrʼio frementele belle forme disciogliea dai veli!Svanì per sempre il sogno mio dʼamore…Lʼora è fuggitae muoio disperato!…E non ho amato mai tanto la vita!

Aria di Cavaradossi dal 3° atto di “Tosca” di G. Puccini. Libretto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacosa.

Nessun dorma

Nessun dorma!…Tu pure, o Principessa,nella tua fredda stanzaguardi le stelle che tremano dʼamore e di speranza.Ma il mio mistero è chiuso in me,il nome mio nessun saprà!Solo quando la luce splenderà,su la tua bocca lo dirò, fremente!…Ed il mio bacio scioglierà il silenzio che ti fa mia!………….

Dilegua, o notte!…Tramontate, o stelle…!Allʼalba vincerò!…..

dallʼaria di Calaf dal 3° atto di “Turandot” di G. Puccini. Libretto di G. Adami e R. Simoni.

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É lucéan lé stélle

É lucéan lé stélle…é oléζζavala tèrra… stridéa lʼuscio déllʼòrto… é un passo sfiorava la réna.Entrava élla fragrante,mi cadéa tra lé braccia.Òh! dólci baci , ó languide carézze,méntrʼio fremèntelé bèlle fórme disciogliéa dai véli!Svanì pér sèmpre il sógno mio dʼamóre…L̓ óra è fuggitaé muòio disperato!…É nón hò amato mai tanto la vita!

Aria di Cavaradòssi dal 3° atto di “Tósca” di G. Puccini. Librétto di V. Sardou, L. Illica, G. Giacòsa.

Nessun dòrma Nessun dòrma!…Tu pure, ó Principéssa,nélla tua frédda stanzaguardi lé stélle ché trèmano dʼamóre é di speranza.Ma il mio mistèro è chiuso in mé,il nóme mio nessun saprà!Sólo quando la luce splenderà,su la tua bocca ló dirò, fremènte!…Éd il mio bacio scioglierà il silènzio ché ti fa mia!………..

Dilégua, ó nòtte!….Tramontate, ó stélle!….Allʼalba vincerò!….

dallʼaria di Calaf dal 3° atto di “Turandòt” di G. Puccini. Librétto di G. Adami é R. Simóni.

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2003

per conto della

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