Octane Italia n.2

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Porsche 911, Riva-Lamborghini, Safari Rally, Gp Storico Monaco, La Lancia Astura di Steady, Villa d'Este, Bentley R Type Sport Saloon

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Numero 2 | Giugno 14 | € 8,00

Porsche 911 | Safari R

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Storico

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L’essenza della passione

S E M PL IC E M E N T E

911

COLLECTORS’ EDITION

#2GIUGNO 2014

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1 GIUGNO 2014 ITALIA

EDITORIALE

UN MESE INTENSO. Tanti appuntamenti importanti e un nuovo numero da preparare. Non c’è stato tempo per annoiarsi tra Mille Miglia, GP storico di Montecarlo e Villa d’Este. Nelle prossime pagine troverete due ampi reportage, interamente realizzati dalla redazione italiana, sulle manifestazioni di Monaco e Cernobbio. Le gare sulle strade del Principato e la raffinatezza del concorso d’eleganza più prestigioso d’Italia rappresentano due anime della stessa passione. Diversissime, quasi antitetiche, ma ugualmente ricche di fascino. Personalmente sono rimasto impressionato

dal numero di visitatori dell’ultima giornata a Villa d’Este. Una folla. La testimonianza che il fascino per il bello è contagioso. Un ottimo segnale. Spiace, invece, rimarcare la scarsa attenzione delle istituzioni nei confronti di un evento al tempo stesso esclusivo e popolare come la Mille Miglia. 450 equipaggi, più di due terzi stranieri, molti arrivati da Paesi extraeuropei. Le caratteristiche ideali per promuovere il turismo, una delle poche risorse italiane, ci sono tutte. Servite su un piatto d’argento. Il fascino di una gara che è stata leggendaria; la possibilità di visitare città e borghi ricchi di arte, storia e cultura; l’occasione per ammirare paesaggi che ci hanno reso famosi nel Mondo come il Belpaese e valorizzare la varietà culinaria tipica delle nostre regioni, altro piatto forte della nostra tradizione. Invece, gli organizzatori lamentano perfino scarso sostegno da parte delle autorità bresciane e molti partecipanti ricorderanno l’evento soprattutto perché riceveranno le multe inflitte dagli autovelox in alcuni comuni della bassa padana. Tra i concorrenti c’erano anche personaggi del calibro di Adrien Brody (premio Oscar 2003), Brian Johnson (cantante degli AC/DC), Bruno Senna (pilota e nipote del leggendario Ayrton), Jeremy Irons e Jay Leno che non hanno bisogno di presentazioni.Insomma, non sarebbe stato difficile trovare spunti. Magari sbaglio, ma l’unico passaggio televisivo interessante è stato quello del nostro editorialista Jay Leno (approfitto per salutarlo e ringraziarlo pubblicamente) da Fabio Fazio a manifestazione ormai conclusa. Un’occasione sprecata. Speriamo che il prossimo anno il ministero del Turismo sappia cogliere l’opportunità. Occorre, però, muoversi da subito. Per concludere, due righe per presentare il nuovo numero. Tra i servizi troverete anche l’incredibile storia della Lancia del decano dei giornalisti d’Oltremanica, un curioso servizio sulle auto da record, il restauro del motoscafo di Ferruccio Lamborghini, un’interessante alternativa alla Bentley Continental e gli spettacolari scenari del Safari Rally.

Andrea Fontana

www.octanei ta l ia . i t

Direttore Responsabile: Andrea Fontana

[email protected]

Redazione: Gabriele Mutti

[email protected]

Art Director:Gino Durso per

Hanno collaborato a questo numero: Alessandro Botta, Marco Chiari,

Andrea Massara, Roberto Potenza, Pietro Silva

Testi di: Derek Bell, Chris Bietzk, Robert Coucher,

Franca Davenport, Mark Dixon, Dale Drinnon, Richard Heseltine, Jay Leno, David Lillywhite,

Philip Raby, Andrew Ralston, Dave Selby, John Simister

Fotografie di:Cattura, Marco Chiari, Mark Dixon, Martyn Goddard, Matthew Howell,

McKlein, Andy Morgan, Andrew Ralston, Cristiano Soro, Maurice Volmeyer

Credits:

Archivio Porsche, Auctions America, Getty Images, Riva-World, Wikipedia

Direzione commerciale e marketing:Andrea Fontana

[email protected]

Pubblicità internazionale:Phil Cardoso

RS Media - Tel.+33 (0) 66.09.855.49

Tipografia: Tiber S.p.A. - Brescia

Octane è edito da:

Via Vittorio Veneto, 2 - Sesto San Giovanni (MI)

Octane – Periodico mensile N° 02 Giugno 2014. Registrazione presso il Tribunale di Milano N° 159 del 23/04/2014. Direttore Responsabile Andrea Fontana. Copyright 2014 AndyGarage S.r.l.È vietata la riproduzione anche parziale. L’editore garantisce che i dati forniti dai sottoscrittori degli abbonamenti vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per alcun motivo. È possibile chiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: [email protected]. Octane Italia è pubblicato su licenza della Dennis Publishing Limited, con sede nel Regno Unito. Tutti i diritti sul materiale pubblicato appartengono alla Dennis Publishing o a Felix Dennis e tale materiale non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza una previa autorizzazione scritta. Octane è un marchio registrato di proprietà di Felix Dennis.

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2 GIUGNO 2014 ITALIA

Splendida passerella di grandi auto di ieri

88VILLA D’ESTE

10

DA LEGGERE SUBITO10 PORSCHE 911Abbiamo guidato il primo esemplare impegnato in gara al rally di Montecarlo

17 LE PRIME 911Perché quelle prodotte fino al 1973, con i paraurti più piccoli, sono le più ricercate

18 ‘S’ LA PIÙ SPORTIVA19 ‘T’ L’ENTRY-LEVEL20 LE VIE DI MEZZO21 ‘CARRERA 2.7RS’, L’ICONA 22 CURA ANABOLIZZANTELe 911 ‘con i muscoli’, nate per correre

24 LA GIUSTA SCOSSA La prima Porsche era elettrica: la storia della prima auto progettata dal geniale Ferry

30 LAMBORGHINI ACQUATICO Il restauro del Riva Aquarama di Ferruccio che aveva due motori delle sue supercar

38 UNA NOTTE AL MUSEODal tramonto all’alba facendo compagnia alle auto dei record di velocità su terra

50 SE IL GIOCO SI FA DUROL’incredibile Safari Rally per le auto storiche

72 UN LUNGHISSIMO RESTAUROCosì una Lancia Astura diventa una barchetta

78 I RACCONTI DI STEADYLe memorie di un giornalista decano dell’auto

30 38

C O V E R S T O R Y

GIUGNO 2014

58Un gentleman driver racconta il GP di Monaco storicoUNA CORSA IN CITTÀ

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3 GIUGNO 2014 ITALIA

LE RUBRICHE5 DEREK BELL

La Porsche 956 tossiva e sputacchiava

7 JAY LENOChe bello sbandare nel fango

9 ROBERT COUCHERLe prime Porsche 911, scelta vincente

101 MERCATOLe Top Ten delle aste

102 A MONTECARLOIl fascino indiscutibile della Miura

103 AUCTIONS AMERICATiene banco la Chrysler Airflow

104 METTILA NEL BOXCorvette C4, bella e possibile

106 L’ALTERNATIVAJeep Wrangler TJ, dura e pura

109 I LIBRIL’altra Alfa, non solo auto

110 INDIMENTICABILIPeter Sellers, un grande collezionista

111 UOMINI E AUTOPreston Tucker, genio incompreso

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50

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oltre alle presentazioni delle gare e delle aste più importanti.

GIUGNO 2014

80La Bentley R-Type Sports Saloon, un’alternativa abbordabileMODELLO DI DISCREZIONE

MINI-COLLEZIONEUna Bugatti praticamente perfetta

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5 GIUGNO 2014 ITALIA

Correre migliora la razza, così recita un vec-chio proverbio inglese riferito ai cavalli (quelli veri, a quattro zampe, non dentro il motore di un’auto!). Devo ammettere che si tratta di una nozione che spesso ho avu-to delle difficoltà a condividere. Per esem-pio, dubito che l’Escort 1300 abbia potuto

realmente beneficiare del programma di sviluppo agonistico messo a punto dalla Ford con la GT40! Oggi, tuttavia, c’è una correlazione molto più forte tra le corse e lo sviluppo di una vettura stradale. Il discorso a maggior ragione vale per le auto ibride, che stanno prendendo sempre più piede e per le quali sta iniziando un importante cammino a livello agonistico.

Di recente ho parlato con un ingegnere della Porsche e la conversazione è finita – com’era inevitabile – sulla nuova vettura della categoria sport-prototipo per il mondiale endurance. Quest’an-no il regolamento della 24 ore di Le Mans – che fa parte di questo campionato – è stato riscritto ex novo. I grandi team ufficiali do-vranno schierare auto che utilizzi-no in ogni giro un terzo di carbu-rante in meno rispetto allo scorso anno: non è poco. Nel contempo è salita la quantità di potenza eroga-bile dall’accoppiata motore a benzina-motore ibrido quando lavorano insieme. La libertà di sviluppo dei motori consentita ai costruttori ha fatto sì che la Porsche 919 Hybrid disponga di un V4 potenziato che consente il recupero di energia in frenata – come già avviene in Formula 1 – e anche il riciclaggio dell’e-nergia termica generata dai gas di scarico. Entrambi questi si-stemi alimentano un motore elettrico che dà motricità all’avan-treno, mentre il motore a benzina ‘gestisce’ il retrotreno.

La cosa sorprendente è che l’auto, nonostante meccanica ed elettronica così complesse, riesca a pesare soltanto 870 chilo-grammi. Ogni medaglia ha ovviamente il suo rovescio. Duran-te la conversazione è emerso il sospetto che il sistema fosse inutilmente complicato. Ho chiesto al tecnico che cosa sarebbe successo se il motore elettrico fosse andato in tilt: l’auto avreb-be potuto continuare a correre con il solo motore a benzina? Mi è stato risposto di no. Da qui un altro dubbio, più che legittimo: siamo sicuri che tutti questi gadget tecnologici possano miglio-rare lo spettacolo? Mi permetto di dubitarne.

Fra tutte le case con cui ho corso, nessuno ha inteso gli sport motoristici come un banco di prova per le nuove tecnologie più della Porsche. Purtroppo non sempre questa impostazione si è tradotta in una vittoria per me o per il team. Devo dire che in un paio di occasioni mi sono sentito più un collaudatore che un corridore vero e proprio…

La stagione 1982 coincide con la mia terza vittoria alla 24 ore di Le Mans. Peccato che il resto della stagione sia trascorso sen-za conseguire altri trionfi, anche perché quell’anno non ci fu un grande feeling con il mio compagno di squadra Vern Schup-pan. Ricordo che quando arrivammo in sud africa per la 9 ore di Kyalami, a novembre, ero abbastanza demotivato. Mi disse-ro prima delle prove che la nostra macchina avrebbe sperimen-tato un nuovo sistema di iniezione Bosch-Motronic. In qualifi-

ca, la 956 affidata a me e a Vern tossicchiava e sputacchiava, e quando si spingeva sul pedale del gas la risposta alle sollecitazioni sull’acceleratore avveniva con un ritardo spaventoso! Manifestai subito le mie preoccupazioni al team manager Peter Falk, che cer-cò di spiegarmi come ogni gara facesse parte di un certo pro-gramma di sviluppo. Quello che non mi convinse era il fatto che la vettura gemella affidata a Jacky

Ickx e Jochen Mass aveva l’iniezione meccanica tradizionale… Fatto sta che la notte prima della gara, mentre i meccanici

stavano lavorando sulle 956 dentro i box, quella con iniezione Motronic ebbe un imprevisto ritorno di fiamma dalla parte po-steriore. Alla fine i vertici del team decisero che avremmo corso tutti e quattro con l’iniezione meccanica: Ickx e Mass vinsero la gara, e noi finimmo secondi.

Come pilota non m’interessava più di tanto contribuire al miglioramento del prodotto di serie. Alla Porsche, però, ritene-vano che le corse servissero a testare innovazioni da applicare alle auto stradali del futuro.

‘LA PORSCHE 956 TOSSIVA

E SPUTACCHIAVA. L’ACCELERATORE

AVEVA UN RITARDO SPAVENTOSO’

DEREKBELL

L A L E G G E N D A

DEREK BELL Nato a Pinner (GB) il 31 ottobre ‘41, iniziò a correre nel ‘64 con una Lotus Seven. Vinse due campionati del mondo per vetture Sport nel 1985 e nel 1986, la 24 Ore di Daytona per tre volte nel 1986, ’87 e ’89, e per ben cinque volte a Le Mans nel 1975, 1981, 1982, 1986 e 1987. Commenta i GP di Formula 1 per una televisione americana e collabora con Octane. Dal 1986 è Member of the British Empire per meriti sportivi. R

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Quando ero ragazzino vivevo in una bella zona rurale. In un campo vicino a casa era parcheggiata una Renault 4CV ferma da tempo. Avevo dodici anni e il proprietario di quell’auto mi disse che avremmo potuto utilizzarla se fossimo riusciti a sistemarla. Con l’aiuto di alcuni adulti, l’impresa riuscì.

Ci divertivamo un sacco a farla sbandare nella terra; è stato in quei giorni che ho capito quanto fosse piacevole guidare su un fondo scivoloso. Era fantastico. Da allora non ho più guidato così. Fino a poche settimane fa. Se andate sul mio sito (www.jaylenosgarage.com) troverete un filmato dove guido la Mini All4 Racing che ha vinto la Dakar. Il mio maestro era il vincito-re dell’edizione di quest’anno, lo spagnolo Nani Roma. Guida-re quella Mini mi ha ricordato quei giorni della mia fanciulezza.

Questa Mini è un vero e proprio mostro. Si può spingere al massi-mo su qualunque tipo di fondo. Le auto moderne pensate per certe gare sono concepite così bene che non c’è bisogno di fare correzioni, non perdono aderenza finché non si oltrepassa un certo limite, e la bravura consiste nell’andare a sco-prire dov’è questo limite. Hanno i freni con dispositivo antibloccag-gio e la trazione integrale con ripartizione della coppia motrice a seconda del coefficiente di aderenza di ogni singola ruota, e vanno senza problemi sia sulla sabbia che sul ghiaccio.

Non è solo questione di guida: tanta gente non sa niente del-le auto che possiede. Quando lavoravo alla rete televisiva NBC una mia collega acquistò una Mercedes e dopo due settimane forò un pneumatico. Quella donna mi disse che non avrebbe mai più comperato una Mercedes. Le feci notare che non era colpa della macchina. Lei rispose: ‘Beh, ho avuto altre macchi-ne e non ho mai avuto forature. Non comprerò mai più una Mercedes’. Fortunatamente non tutte le donne ragionano così!

Tornando alla Mini, devo dire che sono sempre stato un fan dell’originale, quella presentata a fine Anni 50, anche se non ne ho mai avuta una. Per quei tempi, era una vera e propria rivo-luzione fra le piccole auto, e ricordò che mandò letteralmente in crisi le fabbriche inglesi che producevano moto! La Mini era un enorme successo ma non portò mai grandi profitti a chi la pro-duceva. C'erano pochissimi optional, niente interni in cuoio, le

gomme fianco bianco dovevi ordinarle al gommista perché era-no di una misura pensata appositamente la Mini. Ricordo che il progettista Sir Alec Issigonis disse che era una macchina sem-plice, con finestrini scorrevoli perché non aveva bisogno di al-tro: né interni in cuoio e – per l’amor di Dio! – neppure di un vano per l’autoradio (anche se molti clienti la fecero installare comunque). Intendiamoci, ne hanno vendute tantissime, ma il margine di profitto per la British Motor Corporation era così basso che incise davvero poco sui bilanci dell’azienda.

Per me, comunque, ha influenzato più di ogni altra il design delle piccole auto di tutti i tempi con un utilizzo davvero sa-piente degli spazi interni.

La Mini era lunga soltanto tre metri e cinque centimetri ma dava spazio a quattro adulti, il motore era posizionato trasver-

salmente e il suo olio serviva a lubrificare anche il cambio. Ben presto divenne popolare in tutto il mondo, fu costruita su licenza in vari Paesi. In America, però, non fu mai un successo. Gli unici posti dove si poteva vederne pa-recchie erano le città universita-rie: le guidavano dei professori con indosso abiti in tweed o Car-digan. La Mini originale durò a lungo ma, alla fine, era diventata troppo piccola rispetto alle city

car apparse successivamente: niente portellone, solo quattro posti, una meccanica datata e un bagagliaio piccolo (a parte la giardinetta Traveller, con le deliziose fiancate e la coda con rive-stimenti in legno, su cui però andava periodicamente spalmato il flating, come sulle barche, per preservarlo dalle intemperie).

Penso che Issigonis si rivolterebbe nella tomba se vedesse la Mini di oggi ‘made in BMW’: sembra una Land Rover rispetto alla sua antenata. Il suo più grande plus sta nell'essere così di-vertente da guidare. Vivace indipendentemente dai cavalli che ha sotto il cofano, in questo senso è proprio come la Renault 4 di quand’ero bambino.

‘DA RAGAZZINO MI DIVERTIVO

A FAR DERAPARE UNA RENAULT 4CV

IN UN CAMPO FANGOSO’

JAYLENO

JAY LENO Nato a New Rochelle il 28 aprile 1950, è un conduttore televisivo,autore televisivo e comico statunitense. Ha condotto per molti anniil ‘Tonight show’ e anche il ‘Today show’. Appassionato di auto e moto d’epoca, possiede una vasta collezione (www.jaylenosgarage.com).Scrive ogni mese su Octane. (Testo raccolto da Jeremy Hart)

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9 MAGGIO 2014 ITALIA

Si dice che prima o poi, parlando di automobili, si finisca inevitabilmente per citare la 911. Chiun-que s’interessi minimamente alle automobili sa cosa ha significato questo modello nella storia della Porsche. Un capitolo importante è costitui-to da quelle ‘pre 1973’, prodotte prima che una ‘damn bumper law’, una dannata legge ameri-

cana sui paraurti, contringesse la Casa tedesca a modificare ra-dicalmente muso e coda del suo modello di successo.

Queste Porsche’pure’, ‘pulite’, leggere, per qualche tempo sono state sottovalutate. Ingiustamente. Non a caso negli ultimi anni hanno acquisito valore e oggi sono ambite e ricercate.

L'Historical Automobile Group International (HAGI) è un preciso indice sul valore delle auto storiche (in ogni numero di Octane trovate un grafico e relati-vo commento nella pagina di apertura delle aste). Ebbene, le sue ricerche di recente hanno suscitato scalpore quando hanno sottolinea-to che le auto d’epoca costituisco-no un bene-rifugio più importante dell’oro, del vino pregiato, delle monete e dei francobolli, per non parlare del mercato azionario. Ba-sti pensare che dal 2009 il mercato delle auto d’epoca ha fatto registrare un incremento del 54 per cento.

Interessante il fatto che HAGI, oltre ad analizzare le migliori auto da collezione, rivolga particolarmente la sua attenzione sulle Ferrari, le Mercedes-Benz e le Porsche. Queste tre Case sono considerate come le più importanti. I ‘cavallini’ degli Anni 50 spuntano sovente alle aste cifre da capogiro (una Testa Rossa del 1957 ha recentemente cambiato proprietario per 24 milioni di sterline) ma anche le Mercedes-Benz e le Porsche non scher-zano. Le 300 SL ‘Ali di gabbiano’ e roadster viaggiano media-mente tra 500 e 600mila sterline e una Porsche 911 Carrera RS 2.7 Lightweight del 1973 è stata di recente venduta in America per 400mila euro.

Oltre a Ferrari e Mercedes-Benz (solo i modelli 300SL) i mo-delli più ricercati del dopoguerra sono davvero pochi per l’indi-ce HAGI: le Alfa Romeo Giulietta SZ, Giulia TZ e Spider Veloce, le Aston Martin DB4, DB5 e DB6, le BMW 507, le Jaguar XK, C, D ed E-Type), le Lamborghini Miura, le Lancia Aurelia e le Por-sche 911 ‘pre 1973’. Più chiaro di così…

A parte il caso limite della Carrera RS 2.7 citata sopra, le 911

prodotte dal 1963 al 1973 si possono trovare a quotazioni che vanno da 25 a 39mila euro. Nel 1963 molti osservatori la consi-derarono un’auto troppo borghese, ma ben presto si fece onore in pista, nelle corse in salita e nei rally.

Non vogliamo analizzare in dettaglio la Porsche nelle corse, ma sappiamo bene che l’azienda ha saputo farsi onore negli anni nelle gare di Formula 1 e 2, nelle gare riservate alle vetture Sport con le 904, 906 e 908, dominando il mondiale Marche En-durance con le 917 e le 936 per molti anni.

Per quanto riguarda la produzione in serie, nel 1974 i regola-menti sulla sicurezza statunitensi imposero crash test partico-larmente severi. La 911 dovette adottare paraurti più grandi e pesanti che modificarono profondamente la linea del muso e della coda. La Porsche dal punto di vista estetico fece un lavoro

tutto sommato eccellente rispetto a certi modelli della concorrenza, ma secondo molti appassionati la 911 perse un po’ del suo stile ca-ratteristico e la linea ne risultò ap-pesantita anche sul piano dell’im-magine. Certo la SC, la Carrera e la 993 erano modelli davvero su-perbi, ma decisamente diversi ri-spetto alle prime generazioni.

Oggi la 911 serie 991 è un mo-dello superlativo, la 918 è una supercar che riesce a girare sul mitico circuito Nordschleife (il ‘vecchio’ Nürburgring) in 6 mi-nuti e 57secondi – roba da gettare nel panico i progettisti della McLaren P1 – mentre la 919 LMP1 Hybrid è ormai pronta a ga-reggiare nella 24 Ore di Le Mans.

Gli appassionati sanno che la Porsche ha un buon pedigree da corsa, paragonabile a quello della Ferrari: le sue auto però sono affidabili e ‘facili da vivere’, e decisamente più convenien-ti rispetto a qualsiasi modello concorrente prodotto a Maranel-lo. Una 911 S originale, col suo bel motore che ulula, freni ottimi, un bel sei cilindri ‘flat’ raffreddato ad aria al retrotreno e so-spensioni adeguate alle sue prestazioni, ‘magra’ e di bell’aspet-to, è ancor oggi una delle migliori auto d’epoca che si possano acquistare.

‘DOVEVA CHIAMARSI 901, MA PEUGEOT AVEVA IL COPYRIGHT PER TUTTE LE SIGLE A TRE NUMERI CON LO ZERO IN MEZZO’

ROBERTCOUCHER

I L P I L O T A

ROBERT COUCHER Cresciuto fra le auto d’epoca, ha posseduto Lancia Aurelia B20GT, Alfa Romeo Giulietta e Giulia TI e una Porsche 356C.Attualmente guida quotidianamente la sua Jaguar XK140 del 1955.É uno dei fondatori di Octane. R

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LA PRIMA,LA MIGLIORE

Per delicatezza, purezza di stile e coinvolgimento nella guida, nessuna 911 è paragonabile a quelle costruite prima del 1969, come dimostra questo

esemplare che ha corso nel 1965 il rally di MontecarloTesTo John Simister // FoTograFie Andy Morgan

LE PRIME 911

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12 GIUGNO 2014 ITALIA

LE PRIME 911

Alzi la mano chi non ha mai sognato di poter guidare, al-meno una volta nella vita, una Porsche 911! Prima che apparissero le ‘muscolose’ SC e Carrera, questo modello destinato a fare epoca era caratterizzato da una linea svelta, leggera, come un ragazzo il cui fisico non si è ancora formato del tutto. Esattamente come avviene per gli esseri umani, le auto crescono nel fisico e nella statu-

ra: una Volkswagen Golf della settima generazione, per esempio, è più lunga di mezzo metro rispetto alla prima serie. La 911 ha avuto lo stesso ‘sviluppo’, a livello di estetica, meccanica, dotazioni, interni.

Fu presentata al Salone di Francoforte del 1963. Inizialmente si chiamava 901, ma con quella sigla ne furono prodotti soltanto gli 82 esemplari di pre-serie, oggi estremamente rari e contesi a cifre folli dagli appassionati.

La produzione di questo modello iniziò esattamente un anno dopo, nel mese di settembre del 1964. L’auto che vedete in queste pagine non soltanto è una delle prime a essere uscita dalla fabbrica, ma prese anche parte nel mese di gennaio del 1965 al rally di Montecarlo, diventando la prima 911 impiegata in gara.

Se si pensa alla complessità tecnologica e alla potenza dei motori delle auto da rally delle ultime tre decadi, sorprende notare come questa auto sia quasi completamente di serie. Ancora più sorprendente il fatto che si sia piazzata quinta assoluta al traguardo, nelle mani di Herbert Linge, ingegne-re responsabile del Centro ‘Racing & development’ (Corse e sviluppo) a Weissach e di Peter Falk, pilota ufficiale della squadra Porsche (omonimo dell’attore, recentemente scomparso, reso celebre dai telefilm del ‘Tenente Colombo’ e grande spalla di Glenn Ford in ‘Angeli con la pistola’).

Il colore originale di questa 911 era rosso. Durante un restauro eseguito a metà degli Anni 90, fu riverniciata nell’attuale grigioverde metallizzato.

Probabilmente, chi lo fece allora non si rese conto appieno del significato storico di questo esemplare, anche se il risultato finale è comunque eccellen-te. Il personale del museo Porsche che ci ha affidato l’auto per questo test su strada ci ha confidato che un giorno potrebbe anche tornare rossa.

Gli interni, invece, sono nello stesso colore rosso di quando fu prodotta l’auto. Anche il cruscotto è originale. Il layout di base è rimasto sostanzial-mente invariato fino alla versione 993 presentata nel 1994 e prodotta fino al 1998 (ultima generazione con motore raffreddato ad aria) a parte l’adozione delle indispensabili bocchette per la ventilazione dell’abitacolo. Si può rima-nere sorpresi nel vedere la striscia d’impiallacciatura in legno nella parte bassa della plancia, con la consueta ‘batteria’ di cinque strumenti davanti al guidatore, con la classica cornice cromata e la deliziosa, precisa, grafica alla quale Porsche ci ha abituati fin dalle 356.

Un’altra sorpresa viene dalla forma dei sedili, lontani anni luce dalle ‘va-sche’ dal sapore agonistico tipiche delle 911 più recenti: sono larghi, piatti, realizzati in un vinile piuttosto scivoloso, con schienali bassi e privi di pog-giatesta. Tipiche delle primissime serie di questo modello sono anche le scritte in corsivo con la sigla sul cruscotto, davanti al passeggero, e sul cofa-no motore.

Osservando meglio, c'è qualcosa di misterioso e di esotico in questo esem-plare. Ci proietta in un’epoca in cui si viaggiava molto di più su strada (non in autostrada!), quando il boom dei voli aerei doveva ancora esplodere e c’era ancora il piacere di viaggiare in treno dormendo nelle ‘sleeping car’ ornate con inserti in radica e boiserie di Lalique. Un’epoca nella quale il menù del vagone ristorante comprendeva quattro o cinque portate.

La globalizzazione non si sapeva neppure cosa fosse e per l’impianto elet-trico la Porsche faceva ancora affidamento a Hella e Bosch. Souvenir dell’e-poca su questa 911 sono le forme delle manopole, rese lucide dall’uso, in

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In bassoJohn Simister al volante di questa deliziosa 911 del 1964, una ‘veterana’ del rally di Montecarlo e la prima auto di questo modello coinvolta in un evento agonistico.

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plastica nera, gli inserti in gomma nera nei paraurti e gli pneumatici Continental. Con la 911, Porsche voleva allon-tanare definitivamente da sé l’idea – come avvenne con le prime 356 – che le sue auto fossero ‘le sorelle sportive del Maggiolino Volkswagen’.

Certo: rimaneva come tratto comune la griglia sul cofano motore, indispensabile in auto dal propulsore posteriore a sbalzo e raffreddato ad aria. Un altro tratto di ulteriore no-biltà rispetto alla 356 era però legato al fatto che il boxer passava da 4 a 6 cilindri e saliva a 2 litri di cilindrata (anche se poi, per ragioni di mercato, la Porsche sarà costretta per qualche tempo a produrre una 912 con il motore a 4 cilindri della 356/1600, ben presto sostituita, come vedremo in al-tre pagine, dalla 911T ‘base’ a 6 cilindri).

La semplice eleganza delle prime serie è legata a piccoli particolari come i sottili passaruota, che rimarranno tali fino all’adozione nel 1969 dei cerchi Fuchs da 6 pollici al posto dei 5”5 e all’affascinante e curato design delle luci di posizione, direzione e stop. Mettendo una 964 Turbo accan-to a questa 911 viene spontaneo chiedersi se la vettura di base sia la stessa: in linea di massima lo è, ma nel frattempo molte cose sono cambiate.

Le imprese agonistiche della RS e delle versioni svilup-pate successivamente con la 935 e la Turbo (di cui parliamo in questo stesso numero) ben difficilmente avrebbero potu-to essere immaginate quando l’allora capo delle PR della Casa tedesca, Huschke von Hanstein, pensò che sarebbe stata una buona idea far partecipare la 911 al rally di Mon-tecarlo. Come abbiamo già detto, l’unico equipaggio in gara era composto da Herbert Linge e Peter Falk.

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14 GIUGNO 2014 ITALIA

LE PRIME 911

In alto e a destraTutto suona familiare,

ma al tempo stesso differente, all’interno e all’esterno

di questo esemplare. La plancia rimarrà

sostanzialmente invariata fino all’ultima generazione delle 911 raffreddate ad aria, ma qui sono

del tutto assenti le bocchette per la ventilazione dell’abitacolo.

'Il rally di Montecarlo – ricorda Peter Falk - è stata la pri-ma competizione sportiva per la 911. L’auto fu omologata la settimana precedente, appena in tempo, per cui potemmo prendere parte alla corsa. Von Hanstein ci disse solo di por-tare l’auto al traguardo senza danni, per cui guidammo con molta attenzione. Ricordo che optammo per i carburatori Weber perché i Solex erano senza speranza se si trattava di gestire la potenza sui fondi innevati. Alla fine ci classificam-mo quinti assoluti’.

Quell’edizione fu resa particolarmente dura dal forte in-nevamento presente sul percorso. Alla fine si impose la Mini Cooper S di Makinen-Easter, seguita dalla Porsche 904 (un’auto pensata per le gare in pista e le salite!) di Böhring-er-Wueterich, dalla Saab 96 di Pat Moss Carlsson-Nystrom, dalla Sunbeam Tiger di Happer-Hall e appunto dalla Por-sche 911 di Linge-Falk.

Gli inizi dal punto di vista commerciale non furono facili per questo modello, giudicato troppo caro dalla clientela ri-

spetto alla 356. Sul mercato tedesco veniva proposta a 23.900 marchi, oltre 7.000 in più rispetto alla sua ‘antenata’. In se-guito alle proteste della potenziale clientela, il prezzo fu dapprima ribassato a 22.400 marchi, poi come abbiamo det-to apparve la 912 con finiture più economiche e motore a 4 cilindri ex 356 a 17.500 marchi. Sul mercato inglese la 911 apparve nel 1965 a 3438 sterline, in pratica una volta e mezza il prezzo di una Jaguar E-Type Coupé.

Un altro problema furono le carenze tecniche lamentate dalla clientela che si tramutarono, nel 1966, in un dimezza-mento delle vendite, scese dalle 3389 unità del 1965 alle 1709 del 1966. Sotto accusa erano la scarsa ventilazione e l'ecces-siva rumorosità dell'abitacolo, il comportamento nervoso della vettura e, soprattutto, l'instabilità direzionale oltre i 130 km/h con un notevole effetto sottosterzante. Anche per questo, nel 1968, per rendere meno nervosa l’auto nelle rea-zioni, il passo venne allungato di sei centimetri, passando da 221 a 227 cm.

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‘NON POSSI A MO DEFINIR EQUESTA 911 U N’AUTO V ELOCE,M A IL SOU ND È QUELLO GIUSTO. ENTUSI ASM A IL RUMOR E M ETA LLICODEL SUO SEI CILINDR I’

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La rivista inglese Motor nell’edizione del 3 dicembre 1966 provò l’esemplare targato GVB 911D, che ancor oggi è in cir-colazione. Con un motore di 1991 cm3 da 130 cavalli toccò di punta i 208 km/h (la Casa ne dichiarava 210) e raggiunse i 100 km/h con partenza da fermo in 9,4 secondi (9,1 il dato dichiarato). Risultati notevoli per un’auto dotata di un mo-tore relativamente piccolo, con un paio di carburatori a tri-plo corpo (a tre condotti) Weber 40 IDA (quell’anno infatti la Porsche aveva abbandonato i Solex, più complicati da met-tere a punto).

In quei compatti Solex, progettati in modo specifico per il sei cilindri ‘flat’ della 911, il carburante scorreva mediante un sistema di traboccamento, ma spesso, soprattutto quan-do veniva richiesta potenza fra 2500 e 3000 giri, si manifesta-va un preoccupante ‘buco’ nell’alimentazione. Da qui la scelta dei Weber, anche se successivamente per la nuova versione più economica, la 911T, furono adottati i meno co-stosi carburatori Zenith.

Il nostro test della 911 che ha corso il Montecarlo del 1965 si è svolto sulla strada di una celebre cronoscalata austriaca, il Gaisberg, non lontano dal circuito del Salzburgring. Dopo una breve chiacchierata con Falk e Linge – un momento ma-gico per chi scrive – ci mettiamo al volante. Abbiamo guida-to molti esemplari di 911 durante la lunga carriera di questo modello, ma l’emozione di guidare questa sorta di caposti-pite provoca sensazioni e stati d’animo particolari. In pratica è come immergersi in un sogno in cui tutto è familiare ma al tempo stesso leggermente diverso.

Il primo errore che facciamo è con il cambio. Inseriamo la marcia ma la Porsche pare riluttante a muoversi, il motore fatica a salire di giri e la frizione sembra slittare. Sotto gli sguardi divertiti dei tecnici e di Falk e Linge cerchiano di capire cosa stia succedendo. Poi ci rendiamo conto del fatto che tutte le 901 e le prime 911 prodotte hanno i rapporti del cambio al contrario, per cui quella che avevamo pensato fos-se la prima in realtà era la seconda! Lo stesso problema lo

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LE PRIME 911

A sinistra e in bassoCon la sua linea, la 911 è da sempre un instant classic. Una conferma viene dal fatto che la Porsche non ha mai cercato di cambiarla radicalmente. All’inizio, il suo sei cilindri era di soli due litri.

1964 PORSCHE 911MOTORE 1991 cm3, raffreddato

ad aria, 6 cilindri boxer, un albero a camme in testa per bancata, due carburatori triplo

corpo Weber 40 IDA

POTENZA 130 cavalli a 6100 giri

COPPIA 174 Nm a 4200 giri

TRASMISSIONE Cambio manuale a cinque marce,

trazione posteriore

STERZO A pignone e cremagliera

SOSPENSIONI Anteriori: a schema MacPherson, barre

di torsione longitudinali, bracci oscillanti inferiori

trasversali, barra antirollio. Posteriori: a ruote indipendenti,

barre di torsione trasversali, ammortizzatori telescopici

FRENI A disco PESO 1036 kg

PRESTAZIONI Vel max 210 km/h

0-100 km/h in 9,1 secondi

ebbero i proprietari delle Lancia Fulvia berlina e coupé pro-dotte dal 1970 in poi, in seguito all’esperienza maturata nei rally con la HF 1600 ‘Fanalone’, dove il frequente uso di se-conda e terza marcia suggerì di posizionarle rispettivamente verso il muso e la coda dell’auto.

Rossi in viso come peperoni, riusciamo finalmente a inse-rire la prima e a partire. Ci impegniamo nella guida dirigen-doci verso alcune curve in rapida successione, mentre è en-tusiasmante sentire là dietro il rumore metallico del sei cilindri ‘flat’.

Superato l’imbarazzo iniziale, prendiamo dimestichezza con il cambio, con cali di regime davvero contenuti fra un rapporto e l’altro. In velocità lo sterzo è preciso (e in mano-vra non è molto pesante: qui non c’è servo assistenza, ma tutto è facilitato dal maggior peso gravante sul retrotreno) però nelle curve affrontate velocemente è bene ricordare che le gomme sono piuttosto strette. La tendenza al sovrasterzo – tipica delle ‘tutto dietro’ – è facilmente correggibile con il volante, perché l’accenno di scodata è sempre progressivo. Per arrivare al limite bisogna curvare molto velocemente. La Porsche sopporta accelerazioni trasversali particolarmente elevate prima che si raggiunga il ‘punto di non ritorno’.

Prima di partire, Herbert Linge ci aveva avvertito che in questo tipo di auto va tenuta sotto controllo con particolare attenzione la pressione dei pneumatici.

Solo sui fondi scivolosi – a volte si può trovare del pietri-sco, come è successo a noi – può accadere che l’avantreno accenni a un’imbarcata, correggibile agendo con il volante verso la parte interna della curva. La sola critica che si può muovere alla 911 è la sua grande sensibilità ai movimenti del volante o, come abbiamo detto, alle irregolarità del terreno, che richiedono leggere correzioni quando si procede a velo-cità particolarmente elevate. In queste situazioni si notano le dimensioni piuttosto generose del volante (a dire il vero molti proprietari lo cambiarono con uno di diametro legger-mente inferiore) che impongono a volte ampi movimenti delle braccia per controllare la direzionalità della vettura.

‘Stai attento – ci aveva ammonito Linge – nelle curve con muretti, rocce o muraglioni verso l’esterno in uscita. Se esa-geri con il gas l’auto può scodare e il rischio di una toccata è sempre presente’. Siamo riusciti a non dimenticarlo, anche perché ci tenevamo a riportare intatto un esemplare così pre-zioso!

Il motore ci ha conquistato per la dolcezza. A nessun regi-me si manifestano vibrazioni e il ‘buco’ di carburazione le-gato ai Solex è stato completamente eliminato in questo esemplare che, per primo, adottò i Weber. Una scelta azzec-cata che si traduce in un minor utilizzo del cambio.

Positivo anche il giudizio sui freni. Non hanno mai dato il minimo segno di affaticamento o di surriscaldamento, an-che se non stavamo girando in circuito. Linge, comunque, ci aveva raccontato di aver caldeggiato l’adozione dei dischi auto ventilanti sulla 911S dopo una serie di approfonditi test lungo il Passo dello Stelvio.

Indubbiamente, con la prima 911 non si avvertono le sen-sazioni di velocità e grande grip tipiche delle successive evo-luzioni, dotate di ruote più larghe, pneumatici con una mag-giore superficie di aderenza al suolo e motori ben più grandi e potenti. Emozioni di un tipo diverso rispetto a quelle che può provare oggi il proprietario di una Porsche 991.

Siamo arrivati in cima alla collina. Ci fermiamo e scendia-mo dall’auto. La guardiamo nuovamente, a lungo. Per noi questa è la 911 nella sua forma più pura, quella in grado di estrinsecare meglio i contenuti di un progetto che si è rivela-to vincente. Quando si lavora bene, le soddisfazioni sono grandi. Personalmente sono convinto che anche una 912 del-la prima generazione (la 912E del biennio 1975-’76 è un’altra storia) possa rappresentare una scelta azzeccata, un mix di classe e gusto, con sotto il cofano il mitico quattro cilindri ex 356. Una delle prime 911 (o 912) potrebbe essere il prossimo sogno nel cassetto.

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Scelta imbarazzante

Nel giro di dieci anni dal suo lancio, la 911 ha introdotto molte migliorie, ma le versioni più ‘quotate’ restano le prime

AL GIORNO D’OGGI la gamma 911 comprende una quindicina di versioni, ma quando fu presen-tata nel 1963 ce ne era a disposizione una sola: prendere o lasciare. Molti presero. Entrata in pro-duzione l’anno successivo, questa 911 aveva uno stile che molti avrebbero imitato: un’elegante coupé ‘due più due’ con il motore posteriore boxer a sei cilindri da 130 cavalli e l’inconfondibi-le plancia coi cinque orologi (che poi avrebbe adottato anche la 912: sin troppo cheap la versio-

valgono di più di quelle del 1965, e così via. An-che se può sembrare assurdo sotto un certo punto di vista, le più ricercate sono proprio le auto an-cora prive di quelle migliorie che poi il costrutto-re avrebbe inserito tenendo conto proprio delle osservazioni della clientela!

Nei primi dieci anni di produzione, la Porsche ha sviluppato la 911 in modo significativo, mi-gliorandone le prestazioni, la maneggevolezza e la dotazione.

ne iniziale con tre soli strumenti). Grazie anche al peso contenuto in soli 1030 kg, le prestazioni era-no molto vivaci.

Le prime 911 prodotte risultano estremamente ricercate: un esemplare del 1965 è stato di recente venduto a un’asta americana per un valore che sfiora i duecentomila euro, e negli annunci fra privati può capitare di sentirsi chiedere 65mila euro per una 911T del 1969 e anche 40mila euro per una 912 del 1968. Le auto prodotte nel 1964

T U T T O I N I Z IÒ C O S Ì911 2 litri

TesTo Philip Raby e Robert Coucher

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PR I M A D E L L A C L A S S E911S

NON MOLTO TEMPO dopo il lancio della 911, Porsche propose una versione con più grinta, ve-nendo incontro anche a pressanti richieste in que-sto senso da parte della clientela. Le prime 911S (dove la S sta per ‘Super’) apparvero nel 1966. Il motore 2 litri era stato portato a 160 cavalli grazie a vari ritocchi, compresa l’adozione dei carbura-tori Weber triplo corpo 40 IDS. Con la 911S fecero la loro comparsa (dapprima tra gli optional e poi di serie) anche i cerchi in lega Fuchs che ben pre-sto, per il loro particolare design, divennero un tratto distintivo di questo modello, anche perché disegnati personalmente da ‘Butzi’ Porsche. Nel 1968 il passo di tutte le 911 (e anche della 912, ap-parsa nel 1965) fu portato da 2210 a 2268 millime-tri, e la potenza, con l’alimentazione a iniezione meccanica Bosch, arrivò a 170 cavalli.

Un anno dopo la cilindrata salì a 2195 cm3, con altri dieci cavalli in più. Con la versione 2.2 fece il

suo debutto alla base del lunotto un adesivo, oggi ricercatissimo dagli appassionati, con il disegno del motore e la sigla ‘2.2’. Questo adesivo con la scritta ‘2.4’ fu montato anche sulla versione intro-dotta nel 1972, per poi essere sostituito dal logo cromato ‘2.4’ posto a destra sulla parte bassa della presa d’aria del motore: dei due adesivi, questo è il più difficile da trovare.

Il rovescio della medaglia con l’adozione del motore 2.2 era però costituito dal fatto che si pote-va disporre della potenza extra al di sopra dei 5500 giri, a scapito ovviamente dei consumi. In-tanto la 911 aveva iniziato a percorrere la strada verso le ‘grandi Porsche’ arrivate successivamen-te. Una strada costellata di successi nel mitico ral-ly di Montecarlo, vinto nel ‘68 da Elford-Stone con una 911T (la T sta per ‘Touring’, versione ‘en-try level di cui parliamo a parte) e da Waldega-ard-Helmer con una 911S nel ‘69 e nel ’70.

Tuttavia, è la versione 2.4, introdotta nel 1972, a consentire alla 911 un ulteriore salto di qualità. Per la prima volta viene montato uno spoiler an-teriore, che aumenta alle più alte velocità l’ade-renza dell’avantreno di un buon 40%, stando a quanto dichiara la Casa. Il motore da 2341 cm3

dispone di 190 cavalli e il cambio ora ha la prima in avanti. Una curiosità rigurada il tappo dell’olio sella 911S 2.4. Per un solo anno la Porsche fece montare uno sportellino sul parafango anteriore destro: un accessorio ben presto eliminato perché troppi benzinai, a detta dei clienti, lo scambiava-no per il bocchettone di rifornimento carburante!

Le 911S pre-1973 sono ricercate per il mix che possono offrire in termini di prestazioni (225 km/h e 7,6 secondi da 0 a 100 km/h), soprattutto se dispongono dei cerchi in lega Fuchs, che la clientela a partire dal 1970 preferirà ai più moder-ni ma più anonimi ATS apparsi quell’anno.

LE PRIME 911

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LA PRIMA 911 era molto più costosa rispetto alla 356 che sarebbe andata progressivamente a sosti-tuire, così nel 1965 la Porsche decise di offrire anche una 912 con motore 1.6 a quattro cilindri come alternativa economica. Tuttavia, nel 1967 la Porsche presentò un allestimento ‘base’ con mo-tore a sei cilindri, destinato a prendere il posto della 912: la 911T (dove come abbiamo detto la T sta per ‘Touring’). I costi di produzione di questa versione furono ridotti rispetto alle altre utiliz-zando la ghisa per le teste del propulsore (al po-sto di acciaio e alluminio) e carburatori Weber più piccoli. Con un rapporto di compressione più basso la potenza era scesa a 110 cavalli. Inol-tre, furono eliminate le barre antirollio e adottati freni a disco pieno, non ventilato. Internamente i tappetini in feltro avevano preso il posto della moquette.

La 911T aveva di serie i cerchi in acciaio (quel-li in lega erano optional) ma, al di là di queste semplificazioni, ancor oggi per gli appassionati

questa versione va benissimo anche per un utiliz-zo quotidiano, grazie al suo motore con molta coppia e un carattere facilmente gestibile. Dopo la grande risonanza mondiale della vittoria di questa versione con Elford-Stone al ‘Monte’ del 1968, che ne incrementò le vendite, l’anno succes-sivo anche la 911T adottò il motore 2.2 da 125 ca-valli (ancora a carburatori) e i freni a disco auto-ventilati. Dal 1972 la potenza del propulsore 2.4 di questa versione fu limitata a 130 cavalli, ben sessanta in meno rispetto ai 190 cavalli della 911S.

Per il solo mercato americano, sempre a partire dal 1972, la 911T fu dotata di un motore a iniezio-ne (oltre Oceano fu chiamata 911T/E) da 140 ca-valli. Comunque per gli appassionati il sound della versione a carburatori risulta più piacevole rispetto a quella a iniezione. I colori di carrozzeria più ricercati oggi sono l’argento e il blu, meno ri-chiesti il beige e il marrone scuro. Per un esem-plare in perfette condizioni le quotazioni possono arrivare anche a 65mila euro.

E N T RY- L E V E L911T

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Tra la 911T entry-level e il top di gamma 911S fu creato nel 1967 l’allestimento 911L (vale a dire ‘Luxury’). Una versione di breve durata, che in realtà era un rifacimento con poche modifiche dell’originale 911 con motore di due litri. La ver-sione di fascia media, invece, prese il nome di 911E, dove la quinta lettera dell’alfabeto stava per ‘Einspritzung’, vale a dire alimentazione a inie-zione meccanica Bosch, che dava al motore due litri una potenza di 140 cavalli. Per gli appassio-nati la 911E è considerata la giusta via di mezzo fra l’economica T e la sportiva S: particolarmente interessante è la 2.2E, che ha una quotazione come auto storica più accessibile rispetto al corri-spondente allestimento S. Si va in media, a secon-da degli anni di produzione, da 25mila a 35mila euro, ma può capitare di spendere di più per esemplari in perfette condizioni.

Un’altra innovazione introdotta con la 911E, che pochi ricordano, è stata l’adozione degli am-mortizzatori idropneumatici autolivellanti, che ha reso superflue le barre antirollio: questo parti-colare sistema di sospensioni proseguì con il mo-tore 2.2 ma scomparve nella versione 2.4, soprat-tutto perché si scoprì che era incline a perdite e cedimenti. Va detto che nel corso degli anni i pro-

Un pedale in meno911 Sportomatic

Negli Anni 60 non era facile trovare sul mercato un’auto sportiva con il cambio automatico. Alla Porsche lo sapevano bene, ma volevano ugualmente proporre un modello a quella parte della clientela che non aveva dimestichezza con il pedale della frizione. Il discorso valeva in particolar modo per il mercato statunitense. La soluzione si chiamò ‘Sportomatic’, una trasmissione rivoluzionaria che, pur mantenendo un cambio convenzionale, consentiva di eliminare il pedale della frizione.

Tutto quello che si doveva fare per passare da un rapporto all’altro consisteva nello spostare la leva del cambio. Toccandola si faceva ‘lavorare’ la frizione automatica. Il cambio aveva sei posizioni: R per la retromarcia, L (Low) per la marcia bassa, D (drive), D3 (terza), D4 (quarta) e P per il parking. Era una soluzione intelligente, ma non ebbe il successo sperato, soprattutto perché molti guidatori avevano l’abitudine di viaggiare con la mano appoggiata sulla leva del cambio, gesto che nella Sportomatic fa disinserire la marcia.

La Porsche aveva iscritto tre 911 Sportomatic alla Marathon de la Route, un rally durissimo che si svolgeva su lunghe distanze. Vic Elford vinse la corsa e rimase così impressionato da quella versione da acquistare per sé una Sportomatic, dicendo dopo la gara che secondo lui tutte le 911 avrebbero dovuto essere dotate di questo tipo di cambio! Ben pochi, però, la pensavano come lui. Quando la produzione di questa particolare versione terminò nel 1980, ne erano state prodotte soltanto novemila.

Molte Sportomatic sono state modificate adottando delle trasmissioni di tipo convenzionale. Tanti puristi pensano che questa sia una versione per persone piuttosto eccentriche: in realtà è un’auto abbastanza divertente da guidare, una volta che si ha acquisito dimestichezza. Sicuramente è meno affaticante, soprattutto nel traffico, di una versione con cambio manuale.

Passo lungo o corto? Da quando è stata presentata la 911, la Porsche ha lavorato sodo per ridurre i problemi legati alla scelta di un motore piuttosto pesante e montato a sbalzo posteriore. Uno dei miglioramenti più significativi al riguardo è avvenuto nel 1968, quando retrotreno e passaruota sono stati arretrati di 57 millimetri in seguito all’incremento del passo, senza però modificare la lunghezza della vettura, rimasta di 4163 millimetri. Con il motore che sporgeva meno è cambiata la percentuale di ripartizione dei pesi fra avantreno e retrotreno: da 41.5/58.5 si è passati a 43/57, a tutto beneficio della maneggevolezza e delle reazioni della vettura nella guida sportiva su percorsi ricchi di curve. Oggi le 911 a passo corto sono ricercate da chi ama la guida senza compromessi, ed è abituato a salire in groppa a puledri ‘da addomesticare’. Un fatto è certo: non sono fatte per dei novellini.

V I A DI M E ZZ O911L e 911E

prietari di molte 911E hanno montato delle so-spensioni convenzionali, al punto che oggi è piut-tosto raro trovare modelli con gli ammortizzatori idropneumatici. Chi conosce poco la storia di questo modello, crede che sigla ‘E’ stia per ‘Eco-nomy’ e si meraviglia della sua quotazione…

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NEL 1972 LA CASA di Zuffenhausen introdusse una versione della 911 che sarebbe diventata ben presto una delle auto più desiderabili di sempre: la Carrera 2.7RS. Ancor oggi la domanda a livello mondiale per un esemplare di 2.7RS è semplice-mente incredibile. La sua quotazione minima parte da 120.000 euro, ma alle aste è stata battuta a un valore più di quattro volte superiore …

Il badge Carrera era stato utilizzato per la pri-ma volta su un modello Porsche alla fine degli Anni 50 per commemorare la doppietta nel 1954 di due 550 RS (Rennsport, sportiva da corsa) alla Carrera Panamericana. La 2.7RS era stata svilup-pata inizialmente per produrre 500 esemplari stradali in modo da ottenere l’omologazione del modello in Gruppo 4. L’idea iniziale era quella di creare, com’era stato fatto quasi vent’anni prima, una versione ancora più sportiva della 911S.

Come era avvenuto per la 356, alla Porsche avevano ovviamente pensato di fare una versione scoperta anche della 911. Ma c’era un problema: le auto con il tetto in tela avevano la vita dura negli Stati Uniti da quando nel 1965 l’avvocato Ralph Nader aveva pubblicato il famoso libro ‘Unsafe at any speed’ (Pericolosa a qualunque velocità) che sottolineava tutti i modi in cui un’auto poteva essere poco sicu-ra. Imperterriti, i progettisti di Zuf-fenhausen realizzarono una coupé-spider con tetto amovibile che si poteva riporre nel vano bagagli.Al Salone di Francoforte 1965 fu pre-sentata la Targa, in onore della corsa

Poco amata, ma…911 Targa

siciliana ideata dal barone Vincenzo Florio, dove la Porsche era sempre stata protagonista (sei vittorie in dieci anni). Un elegante rollbar in alluminio anodizzato situato fra portiere e lunot-to conferiva alla scocca una rigidità impensabile per spider e cabriolet con il tetto in tela. Le prime Targa prodotte avevano un lunotto amovibile in pla-stica trasparente circondato da un telo nero fissato con dei bottoni automati-ci. In seguito alle lamentele della clientela per le infiltrazioni d’acqua, nel 1968 fu sostituito da un lunotto fis-so curvo, dotato anche di resistenze antiappannamento.Per molti anni, come auto storiche, le 911 Targa furono richieste molto meno delle coupé: fra i puristi un esemplare in colore rosso era assolutamente da evitare perché veniva giudicato come

IC ON ACarrera 2.7RS

Il reparto marketing sosteneva che nessuno avrebbe pagato un prezzo più alto per una ver-sione più spoglia ma, fortunatamente, furono i progettisti e i responsabili del reparto corse ad avere l’ultima parola. La Carrera 2.7RS fu realiz-zata partendo proprio dalla 911S. Per cominciare, il motore fu portato a 2687 cm3, con canne dei ci-lindri in Nikasil per ridurre l’attrito. La potenza era salita a 210 cavalli, ma la vera differenza stava nel peso contenuto in soli 960 kg. Tetto, parafan-ghi e cofano erano in acciaio più sottile, stesso discorso per i cristalli laterali e posteriori. Nell’a-bitacolo, la ‘cura dimagrante’ riguardò l’elimina-zione dei due posti di fortuna posteriori e rivesti-menti delle portiere più semplici. Esternamente spiccavano i passaruota svasati, lo spoiler ‘a coda d’anatra’ e il logo Carrera in fiancata, nello stesso colore di parte dei cerchi in lega.

Il reparto marketing fu smentito in fretta: subi-to dopo la presentazione di questo modello, av-venuta nel mese di settembre del 1972, i 500 esemplari programmati trovarono tutti in pochis-simo tempo un acquirente, al punto che la Por-sche fu costretta a proseguire la produzione fino al mese di luglio del 1973, arrivando a 1580 esem-plari. La domanda fu tale che alcune Carrera 2.7RS, richieste da clienti che non avevano parti-colari esigenze agonistiche, furono allestite con pannelli di carrozzeria e cristalli standard!

Gli esperti dicono che la Carrera 2.7 RS è ogget-to di un mercato che richiede soltanto auto perfet-te, con numeri di telaio e motore esenti da dubbi e un valido pedigree alle spalle. Il fatto che un esemplare poco tempo fa sia stato venduto all’a-sta per 1,4 milioni di euro non fa altro che confer-mare questa tendenza.

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‘l’auto di chi voleva una Ferrari 328 GTS ma non poteva permettersela!’. Oggi le cose vanno meglio per questa versione, che si può trovare anche a 25-35mila euro (un po’ meno quelle con i ‘big bumpers’ post-1973). Il fatto

che la Porsche abbia appena presen-tato una versione 2014 della 911 Targa (con tetto elettrico che scompare in un apposito vano ed elegante rollbar in acciaio inox) significa che le idee valide non tramontano mai...

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22 GIUGNO 2014 ITALIA

DA UNA COSTOLA DELLA 911

Cura anabolizzanteSfruttando le pieghe del regolamento sono state sviluppate

numerose versioni ‘estreme’ e vincentiTesTo Andrea Massara

Nella 935/77 solo cofano e porte hanno la forma originale.

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23 GIUGNO 2014 ITALIA

TUTTO NACQUE NEL 1973, quando la CSI emi-se nuove regole per il Campionato Mondiale Sport-prototipi per il 1976, riformulando il Grup-po 5, detto“Silhouette”. Come spesso accade, lo scopo era limitare costi e prestazioni, ma anche offrire un’immagine delle auto da corsa più vici-na alle sportive stradali. Chi ne seppe approfitta-re al meglio fu la Porsche, che aveva già messo in pratica il cambiamento di rotta dei regolamenti con la Turbo RSR del 1974. Si trattava quindi di prendere la 911 e applicarle le modifiche più estreme. Del resto, si sa, i progettisti di auto da corsa passano metà del loro tempo a migliorare le prestazione in base a quello che dice il regola-mento, l’altra metà la dedicano a ciò che il regola-mento “non” dice. Si accorsero che si poteva modificare l’aspetto di ciò che stava sotto la quota dei mozzi-ruota, che i parafanghi potevano mutare forma, che era per-messo applicare un alettone. Infine, se c’era il tur-bo di serie, questo poteva essere adeguatamente

“pompato” (anche duplicato), calcolando la cilin-drata virtuale secondo il fattore 1,4. La cubatura reale di 2850 cm3 sarebbe equivalsa ai 4 litri di un motore atmosferico. Era nata la 935. Inoltre, nulla si diceva della posizione dei fari che, guarda caso, nella 911 sono integrati nei parafanghi. Il risultato lo vediamo in queste pagine. Dalla 930 turbo RSR, tutto sommato una 911 ancora riconoscibile, si arrivò alla 935, presto trasformata con i fari di-slocati in basso e il muso appiattito. Formula che si portò all’estremo con la “Moby Dick” dove, da sotto l’estrema profilatura, spunta inconfondibile il classico guscio dell’abitacolo tipo 911. Grazie alle vittorie ottenute (Campione del Mon-do Marche dal 1976 al ’79) la 935 divenne l’auto da emulare. Alcuni preparatori cominciarono a ritoccare le 911 di serie, al punto che persino la Porsche stessa arrivò a proporre la modifica “Fla-chbau” (muso piatto) sulla Turbo stradale. Un lavoro fatto a mano che faceva lievitare il prezzo dell’auto di un buon sessanta per cento!

La Turbo RSR del 1974 è una 2140 cm3 per rientrare nella classe 3 litri.

La “Moby Dick” del 1978, estremo sviluppo della 935

con un 3.2 da 750 CV.

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PORSCHE AUTO ELETTRICA

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25 GIUGNO 2014 ITALIA

LA GIUSTA SCOSSA

Alla fine dell’Ottocento il ventiduenne Ferdinand Porsche realizzò un’incredibile auto elettrica, la prima

in Europa: una ‘carrozza senza cavalli’ da 34 km/h con quasi 80 di autonomia. Ritrovata per caso in un fienile, è esposta nel Museo di Stoccarda

TesTo Roberto Potenza // FoTograFie Archivio Porsche

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26 GIUGNO 2014 ITALIA

PORSCHE AUTO ELETTRICA

Quasi tutte le Case automobili-stiche stanno riscoprendo la trazione elettrica per nuovi modelli rispettosi dell’am-biente. Alcuni sono già pro-dotti in serie: dalla sorpren-dente Tesla, che dichiara

un’autonomia superiore a 300 chilometri, alla Nissan Leaf, dalla Peugeot iON alla Renault Zoe, per citare soltanto le prime che vengono in mente.

L’auto elettrica non rappresenta una novità. Tutt’altro. Esisteva già cento anni fa. Il numero maggiore di modelli completamente elettrici ha visto la luce negli Stati Uniti. Il primo in assoluto fu il ‘wagon’ a sei posti di William Morrison, un chimico scozzese che si era stabilito nello Iowa nel 1880 e aveva costruito la sua auto elettrica in un seminterrato conosciuto come ‘La Grotta’. La sua ‘quattro cavalli’ a trazione anteriore dalla for-ma di una carrozza viaggiava su ruote in acciaio rivestite in legno, e fu esposta per la prima volta nel 1888 in occasione di una parata, tra lo stupore degli astanti che non avevano mai visto prima una carrozza senza cavalli.

Raggiungeva una velocità di punta di 20 miglia orarie (32 km/h circa) e vantava un’autonomia di 50 miglia (80 km). Le attenzioni di Morrison era-no rivolte più alle batterie che alle auto, così, dopo aver depositato il brevetto della sua auto, nel 1891 ne vendette i diritti all’American Battery Company.

L’auto di Morrison sarebbe stata ben presto af-fiancata da molte altre, compresa quella a forma di siluro (la ‘Jamais Contente’ del 1899) detentrice di un record di velocità con 65,8 miglia orarie, pari a 104,6 km/h con al volante il suo creatore, il belga Camille Jenatzy.

Facciamo a questo punto un doveroso passo indietro. Un anno prima del ‘siluro’ di Jenatzy, un certo Ferdinand Porsche, allora ventiduenne, creò per la Casa viennese Egger-Lohrer la C2 Phaeton, poi ribattezzata P1, la prima auto elettrica euro-pea oltre che la prima in assoluto a essere stata pensata da questo geniale progettista. Trovata di recente in un capanno austriaco, dove riposava dal lontanissimo 1902, costituisce un punto di ri-ferimento fondamentale nella storia dell’auto. Dal febbraio scorso fa bella mostra di sé al museo Porsche di Stoccarda, con la carrozzeria (quella originale è andata perduta nel frattempo) rico-struita in plastica azzurra trasparente.

Nata con l’intento di porre fine alla trazione animale, ma era mossa da un propulsore elettrico strabiliante. Ideato anch’esso da Porsche e di for-ma ottagonale, era posizionato nel retrotreno, praticamente in mezzo alle sospensioni, erogava 3 cavalli di potenza continua, con picchi fino a 5 cavalli, e permetteva di arrivare all’incredibile – per quei tempi - velocità di 34 km/h con ben 78 chilometri di autonomia. Il tutto con una ‘scocca’

in legno e ferro che pesava 1350 chilogrammi, con le batterie da 44 celle che arrivavano a 500 chili e una portata di quattro passeggeri.

Come succederà molti anni dopo con le Por-sche ‘vere’, sono le prestazioni a rendere questa vettura un vero e proprio capolavoro d’ingegne-ria. Per dare un’idea, le carrozze a cavalli viaggia-

vano intorno ai 16-18 km/h. Il 28 settembre 1899 a Berlino la P1 vinse una gara dedicata ai veicoli elettrici arrivando ben 18 minuti prima del secon-do classificato su un percorso di 40 chilometri. Fu anche l’auto che consumò meno energia!

Tra le innovazioni introdotte da questo model-lo, oggi interamente restaurato dagli specialisti

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Nell’altra pagina e a fiancoFerdinand Oliver Porsche,dopo aver osservato i documenti originali della P1, si fa fotografare accanto alla prima vera Porschedella storia, che ora fa bella mostradi sé al museo di Stoccarda.

EGGER-LOHNER C.2 1898 MOTORE Elettrico ottagonale con differenziale

POTENZA Continua 3 cavalli, 5 cavalli mediante sovraccarico (40-80 Volt) TRASMISSIONE Trazione posteriore con differenziale al retrotreno (1:6,5)

permanente, riduttore, differenziale centrale bloccabile STERZO Agente sull’asse anteriore SOSPENSIONI A balestre

FRENO Meccanico a nastro, elettrico a corto circuito PESO Complessivo 1350 kg (batterie 500 kg; motore 130 kg)

PRESTAZIONI Vel max 35 km/h (25 km/h di crociera) AUTONOMIA Da 3 a 5 ore (distanza percorribile: circa 80 km)

del museo Porsche, vanno ricordate le ruote gom-mate con i raggi, proprio come quelle delle car-rozze, la scritta P1 presente su ogni mozzo (su cui, come vedremo, si è nel frattempo scatenata una polemica) e la carrozzeria per la quale Porsche aveva previsto anche una copertura per l’inverno in modo da poter utilizzare il veicolo tutto l’anno.

Tra gli esperti c’è chi sostiene che la punzona-tura indicante la sigla del modello che oggi appa-re sui mozzi delle ruote sarebbe stata applicata nell’estate del 2009. Lo dimostrerebbe un’imma-gine di cinque anni fa, destinata a far parte di un dossier realizzato per il Museo della Tecnologia di Vienna. Inoltre, l’unico collegamento autentico fra quest’auto elettrica e Ferdinand Porsche sa-rebbe costituito dal fatto che il progettista avrebbe lavorato come apprendista nell’azienda di carroz-ze che collaborò alla realizzazione della P1.

In attesa di fare chiarezza su questo aspetto della vicenda, va sottolineato un punto importan-te. Le auto elettriche già più di un secolo fa erano giudicate ‘pulite’, facili da mettere in moto, silen-ziose, senza cattivi odori allo scarico e adatte per compiere brevi tragitti. Tutto questo fece sì che piacessero soprattutto al pubblico femminile: l’auto elettrica Baker fu presentata con un ‘ma-ke-up’ al femminile. Piace ancor oggi ad alcuni editorialisti del settore auto, come il nostro Jay Leno, che ne possiede una nel suo garage.

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28 GIUGNO 2014 ITALIA

PORSCHE AUTO ELETTRICA

La prima auto elettrica Baker, costruita a Cleve-land, fu acquistata nel 1899 nientemeno che da Thomas A. Edison, all’epoca già famoso per le sue lampadine. Convinto che le auto elettriche rap-presentassero il futuro, aveva già cominciato a sviluppare delle batterie appositamente per loro. Allo scoccare del nuovo secolo la Baker Electric si era già trasferita in locali più grandi e nel 1910 era diventata il più grande produttore di auto elettri-che al mondo. La caduta della società fu, però, altrettanto veloce quanto la sua ascesa. Dal 1915 si era fusa con la Rauch & Lang per concentrare la produzione e cercare altre forme di business, ma la gamma del 1916 sarebbe stata l’ultima a vedere la luce. Peccato, se si pensa che l’esemplare posse-duto da Jay Leno ancor oggi arriva a disporre di un’autonomia di 160 chilometri.

Più di un secolo fa le auto elettriche sembrava-no rappresentare il futuro; quindici anni più tardi erano condannate. Tutta colpa di quelle dannate batterie e del …petrolio.

Perfino Henry Ford – il cui fenomenale succes-so della sua ‘Modello T’ avrebbe annientato l’auto elettrica – si era messo in società con l’amico Edi-son per sviluppare la vettura conosciuta come Edison-Ford. Quel progetto naufragò presumibil-mente a causa dell’insistenza di Edison nel voler utilizzare batterie al nichel-ferro. Quando Ford scoprì che i suoi progettisti avevano sostituito le più efficienti batterie a piombo e acido, uccise il progetto!

Paradossalmente, fu l’elettricità sfruttata per un fine diverso ad accelerare ulteriormente la fine dell’auto senza motore a scoppio. L’avviamento elettrico, realizzato da Charles Kettering nel 1912, rese i motori a benzina molto più facili da vivere. La produzione in serie attuata da Henry Ford fece il resto, riducendo rapidamente il prezzo delle auto a benzina a un livello tale da rendere impos-sibile il confronto per le auto elettriche. L’aspetto economico e la percezione che l’auto a benzina poteva essere utilizzata per percorsi molto più lunghi, chiuse l’avventura della mobilità elettrica fin dal 1920. Per decenni, grazie alla disponibilità di benzina a basso costo, non se ne parlò più. Sol-tanto a metà Anni 60 iniziarono timidi tentativi per far rivivere le auto elettriche, ma allora i temi ambientali non erano così urgenti da affrontare come ai giorni nostri.

Dall’altoIl motore di forma ottagonale,

il volante stile tram(manca il pomello

per agevolarne l’azionamento)e un particolare del motore, opportunamente sezionato.

Sopra le balestre del tipoa ‘sette foglie’. R

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30 GIUGNO 2014 ITALIA

RIVA REVIVAL Ferruccio Lamborghini possedette

per più di vent’anni un motoscafo Riva mossoda due motori delle sue supercar. È stato appena

restaurato dopo vent’anni di abbandonoTesTo Mark Dixon // FoTograFie Maurice Volmeyer e Riva-World

L’AQUARAMA DI LAMBORGHINI

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Diventa difficile trovare un oggetto che sia più glamour di un motoscafo Riva Aqua-rama, soprannominato ‘la Rolls-Royce dell’acqua’. Im-mediatamente riconoscibile per il suo parabrezza avvol-

gente e per lo scafo in mogano verniciato, spinto da due muscolosi motori V8, era un simbolo VIP un po’ in tutto il mondo e in posti-bene come i laghi italiani, la Costa Azzurra (anche il principe Ranieri e Grace ne avevano uno) e la Florida.

In termini di classicità nello stile di un moto-scafo, niente può superare un Aquarama. Con una sola eccezione: quella che vedete in queste pagine. Non è un caso che nella foto di apertura dietro a questo splendido natante sia parcheggia-

ta una Lamborghini 350 GTV, la prima supercar stradale prodotta da Ferruccio Lamborghini in seguito a una feroce litigata con Enzo Ferrari. Po-trebbe trattarsi di una leggenda metropolitana, ma ripensando al carattere dei due personaggi in questione ci sono buone probabilità corrisponda al vero. La vicenda si svolse nell’ufficio del ‘Dra-ke’: ‘Occupati dei tuoi trattori – avrebbe detto Fer-rari a Lamborghini, che era suo cliente – che di auto non ne capisci niente’.

L’Aquarama in primo piano monta, infatti, due motori Lamborghini V12 al posto dei V8 General Motors che facevano parte della dotazione stan-dard di questo modello. Ferruccio Lamborghini lo ordinò per sé chiedendo di montare due suoi motori (un ‘optional’ del tutto particolare) e lo utilizzò per una ventina d’anni, facendone un

esemplare unico al mondo, prima di venderlo nel 1989. L’imbarcazione fu riscoperta nel 2010, quan-do stava marcendo in un cantiere italiano in To-scana. Mancava uno dei due motori V12 (ritorna-to nel frattempo al museo Lamborghini), ma, in seguito a un accurato restauro da parte di Ri-va-World, uno specialista olandese, l’Aquarama Lamborghini è tornato a disporre di una favolosa coppia di propulsori.

Molti sono convinti che questo motoscafo sia stato protagonista della ‘dolce vita’ sin dagli Anni 50, in realtà la sua produzione ebbe inizio soltan-to nel 1962, quando subentrò al Tritone nella gamma dei cantieri Riva di Sarnico. Il suo nome probabilmente si rifà ai film in formato windscre-en ‘Cinerama’, in onore al parabrezza avvolgente. Si distingueva dal Tritone anche per la passerella

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che consentiva di salire a bordo passando dal pozzetto di poppa.

Un oggetto del desiderio amato in particolar modo dalle donne che praticavano lo sci d’acqua e prediletto dai playboy. Un giocattolo estrema-mente costoso: alla fine del 1960, il suo listino ‘base’ riportava 13 milioni di lire, cinque più di una Ferrari 365 GT 2+2.

La storia dell’azienda è stata caratterizzata da alti e bassi: fondata nel 1842 da Pietro Riva, fu venduta nel 1969 da un discendente di Carlo Riva alla statunitense Whitaker Corporation; fu suc-cessivamente rilevata dal Gruppo britannico Vi-ckers (noto per i suoi motori d’aereo) nel 1988, per tornare alla sua attuale proprietà italiana nel 2000. L’Aquarama si è dimostrato un modello particolarmente longevo, l’ultimo esemplare in legno fu realizzato nel 1996, anche se i proprietari americani avevano introdotto la fibra di vetro nella gamma Riva già a partire dal 1969.

Fu prodotto in meno di 800 esemplari. Quelli arrivati a giorni nostri vengono solitamente bat-tuti alle aste a cifre che si aggirano sul mezzo mi-lione di euro (un miliardo delle vecchie lire).

L’uomo incaricato di riportare l’Aquarama ex Lamborghini alle condizioni originali è Sandro Zani, fondatore del ‘Riva-World’, l’azienda olan-dese che dodici anni fa restaurò per la prima vol-ta un motoscafo prodotto dall’azienda di Sarnico. ‘Un restauro particolarmente impegnativo – rac-conta Zani – soprattutto per il legno pregiato con cui venivano realizzate questa imbarcazioni.

‘Quando Lamborghini nel mese di maggio del 1968 ordinò il suo motoscafo personale – prose-gue Zani – gli fu assegnato l’esemplare numero 278. Era già stato realizzato con i V8 General Mo-tors ‘standard’ da 220 cavalli. Ma Ferruccio era fermamente convinto il suo motoscafo personale dovesse essere spinto da due motori V12 che por-tavano il suo nome, per cui fece modificare la par-te posteriore dello scafo in modo da poter acco-gliere motori più lunghi rispetto ai V8, con tubi di scarico di foggia diversa’.

Ovviamente i Lamborghini V12 erano motori molto più potenti dei V8 General Motors. Anche se gli alberi di trasmissione erano stati opportu-namente modificati, ben presto emersero alcuni problemi. ‘La barca – ricorda Zani – era pronta ad agosto, ma Ferruccio si rese subito conto che qualcosa non andava. I motori destinati a una su-

nodi: non è per niente facile da trovare! Le strisce venivano pressate a forma, incollate e fissate con delle viti di bronzo, ma le articolazioni dei due strati diagonali non erano mai perfette da nuove: poteva penetrare col tempo l’acqua di mare la-sciando delle macchie nere’.

‘Queste macchie si possono anche rimuovere – conclude Zani – ma inesorabilmente tenderan-no a ricomparire. Alcune parti in legno di questo Aquarama erano in condizioni decenti quando l’abbiamo ritrovato, ma il rivestimento esterno era indebolito dal tempo e si staccava con facilità dalla sede. Il telaio nella zona vicino ai serbatoi del carburante era danneggiato dalla lunga per-manenza in mare, per questo abbiamo deciso di sostituire la chiglia. Abbiamo trovato dell’ottimo mogano in Africa, ma era ormai impossibile repe-

percar avevano potenza e coppia troppo in alto. I Riva inviarono il loro ingegnere capo, Lino Moro-sini, al cantiere che si trovava nei pressi della resi-denza estiva di Lamborghini a Cervia. Qui i mo-tori V12 (derivati da quelli montati su 350 GTV, 400 GTV e Islero) vennero smontati, analizzati e rimontati più volte. A un certo punto Ferruccio ordinò ai suoi ingegneri di modificare uno dei propulsori in modo da renderlo controrotante ri-spetto all’altro. Interventi furono effettuati anche sul sistema di lubrificazione, mentre fu adottata un’unica pompa dell’acqua al posto delle due originali. I motori venivano raffreddati pompan-do l’acqua di fiume, lago o mare che fosse, ricor-rendo a uno scambiatore di calore. A questo pun-to è evidente che i cantieri Riva, da un certo momento in poi della nostra storia, c’entrarono ben poco con lo sviluppo dei propulsori, anche se intorno a quel motoscafo stava prendendo corpo la brutta nomea di un esperimento fallito.

Finalmente, le modifiche apportate ai V12 sembrarono sortire l’effetto sperato. Ferruccio in persona pilotò il suo Riva modificato, con il pugi-le Nino Benvenuti come navigatore, nel 1969 nel-la gara di sci nautico Pola-Cervia. Prese parte a questa competizione anche nel 1970, ma poi uti-lizzò più raramente l’imbarcazione per venderla nel 1989, dopo che al posto dei Lamborghini V12 furono rimontati i V8 originali Riva di derivazio-ne General Motors, più affidabili e soprattutto con una migliore reperibilità dei ricambi.

Sorprendentemente, quando la barca fu ritro-vata nel 2010, al suo interno fu rinvenuta una let-tera firmata da Ferruccio Lamborghini, che con-fermava il trasferimento di proprietà. A oltre quarant’anni dalla sua realizzazione, l’Aquara-ma era conciato piuttosto male: ‘I raccordi origi-nali – dice Sandro Zani – tra scafo e motore c’era-no tutti, ma era evidente il risultato di decenni di esposizione all’acqua di mare. Il problema, aven-do a che fare con barche di questo tipo, è che non si possono nascondere i segni dell’usura. Il legno è laccato, non verniciato.

‘Il cosiddetto ‘guscio’ di un Aquarama – prose-gue Zani – è composto da tre strati di mogano, due sovrapposti diagonalmente in modo da for-mare una X, e il terzo che procede longitudinal-mente, dalla prua alla poppa. Pensate a un unico pezzo di mogano da sei millimetri, che deve esse-re assolutamente perfetto e del tutto privo di

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L’AQUARAMA DI LAMBORGHINI

‘FER RUCCIO VOLEVACHE IL SUO R I VAFOSSE SPINTODA I SUOI MOTOR I’

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rirlo nella stessa qualità di quello utilizzato per questi motoscafi negli Anni 60’.

Negli Aquarama il mogano è utilizzato ampia-mente: per lo scafo, la chiglia, parte del telaio, i supporti dei sedili. Poi c’è un multistrato di mo-gano, costruito in nove livelli per i pannelli di fondo, posti al di sotto della linea di galleggia-mento (la cosiddetta ‘opera viva’). Cenere e cedro vengono utilizzati nella zona della cabina di gui-da, mentre l’abete serve per i blocchi di sostegno sotto la piattaforma e il faggio per tutto ciò che ha bisogno di una piegatura, come ad esempio gli angoli arrotondati dei sedili e del ponte’.

‘Per darvi un’idea – spiega Zani – del tempo necessario per ripristinare un Riva a regola d’ar-te, vi ricordo che dopo aver carteggiato a mano l’esterno dello scafo nudo, si procede alla sua le-

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vigatura con molta precisione. Deve essere poi lasciato a riposo per cinque o sei giorni, in modo che eventuali aloni presenti sulla superficie pos-sano evaporare’.

Successivamente vengono applicate tre mani di vernice chiara: operazione fatta a mano con il pennello, in modo che penetri progressivamente nel legno. Per arrivare a uno spessore corretto della vernice, devono essere applicate a intervalli regolari altre venti mani: questa operazione ri-chiede tre mesi di tempo. Una volta che il rivesti-mento di vernice è giudicato di uno spessore suf-ficiente, lo scafo è sottoposto a una finissima levigatura prima di passare almeno tre mani di vernice resistente ai raggi ultravioletti. Altra levi-gatura e altre tre mani di vernice spruzzata, men-tre la parte destinata a rimanere sempre immersa nell’acqua viene trattata con un antivegetativo. Il tocco finale è stato il restauro della grande scritta cromata ‘LAMBORGHINI’ a lettere maiuscole, il cui originale era stato trafugato nel lungo periodo di abbandono dell’imbarcazione’.

Trattare i legni di un Aquarama è cosa nota per Sandro Zani e il suo team di specialisti. Ben altro affare è stato trovare e ricostruire due motori Lamborghini V12 4.0 montati su un’Espada. ‘Il primo motore – ricorda Zani – lo trovammo in Germania, il secondo negli Stati Uniti’.

Poiché un motore originale Lamborghini si tro-va nel museo di Dosso, in Emilia, fu giocoforza andare a dargli un’occhiata. In cambio di un mo-dellino del motoscafo, fu consentito ai restaurato-ri di smontare il motore originale e prelevare al-cune parti. Sandro Zani si recò personalmente al museo almeno una volta al mese per parecchio

tempo. Si trattò di ‘copiare’ i motori originali, ren-dendoli più malleabili con l’adozione (studiata al computer) della curva di coppia del Riva 350. Alla fine, ci vollero più di due anni prima che ne-gli Stati Uniti il primo motore fosse testato al ban-co di prova.

Tutte le parti del propulsore, collettori, alberi a camme, alberi a gomito e collettori di scarico fu-rono sostituiti e rifatti a mano. Si intervenne an-che su alesaggio e corsa per migliorare la curva di coppia. I due motori furono portati da 4 a 5,5-litri. Al propulsore che deve lavorare in modo contro-rotante furono praticati nuovi fori per la lubrifica-zione.

Dopo quasi tre anni dall’avvio del restauro del-la meccanica venne finalmente il momento di provare scafo e motori in acqua. ‘Scoprimmo qualche perdita – ricorda Zani – per fortuna non era niente di serio. Su un lago in Olanda il moto-

scafo arrivò a 87 chilometri all’ora! Il primo vero giro di prova, però, avvenne sul lago d’Iseo. Ri-cordo che era il 26 agosto. Invitammo Carlo Riva e Fabio Lamborghini. Era una giornata fantastica, nonostante le previsioni del tempo fossero pessi-me. C’era il sole e il lago era deserto. Carlo e Fabio si alternarono al volante e fu esaltante sentire la potenza e il suono di quei due ‘quattromila’ V12!’.

‘Oggi questa barca – dice Sandro Zani – è abba-stanza facile da pilotare. Ci sono leve separate per ognuno dei due motori, per le manovre in spazi ristretti si può decidere di usarne uno solo. Anche se ci sono i contagiri nella strumentazione, sono motori che si valutano ‘a orecchio’, ed è una sen-sazione esaltante’.

Tra l’altro questa esperienza ha consentito alla Lamborghini di dare vita a una nuova famiglia di motori marini, destinati agli scafi offshore. Il mo-toscafo rimane invece un esemplare unico.

‘IL R ESTAURO DELL’AQUA R A M A

FU SUBITOA PPROVATO

DA L A MBORGHINIE R I VA’

ESISTE UN VIDEO affascinante sul restauro di questo Aquarama, con filmati di repertorio della produzionedi questo motoscafo a inizio Anni 60. Basta digitaresu YouTube ‘Restauro totale Riva Aquarama Lamborghini 278’. Per maggiori informazioni su Riva-World il sito internet di riferimento è www.riva-world.com.(Si ringrazia per la collaborazione la Riva Historical Society, con sede in via Salvioni 14 a Milano,info su www.rivahistorical.org)

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L’AQUARAMA DI LAMBORGHINI

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Nell’altra pagina, in senso orario da sinistra Ferruccio Lamborghini (in abito scuro, a destra) parla con Carlo Riva durante la sua visitaa Sarnico, nel 1968, dove è arrivato con la nuova Islero, che si vede sullo sfondo; l’imprenditorein pieno relax prima della gara di sci nautico Pola-Cervia del 1969; lo stesso giorno, a luglio, con a bordo sorridenti il campione di sci nautico Antonio Marussi e il pugile Nino Benvenuti.

1968 RIVA AQUARAMAMOTORI Due Lamborghini 5,5 litri V12, ciascuno con sei carburatori Weber 40DCOE

POTENZA 322 cavalli a 5100 giri COPPIA 513 Nm a 3600 giri SERBATOI Due da 240 litriTRASMISSIONE due Borg-Warner tipo Velvet Drive 72 in presa diretta con riduttori idraulici

PRESTAZIONE Vel max 48 nodi (88 km/h); un V8 Aquarama ‘standard’ può raggiungere i 40 nodi (64 km/h)

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IL RESTAUROServono vari strati di legno per ricostruire un Riva…

In senso orario da sinistraTutti i pannelli esterni sono stati rimossi e rimessi a nuovo, perché l'esposizione all'acqua di mare aveva provocato dei danni impossibili da mascherare con il semplice flating. Tuttavia, le cornici dei sedili e la struttura sottostante erano ancora in condizioni notevoli; i due motori V12 ricostruiti sono stati temporaneamente installati nello scafoper le prove prima della verniciatura finale e la sistemazione delle cromature.

Sopra, da sinistra Quando fu scoperto nel 2010, il Riva appartenuto a Ferruccio Lamborghini era

in un cantiere sul mar Tirreno, nei pressi di Pisa, dove era fermo da molto tempo.Si notino nella poppa la scritta corsiva verniciata in nero ‘Lamborghini’ al posto delle lettere cromate maiuscole. L’interno era straordinariamente completo. Ogni singola

parte è stata smontata, pulita e, se necessario, riparata; anche il rivestimento del sedile era originale, ma sbiadito e indebolito dall’esposizione alle intemperie.

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L’AQUARAMA DI LAMBORGHINI

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LE AUTO DEI RECORD DI VELOCITÀ

38 GIUGNO 2014 ITALIA

UNA NOTTEAL MUSEO

Una mostra sui record di velocità al National Motor Museumdi Beaulieu e un anniversario legato a Donald Campbell, hanno offerto lo spunto a Octane per trascorrere una serata particolare

TesTo David Lillywhite // FoTograFie Matthew Howell

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LE AUTO DEI RECORD DI VELOCITÀ

40 GIUGNO 2014 ITALIA

Le auto sono creature vive! L'abbiamo sempre sospetta-to, ma adesso abbiamo la pro-va. Alle due di notte il Natio-nal Motor Museum di Beaulieu (GB) è un posto da brividi (in tutti i sensi), incute

perfino paura. Dalla campagna circostante si sen-tono i lugubri versi dei gufi, i pipistrelli (che no-toriamente ci vedono poco) svolacchiando sbat-tono contro le grondaie e qualche vecchia finestra scricchiola, mossa dal vento.

Vi starete chiedendo cosa ci facessimo a quell'ora insolita in un museo? Questa è una delle ‘grandi idee’ che a volte vengono in redazione. Perché non festeggiare in modo insolito il mezzo secolo trascorso dal doppio record di velocità su terra e sull’acqua, conquistati nello stesso anno da Donald Campbell? Al National Motor Mu-seum di Beaulieu, in Inghilterra, è in corso una mostra sui record di velocità, da qui il progetto di trascorrere una notte insieme a queste grandi auto da record che hanno fatto epoca, dormendo accanto a loro. Non da soli, ovviamente, ma in compagnia di Don Wales, nipote di Donald Cam-pbell (era suo zio, non suo nonno) e del fotografo Matthew Howell.

Eccoci dunque, nel bel mezzo della notte, con sacchi a pelo alla mano e materassini gonfiabili forniti nientemeno che dal maggiordomo di Lord Montagu, il proprietario del museo. Prima di ac-comiatarsi da noi, l’ingegnere capo Doug Hill ci ha illustrato le varie tecniche per salire e scendere dalle auto da record. Ci ha anche generosamente invitato a metterci al volante di tutte le auto espo-ste: ‘Per favore però – ha aggiunto – non fatelo con una monoposto di Formula 1, la Lotus 49: non ci vuole niente per rimanere incastrati nel suo angusto abitacolo…’

Uscito Doug Hill, l’edificio è completamente a nostra disposizione. Ci si sente come bambini in un parco giochi! Ci aggiriamo per le sale guardia-mo attraverso i finestroni del mezzanino che dan-no sui laboratori sottostanti.

La prima auto da record che ammiriamo è la Gordon Bennett del 1903. A guardarla ci vengono i brividi, probabilmente perché ricordiamo quan-do la vedemmo per la prima volta e riuscivamo

soltanto a esclamare ripetutamente ‘Gordon Ben-nett!’ con profonda ammirazione.

La mostra dedicata alle auto da record è posi-zionata per metà in una stanza che di notte è piut-tosto buia, situata all’interno dell'edificio centrale del museo. Le tre attrazioni principali sono al loro posto: si tratta della Sunbeam 1000 HP del 1926, della Golden Arrow del 1929, entrambe di Sir Henry Segrave, e del Bluebird CN7 del 1960 di Donald Campbell. La Sunbeam 350 HP di suo padre, Sir Malcolm Campbell, è invece ancora in officina per alcuni controlli, essendo tornata da poco dall’esposizione francese di Rétromobile. Al di fuori di questa stanza si trovano altre cinque auto da record, compresa la Bluebird Electric che fu guidata da Don Campbell, che è qui con noi.

Non è la prima volta che ci troviamo di fronte a queste auto, ma in questa stanza separata dalle altre colpiscono di più per le loro dimensioni. Don si appoggia al passaruota della CN7, dice che lo assale un vortice di ricordi – possiamo ca-pirlo, è l’auto che fu guidata da suo zio. Notiamo che è appena poco più alto del passaruota.: Quel-le gomme sono davvero enormi! Con nessun al-tro intorno, la maestosità di queste vetture si sen-te in modo ancora più struggente, anche perché possiamo esaminarle con tutta calma.

Iniziamo con l'enorme Sunbeam 1000HP in co-lore rosso, soprannominata in modo davvero poco lusinghiero ‘La lumaca’. Lunga sette metri e 62 centimetri e larga due metri e 43 centimetri, ha il frontale ricurvo, una carrozzeria di forma piat-ta e le ruote coperte come principale concessione sul piano aerodinamico. Con questa ‘lumaca’ nel 1920 Henry Segrave raggiunse i 326 km/h a Daytona Beach, nonostante un peso che sfiora le quattro tonnellate. Era mossa da due motori Sun-beam Matabele di 22,4 litri, uno posizionato ante-riormente e l’altro posteriormente. Una volta av-viati, i due motori erano sincronizzati tra loro tramite un innesto a denti, e la trasmissione del moto avveniva tramite una grande catena rac-chiusa in un alloggiamento in acciaio blindato. Se il tutto appare piuttosto grezzo e sembra rifarsi al mondo dell’agricoltura è anche perché all’inizio degli Anni 20 la Sunbeam era maledettamente a corto di soldi e fu costretta a fornire a Segrave dei motori che in precedenza erano stati montati su

un’imbarcazione. Quanto alle gomme, che dove-vano reggere un peso del genere, potevano viag-giare a 200 miglia orarie (320 km/h) al massimo per tre minuti e mezzo.

Guardando la Sunbeam, nulla smentisce in noi l’impressione di avere a che fare con una cosa ‘molto dura e poco pura’. La carrozzeria in allu-minio poggia su una struttura in tubi che fa da telaio e che si intuisce a occhio nudo quanto sia pesante. Buona parte di questa ‘ossatura’ è visi-bile dal posto di guida e si capisce come il proget-tista Louis Coatalen potesse soltanto immaginare le sollecitazioni alla quale l’auto sarebbe stata sottoposta viaggiando a più di 300 km/h! Non esiteva ancora alcuna simulazione al computer, a quei tempi…

Per salire a bordo della Sunbeam, è meglio mettere un piede (dopo essersi tolti le scarpe) in una delle prese d’aria laterali per poi issarsi lette-ralmente al posto di guida. Lo spazio è parecchio, ma si guida allungati, è un po’ come stare in una vasca gigantesca. I motori sono in officina in atte-sa di essere sistemati (serve uno sponsor munifi-co o una grande raccolta di fondi tramite sotto-scrizione) ma non ci vuole molto per capire che servono davvero dei nervi d’acciaio per condurre una belva del genere.

Come bambini in un grande negozio di dolci, saltiamo da un'auto all'altra. Prossima fermata la Golden Arrow (Freccia d’Oro), altro pezzo forte della ‘scuderia’ di Segrave. Un’auto più leggera dal design molto più complesso. Qui il motore è uno solo, un Napier Lion di derivazione aeronau-tica di 23,9 litri da 925 cavalli. La carrozzeria, ope-ra di Thrupp & Maberly, sembra uscita da un cartone animato dell’epoca o dal film semi-carto-on ‘Chi ha incastrato Roger Rabbit?’, con una enorme pinna posteriore e dei bulbi laterali che contengono impacchi di ghiaccio con cui raffred-dare il motore (non ci sono radiatori).

Nel marzo del 1929, dopo un solo test, Segrave raggiunse 231,45 miglia orarie (oltre 370 km/h) a Daytona davanti ad oltre 120mila spettatori. Un anno dopo morirà tentando di battere il record mondiale di velocità sull’acqua. L’entità della fol-la presente a Daytona dimostra l’attenzione con cui venivano seguiti i tentativi di battere i record di velocità.

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‘SENZ A NESSU N A LTROIN GIRO, L A M A ESTOSITÀ

DI QUESTE AUTOR ISA LTA A NCOR A DI PIÙ’

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In alto e a destraDavid Lillywhite, direttore di Octane inglese, si arrampica sulla Golden Arrow, un’auto da 231 miglia orarie spinta da

un W12. Nei suoi record ha coperto solo 18 miglia. La carrozzeria in alluminio poggia su un telaio in legno.

Don Wales contempla in silenzio il Bluebird CN7 di suo zio.

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Segrave quando morì era arrivato a un livello di fama mondiale, ma in materia Malcolm Camp-bell fu un vero e proprio re. Il suo primo record lo conquistò nel 1924 con la Sunbeam 350 HP. Dopo quel successo ne conseguì altri nove su terra e quattro sull’acqua. Non era un uomo facile da ge-stire, dedito com’era aille sue passioni, ma Don si sente di dire che non sempre nel corso degli anni fu giudicato nel modo giusto. ‘Mia madre non avrebbe mai detto una parola contro di lui’.

Malcolm portò lei e Donald ad assistere a molti dei suoi tentativi di record; a Daytona c’erano tut-ti e due, nello Utah andò solo Donald. Lavorò sodo per dare una vita dignitosa alla sua famiglia, anche se a volte poteva essere imbarazzante avere a che fare con lui. Io credo che si rendesse conto di essere un padre e un marito severo, ma penso che compensasse questo aspetto in vari modi’.

Quando, nel 1948, Malcolm morì prematura-mente a 63 anni per una serie di ictus, si scoprì che nel suo testamento aveva dato disposizione di vendere all’asta i suoi mezzi costruiti per i re-cord di velocità sulla terra e sull’acqua, vanifican-do inizialmente le ambizioni di Donald di seguire le orme di suo padre. Questa decisione apparve a molti come un dispetto, un gesto crudele, ma Don è d’accordo: ‘Donald era così sfortunato – ricorda

– che ne passò di tutti i colori: ebbe la febbre reu-matica, che fu sul punto di ucciderlo, era goffo, per due volte riportò la frattura del cranio, per un soffio al cuore fu respinta la sua domanda di di-ventare pilota da caccia. A seconda delle situazio-ni, sembrava l’uomo più sfortunato o fortunato del mondo. Io credo che la volontà di Malcolm fosse quella di impedire a Donald di procurarsi ulteriori lesioni, o peggio. La sua morte fu un grande shock per Donald. La giudicava una fine ingloriosa per un uomo che si era sempre pensato sarebbe morto al volante di uno dei suoi mezzi da record, in un tripudio di gloria’.

Donald certamente idolatrava suo padre, ed era anche egoisticamente e decisamente patriotti-co. Così l’unica missione della sua vita divenne l’evitare che i record conquistati dal padre finisse-ro in mani straniere. Non aveva alcuna esperien-za di corse e di record di velocità, però, aveva un enorme talento nella promozione di se stesso e

una determinazione implacabile, oltre a un gran-de sangue freddo quando era sotto pressione.

Un ingegnere amico di famiglia, Leo Villa, insi-stette a lungo per convertire alla trasmissione a elica il K4 perché Donald non aveva alcuna espe-rienza con motori ‘tipo jet’.Nel 1951, Campbell junior raggiunse i 272 km/h prima di affondare col suo mezzo dopo aver colpito un tronco som-merso ad alta velocità, accelerando la realizzazio-ne del suo nuovo K7. Così si spianò la strada per conquistare sette record di velocità sull’acqua.

Nel frattempo, Donald rivolse la sua attenzio-ne anche ai record di velocità su terra. La CN7 è l’auto che in un certo senso costituisce il fulcro della mostra. Un mezzo davvero speciale, lonta-no anni luce dai due veicoli d’anteguerra con cui condivide una stanza. Inconsciamente, ci ritrovia-mo a parlarne quasi sottovoce mentre ammiria-mo la sua linea, un mix di bellezza e aggressività. Sembra incredibile pensare che nel 1964 il ‘Blue-bird’ (Uccello azzurro) abbia raggiunto le 403,10 miglia orarie (644,96 km/h) sulla pista del Lago Eyre in Australia.

Niente sembrava fermare Donald, neppure in-cidenti terribili. Nel 1960 il primo tentativo di re-cord con il CN7 gli fu quasi fatale. A Bonneville Salt Flats, sul lago salato, la sua fretta di conqui-

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stare il record di velocità su terra gli fece perdere il controllo del Bluebird, che dopo un testacoda era ridotto a un orrendo relitto. Le sue lesioni era-no gravi e l’esperienza di un incidente a oltre 320 km/h lo aveva sconvolto. Nel 1964, tuttavia, con-quistò il record di velocità su terra e nello stesso anno anche quello sull’acqua, diventando così l’unico pilota a conseguire entrambi i primati nel-la stessa stagione.

‘Oggi – ricorda Don – è la prima volta che pos-so vedere quest’auto da vicino, senza quasi nes-suno intorno’. Si appoggia all’enorme passaruota, poi si rialza di colpo: ‘Puzza! – dice – pensavo che fosse la vernice in questa stanza, ma poi mi sono reso conto che è la macchina. Ho a casa un pezzo della carrozzeria del Bluebird originale, quello distrutto nell’incidente, ed ha lo stesso odore’.

Quasi senza pensarci, ci avviciniamo anche noi, annusiamo e sentiamo un odore particolare, quasi fosse muffa, oleoso… ‘Come se fosse un vecchio aereo’ ipotizza il fotografo Matt Howell. Apriamo il copricabina di guida con un po' di tre-pidazione. Nella angusta ‘stanza’ è relativamente buio, ci sembra di violare un ‘sancta sanctorum’ e decidiamo di laciar fare a Don: ‘In fondo… è di famiglia’ ci ritroviamo a pensare. L’odore si fa più forte. Don scruta dentro l’abitacolo: 'Uno dei miei

primi ricordi – dice – è quello di quando mi sono calato per la prima volta in vita mia in questo abi-tacolo. Ero un bambino, avevo appena cinque anni. Mi fecero delle foto mentre ero in piedi sul sedile. Non sapevo ancora nulla della storia della mia famiglia’.

Don si toglie le scarpe, afferra il bordo del poz-zetto e si cala all’interno dell’abitacolo del Blue-bird, sfiorando un longherone di supporto (Doug Hill ci aveva detto di fare attenzione a questo par-ticolare). Si lascia scendere fino in fondo, i suoi occhi sono in linea con il bordo della carrozzeria e dice: ‘Cristo, ha fatto 400 miglia all’ora con questa macchina! Io resco a malapena a guardare fuori!’. Una volta dentro, ci si sente davvero isolati dal resto del mondo. Donald Campbell era alto un metro e 76 centimetri, chi scrive arriva a un metro e 82 centimetri. Don ci ha fatto ‘immergere’ al suo posto e chiude la copertura su di noi. Ai lati ci sono due piccole ‘finestre’ circolari, di un diame-tro che ad occhio e croce ci sembra di 5 centimetri, due piccoli oblò, mentre il ‘mini-parabrezza’ fron-tale ha un diametro che non supera i trenta centi-metri. Ci siamo calati nell’abitacolo con molta circospezione, ma sentiamo qualcosa contro la schiena. Lo afferriamo e scopriamo che si tratta di una delle manichette che portano aria al viso del

‘CI SEDI A MO NELL A SEMIOSCUR ITÀ DI U N A BITACOLO SIMILE A U N A ER EO DA CACCI A’

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‘DI FRONTE A UN’AUTODAV V ERO SPECI A LE, INCONSCI A MENTEPAR LI A MO SOTTOVOCE’

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In alto e a destra La copertura dell’abitacolo del Bluebird CN7 è davvero

pesante e il parabrezza è molto piccolo; Don Wales, nipote di Donald Campbell, ripensa a come doveva sentirsi suo zio guidandolo a 640 km/h. La cabina

è angusta e la strumentazione serve a tenere sotto controllo il motore a turbina alimentato a gas.

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pilota. Di colpo pensiamo che l’ultima persona che lo abbia usato sia stato proprio Donald Cam-pbell, e un brivido ci corre lungo la spina dorsale.

Stiamo seduti con gli occhi chiusi per qualche istante, prima che l’aria diventi viziata. Il cuore adesso batte regolarmente, dopo l’ansia provoca-ta dal ricordo di Donald Campbell. La sensazione è davvero quella di trovarsi dentro la cabina di un aereo da caccia, con gli strumenti e le leve per controllare la direzionalità e monitorare la turbi-na a gas Bristol-Siddeley Proteus (la trazione è su tutte e quattro le ruote). Torna l’ansia, il senso di soffocamento: apriamo il portello e schizziamo fuori il più velocemente possibile. Non crediamo negli spiriti, sappiamo che le auto sono fatte pre-valentemente di metallo, gomma e vetro, ma per un attimo ci sembra di aver violato una reliquia.

Don sembra averlo intuito e ci tranquillizza mettendosi a parlare di suo zio: ‘Era molto bello stare con lui – ricorda – ogni volta che mi vedeva mi regalava qualcosa, aveva un debole per le gi-randole pirotecniche, mi divertivo. Questo però non succedeva molto spesso, lui andava a volte a Bonneville, a volte in Australia, e poi se ne andò’.

Don si riferisce al fatale incidente avvenuto nel 1967. Alle 8 e 50 del 4 gennaio il K7 guidato da Donald Campbell si capovolse mentre stava

viaggiando a 512 km/h nel lago di Coniston Wa-ter nel Lake District, in Inghilterra, uccidendolo all’istante. ‘Ricordo quando accadde – dice Don – io stavo facendo colazione, ero seduto al tavolo nella sala da pranzo e il telefono squillò. Mia ma-dre disse che Donald aveva avuto un incidente. ‘No, no!’ pensai. Non mi ero reso conto subito che lei si riferiva a zio Donald. Più tardi, mentre guar-davo alla televisione i cartoni animati della serie Thunderbirds (ero in vacanza da scuola) il pro-gramma fu di colpo interrotto da una notizia che annunciava la sua morte. Io ero molto seccato che avessero interrotto il mio programma preferito di cartoni animati. La mia mamma non parlava mai molto dei record di velocità, io praticamente non ne sapevo nulla. A scuola tutti sembravano avere un padre o un nonno famosi, io no. Finché un giorno non dissi che mio zio era Donald Camp-bell, e qualcuno mi disse che era molto famoso.

‘Molto tempo dopo – prosegue Don – quando

avevo quindici o sedici anni, ci fu una mostra a scuola sull’aerodinamica e io tenni una lezione su Donald Campbell. Ken Norris, che insieme a suo fratello Lew aveva progettato il CN7 (la sigla sta appunto per Campbell-Norris), mi prestò delle diapositive, alcuni filmati dell’epoca e anche il pezzo di uno dei pneumatici danneggiati nell’in-cidente’.

Quando era giovane, Don decise che anche lui voleva diventare un pilota da record. Ken Norris lo consigliò e gli disse che una carriera come pilo-ta della Royal Air Force gli avrebbe dato l’espe-rienza e la competenza necessarie per velocità dell’ordine di 600-700 miglia orarie (960-1120 km/h). L’adolescente Don, però, non era convin-to: ‘Quella era l’ultima cosa che volevo sentirmi dire!’. Invece, a diciassette anni, andò a lavorare da suo fratello come fotografo, una carriera di successo giunta fino ai giorni nostri.

Ma i geni di un membro della famiglia Camp-bell non riposano mai, e già a vent’anni iniziò a pensare alle auto elettriche, stimolato in questo dalla morte di sua figlia Amy, quando aveva solo tre giorni di vita, per un sistema respiratorio trop-po sensibile all’inquinamento, e dall’asma di un altro su figlio, Joseph, generata dalla stessa causa. Nel 1998 Don stabilì una velocità record al volan-

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te di un’auto elettrica, primato che migliorò ulte-riormente due anni dopo. Nel 2010 stabilì la velo-cità record con un tosaerba (!) e nel 2016 vuole tentare un record con un Bluebird a motore elet-trico. ‘O la va o la spacca – dice Don – ci ho pensa-to su per tanto tempo, e la mia famiglia ha già sofferto abbastanza. Viviamo ancor oggi in una casa piccola nonostante i miei tentativi di record, non abbiamo avuto mai ‘i milioni dei Campbell’ e c’è da faticare a reperire i finanziamenti per il ten-tativo di raggiungere le 500 miglia all’ora’.

Avevamo programmato di vedere sul portatile di Don il film dei suoi tentativi di record di velo-cità su terra, ma il tempo è volato ed è già mezza-notte. Decidiamo di fare un giro per il museo (a quanto pare non ci sono nei paraggi né Ben Stiller né Robin Williams) e finiamo per provare a seder-ci, fra rumori strani, gemiti e sospiri, negli abita-coli di alcune Formula 1 che hanno fatto la storia di questa categoria agonistica. La Lotus 49 è off limits, per cui ci concentriamo sulla Tyrrell-Ford 001 che a fine 1970 guidò un Jackie Stewart ormai

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GRAZIE AL National Motor Museum di Beaulieu(www.beaulieu.co.uk) e a Don Wales(www.donwales.co.uk), autore del libro‘Per la Gran Bretagna e per il gusto di farlo’(Titolo originale ‘For Britain and For The Hell Of It’).

stufo della March (si entra abbastanza facilmente, ma è stretta nei fianchi) per poi dedicarci alla Wil-liams-Renault FW18 guidata da Damon Hill nel 1996 (si può entrare solo dopo aver rimosso il vo-lante). Poi toccherebbe alla McLaren-Peugeot MP4/9 guidata nel 1994 da Martin Brundle, ma non riusciamo a smontare il volante per cui ri-nunciamo. Per ultima guardiamo un’auto dei pompieri che ha più di un secolo di vita, una Go-bron-Brillié del 1907.

Piazziamo i materassini e i sacchi a pelo nella

‘FOR SE DOUG H A VOLUTOSPAV ENTA RCI R ICR EA NDO

U N’ATMOSFER A DA FA NTASMI’

sala in mezzo al Bluebird, alla Sunbeam rossa e alla Golden Arrow. Matt, il fotografo, va a spe-gnere le luci e torna facendosi strada con una pila. Il sistema di riscaldamento si è spento alle 23, e adesso comincia a fare davvero freddo, così ci sistemiamo per la notte.

TONFO. Che diavolo era?, ci chiediamo. Pen-siamo che Don e Matt si siano addormentati, se no avrebbero sicuramente detto qualcosa. Scric-chiolìo. Tonfo.

CLICK. Il rumore è lo stesso di un interruttore della luce, ma ci rifiutiamo di aprire gli occhi per vedere se qualcuno ha acceso la luce. Forse Doug o qualcuno del team del museo ha organizzato un piccolo scherzo facendoci credere che qui di notte si aggirino dei fantasmi.

THUD. THUD. Tonfo. Silenzio. Pensiamo che non sia possibile che ci sia qualcuno in giro. Poi sentiamo uno SQUEAK, un cigolio, proprio ac-canto a noi. Cercando di restare calmi, ci rendia-mo conto dopo un po’ che quel rumore è provo-cato dal materassino di Don che sfrega contro il pavimento piastrellato ogni volta che si muove.

Uffa! I rumori continuano, ma convincendoci che è soltanto il materassino, alla fine riusciamo ad addormentarci. Ci svegliamo alle sei e mezza sentendo gli uccelli che cantano. Matt è già in pie-di e sta passeggiando per le sale, Don si sveglia subito dopo le sette. Io ho smesso di chiedermi se ho sentito davvero tutti quei rumori così strani. Matt poi mi dice che anche lui si è rifiutato di aprire gli occhi: ‘Se non ho potuto vederla, quell’ombra – dice – forse non era veramente là fuori’. Brivido.

Discutiamo su cosa sembravano quei rumori: come un corpo che è stato trascinato a lungo. Ma questo non è un giallo di Agatha Christie, e nep-pure un film di Dario Argento. Altro brivido.

Ci convinciamo che si sia trattato di normalis-simi gemiti e cigolii di porte e finestre ormai da-tate e che i ‘click’ siano stati provocati dalle luci alogene che si raffreddavano. Ma quei gemiti? Che cosa erano? Chiediamo mentalmente scusa a Segrave e a Campbell per esserci permessi di prendere posto in quelli che una volta erano i loro sedili.

Dopo il caffè, finalmente ci accomodiamo per vedere il film restaurato che hanno da poco resti-tuito a Don. C'è anche l’orsetto Whoppit, l’inse-parabile mascotte del recordman. Gurdando il filmato non si può rimanere insensibili di fronte alla disperazione di Donald per le avverse condi-zioni atmosferiche, che ostacolavano i suoi tenta-tivi di record, quando pioveva per giorni e giorni in un posto che non aveva visto delle precipita-zioni nei precedenti nove anni.

Anche mezzo secolo fa, non era facile ottenere sponsorizzazioni e suscitare l’interesse del gran-de pubblico. La corsa alla Luna rea già comincia-ta e i record di velocità sembravano qualcosa di obsoleto, eppure Donald era riuscito a entrare in quel ristretto club fatto di uomini coraggiosi. Se i loro fantasmi sono venuti a controllare di notte cosa stavamo facendo intorno alle loro auto da record, è bene che sappiano che i loro sforzi li ab-biamo profondamente apprezzati.

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GiocoDuroSfida di otto giorni attraverso alcuni dei terreni africani più selvaggi. Riviviamo le emozioni dell’edizione 2013 preparandoci alla prossimaTesto Franca Davenport // Fotografie McKlein

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LE PRIME 911

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Due ex campioni del mondo rally, di-versi piloti keniani che hanno con-quistato il titolo nel loro Paese, varie auto che hanno vinto in passato il mondiale marche della specialità: questo il plateau abituale del Safari Historic Rally, che anche quest’anno

si correrà in autunno, dal 24 ottobre al 15 novembre.Basta guardare all’edizione dello scorso anno per rendersi conto dell’importanza di una corsa che si può definire unica nel suo genere, ‘regina di un grande passato’. Per molto tempo ha fatto parte del mondiale rally e tra i piloti affasci-nati da questa gara senza mai riuscire a vincerla c’è il ‘Dra-go’ Sandro Munari: l’ha corsa con tanti tipi di auto ma quel-lo di conquistare il gradino più alto del podio è sempre rimasto un desiderio inesaudito per il grande campione di Cavarzere.

Le Porsche 911 in varie versioni hanno riempito poco più della metà dello schieramento di partenza dell’ultima edi-zione, accanto a Datusn 260Z, Ford Escort, Ford Capri V8 e persino una Ferrari 308GT4. Otto giorni e 2500 miglia (quat-tromila chilometri) di gara, con partenza e arrivo nell’umi-dità di Mombasa, sulle coste dell’oceano Indiano, attraver-sando Kenya e Tanzania e portando le auto dal livello del mare fino a un’altitudine di 2600 metri, nella Great Rift Val-ley nel Kenya centrale.

Un flash back sull’edizione 2013 consente di capire appie-no anche lo spirito con cui i concorrenti affrontano questa gara così particolare. La battaglia è iniziata non appena gli

equipaggi hanno lasciato Mombasa, lanciandosi nei sabbio-ni veloci come se fossero alle prese più con un Gran Premio che a una massacrante corsa di resistenza. Il calore era un problema per molti, l’odore di gomma bruciata negli abita-coli non proveniva soltanto dai pneumatici ma anche dalle scarpe dei copiloti a contatto per ore ed ore con pannelli poggiapiedi in lamiera fissati sul pavimento caldo.

Con varie Ford a inseguirlo, lo svedese ex campione del mondo rally Stig Blomqvist ha preso il comando della corsa il primo giorno, con la sua Porsche 911 preparata da Tuthill. Solo un minuto dietro di lui al termine della prima frazione, c’era la leggenda locale e per sei volte campione keniano dei rally Ian Duncan, su una Ford Capri V8 preparata da Pera-na. Terzo nella graduatoria provvisoria un altro ex campio-ne del mondo rally, lo svedese Bjorn Waldegård. Come di consueto in questa gara, alcuni punti del percorso si sono rivelati un’insidia sin dal primo giorno. Molti concorrenti hanno toccato col sottoscocca in seguito al salto provocato dall’attraversamento di un passaggio a livello. Steve Tro-man ha danneggiato la sua Porsche 911, anche se l’auto è riuscita a proseguire la gara.

Il giorno successivo, il percorso ha portato le auto in col-lina, dove la temperatura era più fresca. Qui è venuta fuori la classe dell’ex campione del mondo rally per vetture di produzione, il belga Grégoire de Mevius in corsa su Porsche 911 preparata BMA, anche se lo svedese Waldegård ha spic-cato ottimi tempi, rimanendo saldamente al terzo posto. Per somma dei tempi è stato l’equipaggio keniano composto da Ian Duncan e da Amaar Slatch a porsi al comando della clas-

Dall’alto in senso orarioStig Blomqvist e Staffan

Parmander alle presecon un guado;

la Chevrolet Corvette di Michel Campaigne; insolite ‘tribune’

e maestosi paesaggitipici del Safari;

la Ferrari 308GT4 gialladi Marzio Kravos;

Francis Tuthill al lavorosulla meccanica

di una Porsche 911.

SAFARI RALLY

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SAFARI RALLY

Ci vuole coraggio per sfidare una mutadi Porsche 911 con una Capri. Lo stesso coraggio che si traducenel non farci caso quando stai per cadere oltre il bordo della strada…

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‘In alcuni rally moderni si coprono a malapena

160 chilometri al giorno. Al Safari si possono

affrontare in una solaprova speciale’

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sifica generale alla fine della giornata, seguito a più di un minuto da Blomqvist, che ha riferito di aver avuto problemi ai freni.

Alcuni rally moderni coprono a malapena 160 chilometri in un giorno, ma in un Safari può invece capitare di coprire tale distanza anche in una sola prova speciale a cronometro. Questo è il caso della prima ‘speciale’ del terzo giorno, che richiedeva agli equipaggi un mix di velocità e resistenza alla fatica. In questa prova speciale Waldegård si è ribaltato at-traversando con la sua Porsche 911 un fiume in piena, ab-bandonando anzitempo la compagnia ma continuando a seguire la corsa da spettatore, facendo ovviamente il tifo per gli altri sette equipaggi svedesi rimasti ancora in gara.

Alla fine del terzo giorno di gara era ancora in testa il dri-ver keniota Duncan, con un margine di soli quindici secondi su Blomqvist. Dietro di loro avevano spiccato tempi di tutto rispetto de Mevius e Monster con le Porsche 911 BMA. Inte-ressante anche la prestazione del campione turismo svedese Richard Göransson, che non aveva mai guidato sul fango e aveva esperienza solo nelle cave di ghiaia e su pista.

La sezione che ha attraversato la Tanzania ha offerto pae-saggi mozzafiato, come quelli della parte del percorso che costeggiava il lago Manyara (famoso per i suoi leoni arram-picatori) o giù per la scarpata che tocca il limite orientale della Rift Valley. Per gli equipaggi impegnati in gara, però, c’è stato davvero poco tempo per ammirare fauna e paesag-gi, anche se qualcuno è stato costretto a passare più tempo del previsto con la gente del posto. Questo è il caso di Je-an-Pierre Mondron, che dopo aver rotto un bullone nella sospensione posteriore, ha dovuto aspettare a lungo l’assi-stenza e ha avuto tempo di fare amicizia con alcuni Masai!

Nel frattempo, l’ex vincitore del Safari su una Datsun come copilota, Lofty Drews (corse nel 1974 con Munari nell’ultima gara in cui il team Lancia utilizzò la Fulvia HF Rallye 1.6, portando punti rivelatisi preziosi nella conquista del titolo mondiale a scapito della Fiat) per rottura dell’in-terfono era stato costretto per due prove speciali a intender-si a gesti col suo pilota Jayant Shah…

La mattina dopo Göransson è risultato il più veloce nella prima prova che ha visto la carovana dei concorrenti diri-gersi verso il confine con il Kenya. La Capri di Duncan, at-tardata da una foratura, mentre Blomqvist, con problemi ai freni, ha perso molto tempo finendo in un banco di sabbia. Tutto ciò ha giocato a favore di de Mevius, passato al co-mando, prima di essere fermato dalla rottura un semiasse. Alla fine del quarto giorno e a metà gara, Blomqvist è torna-to in vantaggio di 50 secondi su Duncan, che ha subìto tre forature nella stessa speciale. Più di dieci minuti dietro di loro, Marcy viaggiando con un ritmo costante ha accumula-to un margine confortante sulla Datsun 260Z di Geoff Bell.

L’intensità della battaglia non è diminuita nella seconda parte della gara, quando le sfide tra i vari equipaggi sono diventate particolarmente accanite, con vari colpi di scena. La pioggia nella sezione di Amboseli ha reso il percorso par-ticolarmente scivoloso. Geoff Bell ha surriscaldato il motore della sua Datsun 260Z, ma grazie a un po’ d’acqua avuta dalle tribù locali dei Masai è riuscito a proseguire la gara. Duncan alla fine della giornata aveva due minuti e mezzo di margine su Blomqvist.

Il settimo giorno la sabbia ha causato a tutti grossi proble-mi di visibilità. Duncan ha subìto un’altra foratura (‘Ho col-pito una delle due rocce presenti in tutta la prova speciale’)

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SAFARI RALLY

mentre dietro Blomqvist ha saputo rimontare bene, risalen-do fino a soli 59 secondi da Duncan. Il ritorno del Safari nel-la zona di Taita Hills ha fatto vivere a tutti gli equipaggi quello che è stato poi definito come il giorno più duro. Sia Duncan che Blomqvist hanno sofferto delle forature e il ke-niano ha visto svanire quasi tutto il vantaggio sul rivale, ar-rivato a soli nove secondi prima della giornata finale.

Tuttavia sulle strade aperte non sempre è un vantaggio partire per primi (lo start avviene per numero all’inizio, poi si rispetta la graduatoria) quando non ci sono tracce del per-corso da seguire, a differenza degli inseguitori. In pratica

tutto dipende dall’abilità del copilota e dalla conoscenza da parte dell’equipaggio dei luoghi attraversati. Nella prima prova speciale dell’ultima tappa, svoltasi ancora sulle Taita Falls, Blomqvist e Duncan hanno spiccato incredibilmente gli stessi tempi, divisi solo da una manciata di secondi. Nel finale però sono state ancora una volta le forature a decidere il vincitore.

Nella seconda prova speciale Blomqvist è riuscito a con-quistare un vantaggio di oltre mezzo minuto, ma un’altra gomma bucata con la perdita di alcuni minuti per sostituirla nell’ultima p.s. in programma ha consegnato la vittoria a Duncan, impostosi per tre minuti e 14 secondi sul rivale. ‘L’ultima volta – ha detto Ian Duncan al traguardo – che ho vinto questo rally nel 2009 avevo un vantaggio di nove mi-nuti prima dell’ultima giornata di gara. Questa volta, con soli nove secondi, è stata una vera lotta, e saremmo finiti secondi se Stig non avesse forato’.

Anche se deluso, Stig Blomqvist ha commentato la sua piazza d’onore in un modo classicamente svedese: ‘Certo, oggi avrebbe potuto essere un giorno migliore e mi sento come quello che ha preso il cerino più corto. Questione di fortuna, ma tutto questo fa parte dello spirito del Safari’.

Dietro ai due contendenti per la vittoria si è piazzato Mar-cy (Porsche 911), mentre Steve Perez (Datsun 260Z) ha pre-ceduto il campione keniano dei rally 2013 Baldev Chager (Porsche 911) e David e Alex Horsey, padre e figlio anch’essi keniani (Porsche 911). Quanto a Waldegård, che ha assistito alla seconda parte della gara da spettatore, ha detto: ‘Per me è stato molto bello assistere a questa battaglia, ma sincera-mente avrei preferito farne parte’. Adesso non resta che at-tendere l’edizione 2014…

Qui sotto e in bassoIIan Duncan e Amaar Slatch,

vincitori con la loro Ford Capri preparata Perana;

Baldev Changer, quintoal traguardo su Porsche 911.

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L’essenza della passione

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CORSA IN CITTÀ

Il fascino della gara monegasca è davvero unicoFotograFie Cattura

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‘L A “PR IM A” DEL DR A K E V INCE IN VOL ATA’

GP MONACO HISTORIQUE

La gara delle ‘voiturette’ e delle racing cars costruite fra le due guerre mondiali ha visto la vittoria in volata di Matthew Grist su Alfa Romeo BP3

del 1934, quando la scuderia Ferrari gestiva le Alfa e faceva correre un certo Nuvolari, davanti alla Era del 1936 di Paddins Dowling

(solo 235 centesimi lo scarto fra i due al traguardo). Nel 1933 l’Alfa Corse entrò in crisi finanziaria.

La partecipazione alle competizioni fu di conseguenza sospesa. Nasce la Scuderia Ferrari.

In quell’anno l’Alfa non partecipò alle prime 25 competizioni e riprese l’attività nelle competizioni in agosto. Vinse 6 delle 11 corse, tra cui i Gran Premi di Italia e di Spagna. Il cambio dei regolamenti del 1934 portarono

alla possibilità di un aumento della cilindrata, che fu incrementata a 2900 cc. Louis Chiron vinse il Gran Premio di Francia ma le altre quattro competizioni

maggiori della stagione europea vennero dominate dalle Frecce d’argento (Mercedes e Auto Union) tedesche. Nel complesso la P3 vinse, comunque,

18 dei 35 Gran Premi programmati per quella stagione. Il 1935 fu caratterizzato da una perdita di competitività a causa della

superiorità delle automobili tedesche. Questo, però, non impedì alla P3 di conquistare un’ultima importante vittoria.

La cilindrata del propulsore fu portata a 3,2 litri per il Gran Premio di Germania in cui Tazio Nuvolari accantonò la Bimotore

per la “vecchia” P3 e conquistò una vittoria entrata nella leggenda, sotto lo sguardo di 300.000 spettatori tedeschi.

La versatilità e l’agilità della P3 permise alla vettura di vincere 16 dei 39 Gran Premi della stagione 1935.

Nel 1936 la vettura passò nelle mani dell’inglese Charles Martin.

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Joseph Colasacco al Casinò con la Ferrari 1512 nella serie D. Unico V12, lo si sentiva arrivare lontano un miglio, un vero brivido il suo suono meraviglioso. L’inglese, Roger Wills su Cooper, ha vinto la gara riservata alle F1/F2 che hanno corso fino al 1961.Alberto Scuro, ventesimo, è passato con successo dagli incarichi dell’Asi all’abitacolo di una performante Cooper Bristol del ‘52.

Marco Masini e Federico Buratti hanno guidato due vetture interessanti e cariche di storia: la Cooper Maserati T51 e la splendida Lotus 21 del ‘61 ex Jim Clark. In evidenza anche Jason Wright, inglese ma ormai italiano da tempo, che ha condotto l’interessante ATS 1500 F1. Marco Cajani, sempre presente a tutti gli appuntamenti europei più importanti, ha portato al traguardo in 19a posizione la De Tomaso Alfa Romeo F.1 1500 del ‘61.

A podio, con un ottimo terzo posto nella gara delle F.1 1500 fino al 1966, al volante della sua rara Scirocco BRM, è andato Tommaso Gelmini.Buona anche la prestazione di Bruno Ferrari, dodicesimo nella gara delle F1 dal ‘66 al ‘72 con la March 701 che fudi Ronnie Peterson. Bruno ha così “vendicato” la mancata partecipazione di due anni fa, quando un brutto incidente in prova, con la stessa auto, gli impedì di essere presente.

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In altoLa Brabham BT37 con alla guida Scott Walker.

In alto a sinistraMolto ammirata la 312B3 (conosciuta anche come spazzaneve) di Franco Meiners, importante collezionista italiano e grande gentleman driver. Questa Ferrari non ha mai vinto nulla, ma rappresenta un punto di svolta importante nella storia della F1 moderna.Fu progettata da Mauro Forghieri nel ‘72.

In basso a sinistraCarlo Steinhauslin, presidente della Scuderia Clemente Biondetti di Firenze, alle prese con la Tecno PA123/3. Pur guidando sotto gli occhi attenti di Nanni Galli, che la portò in gara nel Gran Premio d’Italia del 1972, ha distrutto l’avantreno dopo un violento impatto con il guard rail in un punto dove si viaggia veramente forte.

In bassoLa Ferrari 312 B2 di John Goodman.

Judith Lyons, una delle tre donne in gara, al volante della Surtees TS9.

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In altoAncora in F.1, periodo ‘74/78, con la Brabham Alfa Romeo BT42/44 del ‘73, si è ben comportato Manfredo Rossi di Montelera, uno dei migliori piloti di autostoriche oggi in attività, sesto al traguardo.

A sinistraMcLaren M26 portatain gara da Francis Lyons. Con questa monoposto corse James Hunt nel 1978. In seguito a problemi di raffreddamento del motore fu montato un radiatore anteriore supplementare, facendo somigliare sin troppo il muso a quello della Lotus 78.

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Qui accantoLa bellissima Lotus 72/6 del giapponese Katsuaki Kubota. Il pilota ha gareggiato anche nella serie F con una March 761. Entrambe le sue macchine (Lotus e March) sono appartenute a Ronnie Peterson, pilota adorato da Katsuaki che ha una ricca collezione di F1 guidate dal pilota svedese scomparso a Monza nel 1978.Il giapponese ha letteralmente dominato la gara davanti allo specialista, Dayton Duncan su Brabham BT 33 e a Robert Hall al volante della Matra MS 120 B che fu guidata da Chris Amon.

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Ci sono due gare nel panora-ma mondiale delle Auto-storiche che hanno una col-locazione del tutto par- ticolare perché condensano fascino, storia, glamour, difficoltà ed esclusività. Il

Grand Prix Historique de Monaco e Le Mans Classic non sono paragonabili agli altri eventi e non potrebbe essere diversamente: correre tra i guard rail senza alcuna via di fuga nelle vie di Montecarlo o la notte nel buio assoluto sul rettili-neo delle Hunaidieres è qualcosa di difficilmente descrivibile. Se non hai avuto la fortuna di viver-lo, fai molta fatica a immaginarlo.

Monaco era l'ultimo circuito che mancava alla mia collezione: ho corso in tutti gli altri, ma mai lì per cui l'emozione era alle stelle. Sono arrivato "British style", ovvero senza mega bisarca ma col VW Transporter e la mia MP 301 Toyota F.3 del '74 sul carrello, puri anni '70! Non una F.3 qualsiasi, ma l'unica vettura da corsa mai costruita nel Prin-cipato di Monaco! Voluta da Marco Piccinini, che tutti ricordano quale Direttore Sportivo della Fer-rari, molto vicino al Drake, e successivamente Presidente della Csai, ma che è stato anche, fino a un paio di anni fa, Ministro delle Finanze proprio nel Principato, sua terra di origine. Non un pro-getto esaltante. La MP 301 corse quattro gare nel 1974 guidata da Carlo Giorgio, allora campione in carica della categoria, tra cui ovviamente Monte-carlo, senza particolari acuti, ma rimane un pezzo unico immancabile in questo evento.

Il paddock è gremito, le vetture allineate in un colpo d'occhio entusiasmante. Passeggiando tra le auto, si può avere un'idea dello sviluppo tecno-

logico, di come si siano evolute la tecnica e la fan-tasia dei progettisti. La geniale tecnica delle Bu-gatti, la solida aggressività delle Maserati 250 F, la rivoluzione del motore posteriore ideato da John Cooper, il genio di Chapman nel creare le magi-che Lotus, la sfida di Lance Reventlow con le sue Scarab, il fascino dei 12 cilindri Ferrari e poi via via, scorrendo gli anni, fino alle F.1 più recenti come la Hesketh che più inglese non si può o la Brabham Alfa Romeo, bellissima nella sua livrea Martini. Ci sono veramente 50 anni di storia della F.1 condensati in una fascia del porto di Monaco! Un saluto a Clive Chapman, figlio del grande Co-lin, mentre lì vicino Mauro Forghieri parla con John Goodman che ha portato la 312 B2 di Jacky Ickx: la distruggerà in gara con una manovra sui-cida proprio nel rettilineo di partenza. Nel Dri-vers Club il vecchio meccanico di Jim Clark ricor-da momenti della sua vita mentre Sir Stirling Moss, immancabile, concede l'ennesima intervi-sta. Derek Bell, Jacky Ickx, Alain Prost e Jochen Mass chiacchierano e sembra che il tempo si sia fermato, se non fosse per le rughe che incornicia-no visi di uomini che la vita l'hanno vissuta sem-pre a 300 all'ora.

Tutto attorno curiosi, appassionati, personaggi pittoreschi, a volte anche grotteschi, gente che si vede solo qui e che alimenta il fascino di un even-to assolutamente unico.

Per quanto mi riguarda, il sogno è finito prima del tempo. Il motore ha ceduto nel secondo turno di prove. Sono le corse e la loro dura legge. Ho acquisito, comunque, esperienza e passato quat-tro giorni indimenticabili. Una cosa è certa: nel 2016 ci sarò di sicuro, e so anche già con che mac-china. Quale? Beh, questo alla prossima puntata.

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GP MONACO HISTORIQUE

La passione per corse e motori in famiglia è sempre stata di casa. Ho iniziato a correre a 19 anni, nel 1971, nelle salite e nei rally nazionali, con una Mini Cooper 1000. Nel 1976 ho vintoil Trofeo Rally Internazionali, GT di Serie finoa 1600, al volante di una Fulvia HF 1600 Gr.3.Nel '77 sono diventato pilota ufficiale Jolly Club per i Rally con l'Alfetta GTV 2000 Gr.2, ma motivi familiari hanno fermato la mia attività.Ho ripreso nel 1981 in motonautica vincendo titoli mondiale, europeo e italiano offshoredi classe 3/D (4000 cc). Nel 1982 mi sono classificato secondo nel mondiale di classe 3/E (6000 cc). '83 e '84 in classe 1 (16.400cc)con un monocarena CUV '38, vinco alcune gare e finisco secondo nel campionato italiano '84.Nell'86 sono tornato anche all'attività automobilistica. Con la Jaguar E Type mi sono aggiudicato il Giro d'Italia per auto storiche

e diverse gare sui principali circuiti europei.Nel 1988 sono arrivato primo assoluto alla Targa Florio, sempre con la E Type, e pole sitter alla 24 Ore di Daytona e alla 1000 Km di Monza con l'Alba Ferrari AR6 Gruppo C. La stagione successiva ho partecipato al Trofeo Europeo Endurance Porsche con la 944 Turbo, classificandomi secondo. Ho anche stabilitoil record nella Viareggio-Bastia-Viareggiodi offshore, Classe 1, con un catamarano CUV 44' motorizzato Isotta Fraschini diesel.Da allora gareggio prevalentementecon le storiche nei prototipi e nelle GT (Lola T298, Cooper Climax T51, Ford GT40, Bizzarrini 5300 GT, De Tomaso Pantera), dove ho colto molti successi (Brands Hatch, Silverstone, Misano, Monza, Hockenheim) e piazzamenti tra cui un terzo posto all'indice di performance alla Le Mans Classic del 2006 con la Chevron B8.

‘A BBI A MO CHIESTO A PIETRO SILVA DI R ACCONTA RCI LE SUE EMOZIONI

DA LL’A BITACOLO DELL A F3’

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L a piccola MP desta l'interesse di tanti: la sua linea insolita con quel muso lungo e abbassato senza spoiler che le ha attribuito il nome di "formichiere"

e la livrea monegasca, bianca con una striscia lon-gitudinale rossa, non passa inosservata.

Sono seduto nell'abitacolo, non proprio como-do per il mio metro e 86 ma che importa? Sono a Montecarlo e non conta nient'altro! Entriamo in 41, siamo i matti della F.3, la classe più numerosa e agguerrita del week end. Con ben nove italiani al via. Alcuni al top come Paolo Barilla e Valerio Leone che si giocano la pole a decimi di secondo con l'inglese David Shaw che alla fine svetterà

con un tempo strepitoso segnato all'ultimo giro prima di sbattere in uscita del Loews a prove con-cluse. C’è anche Stefano Rosina, uno dei pochi piloti italiani a calcare con successo le piste di tut-to il mondo. Ci sono Stefano Garzi, Maurizio Bianco, Piero Lottini, Marco Fumagalli e Angela Grasso, coraggiosa pilotessa che non disdegna di buttarsi nella mischia della F3 con la sua Ralt bianco blu: brava! Una delle tre donne pilota pre-senti nel principato di Monaco. Non so come fa-cesse l'esile Maria Teresa De Filippis a guidare la mastodontica Maserati 250 F per 100 giri qui!!

Si parte. Salita verso il casinò, dove si arriva in quinta per poi scalare due marce e affrontare in

terza una sinistra cieca confidando solo nei bra-vissimi commissari e nelle loro bandiere; poi giù verso il Loews col suo inconfondibile tornante, a seguire il tunnel velocissimo da fare in pieno (chi può e se la sente, cuore permettendo).

Eccomi alla stretta chicane, dove finirono la carriera e la vita di Lorenzo Bandini, seguita dal breve rettilineo che ci porta alla curva del tabacca-io e alla chicane delle piscine, velocissima in en-trata e più stretta in uscita, per poi lanciarsi al tornante della Rascasse che ha preso il posto del vecchio Gasometro.

Primo giro finito. Adrenalina a mille! Difficile e stancante, ma magico ed entusiasmante!

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‘CI R IPROV ERÒ SICUR A M ENTE NEL 2016’

Pietro Silva in prova a Monacocon la sua Toyota MP 301 F3 del 1974.

Nell’altra pagina, in gara a Monza con una Cooper-Climax T51.

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S fortunato Roberto Crippa, unico pilota italiano nella classe C, vetture Sport anni 52/55 al volante della splendida Fer-rari 340mm del 1953 violentemente tamponato all’ultimo giro da un più che irruente pilota inglese con Jaguar C

Type. L’incidente è accaduto all’uscita del tunnel, nella frenata per la chicane del porto. Purtroppo la macchina ha preso una bella botta, ma il pilota ha concluso cumunque la gara piazzandosi nella prima metà dell’ordine di arrivo.La sua Ferrari, numero telaio 0294AM, ha partecipato alla Mille Mi-glia del 1953 guidata da Villoresi e Cassani (n. 613) come vettura uf-ficiale scuderia Ferrari. Nel maggio dello stesso anno è stata affidata al pilota inglese Mike Hawthorn che a Silverstone è riuscito a conqui-stare la vittoria del Daily Express Trophy. Dopo molti anni negli USA la vettura è tornata in Italia agli inizi degli Anni 90 e da allora è nelle mani del collezionista Roberto Crippa, che la guida spesso in circuiti internazionali.

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‘A LEX BU NCOMBE, A L VOL A NTE

DI U NA SPLENDIDA

JAGUA R C-T Y PE DEL 1952,

H A V INTO L A CATEGOR I A SPORT 1952-’55.’

Ferrari 250MM - Arnold Meier

Ferrari 225S - David Franklin

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GP MONACO HISTORIQUE

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Lister BHL4 - Tony Wood Maserati 300S - Conrad Ulrich

Jaguar C XKC - Alex Buncombe

Maserati A6 GCS - Lukas Huni Ferrari 500 Mondial - Michael Roder

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SESSANT’ANNIPER RIFARLA

Fino al 1950, questa roadster sbarazzina era una classica limousine, che il giornalista automobilistico Ronald Barker

ha trasformato, con calma, in qualcosa di diverso…TesTo John Simister // FoTograFie Martyn Goddard

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Per gli intenditori di auto storiche è un’ossessione. Un mo-dello restaurato deve risultare identico all’originale. Più rispetta questa regola, più acquista valore. Per alcuni es-emplari il discorso non vale, con buona pace di qualche analista del mercato delle storiche. Anche se una mac-china è vecchia, il rapporto con le persone che la pos-siedono può evolversi perché per i veri appassionati

l’auto deve rimanere una cosa viva, non da esporre staticamente.Tutto questo preambolo serve a spiegare l’incredibile storia dell’auto che

vedete in queste pagine. Per noi è una boccata di aria fresca, una passione alimentata negli anni, senza badare alle critiche di parenti, amici, conoscenti e dei cosiddetti esperti di turno. La ‘barchetta’ Lancia immortalata in questo servizio ricorda nella linea e nella forma dei suoi parafanghi la Riley Imp e anche l’Alfa 8C. Un esemplare unico, frutto di un mix di fervida immagina-zione, dell’abilità di un restauratore (Thornley Kelham) e della magia di un computer con programma Cad-Cam tridimensionale.

In realtà, quest’auto esiste da quasi sessant’anni, nel senso che la sua lenta

e lunga trasformazione iniziò allora. Prima, era tutta un’altra cosa: una gran-de berlina dal passo molto lungo, con un bel motore V8 e il marchio Lancia in evidenza al centro della mascherina. Già il motore a otto cilindri a V le conferiva un blasone di tutto rispetto. Il fatto che fosse una berlina a sei posti ‘long wheel base’ (passo allungato) fa intuire parecchio: una Lancia Astura costruita ottant’anni fa, nel 1934.

Basata su un robusta sezione scatolata con telaio a croce, era una ‘saloon’ comoda e veloce, capace di prestazioni di prim’ordine per quell’epoca. La vita di questo esemplare subì una svolta nei primi Anni 50, quando la scoprì, per caso, il giornalista motoristico Ronald ‘Steady’ Barker, che intravide per lei un ruolo ben diverso. A quei tempi Barker lavorava come ingegnere nel settore aeronautico. L’Astura era appartenuta al direttore tecnico della com-pagnia aerea BOAC (che molto tempo dopo si sarebbe fusa con la BEA dan-do vita alla British Airways). Le gare club allora erano un passatempo molto più semplice rispetto a oggi. Barker riuscì a guidare l’Astura per un po’, convinse il suo ‘capo’ a vendergliela e cominciò ad abbozzare qualche idea con cui dare vita alla Steady Special.

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Quando avveniva tutto questo, Barker aveva trent’anni. Oggi ne ha 94, compiuti l’aprile scorso, lo stesso mese in cui la sua Steady Special ha festeg-giato le ottanta primavere. Appare semplicemente meraviglioso vederlo gi-rare, camminando col bastone, intorno alla sua auto, ormai giunta all’ultimo stadio di una costante evoluzione.

Raramente la gestazione di un’auto ha richiesto così tanto tempo, ma Bar-ker sorridendo ammette che ‘ci sono state molte distrazioni lungo la strada’. Dopo aver tolto la pesante carrozzeria dell’Astura berlina, cominciò a pensa-re quali interventi ‘chirurgici’ fossero necessari. ‘Cominciai accorciando il telaio di 93 centimetri – ricorda Barker – seguendo i consigli di un esperto come Hugh Conway, specialista di Bugatti. Chiesi che le molle delle sospen-sioni posteriori fossero più inclinate. Uno degli obiettivi era anche quello di ridurre il sottosterzo. Trasformandola in una barchetta sportiva a due posti servivano sospensioni più rigide rispetto a una comoda e grande berlina’.

L’accorciamento del pianale ovviamente impose una modifica all’irrigidi-mento centrale del telaio, che dalla ‘X’ della berlina a passo lungo divenne una ‘V’. I freni furono potenziati in previsione di un aumento delle presta-

‘La melodia del V8 ricordaquella di un sei cilindri in lineapieno di grinta. C’è tanta coppia,e non serve cambiare spesso’

Nell’altra pagina e dall’alto Dopo sessant’anni, la Steady Specialè quasi come Barker (in piedi,con Michael Scott dentro l’autoe il cane George) l’aveva immaginata; l’Astura come era quando fu costruita come berlina negli Anni 30dalla Lancia; Steady in garacon ancora il cofanodi un’Aston Martin DB2-4.

zioni grazie soprattutto al peso più contenuto, mentre per quanto riguarda la carrozzeria l’importante era mantenere la mascherina originale, una sorta di pedigree irrinunciabile. Inizialmente Barker adattò un cofano motore di un’Aston Martin DB2/4 che il figlio di David Brown (l’uomo che salvò l’A-ston Martin dal fallimento, ecco perché molti modelli di questa Casa si chia-mano DB) aveva sposato a un albero. Il risultato esteticamente era tutt’altro che lusinghiero…

Dovete sapere che in Inghilterra l’omologazione come esemplare unico negli Anni 50 era molto più semplice rispetto alle normative comunitarie in vigore oggi. Anche se esteticamente la linea è un po’ diversa dalla Lancia Astura d’origine (‘Spero che Vincenzo Lancia – sospira Barker – da lassù mi capisca e mi perdoni’) lo spirito è rimasto sostanzialmente lo stesso. Il moto-re, ovviamente, fu rinvigorito a dovere. Caratteristica di tutti i motori Lan-cia, che si ritrova anche qui, è la V molto stretta dei cilindri, di soli 19 gradi. La cilindrata del motore della limousine è di 2973 cm3 per una potenza di 82 cavalli a 4000 giri. A parte il blocco cilindri in ghisa, la tripla catena di distri-buzione e il filtro olio autopulente, la caratteristica del motore più saliente è data dalla testata, che ha una conformazione molto particolare, in due pezzi, con una parte inferiore (in ghisa) contenente le valvole e una parte superiore (in alluminio) con i bilancieri e il relativo alberino (l’asse a camme centrale ruota tra le due testate). Il sistema di lubrificazione è di tipo centralizzato. Alimentata mediante un carburatore Zenith a doppio corpo, l’Astura berlina aveva già un notevole brio di marcia grazie a un ottimo rapporto peso/po-tenza. Il rapporto di compressione da 5.3:1 fu portato a 6:1.

‘A un certo punto – ricorda Barker – avevo anche preso in considerazione l’idea di far montare un compressore Centric, ma poi l’ho scartata. Anche perché con la prima carrozzeria scoperta l’auto andava bene: nel 1955, a lu-glio, mi sono schierato in prima fila a Silverstone, ho fatto una corsa in salita a Prescott e ho vinto a Oulton Park’. La Steady Special, conosciuta anche come Lancia Astura ‘corta’, stava facendo il suo dovere. Resse bene anche il confronto con una Lancia Astura ex Mille Miglia, che Barker acquistò suc-cessivamente e che evidenziò una certa tendenza a torcere il telaio.

In quello stesso anno, Barker ottenne il suo primo lavoro come giornalista ad ‘Autocar’. Il suo direttore, Maurice Smith, possedeva una Morris Minor sovralimentata, con la quale insegnò a guidare a un giornalista ventenne, Michael Scott, che molto tempo dopo avrebbe fondato una rivista sulle pro-gettazioni legate al mondo dei motori.

Michael Scott nel 1961 acquistò la Steady Special ferma da anni. La fece dipingere di rosso e la vendette a sua volta a un appassionato collezionista

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di Lancia, Roland Grazebrook, che fece rimuovere la vecchia carrozzeria.Il cerchio si chiuse nel 1981 quando Barker riacquistò la sua Lancia (in

pratica, motore e telaio nudo) ma non fece eseguire alcun intervento per una ventina d’anni. ‘Nel frattempo – ricorda – cominciarono a delinearsi nella mia mente alcune idee per una nuova carrozzeria, e nel 2012 il lavoro è final-mente ripreso’.

Ordinai dei disegni tridimensionali al computer, che tenessero conto dell’ingombro del carburatore, piazzato piuttosto in alto. A questa parte dei lavori prese parte anche Michael Scott, insieme alla già citata azienda di pro-prietà di Simon Thornley e Wayne Kelham.

Dai disegni al computer si è passati alla realizzazione della carrozzeria vera e propria, saldando insieme le varie parti in alluminio e creando detta-gli ricchi di fascino, come il rigonfiamento rivettato che cela il carburatore e lo spazio per la ruota di scorta esterna nella coda. Tutti questi pannelli sono stati poi posati sul telaio tubolare in acciaio. Nel frattempo, bisognava torna-re a lavorare sul motore. L’opera di ricostruzione fu affidata a un altro spe-cialista, Tim Samways, che si era messo a sua volta a lavorare in parallelo nella Thornley Kelham. ‘La melodia di questo V8 Lancia – dice Barker – ri-corda più quella di un sei cilindri in linea, ma è comunque affascinante’.

Alcune componenti sono state aggiornate come richiesto dal proprietario, non i freni idraulici, che Wayne Kelham non ha potuto identificare, per cui è stato giocoforza adattare quelli di una Chrysler d’anteguerra. L’auto con il corpo vettura ancora da verniciare è stata esposta nel novembre dello scorso anno a uno show della rivista Autosport e ha suscitato notevoli consensi.

Che cosa pensa oggi Barker della sua auto? ‘Più o meno è come la volevo – dice – anche se non ha un parabrezza fisso, e stiamo cercando un tappo del radiatore originale Lancia da mettere sopra la mascherina’. Poi ci invita a un giro di prova. Non ce lo facciamo dire due volte, anche perché siamo i primi a farlo al di fuori della classica cerchia costituita da proprietario e restaura-tori. La batteria è legata provvisoriamente al pavimento con alcune cinghie,

Dall’alto a sinistra in senso orario I disegni elaborati dai bozzetti originali di Barker hanno costituito la base per la carrozzeria; l’interno sarà caratterizzato da uno schienale in un pezzo unico, ma modellato per due persone. Caratteristici lo spazio per la ruota di scorta e le carenature posteriori; il motore 3 litri V8 è stato ricostruito con cura maniacale.

LANCIA STEADY SPECIAL

il serbatoio per ora è una latta di benzina ancorata a una traversa posteriore e siamo costretti a salire dal lato sinistro, dove non c’è ancora il sedile del passeggero, perché per ora è stato sistemato solo quello (provvisorio) del guidatore. Dovremo guidare con una certa circospezione nei paraggi perché manca anche il clacson!

Mettiamo in moto il V8 che ci saluta con un certo fragore. Premiamo la frizione – non è proprio morbidissima – e inseriamo la lunga e pesante leva del cambio. La Steady Special parte con decisione, la seconda marcia è già sufficiente per le strade intorno alla factory. Il cambio non è sincronizzato ma basta salire e scalare le marce al regime giusto – aiutati dal contagiri – per non avere problemi. Ci si aspetta tanto da una Lancia, perché si sa che queste auto sono state sempre costruite con una precisione quasi maniacale. Lo sterzo non è morbido a bassa velocità, ma piuttosto preciso: più che altro bisogna abituarsi al volante di dimensioni alquanto grandi. La coppia è dav-vero tanta per cui non serve cambiare troppo spesso. Non c’è mai bisogno di andare oltre i 5500 giri, e il sovrasterzo di potenza è sempre molto progressi-vo. Ritorniamo alla base decisamente soddisfatti: la Steady Special ha messo in mostra tutto il suo carattere.

Quando tutto sarà finito, sarà dipinta nel classico blu scuro Lancia, con i sedili in pelle rossa. ‘Questa è una macchina – dice Michael Scott – fatta per essere guidata, divertendosi e apprezzandone il carattere. Non dobbiamo avere l’approvazione di nessun giudice in camice bianco. Quella di Vincen-zo Lancia credo che l’abbiamo già avuta. A lui, che prima di essere costrutto-re era stato un grande pilota, sarebbe piaciuta sicuramente.

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RONALD ‘STEADY’ BARKER

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PARLANDO CON LUI, viene spontaneo pensare che persone così non ne esistano più. Sotto vari aspetti Ronald ‘Steady’ Barker è il giornalista di au-tomobilismo ideale per il lettore che capisce veramente le auto, come vengo-no create e che cosa significano. Arrivare al giornalismo di settore da un background di ingegneria meccanica è una cosa abbastanza rara al giorno d’oggi. Lo si starebbe ad ascoltare per ore ed ore, tanto le frasi fluiscono da lui senza sforzo, a dispetto dei suoi novantaquattro anni.

Nella scrittura di Steady non c’è alcuna ‘posa’, non tende a scimmiottare gli stili altrui, proprio perché prima di scrivere ha fatto altro. Riesce a essere solo se stesso, con un occhio per l’assurdo e un’incredibile capacità di usare il giusto giro di parole. I lettori più giovani non sapranno molto del suo la-voro, ma la sua colonna di commento nella rivista ‘Car’, intitolata ‘Dogwa-tch’, presenza fissa dal 1980, affascinava principalmente per la capacità di far sentire gli ingegneri dell’automobile come amici del lettore.

Chi scrive lesse per la prima volta, da bambino, un articolo di Barker nel 1959, su ‘Autocar’. Su quello stesso numero era stato pubblicato il reso-conto del Salone di Londra, ma Bar-ker aveva fatto ben altro: un lungo viaggio con una Mini di pre-produ-zione (era stata appena presentata) targata 667 GFC.

Un giro lungo il Mediterraneo in cui Barker e il fotografo Peter Ri-vière ne avevano viste di tutti i colo-ri: gli ostici funzionari della dogana turca, il by-pass di Israele via mare per evitare dei timbri sui passaporti che avrebbero potuto creare dei pro-blemi nei Paesi arabi, l’aria di fronda che si respirava in un’Algeria che sognava e voleva l’indipendenza dalla Francia. Tutto veniva raccontato in modo gradevole e coinvolgente.

‘Quando riportammo la Mini in redazione – ricorda Barker – la facemmo smontare completamente e analizzammo i pezzi uno a uno. Una coppia di staffe degli ammortizzatori era un po’ ‘affaticata’, ma era normale dopo un viaggio del genere. La Mini aveva superato un collaudo davvero duro’.

Barker aveva cominciato a scrivere di motori fin da giovane: ‘Nel 1929 – ricorda – due o tre mesi dopo che Parry-Thomas rimase ucciso durante un tentativo di record con la sua Babs sulla spiaggia di Pendine Sands, incontrai in un capannone Leo Villa, ingegnere e meccanico del Bluebird, e Giulio Foresti con l’auto da record Djelmo, mossa da un motore supercharged a otto cilindri. Durante il test Foresti perse il controllo dell’auto ma si salvò. Nello stesso anno incontrai il figlio di Reginald Joseph Mitchell, il progettista degli aerei Spitfire, al Trofeo Schneider sull’Isola di Wight‘.

Nel 1937, tra Stowe School e un college sugli impianti elettrici a Londra, Steady si trovò a passare un anno sabbatico a Garmisch. ‘Ero l’unico inglese

– racconta – e stavo con quattro ragazzi tedeschi, due dei quali erano nipoti di Göring. Vidi Bernd Rosemeyer con la moglie Ella al volante della sua Horch V8 (il nome dell’epoca dell’Audi). Durante la settimana internaziona-le degli sport invernali, arrivò una squadra inglese che risultò la più veloce nella gara dei bob a quattro. Erano arrivati con una Bentley coperta dalla bandiera inglese. Erano così dannatamente inglesi, con i bavaresi che saluta-vano alzando il braccio destro… sono andato via da lì subito prima che Hit-ler entrasse in Austria’.

Baker ha trascorso gran parte degli anni della guerra facendo il meccanico alla Royal Air Force, in seguito a una caduta dalla moto durante l’addestra-mento delle reclute: ‘Dopo la guerra – spiega – stavo lavorando per Hugh Conway, un tecnico di alto livello nell’ingegneria idraulica, quando vennero a trovarmi due giornalisti specializzati nell’automobilismo, Gordon Wilkins e Peter Garnier. ‘Vieni e unisciti a noi ad Autocar’, mi dissero. Il direttore Maurice Smith, però, mi fece sapere che ero di dieci anni più vecchio della

persona che stava cercando. Mi dis-se anche di andare a trovarlo se fossi passato da Londra.

‘Così parcheggiai di fronte a Dor-set House, dove si trovava la reda-zione. Anche per il direttore edito-riale ero troppo vecchio, però mi chiese ugualmente di inviargli un paio di articoli. Uno era qualcosa di filosofico sugli straordinari paralle-lismi fra le auto e le persone, l’altro venne fuori da una discussione con un mio amico pilota, Ivor Bueb. Mandai gli articoli, li lessero e nel giro di una settimana si fecero vivi. ‘Ti aspettiamo’, mi dissero’.

Maurice Smith era stato un pilota di aerei Pathfinder durante la guerra. Lui e Barker divennero ben presto grandi amici. Altro buon amico era Harry Mundy, il redattore tecnico, famo-so per aver progettato le teste dei cilindri del motore Twin Cam Lotus e un motore a quattro cilindri per la Facel Vega. ‘La mia avventura con Autocar – ricorda Barker – finì quando Harry e Maurice andarono in pensione. Non era più la stessa cosa. Mi nominarono assistente di direzione, ma io non po-tevo sopportare l’idea di tutte quelle riunioni… Così nel 1966 me ne andai negli Stati Uniti come freelance’.

Da allora Barker lavora come freelance. Per i suoi settant’anni ha volato su un Boeing Stearman e nel frattempo ha allestito un’eclettica collezione di auto storiche, con molte grandi Renault del passato e diverse Lancia Ardea (‘La prima auto al mondo – spiega – con un cambio a cinque marce’). Ancor oggi è una presenza ambita nel mondo che amiamo. Al compimento di 94 anni, nell’aprile scorso, gli occhi di Barker hanno brillato di nuovo guardan-do la sua barchetta: ‘Ormai è quasi pronta per nuove avventure’.

‘La collaborazionecon Autocar si è conclusa

quando i miei amicisono andati in pensione,

non sopportavo tuttequelle riunioni’

PAROLA DI STEADYRonald ‘Steady’ Barker è uno dei più anziani giornalisti e scrittori

automobilistici. I suoi ricordi partono dagli Anni 30

testo John Simister // FotograFie Martyn Goddard

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TesTo Robert Coucher // FoTograFie Mark Dixon

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MODELLO DI DISCREZIONE

La Bentley R-Type Continental è troppo costosa? Questa berlina rappresenta un’alternativa abbordabile altrettanto lussuosa

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BENTLEY R-TYPE SPORTS SALOON

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Nella pagina a fianco e a destra Si tratta di una Bentley con un interno particolarmente lussuoso in stile Rolls-Royce;sotto il cofano un 4,9 litri da 200 cavalli a 6 cilindri in linea, come quello della S1, che rendequesta R-Type particolarmente grintosa.

Vi è mai capitato di incontrare una ragazza semplice nei modi e nella conversazione? Una di quelle che conoscendole un po’ me-glio si scopre che, oltre a essere elegante e a saper parlare forbito, fra i suoi hobby figura-no l’equitazione, i lanci col paracadute, scia-re di prima mattina o andare in moto con la

sua Ducati 888. Bella e grintosaIl discorso vale anche per la Bentley R -Type Sports Saloon del

1953. Un’auto britannica, certo, con un motore spaventosamen-te inglese, pensata per chi vuole guidare sportivamente la sua berlina senza ricorrere all’autista. Elegante, raffinata, ma con qualcosa di più: è robusta e sportiva quanto basta. Purtroppo l’azienda che produceva le Bentley come Casa indipendente era fallita nel 1930 e fu rilevata dai signori Rolls e Royce: gente che produceva prestigiose e raffinate auto di lusso.

Le Bentley erano un’altra razza. Walter Owen Bentley costru-iva auto che gareggiavano a Le Mans e vincevano con i Bentley Boys, ma le vittorie nelle corse non bastavano a far quadrare i bilanci. Nel 1931 si fece avanti la Napier & Son per rilevarla, ma alla fine Rolls e Royce ebbero la meglio con un’offerta da 125mila sterline.

Ben presto Walter Owen Bentley si rese conto di non avere più alcun potere decisionale: dai vertici Rolls-Royce veniva trat-tato con estrema durezza, non aveva il permesso di progettare nulla (gli si faceva una colpa di avere lavorato come ingegnere nelle ferrovie prima di occuparsi di automobili) e così nel 1935 se ne andò alla Lagonda (che poi sarà assorbita dall’Aston Mar-tin). Questa parte della storia è importante perché la Bentley Motor Cars divenne dal 1933 il marchio deputato alla realizza-zione di versioni sportive derivate da analoghi modelli Rol-ls-Royce. Dalla RR 20/25 derivò la Bentley 3 ½ Litre, in piena epoca delle ‘auto sportive che non facevano rumore’. Poi fu la volta nel 1946 della MkVI, seguita nel 1952 dalla R-Type Sports Saloon, come quella che vedete in queste pagine. Fu presentata insieme a un altro modello estremamente lussuoso a due porte, la Continental Sports Saloon, con la meccanica quasi uguale e una carrozzeria meno pesante, ‘vestita’ di solito dallo specialista londinese Mulliner.

Oggi, i circa 200 esemplari superstiti della Bentley Continen-tal S.S. valgono almeno mezzo milione di sterline, mentre per entrare in possesso di R-Type Sports Saloon, prodotta in 2486 esemplari, ne bastano 60mila, poco più di un decimo! Un bel risparmio.

Sul mercato delle storiche non c’è da impazzire per trovarne una. Come avviene per molte auto di quel periodo, la ruggine è il peggior nemico e alcune sono state purtroppo demolite pro-prio per questo.

L’esemplare di queste pagine, completamente restaurato dal-lo specialista Brewster, è verniciato in verde scuro ed è assoluta-mente perfetto. La mascherina cromata è più sottile rispetto al ‘tempio greco’ tipico delle Rolls-Royce Silver Dawn sue coeta-nee. I pneumatici Avon (uno specialista in materia di gomme per auto storiche) sono nuovi e il contamiglia è fermo a quota 65.525 (poco più di centomila chilometri), una distanza plausibi-le tenendo conto dell’età della vettura.

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1953 BENTLEY R-TYPE SPORTS SALOON MOTORE Tipo S1, 4886 cm3, 6 cilindri in linea,

due carburatori doppio corpo SU POTENZA 200 cavalli a 4300 giri COPPIA 271 Nm a 2500 giri

TRASMISSIONE Cambio manuale a quattro marce, trazione posteriore STERZO A vite e rullo SOSPENSIONI Anteriori: quadrilateri trasversali,

molle elicoidali, ammortizzatori, barra antirollio. Posteriori: ponte rigido, balestre semi ellittiche, ammortizzatori.

FRENI A tamburo PESO 1920 kg PRESTAZIONI Vel max 176 km/h, 0-100 km/h in 12 secondi

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Le porte si aprono e si chiudono benissimo, senza cigolii sinistri, l’interno è ben assemblato. Del lussuoso abitacolo colpisce subito l’abbon-danza di posacenere e l’insolita posizione della leva del cambio, fra il sedile del guidatore (a de-stra) e la sua portiera. I dettagli sono una delizia e tutto è stato meticolosamente restaurato.

Dal posto di guida (le moderne cinture di sicu-rezza sono una presenza discreta) la visuale attra-verso il parabrezza è esaltante, con quel cofano lungo e stretto e la ‘B’ alata, classico logo Bentley, a sormontare la mascherina. Affascinanti anche le spie delle luci di posizione poste sulla sommità dei parafanghi. Non c’è bisogno di una chiave per avviare il motore, ma ne serve una molto pic-cola, tipo serratura Yale, per aprire la portiera. Per mettere in moto bisogna prima far girare un pesante comando cromato situato nel cruscotto, che ha una squisita impiallacciatura in noce. Poi, con il pollice, si preme il pulsante di ‘start’.

Non succede niente. O almeno così sembra. Il finestrino accanto a noi vibra molto sommessa-mente e gli indicatori hanno preso vita. Il grande motore a sei cilindri è molto silenzioso, la frizione è morbidissima e la leva del cambio è lì, sulla de-stra, a portata di mano. La prima, che non è sin-cronizzata, entra con un clic. Basta premere leg-germente sul pedale del gas e la Bentley comincia a muoversi silenziosamente, con un sussurro.

La prima è più lunga di quello che sarebbe lo-

gico aspettarsi in un’auto degli Anni 50. Nella parte bassa del pulsante del clacson c’è una levet-ta con cui regolare la durezza della sospensione posteriore. Mettendola sulla posizione ‘firm’ ren-de l’auto più reattiva se si guida sportivamente, trasformando in momenti di puro divertimento la guida su una strada in mezzo ai boschi con qualche curva. Quella che sembra una paciosa berlina mostra un animo sportivo.

Le ultime remore al riguardo crollano aprendo, una alla volta, le due metà del cofano motore. Dal lato del guidatore spiccano i due carburatori SU doppio corpo e la vernice laccata in nero che rico-pre buona parte del propulsore, mentre dal lato del passeggero si è colpiti dal collettore di scarico di foggia sportiva.

Su questa R-Type è stato fatto montare il moto-re 4.9 di una S1, rendendo particolarmente utili a chi siede dietro le maniglie di appiglio poste sul retro dei sedili anteriori! Basta poco per rendersi conto di come questa Bentley sappia essere parti-colarmente veloce. Intendiamoci, non è un’auto da scatti brucianti al semaforo, ma sa tenere velo-cità di crociera tali da consentirle di reggere il confronto con la ben più costosa Continental. I freni a tamburo sono molto efficaci e soltanto lo sterzo richiede un minimo di assuefazione per-ché privo di servo assistenza.

Un’auto dalle due anime, elegante e affasci-nante, ma incredibilmente divertente.

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BELLE EPOQUE

Irresistibili attrazioni sul lago di ComoTesTo Alessandro Botta FoTograFie Cattura

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Fotogrammi di epoche passate per una kermesse di respiro internazionale. Ambientazio-ne unica e di enorme fascino, questo è il concorso d’elegan-za Villa d’Este.

Il 2014 è un anno di celebra-zioni, cominciando dai 10 anni di collaborazione tra BMW e il concorso, nato nel 1929, in tempi non sospetti, ma in concomitanza con l’avvio del-la produzione, su licenza della Austin Seven, del-le prime quattro ruote bavaresi, che si affiancaro-

no proprio nel ’29 alle motociclette. Gli anniversari più importanti, però, sono rappre-sentati dal centesimo compleanno Maserati e dai 110 anni di Rolls Royce.

La mostra tematica per questa edizione è giu-stamente dedicata alle creazioni che hanno visto la luce inizialmente a Crewe (36 Miglia a Sud di Manchester) all’inizio dl secolo scorso. Un gigan-tesco spirito dell’estasi, stilizzato e coperto di veli fluttuanti, come l’originaria musa ispiratrice, ha accolto i visitatori in modo alquanto scenografi-co. Rolls Royce di varie epoche e auto dell’attuale

CONCORSO D’ELEGANZA VILLA D’ESTE

‘L A PR IM A EDIZIONE FU V INTA NEL ‘29 DA U NA ISOTTA FR ASCHINI TIPO 8.NEL PA LM A R ÈS L A NCI A PR ECEDE L’ A LFA’

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gamma, tutti esemplari particolari in allestimenti rari, hanno fatto bella mostra di sé, compresa l’a-tipica Camargue e l’iconica Silver Wraith.

Superati i veli tenui e azzurrati dell’unico pa-diglione coperto, si entra nel vivo dell’evento. Di fronte all’imperiosa Villa d’Este, in uno dei punti più suggestivi del Lago di Como, appare un vero tesoro di cultura e stile.

Sembra di essere tornati ai tempi della Bella Epoque. Molti concorrenti, abbigliati in perfetto stile, improvvisano deliziosi pic-nic sui verdi pra-ti del parco di Villa Erba e Villa d’Este, aperti al grande pubblico di curiosi e appassionati nelle giornate di sabato e domenica.

Il vero concorso si tiene come di consueto a porte chiuse il venerdì. La Coppa d’oro è stata vinta ancora una volta, la quarta, un record, da Corrado Lopresto.

Il noto collezionista si è aggiudicato anche il premio del pubblico (Trofeo BMW Group Italia). Un doppio trionfo meritatissimo, l’Alfa Romeo 6C 1750 Gran Sport carrozzeria Zagato/Aprile è in effetti bellissima, restaurata con competenza e maniacalità del dettaglio. La mascherina anterio-re con i bordi rifiniti a mano è commovente.

Anche Maserati ha avuto in dono per i suoi 100 anni due premi. Il trofeo Best of Show è andato alla strepitosa 450 S Di Albert Spiess, secondo di 9 esemplari costruiti. Giusto riconoscimento a un capolavoro di design presentato in condizioni su-perbe. Oltre alle vetture d’epoca il concorso pre-

La vincitrice del concorso, Alfa Romeo 6C 1750 GS Compressore, uno spider nato con carrozzeria Zagato nel 1931 e poi ricarrozzato dalla carrozzeria Aprile di Savonasu disegno di Mario Revellidi Beaumont nel 1938.Il restauro ha riscoperto i colori originali e i dettagli di rifinitura grazie a una tecnologia utilizzataper il restauro delle pellicole d’epoca applicata alle foto originali. Il proprietario Corrado Lopresto mostra orgoglioso le coppe vinte.

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Da sinistra dall’alto in bassoLa stupenda Ferrari 500 TRC Scagliettidi Claudio Caggiati; l’incredibile Rolls Royce Silver Cloud I di Marcello Fratini, realizzata da Harold Radford come Shooting Brake;la Lancia Astura tipo 233 con carrozzeria Pinin Farina di Orin Smith.A destra la Ferrari 250 GTO Scagliettidella Lionshead West Collection.Al concorso si sono vistecome sempre auto stratosferiche.

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‘IL COLPO DI GR A ZI A È STATO OSSERVA R LE M A RCI A R E SOTTO

LE TR IBU NE, PR ESENTATE IN MODO M AGNIFICO DA SIMON K IDSTON’

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mia anche i prototipi. Una scelta corretta e quasi obbligata, pensando alla storia del concorso, nato per ce-lebrare il genio dei carrozzieri che si sfidavano a colpi di pezzi unici. Dal 2002 è stato, quindi, introdotto il De-sign Award for Concept Cars, quest’anno attribuito dal pubblico alla travolgente Maserati “Alfieri”. Una bella soddisfazione per Loren-zo Ramaciotti, presidente della giu-ria del concorso, che ha dato il via al progetto sviluppato e portato a compimento dal centro stile Mase-rati sotto la supervisione di Tencon.

Il Trofeo BMW Group (primo pre-mio e best of show) per le moto d’e-poca è stato assegnato dalla giuria alla Opel Motoclub Supersport del 1929 di proprietà di Mattias Hünn.

CONCORSO D’ELEGANZA VILLA D’ESTE

Questo sidecar con profilo a siluro ha conquistato tutti, giovani e adul-ti, con la sua livrea rossa e argento modernissima, con un design senza tempo, come un dirigibile Zeppelin.

Tra i prototipi anche una futuribi-le Mini agli estrogeni, accompagna-ta dalle progenitrici, che osservava-no incuriosite la crescita dimensionale della stirpe.

Le foto parlano da sole, un parter-re di vetture e moto eccezionale: la 250 GTO, la SWB e la California spi-der di casa Ferrari; difficile dimenti-carsi della serie di Rolls Royce tra cui l’affascinante e inglesissima Sil-ver Cloud allestita per i cacciatori, o la Sedanca de Ville del Maraja con le luci per indicare la presenza dei rea-li a bordo.

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In questa pagina In alto la Lancia Aprilia type 239 Spider Pinin Farina del 1938,di Maria Teresa Orecchia;a fianco la BMW 507 disegnata da Goertz nel 1957, un 8 cilindri da 3168 cc arrivato dagli Stati Uniti;in basso dettagli della Alfa Romeo 6C 3000 CM Superflow IV di Pinin Farina.

Nell’altra paginaIn alto la Ferrari 250 GT Interim;appena sotto la Maserati A6GCS, 1985 cc di Matteo Panini;sotto da sinistra a destra la Hispano Suiza H6B di Chapron, la particolarissimae superaffascinante Maserati V4 sport a 16 cilindri di Zagato e la Ferrari 250 GT LWB Spider California.Tutte queste Ferrari sono opera di Pinin Farina (che poi divenne Pininfarina nel 1961 per decreto del Presidente della Repubblica).

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CONCORSO D’ELEGANZA VILLA D’ESTE

‘U NO SGUA R DO A L FUTUROCON SPLENDIDE CONCEPT CA R’

La Maserati Alfieri, progettata per festeggiare il centenario della casa Modenese.

Il nome rende omaggio al fondatore dell’azienda.L’Alfieri è stata progettata al Centro Stile Maserati di Torino da un piccolo gruppo di giovani designer,

sotto la direzione di Marco Tencon.L’idea originale del progetto è di Lorenzo

Ramaciotti. La concept car evoca la pluriennale esperienza nello sport automobilistico

e la tradizione degli esclusivi veicoli GT.Il propulsore, prodotto a Maranello,

è costituito da un motore V8 aspirato, 4,7 litri con 460 CV e 520 Nm di coppia.

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La Lamborghini 5-95, commissionatadal famoso collezionista Albert Spiess,ha avuto come base di partenza la Gallardo LP570-4, della quale ha mantenuto lo stesso V10 e la trasmissione. Il design richiama la Huracàn LP610-4, ormai in pensione.Presenta un paraurti anteriore in stile Aston Martin One-77, molto aerato, con il tettoa doppia gobba, marchio di fabbrica Zagato.Non è la prima volta che Lamborghinie Zagato collaborano per sfornare progetti unici. La prima collaborazione iniziòquasi 50 anni fa con la 3500 GTZ.In seguito ci sono state due Diablo,la Zagato Raptor e la Lamborghini Canto.

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Le due ruote sono diventate parte integrante del programma di Villa d’Este nel 2011. Quest’anno si sono potute ammirare due quattro cilindri del costruttore statunitense William Henderson degli Anni ’20. Forte interesse hanno destato anche le cinque motociclette provenienti da Inghilterra, Italia e Germania, che tra il 1929 e il 1937 spinsero il record di velocità da 200 a 279 km/h. Un’ulteriore attrattiva è stata rappresentata da una delle poche motociclette che sfoggiano il marchio del Tridente: la Maserati T 4 Regolarità, nella foto qui sotto.Molto ammirata anche la Harley Davidson 20-J (in basso a sinistra), derivato dal mezzo da competizione che ha dominato le gare con la squadra corse diventata nota come il “ Wrecking Crew“.I modelli da competizione erano privi di lussi come i sedili a molle.La vittoria è andata alla Opel Motoclub Supersport (1929, Germania). Ha un solo cilindro e un motore di 496 cc. Il proprietario dell’esemplare premiato è un tedesco, Matthias Hünn. La Casa automobilistica tedesca Opel di Rüsselsheim si dedicò alla produzione in serie di motociclette già agli inizi del secolo scorso. Nel 1928 l’acquisizione delle officine Elite-Diamant, in Sassonia, consentì di gettare nuove basi. A tal fine Opel acquisì i diritti per la produzione della motocicletta con telaio in acciaio e forcella oscillante progettata da Ernst Neumann-Neander. Anche la navicella a forma di siluro, fabbricata in esclusiva dal produttore di sidecar Kali di Francoforte, è sorretta dalla struttura a barre incrociate ideata dallo stesso Neander. Nel 1930 la vendita di Adam Opel AG a General Motors determinò la fine prematura dell’Opel Motoclub.

Il “siluro” OpelR

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ACQUISTARE/VENDERE/POSSEDERE

IL MERCATO

DICONO CHE la varietà costituisca il sale della vita. Sarà anche per questoche alcune Case d’aste, fra le più importanti nell’ambito delle auto d’epoca, hanno cominciato con successo a rivolgere la loro attenzione ad altri settori. L’americana Mecum ha organizzato di recente, con riscontri positivi, un’asta interamente dedicata ai trattori agricoli e all’inizio di maggio 2014 ne ha svolta un’altra sugli yacht in Florida, con lotti a catalogo che partivano da 250mila dollari in su fra

cruiser e catamarani che sembravano essere appena usciti da una puntatadi Miami Vice! Silverstone Auctions ha inaspettatamente aggiuntoun notevole numero di orologiin occasione dell’asta denominata ‘Race Retro’. Molti sono rimasti invenduti e altri sono stati acquistatiin stock. A detta dell’organizzatore, però, l’esperimento è da riprovare.In un altro contesto le cose potrebbero andare meglio. Non ci sarà invece posto per le auto

LA TOP TENMARZO 2014

L’indice Ferrari HAGIHISTORIC AUTOMOBILE GROUP INTERNATIONAL (HAGI) è una Casadi ricerca indipendente di investimentie con competenze specialistiche nel settore delle auto storiche più rare. Ogni mese mette a punto analisi grafiche molto precise sull’andamento del mercato. L’incide Top HAGI è pubblicato mensilmente anche sul sito web del Financial Times.Non c’è alcun dubbio: il mercato delle Ferrari ‘tira’ sempre su base annuale, e nel 2013 ha ottenuto uno spettacolare incrementodel 62,14 rispetto all’anno precedente.Il primo trimestre del 2014 ha invece subìto una temporanea frenata, e il miglioramentoè stato solo dello 0,31 per cento. Un fatto normale, legato alla stasi invernaledel mercato. Già nel mese di marzo, però,

l’indice è salito all’1,41 per cento, per cuifra gli esperti ha ragione chi sostieneche ‘parlando di Ferrari, fiaba e realtàsi intrecciano sempre’. Con le aste svoltesi fra aprile e maggio,con particolare riferimento a quelle svoltesia Montecarlo in occasione del Gran Premio storico, l’indice dovrebbe avere un’ulteriore impennata, anche se non è detto che si arrivi al 16 per cento ipotizzato dagli esperti. La tendenza generale dei ‘bidders’(i frequentatori delle aste) è attualmente quella di rivolgersi più alle vetture stradalie a quelle da corsa degli anni Sessantache alle cosiddette ‘esotiche’. Per un’analisi più approfondita, si può visitare il sito www.historicautogroup.com

Dave Selby

MESE/ANNO L’asse verticale si basa su un benchmark di 100 fissato al 31 dicembre 2008. La tabella Top HAGI si riferisce ai prezzi di 50 importanti vetture da collezione.

Alla conquista di nuovi spaziLe Case d’asta specializzate in auto d’epoca puntano con successo anche su altri settori

d’epoca nell’asta che Auctions America organizzerà il 12 luglio prossimo in California: sarà interamente dedicata ai veicoli militari, compreso il carro armato Howitzer M37 con cannone da 105 millimetri, con 200-250mila dollari quale base d’asta. Ovviamente è funzionante soltanto per quanto riguarda i cingoli, la parte ‘armata’ è stata disattivata, così per prendere parte all’asta nonè necessario essere un generalecon quattro stellette sulla divisa.

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€ 4.872.800DELAHAYE 135 COMPETITIONCOURT TORPEDO ROADSTER

BY FIGONI ET FALASCHI, 1937RM Auctions, Amelia Island, USA, 8 Marzo

€ 2.480.500 PORSCHE 907 LONGTAIL, 1968

Gooding & Co, Amelia Island, USA, 7 Marzo

€ 2.436.700 PORSCHE 718 RSK, 1959

Gooding & Co, Amelia Island, USA, 7 Marzo

€ 1.868.100 FERRARI 250 EUROPA GT, 1955

Gooding & Co, Amelia Island, USA, 7 Marzo

€ 1.786.600 BMW 507 SERIES II ROADSTER, 1958 RM Auctions, Amelia Island, USA, 8 Marzo

€ 1.502.600 MERCEDES-BENZ

300SL ROADSTER, 1964 Gooding & Co, Amelia Island, USA, 7 Marzo

€ 1.360.600 MERCEDES-BENZ

300SL ROADSTER, 1957 RM Auctions, Amelia Island, USA, 8 Marzo

€ 1.339.600 BMW 507 SERIES II, 1958

Gooding & Co, Amelia Island, USA, 7 Marzo

€ 1.299.500 FERRARI 250GT SERIES II

CABRIOLET BY PININFARINA, 1961 RM Auctions, Amelia Island, USA, 8 Marzo

€ 1.157.500 DUESENBERG MODEL SJ

CONVERTIBLE SEDAN BY LEBARON, 1934 RM Auctions, Amelia Island, USA, 8 Marzo

RIPRODUZIONE RISERVATA

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Là dove nascono le Aston MartinBonhams, Newport Pagnell, GB, 17 Maggio

A C U R A D I C H R I S B I E T Z KMERCATO // LE ASTE

AVVENIMENTO INSOLITO

QUELLA SVOLTASI il 17 maggio scorso nel ‘Works service’,il reparto assistenza e manutenzione della storica Casa dell’Aston Martin a Newport Pagnell, è una delle aste più insolite.Le auto facenti parte dei lotti a catalogo sono, infatti, esposte come se fossero sul punto di essere controllate dai tecnici della Casa inglese che si occupano del ‘servizio clienti’. Un’altra particolarità è che figuravano a catalogo soltanto modelli

prodotti da Aston Martin e Lagonda. Il prezzo più alto l’ha spuntatouna DB4 Serie V Vantage 4.2-Litre Convertible del 1963, battutain sterline al corrispettivo di 627.700 €, seguita da DB5 Vantage Shooting Brake (‘giardinetta da caccia’) del 1965 (532.400 €)e da un’altra DB4 Convertible, anche del 1963 (382.700 €).Seguono in graduatoria due coupé, una DB5 del 1964 (348.700 €)e una DB4 Sports del 1959 (314.700 €). Degno di nota il fatto che abbia trovato un compratore anche una replica, quella di una DB4 GT 4.0 Litre del 1961, aggiudicata per 273.900 €. Invece è rimasta invenduta,a dispetto della sua originalità, la Lagonda Rapide del 1962 della foto, carrozzata Touring e prodotta in soli cinquantacinque esemplaridal 1961 al 1964. Il motore è un sei cilindri in linea di quattro litricon doppio albero a camme in testa. Questo esemplare, in color ‘Shadow Grey’, è piuttosto raro, dal momento che ha un cambio manuale (la trasmissione automatica era più richiesta).Valore tra centomila e 150mila euro. Dave Selby

A PIACENZA…Ha riscosso un certo successola manifestazione dedicata alle auto storiche svoltasi sabato 12 aprilee organizzata dalla Casa d’aste Ioridi Piacenza. Con un buon 35 per cento dei lotti a catalogo che hanno trovato un acquirente, il bilanciodella manifestazione è positivo.Tra i lotti più significativi vanno ricordate la Dino 208 GT4 (nella foto) che con una base d’asta di 15.600 € è stata aggiudicata per 18.300, l’Alpine Renault A110 (base d’asta 34.800) battuta a 42.400 euro.//www.ioricasadaste.com

La Miura ha sempre il suo fascinoRM Auctions, Montecarlo, Monaco, 10 Maggio

CHI ABITA A MONTECARLO è abituato ad averea che fare con cose particolarmente belle,per cui non c’è da meravigliarsi se l’asta di RM Auctions svoltasi allo Sporting Club nel Principato il 10 maggio scorso sia stata un poco al di fuori dagli schemi. Fra i lotti a catalogo (l’asta si svolgeva non a caso nel week end del GP storicodi Montecarlo, di cui riferiamo in questo stesso numero di Octane) figuravano decine di autoda corsa, esemplari rari e pregiati. Il risultato è stato in linea con le aspettative: l’introito globale è stato di 41.355.430 € tra auto, barche, moto e memorabilia. Dopo cinque oredi incredibili battaglie per aggiudicarsi i lotti

a catalogo, solo il 7 per cento degli oggettiin vendita non ha trovato un compratore.Per RM Auctions questa è la più grande vendita mai tenuta in Europa, con almeno dieci record mondiali a livello di quotazione per alcuni modelli.La sala dello Sporting Club era particolarmente affollata e l’atmosfera era piena di tensione,con tante offerte anche al telefono e su Internet.Top nelle vendite è stata una rara Ferrari 275 GTB/C del 1966 (telaio 09067) carrozzata Scaglietti, battuta 5.712.000 €.La Casa di Maranello del resto ha fatto la partedel leone, con ben sei auto nelle ‘Top Ten’, tra modelli Ferrari e Dino, conquistando anche i primi

quattro posti della graduatoria assoluta. Gli altri due posti del podio ideale sono stati occupatida una 250 GT Cabriolet Pininfarina I seriedel 1959 (telaio 1181 GT) a 4.704.000 €,e da una Ferrari 330 GTS del 1967 (telaio 10719) costruita in soli 99 esemplari, aggiudicataper 2.128.000 €.Tra le curiosità figuravano anche la Brabham BT20 di Formula 1 con cui Hulme vinse nel 1967il Gp Monaco (che costò la vita a Bandini), venduta a 1.092.000 € e una Lamborghini Miura P400Sdel 1969 (nella foto) con un V12 da 370 cavalli, battuta a 840.000 €.//www.rmauctions.com

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103 GIUGNO 2014 ITALIA

Le datedelle aste

IN PIÙ ON-LINE!TANTE INFORMAZIONI

SULLE ASTEDI AUTO STORICHE,VISITANDO IL SITO

www.octaneitalia.it

A una Bugatti la piazza d’onoreCoys, Montecarlo, Monaco, 9 Maggio

BATTUTA DA UNA FERRARI

ERANO BEN DUE le aste svoltesi nel Principato durante il week end del Gran Premio storico di Monaco. Oltre a quella di RM Auctions,di cui riferiamo a parte, si è infatti svolta anche quella organizzatada Coys. Dei lotti a catalogo una cinquantina hanno cambiato proprietario. La grande favorita dell’asta era la Bugatti Type 57 Series I Mont Ventoux bicolore rossa e nera che si vede nella foto.Nonostante le aspettative, è stata battuta da una Ferrari 330 GTCdel 1967, aggiudicata per 529.400 €. La Bugatti si è così dovuta accontentare della piazza d’onore, ma ha spuntato, comunque, 406.200 €. A completare il podio ideale dell’evento una Dino 246 GT del 1972, che ha avuto come primo proprietario il chitarristadei Rolling Stones, Keith Richards: è stata battuta a 294.200 €. Appaiate ex aequo al quarto posto una Rolls-Royce Silver Cloud III Drophead Coupé del 1966 e una Maserati 3500 GT Touring del 1960, aggiudicate entrambe per 249.400 €. Scorrendo la graduatoria troviamo un’altra Dino 246 GT del 1971

(237.000 €), una Ferrari FF del 2012 che ha percorso solo 27 chilometri (227.000 €), una March 771 di Formula 1 del 1977 (210.200 €) e una Montecarlo Automobile Centenaire (l’azienda creata da Fulvio Maria Ballabio per produrre alcune supercar). Questo esemplare del 1989 è stato aggiudicato per 154.200 €. Chiudeva la graduatoria delle ‘Top Ten’ un classico nel suo genere, una Porsche 356 B Super T6 del 1962 con doppia griglia sul cofano motore, battuta a 133.600 €.//www.coys.co.uk

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13 Giugno

Mecum Seattle, USA

13-14 Giugno Bonhams Banfield Collection

Staplehurst, GB

14 Giugno Classic Cars Norfolk, GB

14 Giugno Coys

Astir Palace Resotrs, Atene (GR)

19-21 Giugno Russo & Steele

Newport Beach, USA

21 Giugno H & H Auctions

Rockingham Castle, GB

23 Giugno Barons Sandown Park, GB

27 Giugno Bonhams

Goodwood Festival of Speed, GB

5 Luglio

Artcurial Le Mans, F

12 Luglio Bonhams

Mercedes-Benz, Stoccarda, D

12 Luglio Coys

Fine Motor cars & The Jaguar Legend Blenheim Palace, Oxfordshire, GB

18-19 Luglio J. Mark Classic Auctions

Nashville, USA

23 Luglio H & H Pavilion Gardens, GB

9 Agosto Coys Oldtimer Grand Prix

Nürburgring (D)

14-16 Agosto Mecum Auctions

Monterey, California, USA

15 Agosto Bonhams

Quail Lodge, California, USA

15-16 Agosto RM Auctions Monterey, USA

16-17 Agosto Gooding & Company Pebble Beach, USA

27-31 Agosto

Auctions America Auburn Auction Park, Indiana, USA

8 Settembre RM Auctions

Hampton Court, Londra (GB)

Auctions America, Auburn, USA 8-10 Maggio

Tiene banco la Chrysler Airflow

PARTICOLARMENTE INTERESSANTE l’asta che si è svolta ad Auburn, nello Stato americano dell’Indiana,dall’8 al 10 maggio scorso. Di fronte a ventimila partecipanti è stato venduto l’87 per cento dei 770 veicoli, oltre a 250 memorabilia a catalogo, con introiti complessiviper 19,1 milioni di dollari.L’auto che ha battuto la cifra più alta, una Chrysler Imperial Airflow del 1934 (nella foto), aggiudicata per 156.500 €, faceva parte, insieme ad altri 400 veicoli, della collezionedi John Scotti. Del ‘garage’ di questo collezionista facevano parte anche una Buick GNX del 1987 (73.400 €),una Sunbeam Tiger Roadster del 1965 (64.500 €)e una Ferrari Testarossa del 1989 (61.700 €). La Chrysler Airflow era un’auto decisamente aerodinamica per la sua epoca, soprattutto perché riusciva a proporre nuove frontiere in termini di design automobilistico. Sviluppata dagli ingegneri Carl Breer , Owen Skelton e Fred Zeder (con il contributo del guru dell’aviazione Orville Wright), colpì la clientela per le sue prestazioni e per il minor

consumo di carburante rispetto alle auto prodotte a quel tempo dalla concorrenza. Tra il 1934 e il 1937 fu prodotta in trentamila esemplari e alla sua linea si sono ispiratii designer della Chrysler nel concepire, oltre mezzo secolo dopo, la PT Cruiser. A fine asta John Scotti si è detto particolarmente soddisfatto dell’andamento delle vendite e ha elogiatola professionalità dello staff di Auctions Americanel gestire la manifestazione. Al di là della Collezione Scotti, ulteriori aggiudicazioni significative hanno riguardato una 1962 Chevrolet Impala SS 409 Sport Coupé Lightweight del 1962 (110.900 €) e una Chevrolet Bel Air del 1956, con bicolore rosso Matador e avorio indiano, battuta a 108.900 €. Sono rientrate nelle ‘Top Five’, dietro la Chrysler Airflow e le due già citate Chevrolet Impala e Bel Air, una Mercedes-Benz 190 SL del 1960 (aggiudicata per 106.900 €) e una Chevrolet Corvette 427/435 del 1967 (che ha cambiato proprietario per 100.900 €). //www.auctionsamerica.com

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Testo e Fotografie Marco Chiari

IntroduzioneJeep, Mini e Land Rover: tre auto diventate altrettanti marchi; potete aggiungere anche la Corvette che, dopo un passato da modello con logo Chevrolet, da alcuni anni è diventata un brand a sé stante. Qualcosa che incarna quella che in fondo è la vera essenza dell’America insieme a baseball, basket, Superbowl, musica country, ketchup e Coca Cola (e nel mondo delle auto da corsa, le gare Nascar e la mitica 500 miglia di Indianapolis). Tutta roba capace di trafiggere il cuore degli appassionati nostrani che, al volante di una ‘Vette’ si sentono dei veri cowboys da Route 66 tricolori.Come dar loro torto? Un ‘vuotto’ che borbotta col tono giusto (ricorda da matti quello dei motoscafi d’altura), una carrozzeria che non passa inosservata e un marchio che emana fascino, un

prezzo non esorbitante per il tipo di vettura e la certezza di non avere problemi di sorta con i ricambi (a patto ovviamente di masticare un po’ di inglese e sapersi muovere nella rete).La Corvette rappresenta una scelta controcorrente. Trovarle come alternativa una classica GT europea potrebbe rivelarsi un’inutile forzatura (anche se noi ci abbiamo provato lo stesso). Eventuali competitor andrebbero, a dire il vero, selezionati tra i modelli d’oltreoceano concepiti con la medesima filosofia: motori plurifrazionati, di alta cilindrata e con una potenza specifica risibile rispetto ad alcune due litri del vecchio continente. Nel caso specifico della C4, diventa obiettivamente difficile trovare altre sue connazionali coetanee dotate dello stesso appeal (Camaro e Mustang non reggono il confronto, e la Viper è di un altro pianeta). In ogni caso, acquistando una Corvette ci si mette al volante di un mito.

Il mercatoLa Corvette C4 debutta nel 1984 come coupè-targa mentre la versione spider vede la luce soltanto un paio d’anni più tardi: la linea è opera di Jerry Palmer che ha disegnato una vettura dalla spiccata personalità e con una buona aerodinamica (il Cx rilevato era pari a 0,34). Contrariamente alla moda imperante oltreoceano, la C4 si rivela abbastanza compatta e quindi più vicina ai gusti automobilistici europei. Anche il peso (1540 kg a vuoto), considerata la notevole massa della meccanica, è abbastanza contenuto grazie alla carrozzeria in vetroresina che, oltretutto, ha il vantaggio di non essere attaccabile dalla corrosione. La quasi totalità degli esemplari disponibili sul mercato italiano proviene dagli Stati Uniti. Benché queste vetture siano abbastanza robuste, occorre comunque qualche cautela. Ad esempio gli esemplari provenienti da zone fredde potrebbero avere

MERCATO // METTILA NEL BOX

CORVETTE C4 SPIDERda € 15.000

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Spider appariscente con un otto cilindri perfetto per solcare le highways d’oltreoceano. Difficile immaginare qualcosa di più yankee. Il cambio euro/dollaro la rende abbastanza conveniente. Meccanica robusta e ricambi no problem

1986-1996

La Storia1984 Debutta la Corvette C4.1986 Arriva finalmente, a grande richiesta, la versione cabriolet.1987 L’adozione dell’ABS migliora l’efficacia dell’impianto frenante.1989 Un nuovo cambio manuale a sei rapporti sostituisce il vecchio 4 marce più overdrive e si affianca alla trasmissione automatica, da sempre la preferita.1990 Gli interni vengono completamente rivisti. In particolare si assiste al ritorno di una strumentazione tradizionale che prende il posto di quella con gli indicatori digitali.1991 Modifiche a coda e frontale.1992 Arrivano il controllo elettronico di trazione e il nuovo propulsore LT1 da 300 cavalli.1996 Viene proposto in tiratura limitata l’allestimento ‘Collector’s Edition’. Poi la C4 esce dai listini e si accinge a entrare nella storia. Ultimo colpo di coda: la serie speciale Grand Sport, dotata del motore LT 4 da 330 cavalli, è disponibile per alcuni mesi sulla sola versione dotata di cambio manuale.

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problemi di ruggine al sottoscocca, mentre soprattutto le spider provenienti dalle coste del Sud spesso e volentieri necessitano di un rifacimento di interni e cruscotto “cotti” dall’esposizione al sole. Attenzione anche al cambio: quello manuale a quattro rapporti con tre overdrive, peraltro poco diffuso, è fonte di grattacapi. Chi desidera un cambio tradizionale farebbe molto meglio a orientarsi sullo ZF a sei marce arrivato nel 1989. La stragrande maggioranza delle Corvette, comunque, è equipaggiata con la trasmissione automatica, altrimenti che americana sarebbe?

In sintesiI fari retrattili fanno molto granturismo e il frontale è caratterizzato dai parafanghi in blocco con l’enorme cofano; la coda è inconfondibile grazie alla caratteristica fanaleria circolare. Gli interni sono paragonabili a quelli di un’auto moderna e non mancano gadget che alzano il livello confort: di certo può lasciare perplessi la strumentazione digitale che di storico ha davvero poco e che fu montata fino al 1990. Il rovescio della medaglia è costituito dal fatto di potere convertire i valori della strumentazione in misure europee semplicemente premendo un pulsante, evitando così faticose elucubrazioni mentali o, peggio ancora, costosi interventi di sostituzione di tutto il blocco strumenti. Le finiture sono decorose ma lontane anni luce dai modelli di lusso del vecchio continente.

In conclusioneNon è facilissimo trovare un’auto europea altrettanto carica di fascino (e cilindri) a parità di

prezzo. Data la provenienza statunitense, la crisi del dollaro rende le sue quotazioni ancora più appetibili; quanto ai costi di esercizio ci vuole un piede di velluto per non fare schizzare i consumi a livelli da paura. In ogni caso, è vero che non è una vettura per dei mangia chilometri, ma va considerato che anche un uso saltuario può far felice più di un benzinaio. Diametralmente opposto il discorso ricambi: considerata la tipologia di auto, i pezzi costano meno di quanto si possa immaginare e sono ben al di sotto della media delle auto europee di pari lignaggio. Un punto importante è costituito dal fatto che, se non spaventano i consumi di benzina, questa è un’auto che per la sua affidabilità si può anche tranquillamente usare tutti i giorni senza problemi: è comoda, spaziosa e ha un buon bagagliaio. Con il cambio automatico si può usare tranquillamente anche in città. Per chi non lo sapesse, esistono molti club nel mondo dedicati alla Corvette. Anche in Italia, quest’auto-mito ha ovviamente i suoi sostenitori, riuniti dall’aprile 2001 nel Corvette Club Italia. Si racconta tra l’altro che l’idea di fondare il club e di trasformare quello che era un semplice passaparola telefonico tra amici in qualcosa di formale e strutturato sia nata durante un primo raduno di ‘corvettisti’ a Sanremo. Oggi il club conta quasi mille iscritti proprietari di ogni modello Corvette, dalla C1 alla C6 ZR-1, comprese le varie edizioni speciali a tiratura limitata. Ha un proprio sito internet (www.corvetteclubitalia.com), punto di riferimento dei soci e di molti appassionati ed è gemellato con altri club Corvette nel mondo per organizzare periodicamente diversi raduni internazionali.

Le rivali dell’epoca

1987 CORVETTE C4 SPIDERMOTORE Anteriore longitudinale, 8 cilindri a V, 5733 cm3, 4 valvole per cilindro, iniezione elettronica

POTENZA 245 cavalli a 4000 giriCOPPIA 460 Nm a 3200 giri

TRASMISSIONE Cambio automatico a 4 rapporti, trazione posteriore STERZO A cremagliera servoassistito

SOSPENSIONI Anteriori: a ruote indipendenti, doppi triangoli sovrapposti in alluminio, molle elicoidali, ammortizzatori attivi, balestra trasversale. Posteriori: semiassi oscillanti, bracci longitudinali, barre di

ancoraggio trasversali, balestra trasversale, ammortizzatori attivi. Barre antirollio anteriori e posteriori FRENI A disco autoventilati PESO 1540 kg

PRESTAZIONI Vel max 245 km/h

Jaguar XJ-S Convertible

(1988-1996, 3980 cm3, da 20.000 €) Surclassa la Corvette quanto a finiture

grazie a pelle e radica a profusione nella migliore tradizione britannica. A livello di

consumi riesce a ‘bere’ come l’americana; non ha la robustezza e l’affidabilità della ‘Vette’ ma in compenso sfoggia una linea

sobria ed elegante. Ricambi cari ma disponibili in abbondanza.

Mercedes-Benz 500 SL (R 129)(1989-2001, 4973 cm3, da 15.000 €)

Un grande classico della produzione europea. Si spende più o meno come

per una C4: non avrà lo stesso fascino ‘esotico’ ma quanto a classe non si

discute. Se ben curata è eterna, anche se nel corso degli anni è stata infarcita di elettronica. Gamma motori per tutti i

gusti. Ricambi originali forniti a peso d’oro direttamente dalla Casa.

Porsche 968 Cabriolet(1991-1994, 2990 cm3, da 13.000 €)

Una vettura poco fortunata, come tutte le Porsche a motore anteriore, ‘vittime’ del fascino emanato dalla mitica 911. La 968 è divertente, ben costruita e affidabile. Essendo stata prodotta per un lasso di tempo molto breve è abbastanza rara e

questo potrebbe innalzarne le quotazioni. Per i ricambi vale quando detto per la

Mercedes-Benz.

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Testo e Fotografie Cristiano Soro

IntroduzioneCon la Jeep Wrangler TJ siamo alla terza generazione della ‘madre di tutte le Jeep’. Senza che si offenda nessuno, intendiamo proprio la madre di tutti i fuoristrada, anche quelli di provenienza più esotica o nati al di là della Manica o ‘Sturmtruppen’ (leggi Mercedes-Benz Gelaendewagen) compresi. Si chiamò Willys, poi CJ, poi ancora YJ fino alla nostra TJ (dell’ultima generazione, la JK, parleremo un’altra volta). Le linee della Wrangler sono derivate dalla famosa Willys. Nascevano da esigenze belliche, eppure gli ingegneri del tempo, coloro chiamati a definire una carrozzeria su di un robusto telaio, dovevano realizzare qualcosa di essenziale, di pratico che al tempo stesso incutesse sicurezza. Inizialmente veniva proposta in due cilindrate, un 2.5 a benzina che poi divenne 2.4, e il mitico 4 litri con il suo 6 cilindri rigorosamente in linea, che si poteva avere sia con il cambio manuale che con trasmissione automatica. Tutti con trazione posteriore, più l’anteriore inseribile, più il riduttore. L’alimentazione era solo a benzina.I cavalli di entrambe le cubature non erano tantissimi, si andava dai 125 del ‘due e mezzo’ ai 177 del 4 litri. Non è mai stata un’auto ‘da sparo’, bensì da diporto.

La meccanica rimase immutata a lungo. Si ebbe una sostanziale differenza solo nelle sospensioni con la versione TJ. Venne adottato il quadra-coil: spazzate via le balestre, furono introdotti molle e ammortizzatori con bracci longitudinali. Questa scelta tecnica assicurava i ponti rigidi anteriori e posteriori al telaio a longheroni con l’aggiunta di un parallelogramma Panhard al posteriore. I progettisti lavorarono anche sull’estetica. Alle linee tese e marziali delle serie precedenti aggiunsero dei particolari armonici, come il giro porta inferiore (tondo fin dai tempi delle Willys) e il passaruota dell’asse posteriore.

Il mercatoDi Wrangler, fra storiche e ‘quasi storiche’ sul nostro mercato ce ne sono quanto basta. Le più ricercate (la cilindrata regina è la 4000, anche perché la 2.5 consuma quasi lo stesso) sono le serie speciali, le varie 60th e 65th Anniversary, prodotte con entrambe le cilindrate. A questo punto dovremmo darvi un consiglio su quale investire. Niente di più sbagliato. Chi sceglie una Wrangler è mosso da elementi irrazionali: il gusto per la sua estetica insolita e particolare, da una parte e dall’altra quello strano desiderio di possedere un oggetto fuori dal tempo, da rendere ancora più personale magari ‘customizzandolo’ come avviene con certe moto Harley. Menzione d’onore va alla versione Rubicon, come quella nelle foto, che nasce nel 2003 e che – attenzione! – non è una serie speciale come pensano in molti, ma un vero e proprio allestimento. Per la prima volta la Jeep ha preparato una sua vettura in risposta alle richieste degli appassionati.

La Rubicon ha una trasmissione più robusta, le ridotte più corte, il famoso ponte ‘Dana 44’ non solo all’assale posteriore ma anche a quello anteriore, con la possibilità del blocco di entrambi i differenziali premendo un tasto e l’adozione dei freni a disco anche al retrotreno.La scritta Rubicon posta di lato nel lungo cofano motore non lascia spazio a equivoci: qui si è in presenza di una vera e propria macchina da guerra. Chi sceglie di entrare in possesso di un Wrangler non si faccia troppe domande, lo prenda e basta. Non butterete i soldi dalla finestra. Questi bufali con sette feritoie nel frontale non richiedono grosse manutenzioni, hanno l’elettronica sufficiente per farle partire e far accendere le luci dal tramonto in poi... Non hanno neanche i vetri a comando elettrico. Sono auto sincere che difficilmente vi lasceranno a piedi. Dimenticavamo di dirvi che ovviamente avrete un amico in più: il vostro benzinaio.

In sintesiLa Wrangler TJ si trova facilmente nel mercato nazionale, non c’è bisogno di andare oltre frontiera, e tanto meno oltre Oceano. Togliamo subito le illusioni a qualche ‘volpone’ che vuole andare a cercarle nella loro terra d’origine: costano care anche lì e le spese per portare in Italia, modificarle e omologarle nel nostro Paese fanno lievitare i costi a livelli inimmaginabili. Qualcuna avrà un po’ di chilometri, ma non è il caso di farsi intimorire. Sono indistruttibili, cercatele preferibilmente originali e poi sbizzarritevi nel personalizzarle. Date libero sfogo alla vostra fantasia.

MERCATO // L’ALTERNATIVA

Jeep Wrangler TJ da € 7.000

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1997-2007

Ennesima evoluzione del 4x4 che liberò l’Europa dal giogo nazista

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Le rivali

2007 JEEP WRANGLER RUBICONMOTORE Anteriore longitudinale, 6 cilindri in linea, 3960 cm3, iniezione elettronica multipoint

POTENZA 177 cavalli a 4600 giri COPPIA 298 Nm a 3500 giri

TRASMISSIONE Cambio automatico a 4 rapporti più riduttore, trazione posteriore, anteriore inseribile, differenziale anteriore e posteriore autobloccante

STERZO A circolazione di sfere servoassistitoSOSPENSIONI Anteriori: a ponte rigido, molle elicoidali, ammortizzatori telescopici, barra antirollio. Posteriori a

ponte rigido, molle elicoidali, ammortizzatori telescopici, barra antirollio. FRENI A disco anteriori e posteriori

PESO 1570 kg PRESTAZIONI Vel max 174 km/h

UAZ 31512 D(1964-1999, 2498 cm3, da 2500 €)

Per acquistarla non serviva essere iscritti al Pci: però era meglio studiare il russo, con la strumentazione e i comandi con scritte in caratteri cirillici. La più rude

delle fuoristrada, la si vede in tanti film con il KGB in azione (ma anche in NCIS, nelle

puntate ambientate ‘quasi’ in Afghanistan). Un vero mulo, però finiture e qualità degli assemblaggi lasciano un po’ a desiderare.

Ricambi non sempre facili da trovare.

Land Rover Defender 90 TD(1994-2006, 2495 cm3, da 7.000 €)

Potendo, sarebbe meglio puntare sul Td5 in produzione dal 1998 al 2006, con il motore turbodiesel a 5 cilindri in linea da 122 cavalli, più potente e con più coppia

rispetto al 300 Tdi a 4 cilindri prodotto dal 1994 al 1998. Abituatevi al rumore, perché

l’insonorizzazione è quella che è. Per i ricambi non ci sono problemi, e anche per trainare va benissimo. Strumentazione un po’ essenziale (niente contagiri di serie).

Mercedes-Benz G 300 TD(1996-2000, 2996 cm3, da 6.000 €)

L’aerodinamica è quella di un mattone, ma questo discorso vale per tutte le

fuoristrada di queste pagine. Forse è una delle più ‘borghesi’, e proprio per questo la più lontana dallo spirito ‘duro e puro’

tipico delle sue rivali. In compenso ha un motore indistruttibile, un buon comfort e

una linea razionale che non passa di moda. Ricambi: si fanno pagare, ma si trova tutto.

La migliore per i viaggi in autostrada.

La Storia1987 La prima versione denominata Wrangler appare con la YJ. Fu subito criticata dai puristi per la presenza dei fari quadrati, non in linea con lo spirito Jeep. Motori 2.5 a 4 cilindri e 4.2 a 6 cilindri.1991 Il motore 4.0 a sei cilindri da 182 CV rimpiazza il 4.2.1993 Arriva l’ABS come optional.1997 Nasce la TJ. Tornano (a furor di popolo) i fari tondi. Spariscono le balestre e arrivano le molle. I motori sono sempre un 2.5 e un 4.0. Nello stesso anno entra in listino la Rubicon, adatta ad affrontare i percorsi più duri grazie ai rinforzi al ponte e ai riduttori.2003 L’unità base viene rimpiazzata da un 2.4. 2005 Debutta il cambio a sei marce. 2007 Viene introdotta la terza generazione della Wrangler, denominata JK, disponibile con motori 3.8 a benzina e 2.8 diesel (quest’ultimo prodotto dall’italiana VM). Alla versione a passo corto e a 3 porte si affianca la Unlimited a passo lungo e a 5 porte.2011 La potenza del turbodiesel sale a 200 cavalli e il cambio automatico è sostituito con un sequenziale a 5 rapporti.

ConclusioniLa Jeep, nata per scopi militari, ha accompagnato missioni di pace ovunque ed è pronta per condurci nelle nostre vacanze in capo al mondo. A proposito, devo raccontarvi una cosa. Vicino alla casa dei miei genitori, a Capo Testa, in Sardegna, ne ho vista una in un giorno d’estate, al ritorno dalla spiaggia. Era simile alla nostra (che vedete in queste pagine), quasi identica anche nel colore, era senza porte, totalmente aperta con il parabrezza adagiato sul cofano, carica di tutto: asciugamani colorati, retini che svolazzavano, dietro due marmocchi che ridevano e salutavano tra due sdraio incastrate dietro il sedile, accanto al guidatore c’era una creatura meravigliosa...

Non ricordiamo se la nostra attenzione fu rapita più dalla Jeep Wrangler Rubicon o dalla sua occupante, ma ricordiamo bene quel momento. La Jeep non è un punto di arrivo o uno status symbol, come spesso succede avendo a che fare con auto dal carattere forte. Piuttosto un punto di partenza. Caricatela di tutto, coloratela, apritela, tanto vedrete che ci starà l’indispensabile (anche perché qui un vero e proprio bagagliaio non c’è). Soprattutto rendetela vostra. Vi farà vedere un cielo stellato e dei tramonti che non avete mai visto. Ci sono poche auto al mondo che con il loro nome identificano una specie. La Jeep è una di queste.

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Modellodel

Mese

108 GIUGNO 2014 ITALIA

Può un modello di auto risultare sin troppo perfetto in rapporto all’auto vera? Queste è la sensazione che abbiamo provato con la Bugatti di CMC.In un attimo ci siamo resi conto di avere tra le mani una minuscola roadster fatta veramente bene. La conferma è arrivata quando abbiamo sganciato uno dei due cofani motore e abbiamo notato

BugattiT57SC1:18 CMC

1 // LIGIER JS2 IXO PREZZO €45 MATERIALE Pressofusione QUALITÀ ORIGINALITÀ Piacevole riproduzione della prima versione stradale di questo modello, che era mossa da un motore Citroën-Maserati V6.

2 // MORGAN PLUS 8 MARSH PREZZO €210 MATERIALE Resina e metalloQUALITÀ ORIGINALITÀ Non mancano i dettagli su questa realizzazione artigianale della Plus 8 con le specifiche del 2013. Peccato per i difetti della carrozzeria.

3 // BUGATTI EB110 WINDTUNNEL ALEZAN PREZZO €140 MATERIALE Resina QUALITÀ ORIGINALITÀ Questo insolito modello riproducela versione realizzata per i testnella galleria del vento, compresele coperture delle ruote anteriori.

4 // HORCH 855 SPEZIAL ROADSTER MINICHAMPS PREZZO €75 MATERIALE Pressofusione QUALITÀ ORIGINALITÀ Alcuni particolari sembrano un po’ ‘pesanti’, ma comunque questo modello potrebbe stare fra le auto più rappresentative degli Anni 30.

5 // PEUGEOT 208T16 SPARK PREZZO €65 MATERIALE Resina QUALITÀ ORIGINALITÀ Un modello molto ben dettagliatoper l’auto che partecipòalla Pike’s Peak 2013.

6 // FERRARI 458 SPECIALE BBR PREZZO €170MATERIALE Resina e metallo QUALITY ORIGINALITÀ Non è economica, ma davvero non c’è molto da criticare in questa superba replica, che comprende un motore completo e dettagli interni.

7 // MASERATI T61 BIRDCAGE J-FB MODELS PREZZO €285MATERIALE Resina e metallo QUALITÀ ORIGINALITÀ Solo 50 esemplari sono stati fattida J-FB Models come riproduzionedella ‘Birdcage’ che ha corso con Ken Miles nel 1962. Superba.

8 // CISITALIA-BPM 202D RPM PREZZO €240 MATERIALE Resina e metallo QUALITÀ ORIGINALITÀ Costosa ma perfetta riproduzionedi una rara Cisitalia, mossada un motore BPM che era derivatoda quello di un motoscafo…

9 // LAMBORGHINI HURACÁN LOOK SMART PREZZO €155 MATERIALE Resina e metallo QUALITÀ ORIGINALITÀ Bella e realizzata con cura questa piacevole riproduzione del modelloche ha sostituito la Gallardo nel 2014.

Ruote smontabili e brillantini al posto dei fari anteriori erano i ‘plus’ escogitati dalla Corgi Toys per attirare l’attenzione sui suoi modellini nel 1968. Facendo scattare dei minuscoli martinetti era possibile far poggiare l’auto in modo da rimuovere le ruote. Le ruote smontabili erano state pensate per dare più valore al gioco e aumentare il realismo dei modelli, per la felicità dei collezionisti. La prima Corgi con questo dispositivo fu la Mini Marcos GT 850, seguita nel 1968 da una Rover 2000 TC, da un’Oldsmobile Toronado e da una Chevrolet Camaro. Quanto alla Rolls-Royce Silver TE

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SCALA 1:43

MODELLI CLASSICI

Rolls-RoyceSilver Shadowby Corgi Toys

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le microscopiche molle di richiamo…Con questo modello in scala 1:18 si può dire che la CMC rasenti la perfezionenei dettagli: i cofani motore e bagagliaio, le cerniere, le serrature, l’abitacolo sono tutti riprodotti con grande cura.Nel bagagliaio oltre alla ruota di scortasi trovano tutti gli attrezzi che facevano parte della dotazione ‘fai da te’ tipica

dell’auto vera (barattoli con la verniceper i ritocchi, candele di scorta, caviper la batteria ...). Sorprendentemente,le ruote anteriori non girano azionandoil volante, ma questo non ci sembraun modello con cui far giocareun bambino! Sul brancardo si leggeil nome del carrozziere inglese Corsica che realizzò l’auto vera.

Shadow con carrozzeria Mulliner Park Ward che si vede nella fotografia, apparve nel 1970, quando il dispositivo delle ruote smontabili aveva ormai fatto il suo corso. Nel 1968 l’americana Hot Wheels aveva lanciato le sue automobiline che correvano velocissime lungo piste di plastica e compievano anche il ‘giro della morte’. Fu un colpo devastante per l’intera industria dei modellini pressofusi. Questo spiega il motivo per cui la Silver Shadow sia rimasta in produzione poco più di un anno, sebbene fosse un modello bellissimo, finemente dettagliato, con porte, cofano motore e bagagliaio apribili.

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109 GIUGNO 2014 ITALIA

LIBRIA CURA DI GABRIELE MUTTI

QUESTA È UN’OPERA su un favoloso mondo Alfa Romeo, spesso dimenticatoe sconosciuto: quello dei veicoli industriali. Non soltanto la storia dei mezzi pesanti costruiti prima al Portello e poi a Pomigliano, fino al Brasile con la FNM, ma ancheil racconto di un settore che va a intrecciarsi spesso con il contesto storico dell’Alfatra gli Anni 30 e gli Anni 70. Ecco quindi l’altra faccia dell’Alfa Romeo, rimasta spesso e ingiustamente secondo l’autore, nell’ombra sebbene fosse uno dei settori più significativi, addirittura il più importante dopo la Seconda Guerra Mondialecon l’esaurirsi delle commesse belliche dei motori d’aviazione.Hanno finalmente il giusto risalto quegli stupendi autocarri, autobus e filobus che, insieme ai motori avio, tennero in piedi la Casa milanese negli Anni 30, furonoil pilastro portante negli anni 40 e il principale settore fino al pieno sviluppodella berlina 1900, soprannominata ‘l’Alfona’. Un settore in continuo confrontocon quello automobilistico da cui esce, spesso, vittorioso. La ricerca storica,con un contributo iconografico in massima parte inedito, va così a colmare una lacuna nella vasta bibliografia del Biscione. Non a caso all’autore piace immaginareun filobus Alfa, magari con una sua sede stradale separata dal traffico cittadino,che col silenzioso incedere sulla sua guida vincolata induce nell’utente una sensazione di tranquillità e affidabilità, creandosi così quasi un mondo a parte, estraniandosidagli ingorghi di una vita quotidiana che magari vede, ma soprattutto sente, arrivare da lontano una rombante 1900 T.I. Super “Pantera” della Polizia impegnatain un inseguimento... L’Alfa fu grande proprio per questo: essere presente,sempre in prima linea, in tutti i settori della motorizzazione italiana. A ben vedere, sono poche le Case costruttrici italiane che si sono impegnate in altri settori,non limitandosi a produrre soltanto automobili.

L’altra Alfa, non solo autoSTEFANO SALVETTI, Fucina Editore, € 60

VERSIONE SPORTIVAdella berlina presentata agli inizi degli anni Sessanta, la GT disegnata da Bertone fu subito un successo. Vari i motorie pochi i ritocchi stilisticiin una decina d’anni.Le prestazioni sono all’altezza della tradizione Alfa.Nella seconda metà degli Anni 60 arriva la versione da corsa,la GTA, che domina la sua categoria per un lustro anchein campo internazionale.In questo volume sono raccolte tutte le versioni dalla prima serie, la Sprint GT, fino alla performante 2000 GTV.Tanti modelli sempre attuali.

Il coupé della GiuliaB. PIGNACCA E G. DEROSAGiorgio Nada Editore, € 25

Quel pilotache è in noiCESARE DE AGOSTINIGiorgio Nada Editore, € 24

La Morini‘tre e mezzo’F. FERRARIO E C. PORROZZIGiorgio Nada Editore, € 40

Half Ton,i suoi segretiCLAUDIO LENCIONIDucci Editore, € 58

I rally Anni 70visti dall’abitacoloEMANUELE SANFRONTFucina Ananke, € 25

IL DESIDERIO di diventare piloti, anzi assi memorabili, ha sempre invaso la mentedi migliaia di appassionati.Sono le grandi vocazioni rimaste sterili, un mondo inesploratoe sconosciuto: nessuno ha mai osato scrivere di una inesistente carriera. Un mondo fatto di piste mai percorse, di popolarità mai vissuta e di campioni amatie mai incontrati. Sono emozioni, sogni e stati d’animo che Cesare De Agostini, pilota mai stato, cerca di trasmettere al lettore con l’inconfondibile prosa che gli è propria. Un libro che si legge tutto d’un fiato e che affascina proprio per l’originalità.

LA BICILINDRICA 3 ½è un’autentica icona.Una delle pubblicità di quel modello recitava “Ha solo due cilindri, ma ne dimostra di più”: uno slogan indovinato, vistele prestazioni del motore 4 tempi, ben al di sopra della concorrenza. Consumi ridotti, un eccellente comportamento su strada e una gamma capace di soddisfare tutti i palati.Il volume ripercorre la storia tecnica e industriale di tuttii modelli ed è un bel ricordodel grande fotografo Claudio Porrozzi, da poco scomparso,e autore anche di un librosulla Ducati Monster.

È POSSIBILE MIGLIORAREla conoscenza della propria Land Rover Half Ton e del suo rimorchietto specifico, il ‘Sankey Trailer’, senza andarein Inghilterra da uno specialista? A leggere questo appassionante libro, sembra proprio di sì. Claudio Lencioni analizza questo modello ‘bullone per bullone’ e ci svela tutti i suoi segreti. La lettura appassiona, anche per la ricchissima documentazione iconografica con parecchio materiale inedito. Il volume si può avere scrivendo a www.registrostoricolandrover.eu.che potrà fornire tuttele informazioni necessarie.

SULLA SCENA I RALLY. Quelli dell’epoca d’oro, con testi volutamente scritti al presentee immagini in bianco e nero.Ai racconti vissuti in diretta dall’autore (Emanuele Sanfront è stato navigatore di grandi piloti della specialità e per anni giornalista) fannoda affascinante corollariola descrizione dei profilidei piloti e delle vetturecon cui ha gareggiato.Sanfront, già autore di ‘Reparto Corse Lancia’, raccontain modo avvincente e gradevole un’importante fase storicadei Rally, con le auto italiane protagoniste indiscusse.

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Finalmente la versione italiana della rivista più prestigiosa al Mondo dedicata alle auto che hanno segnato la storia

La passione per le auto d’epoca ha un nuovo motore ...sul web

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111 GIUGNO 2014 ITALIA

Molti amano i perdenti. Pre-ston Tucker è uno di que-sti. La sua idea di rivolu-zionare il mercato automobilistico america-no – all’epoca il più ricco del mondo – risale a più

di sessanta anni fa ed è ancor oggi ammirevole per la sua audacia, anche se si concluse con un fallimento. Le auto da lui costruite – una cin-quantina, quasi tutte sono ancor oggi circolanti – erano un concentrato di idee innovative, anche sul piano estetico. Un esemplare appartiene al regista Francis Ford Coppola, che ne era innamo-rato al punto da realizzare un bellissimo film su Tucker e le sue auto (‘Tucker, un uomo e il suo sogno’, 1988) con un bravissimo Jeff Bridges nella parte dell’inventore e industriale.

Ancor oggi molti venerano quest’uomo come un genio incompreso, un martire il cui spirito im-prenditoriale si scontrò con le ‘Tre Grandi’ dell’auto e i loro agganci politici.

Preston Tucker nacque nel 1903 in una fattoria del Michigan. La sua famiglia non aveva grandi risorse economiche. Da teenager lavorò in una concessionaria Cadillac e negli Anni 20 e 30 si barcamenò nel marketing fra gli alti e bassi tipici di quel periodo. Era il tipico venditore scanzona-to, disinvolto, con la faccia tosta al punto tale da poter vendere ghiaccio agli eschimesi e sottopor-re loro persino un contratto di assistenza! Negli

Preston TuckerNel dopoguerra, un uomo era convinto di poter impostareil più ricco mercato del Mondo a modo suo. Aveva torto

Anni 30 entrò in società con Harry Miller, costrut-tore di plurivittoriose vetture da competizione, fondando nel 1935 la Miller and Tucker Inc. per la produzione di auto da corsa. I due ottennero dal-la Ford un contratto per la fornitura di dieci vet-ture per l’edizione 1935 della 500 Miglia di India-napolis. I tempi però erano talmente stretti che non fu possibile provare a dovere le auto prima della gara. Tutte e dieci furono costrette al ritiro.

Con l’approssimarsi degli eventi bellici in Eu-ropa, Preston si dedicò ai veicoli militari, realiz-zando nel 1938 un prototipo di autoblindo com-patto, il Tucker Tiger Tank, che però fu rifiutato dall’esercito. Era armato con mitragliatrici calibro 30 e 50 e di un cannone antiaereo da 37 mm, in-stallato in una torretta girevole in vetro antipro-iettile montata sopra la parte posteriore del mez-zo. L’autoblindo non fu accettato, ma ebbe successo la torretta di Tucker, che suscitò l’inte-resse sia della marina sia dell’aviazione. Venne utilizzata sulle torpediniere e sui bombardieri B-17 e, modificata, sui B-24.

Dopo la morte di Miller, nel 1943, Tucker tornò in Michigan con l’intenzione di avviare una pro-duzione indipendente di autoveicoli. Nel 1946 fondò la Tucker Corporation, l’azienda che dove-va produrre un’auto decisamente hi-tech, una berlina di sua progettazione, la Tucker ‘Torpedo 48’. Ottenne dal governo l’uso di un ex stabili-mento della Difesa a Chicago, adatto per produr-re auto in grande serie. Il modello aveva appena

raggiunto la fase di sviluppo quando la Securities and Exchange Commission (SEC), che si occupa-va degli investimenti industriali nel primo dopo-guerra, incriminò Tucker per pratiche di finanzia-mento fraudolente e fece chiudere la fabbrica. In realtà la Torpedo 48 era un’auto talmente innova-tiva – alla sua presentazione aveva suscitato grandi entusiasmi - da spiazzare le rivali dell’e-poca.

Il motore di 5500 cm³ da 166 cavalli era posizio-nato posteriormente, il cambio era automatico e vantava una linea decisamente aerodinamica, con un Cx di 0,27. La vettura era alta solo 1524 mm, ma per facilitare l’accesso a bordo, le portie-re avevano l’apertura che continuava fino al tetto, soluzione ripresa solo molto più tardi da altri co-struttori. L’ampio parabrezza in due parti era eiettabile in caso d’incidente ed erano previste le cinture di sicurezza. Nella carrozzeria erano in-corporati ben tre rollbar a protezione dell’abita-colo e il piantone dello sterzo era di tipo collassa-bile. Caratteristico il faro centrale girevole per illuminare la strada in curva.

General Motors, Ford e Chrysler, preoccupate da quel progetto, reagirono coinvolgendo il go-verno. Il tribunale, al quale Tucker si era appella-to, nel ‘50 gli diede ragione, ma ormai era troppo tardi per riprendere la produzione dell’auto, fer-matasi a cinquanta esemplari più un prototipo.

Tucker emigrò in Brasile, deciso a ripartire da zero, ma fu stroncato da un cancro ai polmoni nel 1956, a soli 53 anni, quando il suo ultimo sogno – una piccola automobile da città – era ancora sul tavolo da disegno.

Naturalmente, ogni medaglia ha il suo rove-scio. Tucker era un tipo simpatico, padre e marito amorevole, ma aveva il difetto di fidarsi spesso degli uomini sbagliati. Era convinto che lavoran-do con determinazione avrebbe avuto ragione sia delle ‘Tre Grandi’ che di Washington. Si sbaglia-va: non bastava essere una mina vagante (o se preferite, un cane sciolto) per riuscirci. Tucker si era messo a ballare sull’orlo del precipizio e la musica finì prima di quanto sperasse.

Rimarrà un genio incompreso con pochi amici, anche se molte delle sue idee sarebbero finite, a conferma della loro validità, su auto prodotte da altri molti anni più tardi.

Successivamente al fallimento della Tucker ci fu anche chi ipotizzò che i migliori elementi di design della Torpedo 48 fossero opera dell’ex so-cio Harry Miller.

UOMINI E AUTOTESTO DALE DRINNON

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112 GIUGNO 2014 ITALIA

INDIMENTICABILITESTO DALE DRINNON

Se c’è un attore davvero indimentica-bile, questi non può essere che Peter Sellers. I suoi personaggi comici sono noti a tutti. Peter Sellers, nome d’arte di Richard Henry Sellers (Southsea, 8 settembre 1925 – West-minster, 24 luglio 1980), è ricordato

per le spiccate doti di attore comico, per l’abilità nei travestimenti e nelle imitazioni. La sua fama è legata soprattutto al ruolo dell’imbranata com-parsa indiana Hrundi V. Bakshi in ‘Hollywood Party’ (1968), film ricco di esilaranti gag, dove arriva guidando un triciclo Morgan. Indimentica-bili anche il goffo Ispettore Clouseau, nella me-morabile serie de ‘La Pantera Rosa’, e il Dottor Stranamore (1964) nell’omonima pellicola di Ku-brick, nel quale recitò in tre ruoli diversi. La sua vita, difficile e travagliata nonostante il grande successo, è narrata nel film ‘Tu chiamami Peter’ (The Life and Death of Peter Sellers, 2004), nel quale Sellers è interpretato da Geoffrey Rush. Pochi sanno che la sua carriera è iniziata alla ra-dio, dove animò le notti degli inglesi con il pro-gramma ‘The Goon Show’. I suoi due ultimi film furono ‘Oltre il giardino’ (1979) dove fu straordi-

Peter SellersUn comico geniale, scomparso troppo giovane, che amava possedere le più belle auto dell’epoca, purché non fossero bianche

nario nel ruolo del mite giardiniere Chance e ‘Il diabolico complotto del dottor Fu Manchu’ (1980), commedia di scarso successo di cui fu an-che il regista, oltre che interprete. Fece appena in tempo a terminarlo prima che un infarto lo stron-casse il 24 luglio 1980, a soli 54 anni.

Nonostante l’enorme popolarità, la sua tor-mentata personalità e una complessa vita fami-liare (ebbe quattro mogli, tra cui Britt Ekland) lo resero succube di frequenti crisi depressive.

Il mondo lo ricorda come un genio comico scomparso troppo giovane. Noi lo ricordiamo meglio come un insaziabile fanatico di auto. Nel mese di aprile del 1959 si regalò una nuovissima Bentley Continental S1 carrozzata Mulliner, poi acquistò la Rolls-Royce Silver Cloud prima serie ex Cary Grant, e successivamente una Silver Cloud terza serie ‘Chinese Eyes’, soprannomina-ta così per la particolare forma dei doppi fari.

Nel 1963 entrarono nella sua ‘scuderia’ una Aston Martin DB4 Vantage e una Ferrari 250 GTE. Peter Sellers amava anche la Mini Cooper S, ma ne volle una esclusiva: commissionò al car-rozziere Hooper un allestimento con interni in cuoio, cruscotto in noce, tappetini Wilton, alzacri-

stalli a comando elettrico, tetto apribile e un im-pianto di riscaldamento più potente di quello di serie. Esteticamente chiese dei faretti supplemen-tari montati nella calandra e pannelli effetto vimi-ni dipinti a mano sulle fiancate.

Amava così tanto quest’auto da farla compari-re nella scena di un film della serie della ‘Pantera Rosa’, ‘Uno sparo nel buio’ (1964). Poi la diede al regista Blake Edwards e ordinò una Mini De Ville GT da Radford: una versione col portellone che regalò nel 1965 a Britt Ekland. Suo regalo di fi-danzamento, per inciso, era stata una Lotus Elan. Sempre nel 1965, la coppia visitò il Salone di Lon-dra (che all’epoca si svolgeva a Earls Court) e Sel-lers acquistò la Ferrari 500 Superfast di colore marrone. ‘La terrò per sempre’ disse quando l’au-to ebbe la targa GYK 5 C. ‘Non voglio che la guidi nessun altro – aggiunse – così come non voglio che nessun altro baci mia moglie’.

Questa infatuazione per quella Ferrari non gli impedì di ordinare una Rolls-Royce Silver Sha-dow Coupé a due porte nel 1966: rossa e con a bordo il radiotelefono (una vera rarità per l’epo-ca). A quanto pare con quest’auto Sellers persua-se il suo collega Goon Spike Milligan a rannic-chiarsi nel bagagliaio mentre lui guidava l’auto in pigiama per le vie di Londra in piena notte: Milligan doveva segnare con il gesso i punti da cui provenivano dei rumori nel vano bagagli!

Milligan in un’intervista dichiarò che ‘Peter cambiava le auto con la stessa frequenza con cui una persona normale cambia la sua biancheria intima’. Nel 1967 la rivista ‘Drive’ dell’Automo-bile Association (uno dei due più importanti Au-tomobile Club inglesi, l’altro è il Royal Automo-bile Club) scrisse che l’attore possedeva ben ottantacinque auto e le sostituiva con una fre-quenza maniacale: nell’articolo si poteva leggere che era capace di tenere una Jaguar per un solo giorno, una Volvo per due e una Rover per tre. Fece vendere una Ferrari 330 GTC di colore bian-co perché disse che non gli piaceva avere il bian-co intorno a lui: ‘L’ho lasciata al sole per una set-timana ed era ancora bianca. Così l’ho venduta’.

Un uomo così complesso aveva bisogno di aiu-to. Richard Williams (che poi diventerà il titolare dell’azienda specializzata in Aston Martin RS Williams) si occupò della manutenzione delle sue auto, mentre un altro amico, Tony Crook, lo assi-steva nelle operazioni di compravendita, che era-no davvero frequenti. Lo conobbe il giorno in cui entrò nel suo showroom a Hersham e lo consigliò di permutare un’insoddisfacente Buick Riviera con una nuova Bristol 407. Da quel giorno diven-nero buoni amici. Sellers si divertiva a spulciare i piccoli annunci su quotidiani e riviste, sceglieva quello che voleva, e poi mandava Crook col li-bretto degli assegni in mano – Sellers lo aveva delegato per questo – a concludere la trattativa. ‘C’era un po’ di tutto nel suo grande garage – ri-corda Crook – Aston Martin DB5, Jaguar E-Type, una Ferrari 275 GTB/4 acquistata in Svizzera (nella foto) e anche una Miura. Era volubile con i costruttori di auto. Io ho acquistato per lui alme-no due dozzine di auto. Non si fermava mai e a volte dava l’impressione di non sapere esatta-mente quello che voleva’.

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Numero 2 | Giugno 14 | € 8,00

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