Numero 3/2010

52
Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino 3 Maggio/giugno 2010 – Anno XI Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania quasi centocin- quanta anni dalla formazio- ne dello Stato italiano e in presenza di forti spinte antiunitarie, leghismo ma non solo, non è detto che proprio queste ultime non possano suggerire rivisitazio- ni e, comunque, riflessioni più analitiche per la comprensio- ne delle dinamiche che hanno portato alla formazione del nostro paese. Del resto, la storia d’Italia ha vissuto so- vente momenti di resistenza al processo di unificazione e di messa in discussione della stessa Unità nazionale e non poche volte il regionalismo come l’autonomismo, al Sud come al Nord, hanno minac- ciato l’equilibrio del paese… …continua a pagina 2 Ê n un volume ap- parso qualche anno fa Claudia Petraccone af- fermava che la «questione meridionale non può essere consegnata al passato» 1 . Per quanto fosse un affermazione tecnicamente sconveniente per uno storico, essa è oggi come allora di tutta evidenza. Nel pieno di una discussione sulla revisione dell’assetto nazionale in favore di solu- zioni federaliste (a dir il vero assai discutibili sul piano del disegno normativo), affron- tare la cosiddetta questione del Mezzogiorno nei termi- ni di una categoria supera- ta esporrebbe infatti ad un doppio rischio: di fare un tor- to alla realtà dei fatti, oscu- rando un problema dotato di una sua evidente… …continua a pagina 8 Ê Napoli e il Mezzogiorno nel processo di costruzione dello Stato unitario Luigi Musella Classi dirigenti e Mezzogiorno nel socialismo di fine Ottocento Armando Vittoria Giorgio Napolitano Relazioni transatlantiche e integrazione europea Giampaolo Calchi Novati L’Africa 50 anni dopo l’anno dell’Africa Anna Maria Tarantola Il rapporto della Banca d’Italia sull’economa della campania a pagina 16 Ê a pagina 19 Ê a pagina 30 Ê Ivano Russo La manovra e le imprese al Sud a pagina 34 Ê

description

Rivista Mezzogiorno Europa

Transcript of Numero 3/2010

Page 1: Numero 3/2010

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

3Mag

gio/g

iugno

201

0 –

Anno

XI

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.Spedizione in abbonamento postale 70%

Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

quasi centocin-quanta anni dalla formazio-ne dello Stato

italiano e in presenza di forti spinte antiunitarie, leghismo ma non solo, non è detto che proprio queste ultime non possano suggerire rivisitazio-ni e, comunque, riflessioni più analitiche per la comprensio-ne delle dinamiche che hanno

portato alla formazione del nostro paese. Del resto, la storia d’Italia ha vissuto so-vente momenti di resistenza al processo di unificazione e di messa in discussione della stessa Unità nazionale e non poche volte il regionalismo come l’autonomismo, al Sud come al Nord, hanno minac-ciato l’equilibrio del paese…

…continua a pagina 2 Ê

n un volume ap-parso qualche anno fa Claudia Petraccone af-

fermava che la «questione meridionale non può essere consegnata al passato»1. Per quanto fosse un affermazione tecnicamente sconveniente per uno storico, essa è oggi come allora di tutta evidenza. Nel pieno di una discussione sulla revisione dell’assetto

nazionale in favore di solu-zioni federaliste (a dir il vero assai discutibili sul piano del disegno normativo), affron-tare la cosiddetta questione del Mezzogiorno nei termi-ni di una categoria supera-ta esporrebbe infatti ad un doppio rischio: di fare un tor-to alla realtà dei fatti, oscu-rando un problema dotato di una sua evidente… …continua a pagina 8 Ê

Napoli e il Mezzogiornonel processo di costruzione

dello Stato unitarioLuigi Musella

Classi dirigenti e Mezzogiorno nel socialismo

di fine OttocentoArmando Vittoria

Giorgio Napolitano

Relazioni transatlantiche e integrazione europea

Giampaolo Calchi Novati

L’Africa 50 anni dopo l’anno dell’Africa

Anna Maria Tarantola

Il rapporto della Banca d’Italia sull’economa della campania

a pagina 16 Ê

a pagina 19 Ê

a pagina 30 Ê

Ivano Russo

La manovra e le imprese al Sud

a pagina 34 Ê

Page 2: Numero 3/2010

Le immagini che illustrano questo numero sono di Riccardo Motti. L’autore insegna Botanica Sistematica e Forestalepresso la Facoltà di Agraria dell'Università degli Studi Federico II di Napoli, dove è anche Curatore dell'Orto Botanico.

Ha recentemente esposto le personali I cieli sopra Napoli, Vegetalia e Aqua. [[email protected]]

FormazioneResponsabilità sociale delle impreseCetti Capuano » 38

europaIl Mezzogiorno nel Mediterraneocon l’Europa e per l’Europa

Enzo Giustino » 41Sottrazione di seggi al Mezzogiorno

Marco Betzu e Pietro Ciarlo » 44

euronoteAndrea Pierucci » 47

Dal prossimo numeroil Focus permanente per il 2010 sui rapporti UE-Russia coordinato da Carmine Zaccaria

Mezzogiorno Europa guarda al futuroLa rivista è online da questo numero

Da questo numero la rivista Mezzogiorno Europa sarà online in una accattivante

veste sfogliabile sul sito www.mezzogiornoeuropa.it.La versione cartacea di Mezzogiorno Europa rimarrà comunque

e si potrà ricevere in abbonamento annuale, al costo di 100,00 euro,

inviando i propri dati – insieme al recapito e alla copia della ricevuta del

versamento – attraverso il modulo online disponibile sul sito o via fax al

numero +390812471168. La quota può essere versata a mezzo bonifico

bancario a Fondazione Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa onlus

presso Banca Prossima via Manzoni ang. via Verdi, 20121 Milano

filiale 5000 – c/c 10008974 – IBAN: IT03S0335901600100000008974

BIC: BCITITMX. Specificare la causale: “Abbonamento annuale Rivista Mezzogiorno Europa”.

som

mar

io

Page 3: Numero 3/2010

3…continua dalla prima pagina Ê

In Italia meridionale si potrebbero sicuramente e facilmente rintracciare nell’ambito di una storia culturale come nell’ambito di una storia dell’opi-nione pubblica, come pure in quello più propria-mente di una storia politica, figure, dibattiti, scon-tri che avevano appunto al centro la tematica del processo di unificazione. E questo vale anche, se non soprattutto, per la storia di Napoli. Le ragioni che hanno periodicamente messo in discussione l’idea stessa di nazione sono state di natura poli-tica come di natura economica.

Un problema ancora oggi riproposto è relati-vo al come si è giunti alla formazione dell’Italia. Il «processo» al Risorgimento, in particolare, lo si è sovente condensato attraverso l’espressione ne-gativa di «conquista regia», avvenuta ad opera del partito liberale moderato. Sarebbero stati, infatti, Cavour e il suo partito a materializzare un’egemo-nia, concretizzatasi per l’appunto nel ruolo centrale svolto dal Regno di Sardegna attraverso opportuni strumenti diplomatico-militari, a formalizzare, nel biennio 1859-60, una vera e propria annessione al regno sabaudo dell’Italia centrale e meridionale. Annessione confermata dalla conservazione da parte di Vittorio Emanuele di Savoia dell’antica denominazione ordinale di «secondo», propria del-la discendenza sardo-piemontese, a dispetto della sua qualità di monarca del nuovo Regno d’Italia. Sono stati, poi, soprattutto i continui ritorni sull’ar-retratezza del Mezzogiorno, sulle condizioni mise-rabili della maggior parte delle sue popolazioni, a riproporre la debolezza delle basi su cui il nuovo Stato è nato, e, quindi, a reimpostare il problema della scarsa partecipazione delle masse a tale na-scita come il più importante aspetto dell’insuffi-cienza del processo unitario.

Questi argomenti legati alla «conquista regia» sono diventati contenuto sia di dibattiti e scontri politici, sia di confronti storiografici. E, in qualche modo, sono stati ripresi in molti casi sia da destra, che da sinistra. L’idea poi che l’origine del nostro Stato possa farsi risalire ad una più o meno brutale occupazione/annessione di una parte della peniso-la a danno di un’altra si è offerta come una spiega-zione ideale a molti di coloro, spesso meridionali, i quali si sono interrogati sulle cause dell’arretra-tezza di quelle regioni d’Italia. Secondo una tale visione, dunque, le miserie e le difficoltà del Sud sarebbero nate dal suo ruolo puramente passivo o di «colonia» nel processo di unificazione. Per cui alle popolazioni del Sud non solo non sarebbe stata data la proprietà della terra, ma le sarebbe stato imposto il fardello della tassa sul macina-

to, della leva, della rapina degli usi civici. Mentre alla borghesia meridionale l’Italia «piemontese» avrebbe sottratto le riserve auree in cambio dei pezzi di carta del debito pubblico. Modificata in vario modo, questa idea dell’unità italiana sareb-be diventata, quindi, la principale giustificazione di gran parte del rivendicazionismo meridionali-sta e, quindi, delle politiche straordinarie di spe-sa, specialmente rilevanti dopo la seconda guerra mondiale, rivolte alle regioni meridionali, politiche sentite, per l’appunto, alla stregua di un sacrosan-to risarcimento storico.

Sul piano economico una delle convinzioni più diffuse della polemica contro la politica dello Stato unitario nato dal moto risorgimentale è che tale po-litica avrebbe favorito un trasferimento di risorse dal Sud al Nord del paese. Tali risorse avrebbero contribuito in modo determinante alla formazione della struttura industriale dell’Italia settentriona-le. Lo Stato italiano avrebbe, quindi, favorito gli interessi del Nord e leso quelli del Sud. In un pri-mo tempo la politica commerciale liberista (anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento) avrebbe ab-battuto le difese daziarie del protezionistico Regno delle Due Sicilie, costringendo al fallimento o alla chiusura gran parte dell’industria manifatturiera (soprattutto tessile) esistente al Sud. Tale politica avrebbe aperto, così, la strada a una successiva penetrazione dei prodotti dell’industria settentrio-nale nel mercato ormai sostanzialmente privo di produzioni proprie e dato a quell’industria setten-trionale sbocchi adeguati a farsi ossa che ancora non aveva. La successiva politica protezionistica (tariffe del 1878 e del 1887) avrebbe, quindi, fa-vorito ulteriormente l’industria del Nord, e solo

essa, non e s i s t e n -do più una significativa industria nelle re-gioni meridionali. Ciò sarebbe avvenu-to sia costringendo il mercato di consumo meridionale a soppor-tare i maggiori prezzi im-posti dalle nuove tariffe doganali; sia esponendo talune produzioni agricole esportatrici del Mezzogior-no (specie il vino) alla rap-presaglia francese contro la tariffa italiana del 1887. La politica finanziaria, nei suoi effetti complessivi di entra-ta e di spesa, avrebbe poi prelevato (fisco) o raccolto (debito pubblico) nel Sud più risorse di quante ne avrebbe speso nell’area.

Il problema storiografi-

Lo Stato unitario

t r a l e g h i s m o

e s u d i s m oLuigi Musella

Page 4: Numero 3/2010

4co non consiste, ovviamente, nel sapere quanto siano vere o meno tali ragioni. Probabilmente, al contrario di quanti vorrebbero soluzioni semplifi-cate, rapide e spesso ideologiche, c’è del vero in alcune posizioni antirisorgimentali, anche se poi la ricerca porta quasi sempre a dimostrare che le vicende umane seguono percorsi contraddittori e per nulla semplificabili. Per cui una cosa è la com-prensione di un dibattito ideologico con immediati interessi politici, altra cosa è l’assunzione di una formula filoborbonica, antirisorgimetale o sudista che dir si voglia per una analisi quanto più anali-tica possibile sul piano storiografico. Tuttavia, se noi riconsideriamo la stessa storia politica della città di Napoli, non è poco utile tener conto anche delle posizioni antirisorgimentali.

Sta di fatto che non poche volte proprio da un certo rivendicazionismo, periodicamente, hanno tratto forza movimenti politici e leader che han-no finito per governare la città. E, forse, è da un tale contesto che possono spiegarsi quei circuiti particolari e specifici che hanno sovente riaggre-gato ceti popolari e ceti medio-alti e dato spes-sore ideologico e politico non spiegabile secondo categorie idealtipiche formulate su modelli di altre realtà. Il populismo di sindaci come il duca di San Donato, Nicola Amore e Achille Lauro in qualche modo ha finito per radicarsi proprio in quel sudi-smo antiunitario che, però, proprio dalle ragioni rivendicazioniste del popolo napoletano ha finito per comporre momenti politici speculari.

Il processo d’integrazione fu condotto inizial-mente da una classe politica, composta di uomini in gran parte nel partito cavouriano, che non era radicata sul territorio. Gli emigrati politici e i con-dannati del 1849 e del 1850, ritornati dall’esilio o dalle prigioni, finirono con l’avere un rapporto contraddittorio con la città. Nella maggior parte di essi prevalse un sentimento di disprezzo nei confronti della loro terra e dei concittadini. So-prattutto, vivendo in esilio e nelle città dell’Italia settentrionale, avevano interiorizzato un giudizio negativo che tendeva a sottolineare l’inferiorità di Napoli e dei suoi abitanti, comprendendo scarsa-mente la natura e il carattere dei comportamenti prevalenti. Di fatto essi non capirono quello spi-rito conservatore che sulle prime prevalse come reazione naturale alle riforme attuate dalla dit-tatura e dalla luogotenenza. I moderati, primi protagonisti dell’unificazione, furono, dunque, in qualche modo, antimeridionali e, nonostante fra di essi ci fossero uomini come Carlo Poerio, Luigi Settembrini, Silvio Spaventa, non riusciro-no in pieno a rappresentare la domanda politica delle loro genti.

Di qui la reazione sudista della Sinistra che non a caso fu rappresentata da uomini come il duca di San Donato. Dopo le elezioni del 25 giugno 1876, vera svolta antimoderata, nacque, infatti, la giunta presieduta dal sindaco Gennaro Sambiase di Sanseverino, duca di San Donato. Personaggio sicuramente controverso, San Donato fu tanto po-polare grazie al suo populismo che il re Umberto lo apostrofò come il «vicerè» di Napoli. Fece una lunga battaglia di opposizione a partire dal luglio 1861 nel parlamento torinese e si definì sempre negli anni seguenti «garibaldino e progressivo». La difesa degli interessi locali fu da parte sua così accanita da suscitare sovente diffidenza negli altri leader della sinistra settentrionale. Nemico giurato dei Borbone in gioventù, San Donato chiese, una volta sindaco, una commissione d’inchiesta sulle gestioni comunali degli ultimi anni, convinto che i suoi predecessori avessero dilapidato cospicui fon-di senza trasformare l’aspetto della città e senza aver provveduto a bisogni edilizi e igienici. Ci fu nei suoi confronti un’accusa di cattiva amministra-zione, ma ci fu anche e, soprattutto, la denuncia di un’incapacità a governare la città in termini moder-ni. Esponendo la sua linea governativa, il sindaco si chiese se sarebbe stato più saggio eseguire i lavori di bonifica sanitaria e sociale «a spizzico, un tanto all’anno» o, piuttosto, eseguirli possibilmente «di un tratto», conseguendo l’obiettivo a breve termine e ripartendo, invece, le spese ratealmente nei vari esercizi successivi, come quote di ammortamento di un debito calcolato fino al centesimo. Un pro-gramma «saviamente coraggioso di opere produt-tive che, mentre abbelliscono la città, la risanino», secondo lui, avrebbe creato nuove risorse, offren-do al Municipio l’opportunità «di chiedere all’indo-mani ai cittadini un legittimo corrispettivo». San Donato considerò in effetti la stessa imposizione fiscale come una conseguenza del benessere che sarebbe stato alimentato dal risanamento, e non semplicemente come un espediente a cui ricorre-re per tamponare le falle del bilancio.

Durante i due anni di governo, la giunta cad-de infatti il 10 agosto 1878, non furono poche le opere realizzate. Si cominciarono ad abbattere i «fondaci», si affrontò il problema delle fognatu-re, si appaltarono, divisi in quattro lotti, i lavori di via Duomo, da Forcella alla Marina; si stipulò una nuova convenzione per la condotta delle acque di Serino; si chiese al Governo una diminuzione del canone daziario e la compartecipazione agli utili del Banco di Napoli. Si completò la Galleria del Museo. In due anni di gestione, la giunta San Donato portò avanti il programma e lo completò con altre iniziative, come la sistemazione del rio-

ne Fuorigrotta, la creazione di una banchina per il lavaggio del pesce, l’estensione dell’illuminazione a gas a tutta la città. Il 9 gennaio 1877 indirizzò al Governo una mozione auspicando una nuova linea ferroviaria Napoli-Gaeta-Roma. Concluse dopo tre mesi le indagini della commissione di studio per il problema dei fondachi, il 28 aprile dello stesso anno si approvò il provvedimento che prevedeva l’inizio dei lavori nei quartieri di Porto e Stella.

San Donato aspettò invano l’aiuto del Go-verno. La spesa pubblica, tuttavia, durante il suo sindacato aumentò. «Re Pappone» venne accusato di aver aumentato gli stipendi dei di-pendenti comunali per demagogia; di aver dila-pidato milioni in opere pubbliche per soddisfare l’ingordigia degli appaltatori; di aver raddoppiato il disavanzo annuo, portandolo da 6 a 12 milioni; di aver fatto votare dal Consiglio comunale uno stanziamento di 300.000 lire «per raddrizzare la pubblica opinione», ossia per corrompere la stampa. La Giunta cadde su un provvedimento che avrebbe voluto dare al sindaco una maggiore autonomia nell’uso di fondi per pubblicazioni a di-fesa dell’amministrazione. L’intervento prefettizio interdì una tale iniziativa, che venne interpretata come un modo per finanziare la stampa al fine di agevolare l’azione del sindaco, e portò allo scio-glimento. Di fatto durante il sindacato di San Do-nato aumentò il deficit di cassa. Il sindaco venne accusato di finanza allegra. La posizione di San Donato, col tempo, tuttavia, s’indebolì all’interno delle stesse alleanze del suo gruppo. Le consul-tazioni amministrative, tenute a fine luglio non lo videro rieletto, sebbene la sua «bonaria e flori-da immagine», secondo le parole di Croce, fosse «intagliata o dipinta in tutte le botteghe di mac-

Page 5: Numero 3/2010

5caronai ed oliandoli». Un altro momento che vide il successo di un altro esponente del sudismo fu quello del sindacato di Nicola Amore. Fu lui, infatti, il protagonista principale di quel percorso politico che avrebbe portato all’enorme finanziamento go-vernativo per risollevare le sorti della città dopo l’epidemia di colera del 1884. Uomo appartenente alla Destra, Nicola Amore era stato prima segre-tario generale della Questura di Napoli e poi, dal 1862 al 1865, questore della città. Nell’ottobre del 1865 venne eletto alla Camera per il collegio di Tea no, nell’agosto 1868 per il collegio di Cam-pobasso. Nell’undicesima legislatura rappresentò il 12o collegio di Napoli, mentre nella successiva quello di San Severo. Con la caduta della Destra, Amore perse il seggio parlamentare. Il 26 novem-bre 1884 fu, comunque, nominato senatore. Piutto-sto basso di statura, con una figura massiccia, una fronte larga, sopracciglia folte e ritte, baffi lunghi ed irsuti, torace largo, Amore fu sicuramente tra i penalisti più prestigiosi della città. Molte furono le cause che lo resero celebre e popolare.

Amore acquistò popolarità proprio in occa-sione della richiesta di finanziamenti al governo per fronteggiare l’emergenza dovuta all’epidemia di colera. Il 10 ottobre, in una lettera diretta a Mancini, scrisse: «Si sollevi a favore di Napoli la giustizia del Parlamento in seguito ad una poten-te iniziativa del Governo […]. Si sollevi Governo e Parlamento a promuovere concordi l’immediata esecuzione delle opere necessarie per il riordina-mento edilizio ed igienico ch’è nei voti di tutti, e che per una città come Napoli è sempre qualche cosa di nazionale interesse». Invocò in tutti i modi un aiuto, insistendo soprattutto sul concetto che la città, dopo numerose prove di patriottismo, non poteva rimanere con i suoi luridi fondachi e sep-pe creare un rapporto diretto con Depretis. E il presidente del consiglio, consapevole della grave perdita per la città del ruolo di capitale, concepì in qualche modo la legge per il risanamento come

una legge di riparazione.Nicola Amore, attraverso Mancini,

riuscì subito ad indurre Depretis a pre-sentare in Parlamento il progetto di legge sul

risanamento di Napoli. E così, a fine novembre, il governo presentò il disegno di legge alla Ca-

mera. Per provvedere alla spesa dei lavori di tale risanamento, il disegno stabiliva che sarebbero stati emessi titoli speciali di rendita ammortizza-

bili, allo scopo di ottenere il capitale effettivo di 100 milioni di lire, di cui metà a carico dello

Stato e metà a carico del Comune. Alla Came-ra, in seguito alla relazione dell’onorevole Rocco De Zerbi, si aprì una discussione che fu serrata.

A Montecitorio il dibattito durò tre giorni. Il 21 di-cembre 1884, il disegno di legge passò nella sua stesura definitiva con 259 voti favorevoli contro 62. Il dibattito al Senato vide la relazione favore-vole di Caracciolo di Bella, ma anche l’opposizione del milanese Francesco Brioschi. Brioschi dichiarò la propria opposizione in quanto la finanze dello Stato non sarebbero state in grado di sopportare la spesa stabilita. L’11 gennaio 1885 intervenne Amore. Il suo fu un discorso appassionato in di-fesa della città. Dopo aver ricordato il precedente finanziamento dello Stato di 150 milioni a favore della città di Roma, si augurò che il Senato avreb-be fatto lo stesso per Napoli.

Probabilmente nella storia di Napoli colui che più di altri utilizzò elementi antiunitari e che su di essi riuscì a trascinare le folle fu Achille Lauro. Elementi importanti dell’ideologia laurina furono, infatti, proprio il rivendicazionismo e il sudismo. Attraverso opinioni, pregiudizi, simboli, miti e ri-sentimenti che finirono per costruire una forte im-magine sia del Sud che del Nord del paese, così come del Sud e della capitale, Lauro e, soprattutto, i suoi editorialisti del Roma portarono le plebi della città, come ampi settori della media e alta borghe-sia su posizioni che, seppur ricche di populismo, rappresentarono una forma di partecipazione alla vita politica. Si riteneva che il Mezzogiorno fosse sfruttato e tenuto deliberatamente in uno stato di inferiorità e di minorità dal governo, dagli or-gani centrali dello Stato e dai potentati economici dall’Italia settentrionale e dai loro rappresentanti politici. Per porre fine a questa situazione si «riven-dicava», quindi, una sorta di intervento riparatorio. Le rivendicazioni, a volte, erano indiscriminate e prescindevano da ogni logica di programmazione. Ogni occasione era buona per reclamare qualcosa, oltre agli immancabili stanziamenti finanziari, che, peraltro, venivano sempre giudicati insufficienti. Per Raffaele Cafiero, stretto collaboratore del Co-mandante, i «titoli» per rivendicare erano storici. Intanto, c’era una arretratezza rispetto alle regioni settentrionali dovuta soprattutto alla fortuna che queste avevano avuto a partire proprio dall’Unità; poi, ancora, «la lunga protezione doganale, desti-nata a sorreggere le industrie di altre regioni, con l’aggravio dei prezzi per noi popolo di consumato-ri; l’aver dato tutto alla guerra, sangue e denaro, l’aver avuto distrutte le nostre case assai più che altrove, nonché le nostre poche industrie, senza aver toccato finora un soldo di indennità».

I monarchici cercarono sempre di accreditarsi come una formazione politica schiettamente «meri-dionale», in contrapposizione a tutti gli altri partiti, «asserviti agli interessi settentrionali». Lo stesso

Page 6: Numero 3/2010

6

governo Parri venne da loro accusato di essere il rappresentante degli interessi dei potentati eco-nomici e politici del Nord e il presidente del Consi-glio fu duramente contestato in occasione di una sua visita a Napoli. Dopo le elezioni del 18 aprile, scomparso il pericolo di un governo «rosso», la pro-gressiva disaffezione e il crescente malcontento di un’ampia area della popolazione campana nei con-fronti della DC e, in particolare, del governo De Ga-speri trovarono proprio nel sudismo e nel rivendi-cazionismo uno sbocco. Alberto Consiglio affermò che il governo non aveva atteso il Piano Marshall per beneficiare le industrie del Nord, mentre i la-voratori del Sud non avevano che sperare nel «fa-moso» Fondo-lire. In real-tà, sia i monarchici che i missini utilizzarono i temi sudisti e rivendicazionisti per occupare uno spazio politico. La rivendicazione di un ministero per l’Italia meridionale, la domanda di una quota per le aree depresse, la proposta di una commissione parla-mentare, puntavano, in fondo, proprio a questo.

All’inizio degli anni cinquanta, una parte con-siderevole della società

civile guardò, quindi, con favore la propaganda delle destre, che nel loro semplicismo riuscirono ad avere molta più forza attrattiva e capacità di convinzione di quella prodotta dai meridionalisti li-berali e di sinistra. All’indomani della straordinaria affermazione elettorale del 1952, i commenti rac-colti dai carabinieri in vari ambienti concordavano nell’attribuire il successo alle destre, non tanto «ad un particolare attaccamento di masse al regime fascista» o al «fanatismo per l’istituto monarchi-co», ma, soprattutto, al «vivo desiderio di cercare nuove soluzioni all’assetto politico italiano, affin-chè gli interessi del Mezzogiorno trovino la loro efficace tutela». «Le popolazioni meridionali», pro-

seguiva la nota dei carabinieri, «invero non insen-sibili alla istituzione monarchica, più che rincorrere miraggi di ideologie politiche, vanno alla ricerca di capi e di partiti che possono disancorarle dalla “morta gora” della depressione economica in cui vivono e, pertanto, seguono con tutta la loro emo-tività gli uomini che ritengono capaci di risolvere i ponderosi problemi del Mezzogiorno». Tra questi uomini spiccava Lauro, «noto per i suoi indiscussi precedenti di fecondo costruttore». Lauro, nell’im-maginario collettivo, appariva sempre più come il paladino e patrono delle derelitte popolazioni me-ridionali, come l’«uomo nuovo», immune dai difetti dei politci di professione, dotato di grande sen-

so pratico e di indiscus-se capacità realizzatrici. Già prima delle elezioni, infatti, i carabinieri pote-vano notare «una specie di esaltazione collettiva per la persona del Co-mandante Lauro, dalla notoria capacità ammini-strativa del quale e dalla sua conclamata attitudi-ne alle grandi imprese ed alle audaci iniziative, i cit-tadini si attendono non si sa quali e quanti benefici in favore di Napoli».

Page 7: Numero 3/2010

FASTWEB si è fatta in quattro per te, ora è il tuo momento. Non piùsolo internet, telefono e Tv: da oggi puoi fare un altro passo avanti.Come? Fatti il cellulare FASTWEB. Anche perché sottoscriverequattro servizi con un unico operatore non solo semplifica la vita, maconviene. Entra anche tu nell’unica famiglia che può darti tuttoquesto: FASTWEB.

Internet, telefono,Tvo cellulare?Tutti e quattro.

www.fastweb.it chiama 192 192Per info su copertura, costi di attivazione, tcg e offerta, visita www.fastweb.it, chiama 192 192 o rivolgiti presso i punti vendita.

Page 8: Numero 3/2010

8…continua dalla prima pagina Ê

attualità nazionale, e di affrontare questa stes-sa realtà in maniera retorica o mediante l’uso di argomentazioni forse datate e sicuramente ina-deguate.

Se si intende ribadire l’attualità della cosid-detta questione meridionale è necessario oggi più che mai ripensare il perimetro concettuale stesso della nozione di Mezzogiorno, quale problemati-cità economica, sociale e politica. Il che non si-gnifica, come è stato già autorevolmente notato, ripudiare le esperienze e le tradizioni che hanno segnato l’evoluzione del pensiero meridionalisti-co1, quanto piuttosto allontanare con decisione tutte quelle impostazione retoriche, generiche e stereotipate della questione meridionale – siano esse di matrice economicistica, storico-culturale o sociologico-politica – fortemente controprodu-centi, a favore di un rinnovamento prima di tutto metodologico del meridionalismo. Per la stessa sussistenza della questione meridionale quale fondamentale questione nazionale e democrati-ca, è insomma indispensabile una renovatio della prospettiva stessa del meridionalismo, delle sue categorie descrittive e degli strumenti di analisi critica, muovendo dal versante culturale e della ricerca come spinta all’innovazione nelle politiche pubbliche nel Mezzogiorno.

Riproporre la questione del Mezzogiorno oggi implica, in definitiva, una rilflessione di metodo. Il fatto che il problema non possa essere riconse-gnato al passato ne fa certamente ancora oggi una questione nazionale; una grande questione che investe le prospettive di crescita democratica del paese nel sistema europeo, ma affrontabile unicamente – è questo il punto – se si separa con nettezza la questione in sé dal giudizio comples-sivo sulle politiche adottate nel passato per porvi rimedio. Una separazione concettuale che con-sentirebbe di scongiurare sia il rischio di una ul-teriore “sparizione” del Mezzogiorno dall’agenda culturale e politica del Paese, che parallelamente la ricaduta in vecchi schemi agiografici e soluzioni infruttuose e deresponsabilizzanti, che dal finire degli anni’70 hanno arrestato definitivamente il corso della politica riformatrice nel paese.

Questa opera di innovazione metodologico-culturale spetterebbe primariamente agli intellet-tuali ed alle classi dirigenti, in particolare ai più giovani. Separare il giudizio sull’attualità dell’ar-

1 Si veda soprattutto G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Napoli 1978.

retratezza meridionale da quello sulle politiche attuate per il Mezzogiorno non è tuttavia cosa semplice. Con un provocatorio gioco di parole po-trebbe dirsi che il Mezzogiorno, a differenza della “padania”, esiste davvero. L’arretratezza econo-mica, politica e civile di molte zone del Sud resta oggi un dato drammaticamente reale e inconte-stabile. E tuttavia non vi è, a differenza che per

la cosiddetta “padania”, alcuna seria rappresen-tazione pubblica della categoria culturale e poli-tica del Mezzogiorno, e questo dipende in misura determinante anche dalla incapacità e debolezza delle classi dirigenti dell’ultimo trentennio, rivela-tesi culturalmente disinteressate o politicamente inadatte a ricollocare la questione “dei Sud” nella duplice sfida Europa-Federalismo che il Paese si trova ad affrontare, come opportunità e non esclu-sivamente come problema irriducibile.

Sul fronte delle politiche per il Mezzogior-no, ammesso che esistano e siano così collo-cabili dentro un disegno dotato di organicità o prospettiva, l’unica svolta davvero auspicabile sarebbe stata la scomparsa di una determinata “politica per il Mezzogiorno” – prevalentemente assistenziale, deresponsabilizzante e funziona-le al clientelismo – che in realtà persiste sotto vesti differenti e si irradia, talvolta più di prima, attraverso un’articolazione della spesa pubblica paradossalmente più “irresponsabile” che nel passato, perché nascosta tra le pieghe di una multivel governance che costituisce un oggetto tanto invocato quanto misterioso.

Insomma il nocciolo della questione meridio-nale è ancora oggi politico e democratico. Inno-vare profondamente i temi, le idee, i progetti del “discorso sul Mezzogiorno” richiede oggi più che mai un approccio laico e culturalmente eretico, che parta dalla sostanziale inadeguatezza delle letture attualmente proposte dinanzi alle sfide nazionale, europea e globale che il Mezzogiorno deve affrontare.

Il compito dell’innovazione politica e sociale spetta, principalmente, alle classi dirigenti. In que-sto senso resta ancora vera l’impostazione cro-ciana per la quale fin dalle sue origini la questione dell’arretratezza del Mezzogiorno ha ricevuto le sue maggiori spinte dalla parte più avanzata delle classi dirigenti, soprattutto meridionali2, e forse unicamente da esse. Il fatto che a partire dalla se-conda metà degli anni’80 del Novecento sia emer-sa una forte inadeguatezza di queste rispetto alla questione del Mezzogiorno, impone una riflessio-ne sull’evoluzione dei rapporti tra classi dirigenti e Mezzogiorno, sulle continuità e le rotture di un aspetto senza dubbio caratterizzante del primo secolo e mezzo di vita nazionale.

Il contributo proposto, anche ma non solo per ragioni di contesto editoriale, intende così affron-

2 Si veda sopr. G. Galasso, Il pensiero meridionalistico dall’Unità al fascismo in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, vol. XIV, La cultura contemporanea, Napoli 1994, pp.450-451.

C l a s s i d i r i g e n t i e M e z zo g i o r n o

Armando Vittoria

Page 9: Numero 3/2010

9tare il tema del Mezzogiorno non in termini gene-ralistici, bensì attraverso il punto d’osservazione dei rapporti tra Mezzogiorno e classi dirigenti, muovendo dalla significativa esperienza del socia-lismo meridionale di inizio novecento che per pri-mo intese affrontare la questione proponendola sotto il profilo della riforma civile in senso demo-cratico. L’obiettivo è riprendere il filo spezzato di una riflessione storico-critica sulle persistenze e sulle rotture di un rapporto cruciale per il pensie-ro meridionalistico e per lo sviluppo complessivo della vita politica nazionale.

Classi dirigenti e modernizzazione

sociale

Molti anni fa il compianto Sir Ralph Dahren-dorf, discutendo del nesso esistente tra classe dirigente e progetto politico-sociale, ebbe a dire che la spinta al progresso collettivo di un siste-ma era la stessa che muoveva la storia, «la molla dell’inquietudine»3. La mancanza di insofferenza culturale e civica rappresenta, probabilmente, il limite peggiore per una classe dirigente, se inten-diamo con questa quella parte culturalmente più avanzata e politicamente più responsabilizzata di un sistema, da cui ci si attende oltre che il “buon-governo” anche la capacità di anticipare e tratteg-giare, seppur con polso lieve, modelli ed orizzonti di sviluppo di una collettività che vadano oltre la “contabilità dello stato presente”.

Nel passaggio tra il secolo XIX ed il XX, in cui l’Europa affrontava le sfide della modernizzazione politica e sociale, il differente ruolo di spinta ed avanguardia svolto dalle classi dirigenti naziona-li separò talvolta irrimediabilmente la strada di quegli Stati destinati ad una rapida evoluzione democratica da quella di altri che, diversamente, andarono incontro al susseguirsi di contrasti tra spinte reazionarie ed impulsi di riforma politica4. Pur non esagerandolo, è certo che il ruolo svolto prima e dopo le due guerre dalle classi dirigenti nazionali abbia segnato a fondo il tessuto civile, democratico e nazionale dei paesi europei.

Nella formazione ed evoluzione delle demo-crazie nazionali non tutti i sistemi europei, tutta-

3 R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Roma-Bari 1981, p.31.

4 Cfr. sopr. E. J. Hobsbawn, L’età degli imperi (1875-1914) , 1970, Roma-Bari 2007.

via, hanno saputo esprimere un criterio di con-nessione strutturale tra società e istituzioni ca-pace di garantire un meccanismo di formazione e ricambio delle classi dirigenti se non automatico quantomeno ragionevolmente stabile, capace di garantire al sistema insieme il rafforzamento di una “religione civile” ed un progetto politico con-diviso per il futuro prossimo; un ruolo di consoli-damento del sistema liberal-democratico tipico di una classe dirigente come dire “strutturale”, ov-vero socialmente rappresentativa, culturalmente insofferente, politicamente innovativa.

Una classe dirigente strutturalmente capace non solo di ordinare (governare il presente) ma an-che di orientare (progettare il futuro) una società deve innegabilmente possedere, cosa affatto sem-plice, un rapporto privilegiato su tre dimensioni:

con i canali di rappresentanza e articolazione delle spinte sociali (il rapporto con la società politica e con l’opinione pubblica), con quelli di raccolta delle spinte all’innovazione politica ed alla partecipazio-ne (il rapporto con i partiti e la rappresentanza) e, infine, di consolidamento della legittimità e della dimensione civile (il rapporto con le istituzioni).

Si potrebbe dire che una buona classe diri-gente è quella che non solo esprime buongoverno ma è soprattutto capace di tratteggiare quello che Gramsci definiva un «orizzonte aperto». Moder-nità e insofferenza culturale qualificano il ruolo di direzione politica e di riforma che una classe dirigente è capace, stabilmente, di svolgere, so-prattutto nei momenti critici o eccezionali della vicenda di un paese.

Mezzogiorno e classi dirigenti: un rapporto

“strutturalmente” debole

La criticità e problematicità del rapporto tra classi dirigenti e Mezzogiorno è riscontrabile, come traiettoria di lunga durata, in molta parte della storia meridionale. Per certi versi la storia politica del Mezzogiorno è un po’ la storia delle sue classi dirigenti in tutti i passaggi critici di età contemporanea, dalla crisi del giacobinismo all’esperienza del Decennio, dal fallimento costi-tuzionale del 1848 alla crisi dell’unificazione, an-cor prima che la questione meridionale diventas-se una problematica dello Stato nazionale, con-venzionalmente dalla pubblicazione delle Lettere meridionali di Pasquale Villari nel 1875.

Questa constatazione pone tuttavia alcuni problemi di ordine argomentativo, giacchè ragio-nare di una storia della cultura politica meridio-nalistica come gravitante attorno al centro co-stituito dalle classi dirigenti meridionali significa contestualmente mettere in conto, per il passato e per il futuro, l’alternarsi di spinte e di vuoti nel meridionalismo, data la natura affatto strutturale e direi sporadica del rapporto tra struttura socio-politica del Mezzogiorno e classi dirigenti rifor-matrici, in virtù di un ritardo del Mezzogiorno che, oggi in forme diverse che in passato, è pri-ma ancora che di natura economica o politica di «struttura civile»5.

Il paradosso storico del rapporto tra me-ridionalismo e classe dirigente può essere

5 G. Galasso, Il pensiero meridionalistico, cit., p.429.

Page 10: Numero 3/2010

10in qualche misura così sintetizzato. Si deve fondamentalmente alle avanguardie intellettuali ed alle classi dirigenti meridionali degli ultimi tre secoli l’emersione del Mezzogiorno, come catego-ria culturale e grande questione politica nazionale; e tuttavia la debolezza di struttura civile e politi-ca del Mezzogiorno non è stata tendenzialmente capace di garantire continuità di classe dirigente, affidandosi così al caso ed all’individualità.

Già ai primi dell’Ottocento Luigi Blanch, esponente del costituzionalismo moderato del-la prima Restaurazione, faceva emergere questi aspetti, con lo sfondo del fallimento dell’espe-rienza del ‘99:

«La classe media non acquista una reale im-portanza in una società se non quando il sapere, l’industria, il commercio e l’economia creano ca-pitali intellettuali e materiali […] Questo doppio movimento avanza il tempo in cui il possesso pas-serà a chi ha fornito i capitali, come il potere a chi possiede il sapere in un modo chiaro e legale e non indiretto ed occulto. […] Ma la classe media non può essere preponderante in una società, se non quando questi due elementi progrediscono armoni-camente [diversamente essa è] decomposta, divisa in partiti, piuttosto un inerte ostacolo per il potere che un elemento su cui appoggiarsi»6.

Certo allora la questione nazionale del Mez-zogiorno è lontana dal venire. Si pone con for-za, tuttavia, la questione della riforma politica e sociale che Blanch, con qualche inclinazione romantica, colloca dentro il compito delle classi dirigenti, anticipando, con la sua disamina sui ri-tardi della modernizzazione borghese del tessuto civile meridionale, alcuni tratti del meridionalismo postunitario, da quello unitarista di Fortunato alla critica politica salveminiana7.

Il problema della struttura civile è un dato cruciale nell’analisi dell’arretratezza del Mez-zogiorno, e non solo dentro la sola borghesia. Come noterà al principio degli anni’80 dell’Otto-cento un Pasquale Turiello dai toni conservatori e reazioniari:

«tra la plebe e la borghesia rimane la chia-ve dei rivolgimenti napoletani di tutto il periodo corso dal 1806 al 1861»8.

6 L. Blanch, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in B. Croce (a cura di), Scritti storici, Bari 1945, ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, vol. I, Bari 1971, pp.50, 51 e 54.

7 Cfr. G. Galasso, Il pensiero meridionalistico, cit., pp. 433-437 e C. Petraccone, Le ‘due Italie’, cit., pp.46-87.

8 P. Turiello, Governo e governati in Italia, a cura di P.Bevilacqua, Torino 1980, p.69.

L’arretratezza della struttura sociale del Mez-zogiorno, che unisce anche dopo l’Unità persi-stenze feudali ad una borghesia essenzialmente d’ufficio e parassitaria, pesa come un macigno in due sensi: sul limite alla trasmissione degli impul-si sociali più innovativi sulla vita pubblica e sulla fertilità del tessuto civile in termini di riproduzione delle classi dirigenti, predisponendosi con il suo particolarismo e con la sua deferenzialità dei rap-

porti politico-sociali alla diffusione delle pratiche clientelari tipiche del contesto postunitario.

Il problema di un raccordo strutturale tra tes-suto civile e classe dirigente come precondizione al rilancio del Mezzogiorno resterà, con accenti diversi, un tratto costante del meridionalismo. La prima criticità rispetto al ruolo delle classi di-rigenti del Mezzogiorno è dunque di rappresen-tatività sociale, espressione di una modernizza-zione borghese marginale ed incompiuta prima e dopo l’unificazione. Lo nota negli anni’80 dell’Ot-tocento anche il conservatore Turiello, auspicando «un’educazione nuova, [proveniente] dalle grandi correnti degli interessi generali e vistosi, nazionali ed europei, materiali e morali [che disciolgano e tirino] nelle loro grandi e salutari correnti il vor-tice infecondo in cui si aggira l’operosità dei più audaci della borghesia napoletana»9.

Il rilievo dei limiti di struttura civile del Mez-zogiorno e della sua influenza sulla riproducibili-tà delle classi dirigenti costituirà un tratto assai diffuso del pensiero meridionalistico, e non solo sotto il profilo della disillusione conservatrice, che sinceramente non può essere considerata il tratto costitutivo del meridionalismo postunita-rio10. La denuncia dei limiti sociali e politici delle classi dirigenti meridionali solo apparentemente accosta infatti, nell’ultimo quarto del XIX secolo, un reazionario come Turiello ad un meridionalista unitario come Fortunato, o al positivismo socia-lista di Salvemini e Ciccotti, i quali partono se si vuole da una comune diagnosi del tessuto civile del Mezzogiorno per indicare, perciò, soluzioni politiche ed istituzionali assai differenti, carat-terizzate o dall’inserimento della riforma sociale dentro il quadro dello sviluppo liberale nazionale (Fortunato) o dal riscatto civile come leva di for-mazione di una moderna coscienza politica nel Mezzogiorno (Ciccotti).

La «spietata» capacità di analisi delle arretra-tezze della società meridionale11 serve al meridio-nalismo per indicare delle vie d’uscita che insieme responsabilizzino le classi dirigenti meridionali e quelle nazionali. Come affermerà Giustino Fortu-nato in una lettera a Gaetano Salvemini intorno ad una polemica sul Mezzogiorno:

«che i settentrionali abbiano per noi un sen-

9 Ivi, p.113.0 Così invece A. Asor Rosa, Letteratura e sviluppo na-

zionale, in AA.VV. Storia d’Italia, vol.IX, Torino ed.2005, sopr. pp. 911-915.

11 A. Asor Rosa, Letteratura e sviluppo nazionale, cit., p.911.

Page 11: Numero 3/2010

timento di disprezzo, m’importa, confesso, assai poco. Se tu fossi stato testimone coscientissimo del nostro 1860, come sono stato io del vero ’60, non della insigne impostura dei libri a’dozzina; se tu avessi la coscienza, che ho io, di tutto il mar-cio dell’alta borghesia meridionale […] forse lo sciocco plebeo sentimento dei settentrionali a nostro riguardo ti lascerebbe più freddo. Tutto l’affarismo dello Stato italiano è del Nord: il Sud rubacchia se stesso ne’ Comuni e nelle Opere Pie; ma la società del Nord, nel suo insieme, nel tutto suo insieme, è assai meno corrotta di quel-la del Sud»12.

Il liberalismo illuminato di Giustino Fortunato, pur incrociando le due dimensioni della critica al radicamento sociale ed al costume politico delle classi dirigenti, evita accuratamente di appiattirsi su quella retorica del clientelismo e del buongo-verno che, in chiave essenzialmente reazionaria, antiunitaria e deresponsabilizzante aveva con-trassegnato il pensiero di Turiello e segnerà parte del meridionalismo conservatore13.

Non v’era certamente dubbio che il gioco po-litico unitario avesse instaurato, nel Mezzogior-no, «un sistema legalmente rappresentativo ma in sostanza funzionante come una oligarchia»14 spinta dalle clientele, ma ciò non doveva certo né motivare un ritorno al passato né tantomeno assecondare istinti antiparlamentari. I limiti della società e delle classi dirigenti meridionali resta-no evidenti, e tuttavia non poteva trascurarsi il ruolo svolto dalla classe dirigente nazionale, dal governo delle istituzioni unitarie «con prefetture e sottoprefetture trasformatesi in vere e proprie agenzie elettorali»15. Se per il Mezzogiorno era

12 Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini, 16 febbraio 1910, in G. Salvemini, Carteggio 1910, Roma 2003, pp.55-56.

13 Cfr. M.L.Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino 1963.

14 Così Mariano Torraca citato da P. Turiello, Governo, cit., p.111.

15 G. Fortunato, Le Regioni (1896), ora in R. Villari, Il Sud nella storia, cit., vol.I, p.279.

un problema di costume politico, per la nazione il clientelismo e la deferenza restavano un meto-do politico e istituzionale:

«Tutti i rimedi, anche accordando loro la mas-sima efficacia di cui sono capaci, saranno tutti in-feriori sempre al compito, se …primo elemento della corruttela parlamentare delle province meri-dionali, specialmente nei rapporti amministrativi, resterà il governo; se il governo, per avere non amici e fautori, ma clienti e seguaci […] il suo in-teresse e il suo dovere ricadrà nel solito andazzo di sacrificare, ogni giorno, in mille modi, il dovere all’interesse»16.

La critica di Fortunato ai limiti delle classi dirigenti trovava, forse, maggiori punti di con-tatto con Salvemini e Ciccotti che con i conser-vatori. L’emersione del clientelismo postunitario, soprattutto dopo la svolta del 187417, è un dato che viene letto in senso funzionale, di osserva-zione e proposta politica, partendo da un dato di critica ai limiti delle classi dirigenti meridionali che da quelli civili (il rapporto con la società) si estende a quelli politici (il rapporto con i partiti e la politica) a quelli istituzionali (il rapporto con lo Stato). Particolarismo degli interessi, cliente-lismo politico e amministrativo sono tre aspetti dell’incapacità del Mezzogiorno di far emergere dal suo seno, se non minoritariamente, classi di-rigenti avanzate, adatte ad interpretare un ruolo di promozione dello sviluppo del Mezzogiorno e dell’interesse generale.

Più avanzata per tanti versi è la diagnosi di Ettore Ciccotti. Esponente di spicco del positivi-smo socialista di fine secolo, Ciccotti osserverà la questione meridionale da un punto per così dire privilegiato, trovandosi nel mezzo del dibat-tito sul positivismo che attraversa il movimento socialista nell’ultimo quindicennio dell’Ottocen-to, testimone degli stati d’assedio al Sud prima, poi protagonista della denuncia della corruzione

16 Ivi, p.281.17 Si veda sopr. G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l’oppo-

sizione meridionale, Milano 1956.

amministrativa a Napoli18, attraverso il giornale “La Propaganda”, che condurrà alla cosiddetta inchiesta goverantiva Saredo19.

Nel socialista Ciccotti emergono alcuni temi dell’impostazione salveminiana, ma è fortemente accentuata, oltre alla speranza riposta nel con-cetto di lotta sociale, la critica alla debolezza di coscienza politica del Mezzogiorno, alla mancanza di modernità della sua classe dirigente:

«In questo ambiente, con questi elementi e su questo campo d’azione non è a parlare natural-mente di partiti politici e di grandi correnti di idee. I grandi e comuni interessi sono troppo sminuzza-ti e sopraffatti dagli interessi municipali, locali, individuali, perché possano apparire ed operare in modo da costituire la basi di forti aggregati intenti a farli valere. Non v’è terreno per questa attività come non ve ne è per ogni altra forma di vita collettiva intellettuale e morale.

Perciò il Mezzogiorno è la terra dei solita-ri ; e le sue grandi manifestazioni intellettuali sono state e sono personali, prive di continuità, in contrasto col presente e con l’ambiente, e di-vinatrici dell’avvenire [e che] non può servire ad altro che ad instillare nelle coscienze un germe di inquietudine»20.

Particolarismo degli interessi, clientelismo, inclinazione alla corruzione amministrativa non sono per Ciccotti deducibili biologicamente, come pure in quegli anni una parte della scuola evolu-zionista sosteneva21, perché lo «stato deplore-vole» delle classi dirigenti meridionali originava dall’«azione di cause prepotenti»22. Richiamando

8 La sua vicenda politica personale è narrata in E. Cic-cotti, Come divenni e come cessai di essere deputato di Vica-ria, Napoli 1909.

19 Cfr. R. Feola, Una rinnovata vita cittadina. Napoli e l’in-chiesta Saredo in L’Ape ingegnosa, 2/2002, pp.11-41.

20 E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione d’Italia, Mila-no-Roma 1898 ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp.296-297.

21 C. Petraccone, Le ‘due Italie’, cit., pp.79-87.22 E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione, cit., p.303.

11

Page 12: Numero 3/2010

12una traiettoria di pensiero di lunga data nel rifor-mismo meridionale, Ciccotti evidenziava come ar-retratezza di sviluppo economico e arretratezza di sviluppo morale andassero nel Mezzogiorno di pari passo – i capitali intellettuali e materiali di cui aveva parlato Blanch – e che questo dato non potesse di certo imputarsi a condizioni biologiche, ma a condizioni oggettive su cui pesavano cer-tamente anche i limiti di etica collettiva, per così dire, ma a cui non era estraneo il basso spessore della stessa borghesia nazionale:

«meno matura di quella di altri paesi e più tar-di arrivata al potere in un paese povero [che] non è stata buona ad attenuare alcuno dei malanni del Mezzogiorno e molte volte li ha rincruditi»23.

Il movimento socialista di fine secolo sposta così il fuoco critico sulle arretratezze civili e mo-rali delle classi dirigenti, meridionali e nazionali, incapaci di favorire la precondizione essenziale ad ogni rilancio economico, industriale e sociale del Mezzogiorno: l’allargamento e la secolarizzazio-ne della coscienza politica e civile. Scrive Ciccotti qualche anno dopo:

«Da noi manca spesso una chiara coscienza politica, cioè una franca visione degli interessi collettivi ed un’inclinazione negli individui a mi-gliorare la propria condizione mediante un deter-minato indirizzo dato al governo degli interessi collettivi […] Solo una nuova concezione della vita, una tendenza ad un diverso assetto socia-le, basato non sulla lotta di tutti contro tutti, ma sulla reciproca cooperazione, solo una nuova forza organica sociale che induca una più stretta coesione – solo elementi come questi possono ridestare e promuovere un senso di solidarietà salvatrice»24.

Senza dubbio l’impostazione di Ciccotti risen-tiva di spinte utopiche forti, per quanto temperate dal positivismo, tali da portarlo ad affermare che «col tramonto dell’era capitalistica scompariranno anche i caratteri degenerativi del Mezzogiorno»25. E tuttavia va affermato con forza che la prima e più avanzata espressione del meridionalismo democratico dopo l’Unità fu sicuramente forni-ta dalla scuola socialista di Salvemini, Colajan-ni e Ciccotti.

Quasi a chiudere un primo trentennio di que-stione meridionale, nel primo meridionalismo

23 Ivi, p.305.24 E. Ciccotti, Il movimento socialista e il Mezzogiorno ora in

R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, vol II, cit., p.455.25 E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione, cit., p.306.

socialista si trova una elaborazione che ebbe certamente il merito di spostare l’accento sul-la riforma orgnica, politica e civile, del Mezzo-giorno come precondizione alla risoluzione della questione meridionale quale problema nazionale e democratico.

In primo luogo quella impostazione operò uno scostamento del positivismo dagli approdi razzi-stici e biologici della scuola evoluzionista e da quelli deterministici e conservatori tratteggiati dallo stesso Villari. Il ricorso ad un positivismo per così dire “politico” aprì la strada allo studio ed all’approfondimento della ricerca economica e tecnica che tanto influiranno, poi, sulle posi-zioni nittiane e ancora in seguito sulle idee di un Rossi-Doria o sulla “politica della programmazio-ne” degli anni ’50 del secolo XX, ridimensionan-do almeno in parte – come noterà proprio Rossi-Doria – quella «prevalente influenza del pensiero idealistico che [aveva] prestato poca attenzione ai problemi dello sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno»26.

Così emerge una prima scissione concettuale tra analisi anche storica delle origini dell’arretra-tezza meridionale e ricerca, scientifica e tecnica, delle soluzioni politiche per il Mezzogiorno, tutta-via da distinguersi tra quelle orientate a risolvere, nel medio periodo, i problemi dell’industrializza-zione, della produttività e proprietà terriera, del governo politico e amministrativo, e quelle che invece rinviavano alle precondizioni oggettive all’insediamento di una moderna coscienza poli-tica e civile nel Mezzogiorno, che agli occhi di un Ciccotti, ad esempio, non possono che risiedere nell’allargamento democratico della vita pubblica e nella spinta popolare alle riforme.

Un meridionalismo critico, civico e… “neo‑positivista”?

La separazione metodologica tra origini strutturali dell’arretratezza e politiche ordinarie per lo sviluppo complessivo del Mezzogiorno che, forse, ancora oggi presenta una sua attualità, e che consentirebbe di impostare culturalmente prima che in termini politici la questione meri-dionale, evitando il ricorso a schemi superati ed a soluzioni deresponsabilizzanti ma non nascon-

26 M. Rossi-Doria, Agricoltura del Sud e del Nord in id., Dieci anni di politica agraria, Napoli 2004, p.49.

dendo l’esistenza del problema e la sua attualità politica e democratica.

Ciò che tuttavia più colpisce, di questa cor-rente di pensiero in particolare ma anche di altre impostazioni del primo meridionalismo, è la co-mune convinzione di una endemica incapacità del tessuto civile del Mezzogiorno a sviluppare classi dirigenti propriamente dette, o comunque capa-ci di farsi carico di quello che Gramsci definiva il compito di «direzione politica e intellettuale» di una società.

Nel meridionalismo delle origini, questo appa-re quasi un tratto costante del rapporto tra Mez-zogiorno e classi dirigenti, che sbucano sporadi-camente – e in quel caso come sosteneva Croce con grande eccellenza – come ginestre leopardia-ne. Di un Mezzogiorno che, per ripetere le parole di Ciccotti, è una terra di solitari, in cui le «grandi manifestazioni inellettuali sono state e sono per-sonali, prive di continuità, in contrasto col presen-te e con l’ambiente, e divinatrici dell’avvenire [e che] non può servire ad altro che ad instillare nelle coscienze un germe di inquietudine»27.

Una possibile strada per il rinnovamento del-la cultura politica meridionalista, forse, potrebbe risiedere in una saldatura tra il recupero dei gran-di indirizzi di pensiero che hanno caratterizzato il Mezzogiorno come chiave per ribadire la centrali-tà concettuale della questione, da un lato, e l’insi-stenza sul fronte del realismo e della concretezza reponsabilizzante nel campo delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno nel contesto prima di tutto europeo.

La sfida è, prevalentemente, nella responsa-bilità e nel dovere intellettuale e “civico” delle nuove generazioni, delle future classi dirigenti. Come scriveva Guido Dorso:

«occorre che i giovani […] escano dallo stato di fatalismo che incombe sulle anime meridionali, per dimostrare che le élites del Sud non sono co-stituite solo da speculatori geniali capaci di an-ticipare di secoli le grandi scoperte del pensiero umano, ma sono costituite anche da uomini di azione, capaci altresì di compiere il miracolo di svegliare un popolo di morti»28.

Ricercatore di Storia delle Istituzioni Politiche. Università Fede-rico II di Napoli.

27 E. Ciccotti, Mezzogiorno e settentrione d’Italia, Mi-lano-Roma 1898 ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp.296-297.

28 G. Dorso, La Rivoluzione meridionale, Torino 1925 ora in R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, cit., vol. II, p.533.

Page 13: Numero 3/2010
Page 14: Numero 3/2010
Page 15: Numero 3/2010

• La storia di Graded inizia nel 1958, e fino ai giorni nostri ha se-

guito un percorso evolutivo che ha portato la società, dalla semplice

installazione e costruzione di impianti tecnologici industriali e civili, ad

essere una società di servizi energetici ad elevati standard innovativi.

Graded è oggi leader negli impianti di Produzione Energia ad alta effi-

cienza, grazie alla consolidata esperienza di progettazione, costruzione

e manutenzione sempre al passo con le nuove frontiere del progresso.

La società deve il suo successo ad un approccio ingegneristico ed inte-

grato al problema del risparmio energetico, dalla fornitura di servizi di

audit, diagnosi ed ottimizzazione, alla formulazione di mirate proposte

di intervento, con tecnologie efficienti, contenimento dei costi, redditi-

vità degli investimenti e compatibilità ambientale, il tutto supportato da

precise garanzie di risultato per il Cliente finale.

Graded è oggi approdata al business innovativo derivante dalla produ-

zione di energia sia da fonti tradizionali che rinnovabili, ma sempre con

la garanzia della massima efficienza energetica. La società è presente

attivamente nei meccanismi di riconoscimento e negoziazione dei Titoli

di Efficienza Energetica rilasciati dal GME (Gestore Mercato Elettrico) e

nell’Emission Trading (Quote CO2) sancite dal Protocollo di Kyoto.

Grazie alle competenze acquisite ed all’elevato standard della propria

struttura ingegneristica ed operativa, oggi la struttura è in grado di sod-

disfare ogni tipologia di esigenza proponendo soluzioni innovative e

sostenibili dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico-finan-

ziario in tutti i settori degli impianti tecnologici, come dimostrano i con-

tratti di costruzione, gestione e manutenzione di impianti complessi a

servizio di aziende pubbliche e private, con la fornitura di energia e di

servizi integrati di global service di lunga durata.

Page 16: Numero 3/2010

16

o speso gran parte del-la mia vita in Parlamen-ti, in quello nazionale e, in anni più recenti, in

quello europeo, e credo profonda-mente nel ruolo delle Assemblee elettive come pilastri dei sistemi de-mocratici: in questo senso il Congres-so degli Stati Uniti rappresenta un grande esempio per tutto il mondo libero.

La mia visita, su invito del Pre-sidente Obama coincide con un mo-mento che vede l’Europa al centro di perturbazioni monetarie e finanziarie che appaiono quasi un prolungamento della crisi globale scoppiata nel 2008. Ebbene, il messaggio che io deside-ro indirizzarvi a nome dell’Italia è un messaggio di rinnovata, convinta ri-affermazione del valore delle rela-zioni transatlantiche e della validità del progetto di unità e integrazione europea. Potremo far fronte ai com-plessi problemi, alle molteplici sfide e minacce del nostro tempo, attraverso un crescente coinvolgimento di tutti i maggiori attori oggi presenti sulla scena mondiale nello spirito di una comune assunzione di responsabili-tà: ma innanzitutto tenendo ben viva e portando più avanti l’esperien-za dell’impegno congiunto, in tutti i campi, dell’Europa e degli Stati Uni-ti. Questa è la convinzione, questa è la fiducia che certamente anima noi italiani.

Non c’è bisogno di ricordare quali antichi e profondi sentimenti di amicizia leghino il popolo italiano al popolo americano. Le Americhe hanno accolto, fino alla prima metà del secolo scorso, milioni di emigran-ti italiani; e se rendiamo omaggio ai duri sforzi e sacrifici attraverso i quali essi hanno contribuito allo svi-luppo, in particolare, degli Stati Uni-

ti divenendone cittadini meritevoli e anche esponenti di rilievo, espri-miamo nello stesso tempo immuta-ta gratitudine per come gli emigrati italiani di prima generazione sono stati accolti e hanno potuto inte-grarsi nella società americana. Oggi operano negli Stati Uniti migliaia di nostri giovani, tra i quali ricercatori impegnati in studi ed esperienze di particolare valore. La nostra cultura e la nostra lingua sono alimento più che mai vivo di quella corrente di simpatia e di quella collaborazione diffusa che rendono così intenso e ricco il rapporto tra l’Italia e il popo-lo americano. Radici profonde hanno d’altronde la nostra gratitudine e la nostra amicizia per gli Stati Uniti nel ricordo della parte che ebbero le for-

ze armate americane, con un costo di vite umane ingente, nella libera-zione del nostro Paese, e di tutta l’Europa, dal dominio nazista. Se mi è consentita una testimonianza per-sonale aggiungerò che egualmente non posso dimenticare quale rappor-to di compenetrazione e simpatia si stabilì tra la popolazione e le truppe americane che rimasero a lungo nel-la città di Napoli, dopo averla libera-ta il 1o ottobre 1943, e condivisero la drammatica condizione umana in cui la guerra l’aveva precipitata. Paese, e di tutta l’Europa, dal dominio na-zista. Se mi è consentita una testi-monianza personale aggiungerò che egualmente non posso dimenticare quale rapporto di compenetrazione e simpatia si stabilì tra la popolazione

e le truppe americane che rimasero a lungo nella città di Napoli, dopo averla liberata il 1o ottobre 1943, e condivisero la drammatica condi-zione umana in cui la guerra l’aveva precipitata.

Al di là dei precedenti storici e dei sentimenti nazionali e personali, che ho voluto richiamare davanti a voi, è la realtà del mondo d’oggi che ci spinge a dire: attenzione, abbiamo cura delle relazioni transatlantiche, rafforziamole e portiamole avanti. Esse continuano a rivestire un’im-portanza fondamentale, anche se il mondo è cambiato e sta cambiando, anche se il baricentro degli affari in-ternazionali si sta spostando lontano dall’Europa. L’esperienza di 60 anni dell’Alleanza Atlantica, la forza e la vitalità di questa organizzazione; il patrimonio delle relazioni intreccia-tesi in tutte le sfere – tra Europa e Stati Uniti – al di là del comune im-pegno militare e politico imperniato nella NATO; e, last but not least, lo straordinario patrimonio di comuni principi democratici e di comuni va-lori umani, culturali, religiosi propri della civiltà europea reincarnatasi nel modello americano, ecco, queste sono risorse preziose oggi nel con-fronto con le realtà e i problemi del nostro tempo. Non penso si possa seriamente affermare che le rela-zioni transatlantiche contano ormai sempre meno.

Naturalmente, perché le relazioni transatlantiche diano tutto il contri-buto che possono dare, è necessario che l’Europa faccia la sua parte. E per Europa non intendo “a collection of Nation-States” ma intendo una entità politica unitaria, e cioè l’Unio-ne di 27 Stati membri scaturita da una Comunità di 6 paesi, tra i quali l’Italia, che nacque nei primi anni ‘50

Giorgio Napolitano

Page 17: Numero 3/2010

17dello scorso secolo. La domanda che francamente mi pongo davanti a voi è però questa: l’Unione Europea è oggi all’altezza delle sue potenzialità e delle sue responsabilità? La mia ri-sposta è che possiamo fare molto di più e molto meglio, se rafforziamo la nostra unità, se portiamo più avanti la nostra integrazione. E lo dimostra-no gli avvenimenti di questi mesi e di queste settimane.

L’Euro, la grande creazione del-la moneta unica europea, non sta crollando; chi parla di fine dell’Euro, fa un’affermazione superficiale, non seriamente fondata, esprime una pro-pensione alle profezie catastrofiche o in qualche caso, forse, un wishful thinking. L’Europa sta vivendo una crisi che partendo dal caso estremo della Grecia ha investito l’intera Eu-rozona, ma si sta impegnando sempre di più per superarla. In effetti, dinanzi all’emergenza, l’Unione Europea si è trovata senza strumenti validi, senza meccanismi idonei per prevenire e ri-solvere una crisi simile; e ha esitato ad adottare misure straordinarie per scongiurare l’insolvenza del debito pubblico della Grecia e per fermare il rischio del contagio, l’attacco spe-culativo contro l’Euro come tale; ma infine misure forti sono state adot-tate dai governi e dalle istituzioni dell’Unione, e a ciò hanno corrispo-sto una coraggiosa decisione della Banca Centrale Europea e un impor-tante contributo del Fondo Mone-tario Internazionale. Non nasconde-rò tuttavia i problemi non lievi che sono rimasti aperti. Occorre raffor-zare il sistema – che ha dimostrato gravi falle – dell’Unione Economica e Monetaria: creando concretamen-te un meccanismo e un Fondo euro-peo di gestione delle crisi, prevenen-do coraggiosa decisione della Banca Centrale Europea e un importante contributo del Fondo Monetario In-ternazionale.

Non nasconderò tuttavia i proble-mi non lievi che sono rimasti aperti.

Occorre rafforzare il sistema – che ha dimostrato gravi falle – dell’Unio-ne Economica e Monetaria: creando concretamente un meccanismo e un Fondo europeo di gestione delle cri-si, prevenendo improvvise e acute emergenze attraverso una più effi-cace sorveglianza di bilancio, un più stretto controllo dell’Eurostat sull’ela-borazione dei dati di finanza pubbli-ca dei singoli Stati, la creazione di un’Agenzia di rating europea, l’isti-tuzione di un board per i rischi siste-mici e la vigilanza macro prudenziale. Percorrendo questa strada, l’Unione Europea concorrerà anche a quella nuova cornice di regole del sistema finanziario mondiale, cui sia gli Stati Uniti sia il G20 sia il Financial Stabi-lity Board stanno lavorando.

Essenziale è consolidare nel-l’Unione Europea il Patto di Stabilità e di Crescita, la stessa “cultura del-la stabilità”, bloccare l’aggravarsi del debito pubblico, del debito sovrano degli Stati; compiendo nello stesso

tempo ogni sforzo per promuovere lo sviluppo dell’economia europea, evitando rischi di deflazione, non recando danno ma contribuendo positivamente al rilancio dell’eco-nomia mondiale dopo la caduta del 2008-2009.

Per riuscire in questo sforzo cer-tamente complesso e difficile nei suoi vari aspetti, e per esercitare un ruolo di rilievo nel mondo dinanzi agli svi-luppi del processo di globalizzazione e all’emergere di nuovi grandi real-tà nazionali e continentali, l’Europa deve compiere un deciso balzo in avanti sulla via dell’integrazione. Se si è ritardato ad adottare rimedi ef-ficaci di fronte alla crisi greca, è per-ché da parte di alcuni Stati membri si è mostrata esitazione e riluttanza a mettere in atto strumenti comuni, ad attribuire maggiori poteri alle isti-tuzioni europee.

Gli squilibri che si sono mani-festati – andamenti divergenti non

solo delle politiche di bilancio ma delle politiche economiche naziona-li – sono la conseguenza del fatto che troppe leadership nazionali han-no resistito nell’ultimo decennio a un effettivo, stringente coordinamento al livello europeo; hanno resistito ad allargare l’area delle politiche comu-ni dell’Unione, ad attribuire poteri adeguati alle istituzioni comunitarie, a conferire risorse più consistenti al bilancio dell’Unione.

Ma ormai o si va avanti decisa-mente in questa direzione o l’Europa rischia una grave perdita di ruolo se non l’irrilevanza. Soltanto parlando con una sola voce e portando avanti una politica estera e di sicurezza co-mune l’Europa può contare nella poli-tica internazionale. Solo mettendo in-sieme le sue risorse e le sue strutture per la difesa, superando assurde du-plicazioni e compartimenti stagno tra Stati nazionali, l’Europa potrà elevare la produttività della sua spesa milita-re e assumersi le sue responsabilità per la sicurezza collettiva.

In sostanza, è giunto per tutti il momento di riconoscere che nessuno Stato nazionale europeo, nemmeno i più forti, i più ricchi di tradizioni sto-riche, perfino imperiali, nemmeno i più ricchi ed economicamente avan-zati, nessuno potrà con le sue sole forze contare come nel passato, se non contribuendo a costruire un’Eu-ropa più unita, integrata, efficiente e dinamica. europeo, nemmeno i più forti, i più ricchi di tradizioni stori-che, perfino imperiali, nemmeno i più ricchi ed economicamente avan-zati, nessuno potrà con le sue sole forze contare come nel passato, se non contribuendo a costruire un’Eu-ropa più unita, integrata, efficiente e dinamica.

Parlare di Stati Uniti d’Europa è una eccessiva semplificazione. Fe-derare Stati nazionali come quelli costruitisi in Europa nel corso di se-coli e in alcuni casi divenuti potenti

Page 18: Numero 3/2010

18imperi, è impresa ardua, che non a caso è stata – fin dalla nascita della prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio – enunciata solo in ter-mini ideali. Invece, è stata concepita in termini concreti un’entità europea basata su una parziale rinuncia alle sovranità nazionali, e sull’esercizio di quote di sovranità condivisa, da par-te di un’istituzione rappresentativa degli Stati nazionali – il Consiglio – e di istituzioni sovranazionali, come la Commissione e il Parlamento.

Questa originale combinazione, definita come “Federazione di Stati nazione” o “Unione di Stati e di popo-li”, si è dimostrata vitale, anche se tra molti alti e bassi. L’equilibrio istituzio-nale di questa entità chiamata Unio-ne Europea deve ora decisamente spostarsi a favore delle componenti sovranazionali, a favore del metodo comunitario. Si tratta di impiegare a tal fine in modo conseguente tut-te le potenzialità che presentano le innovazioni istituzionali sancite nel Trattato di Lisbona. Il chiudersi in lo-giche dettate dall’egoismo nazionale, da presunzioni di autosufficienza o di egemonia nazionale, sarebbe fatale per le sorti dell’Europa.

Il “sogno europeo” – il sogno di un’Europa unita, capace di superare concezioni ristrette e ormai anacro-nistiche dell’interesse nazionale e del ruolo degli Stati nazionali – non è fini-to, non è sconfitto, non è condannato a finire nel nulla. Il suo punto di forza sta nel fatto che da “sogno” si è tra-dotto in necessità; da lungimirante disegno si è tradotto in un imperativo categorico nelle condizioni del mondo di oggi e nella prospettiva del mondo di domani.

È importante, molto importante, che l’Europa venga spinta dall’altra sponda dell’Atlantico, venga stimo-lata e sollecitata dal grande amico e alleato americano a unirsi e integrarsi sempre di più, con sempre maggiore coerenza ed efficacia. Avete ragione

di chiederci di parlare con una voce sola, di presentarci, in quanto Unione Europea, come interlocutore coeso e affidabile, pronto ad assumersi le sue responsabilità sulla scena mondiale.

L’Italia è stata tra i paesi fondato-ri della Comunità Europea più convin-ti e più conseguenti nel sostenere lo sviluppo del processo di integrazione. E da ultimo, dinanzi alla crisi greca, ha preso una posizione netta a favore di un impegno collettivo dell’Unione nel-la misura necessaria e ha usato tutta la sua influenza perché nel Consiglio Europeo si giungesse a un’intesa in quel senso. Nello stesso tempo, ci siamo in questi anni mostrati e ci stia-mo oggi mostrando pienamente con-sapevoli della necessità di uno sforzo molto serio per bloccare e ridurre il nostro debito pubblico; quest’ultimo

è purtroppo molto ingente in cifra as-soluta e in percentuale sul prodotto interno lordo (118,2 per cento) e deve, a partire dal 2012, iniziare una curva discendente. Va tuttavia rilevato che la situazione italiana è ben diversa da quella di altri paesi a forte indebita-mento pubblico, non solo perché più della metà delle obbligazioni di Sta-to è nelle mani di italiani, ma perché l’Italia ha un indebitamento delle fa-miglie e delle imprese che è di gran lunga inferiore a quello di quasi as-soluta e in percentuale sul prodotto interno lordo (118,2 per cento) e deve, a partire dal 2012, iniziare una curva discendente. Va tuttavia rilevato che la situazione italiana è ben diversa da quella di altri paesi a forte indebita-mento pubblico, non solo perché più della metà delle obbligazioni di Sta-to è nelle mani di italiani, ma perché

l’Italia ha un indebitamento delle fa-miglie e delle imprese che è di gran lunga inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi e alla media europea.

Accanto a questo, altri elemen-ti positivi per l’Italia sono in questo momento costituiti da segnali di ripre-sa dell’economia e in particolare da una forte crescita delle esportazioni rispetto all’ultimo anno.

Infine, l’Italia è impegnata atti-vamente a contribuire allo sviluppo della presenza internazionale e della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione Europea. Vi contribuiamo tra l’altro con le risorse della nostra tradizionale amicizia con i paesi arabi, finalizzando i nostri sforzi al sostegno del processo di pace in Medio Orien-te nel rispetto del diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza. E alla presenza internazionale dell’Europa, contribuiamo con le decisioni del go-verno e del Parlamento, maggioranza e opposizione, a favore di una parteci-pazione – attualmente di circa 8 mila uomini e donne delle Forze Armate italiane – alle missioni dell’ONU, della NATO e dell’EU nelle aree di crisi, e in particolar modo in funzione della lot-ta contro il terrorismo. Siamo a fianco delle forze americane, sulle quali cade in così gran parte il peso e il sacrificio di questa lotta comune.

Signora Speaker, signore e si-gnori, a nome delle istituzioni demo-cratiche e del popolo che ho l’ono-re di rappresentare nella loro unità, vi rinnovo l’espressione del leale impegno di un’Italia che affronta i suoi problemi e si assume le sue re-sponsabilità avendo per punti di ri-ferimento l’Europa unita, l’America che sentiamo come sempre amica e solidale, l’alleanza transatlantica e, nel segno di un nuovo e coerente multilateralismo, la comunità inter-nazionale.

Dall’indirizzo di saluto alla Joint Leadership Meeting presieduta dalla Speaker Nancy Pelosi. Washington 26 Maggio 2010

Page 19: Numero 3/2010

19

Giampaolo Calchi Novati

’Africa ha celebrato nel 2010 i cinquant’anni d’indipendenza quando aveva tagliato da poco il traguardo del primo miliar-do di abitanti. Non è solo una

questione di spazi e di numeri, e neppure solo di risorse: oggi l’Africa conta sicuramente molto di più sulla scena mondiale rispetto a quel 1960, passato appunto alla storia, non senza un po’ di retorica, come l’“anno dell’Africa”. La massiccia spinta indipendentista trovò un riscontro imme-diato nelle risoluzioni approvate dall’Assemblea generale dell’Onu il 14 dicembre di quello stesso 1960 statuendo l’incompatibilità fra il coloniali-smo e la Carta delle Nazioni Unite. La questione del colore – aveva predetto William Burghardt Du Bois, uno dei padri del panafricanismo1 – “sarà la nota distintiva del Novecento”. Il rischio, allora non avvertito in tutta la sua dimensione perché l’euforia impediva un’esatta percezione dei rap-porti di forza, era che l’indipendenza valesse più per le forme, o per i simboli, che non per la ca-pacità reale dei nuovi attori africani di esercita-re le responsabilità che sono proprie dello Stato, tanto più impegnative davanti al problema ogget-tivamente improbo di costruire valori e interes-si condivisi dopo le lacerazioni del colonialismo

1 William Burghardt Du Bois (1868-1963), nato nel Massachu-setts e membro attivo dei movimenti per i diritti civili degli Stati Uniti, elaborò un programma per lo sviluppo e l’unità dell’Africa mobilitando anzitutto la diaspora afro-americana.

e gli strappi della decolonizzazione. In Africa, lo Stato post-coloniale ha preso vita più dall’accre-ditamento internazionale che dalla verifica impar-ziale del consenso all’interno. Nessuno sembrò rendersi conto quali e quanti vizi strutturali com-portassero istituzioni inadatte a mobilitare le ri-sorse per uno sviluppo generalizzato ed equanime, la violazione sistematica del principio che riserva all’autorità l’uso legittimo della forza, lo scarso controllo del territorio e delle frontiere.

Le ferite inflitte ai neri dalla tratta degli schia-vi, dal razzismo e dal colonialismo hanno terribil-mente complicato il riscatto dell’Africa. La rappre-sentazione dell’Africa a livello mondiale metteva in dubbio le basi stesse della sua essenza. Nella lunga fase di avvicinamento dell’Africa all’indi-pendenza, l’emancipazione era concepita come un evento culturale e sociale che riguardava un’inte-ra comunità umana al di là degli aspetti istituzio-nali e territoriali. Non si trattava solo di liberarsi da una dominazione politica. La premessa di tutto

era il recupero morale degli abitanti dell’Africa e dei neri ovunque si trovassero. Entravano in gioco ideali e immagini fuori della storia. I neri – “negri” nel linguaggio degli europei ma anche dei culto-ri della negritudine – sentivano su di sé il peso della maledizione biblica. Il grido che nell’era del nazionalismo e del liberalismo si levò dall’Africa e dagli africani, per usare le parole di Edward W. Blyden, suonava così: “Venite ad aiutarci”2. L’invocazione era rivolta in primis all’Europa e all’Occidente, ma nel disegno provvidenziale che aveva in mente Blyden la libertà non poteva ve-nire che dall’Africa, dai neri, rielaborando nozioni

2 Edward Wilmot Blyden (1832-1912), originario delle Antille olandesi e formatosi negli Stati Uniti, fu un antesignano del panafricanismo e del nazionalismo africano. Blyden fu ministro della Chiesa presbiteriana, insegnante, diplomatico e uomo politico. Trasferitosi in Africa occidentale, operò sia in Liberia che in Sierra Leone.

AltreAfricheA su d de l M ed i te r raneo A su d de l Saha ra

Network interna ziona le

d i r i v i s t e c u l t u r a l i

a f r i c a n e e d e u r o p e e

Progetto a cura della Fondazione Mezzogiorno Europa

L’Africa50 annidopol’annodell’Africa

Page 20: Numero 3/2010

20 | AltreAfriche |come dignità, popolo o autonomia. Le mete non erano solo l’autopromozio-ne, l’indipendenza, ma la redenzione e la salvezza. I neri sarebbero stati più utili in Africa e l’Africa sarebbe stata rigenerata da africani. Se gli abolizionisti erano i combattenti e i politici, i coloni neri inviati dall’Ame-rica potrebbero essere dipinti come i profeti e filosofi.

Lo strumento impiegato da Du Bois per promuovere l’emanci-pazione dei neri e dell’Africa fu una serie di Congressi internazionali che incominciarono nel 1919 in concomi-tanza con la Conferenza della pace a Versailles: da un lato abituarono gli intellettuali e attivisti afro-america-ni a cimentarsi con le questioni del progresso e della libertà dei posse-dimenti africani delle potenze co-loniali, dall’altro portarono l’Africa all’attenzione della diplomazia inter-nazionale. Il panafricanismo è stato il brodo di coltura del nazionalismo africano. Molti dirigenti e militanti attingevano alla lezione del grande intellettuale caraibico C. L. R. James (1901-1989), oriundo di Trinidad, pio-niere del movimento panafricanista e storico della rivoluzione a Santo Do-mingo all’inizio del Novecento3. Era originario di Trinidad anche George Padmore (1902-1959), un altro cam-pione del panafricanismo4. Nel clima prevalente ancora nel secondo dopo-guerra, era naturale che gli ideali in-dipendentisti dei singoli partiti nazio-nalisti all’opera nei territori africani fossero coniugati in una prospettiva unitaria. Kwame Nkrumah, precurso-re dell’indipendenza africana e futuro presidente del Ghana, era cosciente che non era concepibile per l’Africa la libertà in un solo paese. Il quinto dei Congressi panafricani organizza-

3 C [yril) L[ionel] R [obert] James, The Black Jacobins, Vintage Books, New York 1989 [1938]. 4 L’opera più importante di George Padmo-re è Pan-Africanism or Communism? The co-ming struggle for Africa, Dennis Dobson, Lon-don 1962.

ti da Du Bois si tenne a Manchester nell’ottobre del 1945: lo presiedet-te Du Bois con Padmore e Nkrumah come segretari. Il compito esclusivo della diaspora poteva dirsi conclu-so. Il testimone passò senza altre intermediazioni ai nazionalisti afri-cani impegnati sul terreno: “Invece di un movimento alquanto nebuloso, interessato vagamente al nazionali-smo nero, il movimento panafricano era diventato un’espressione del na-zionalismo africano. A differenza dei primi quattro Congressi, che erano stati sostenuti fondamentalmente da intellettuali del ceto medio e da riformisti borghesi, il V Congresso panafricano vide la partecipazione di lavoratori, sindacalisti, coltivatori e studenti, molti dei quali venivano dall’Africa”5.

Nella realtà, tuttavia, la prece-denza sarà data alle specificità del-le “piccole patrie” appagando intan-to i disegni nazionali e le ambizioni

5 Kwame Nkruma, Africa Must Unite, Heinemann, London 1963, p. 135.

delle burocrazie locali. Specialmen-te l’Africa francese subì un proces-so di frammentazione che Senghor definì “balcanizzazione” mettendo sotto accusa gli intenti speculativi a favore della potenza coloniale. Una causa fondamentale del sottosvilup-po e dell’instabilità cronica in Africa è imputabile proprio alla debolezza strutturale dello Stato africano. L’uni-tà dell’Africa divenne un tema da ri-prendere in futuro con gli strumenti e i dosaggi della diplomazia lasciando cadere l’ispirazione metapolitica. Se-condo lo storico ghanese Albert Adu Boahen, che ha presente soprattutto il contesto africano, il nazionalismo fu un sottoprodotto “accidentale” del colonialismo, in cui, accanto a quelle positive, sono particolarmente evi-denti le componenti negative di ogni nazionalismo: rabbia, frustrazione e umiliazione6. Anche le potenze euro-pee impegnate nella liquidazione dei

6 Albert Adu Boahen, African Perspectives on Colonialism, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1987.

loro imperi preferivano comprensi-bilmente la decolonizzazione paese per paese per non trovarsi di fronte un continente come l’Africa, l’islam o il mondo arabo. Al nazionalismo va riconosciuto comunque il meri-to di aver consolidato lo Stato così com’era impedendo l’insorgere di forze centrifughe con effetti ancora più distruttivi. Il prodigio del naziona-lismo africano è di aver fatto credere con un qualche successo che lo Sta-to creato dal colonialismo – che era essenzialmente uno Stato “territoria-le” – fosse o potesse diventare una nazione. Anche Sékou Touré, che gui-dò all’indipendenza la Guinea, il solo possedimento dell’Africa occidentale francese che osò votare “no” nel re-ferendum gollista del 1958, dovette ammettere che, costruito lo Stato, restava da costruire la nazione.

Il 1960 fu l’apogeo delle indipen-denze “dall’alto”, con poca parteci-pazione e pochissime riforme effet-tive. Nel breve spazio di pochi mesi 17 Stati, 14 dipendenze della Francia, più Nigeria, Congo belga e Soma-

Page 21: Numero 3/2010

21| AltreAfriche |

lia7, raggiunsero la sovranità. Tutti, con l’eccezione della Mauritania, su cui gravavano le rivendicazioni del Grande Marocco, furono ammessi all’Onu nel corso dell’anno dando un impulso straordinario al gruppo afro-asiatico. L’Africa aveva conosciuto un decennio di crescita e l’ottimismo era di rigore. Per il soffio impetuoso del “vento del cambiamento”, come disse il primo ministro conservatore inglese Harold Macmillan parlando al parlamento sudafricano8, regioni

7 La Repubblica di Somalia con capitale Mogadi-scio nacque dalla fusione fra la Somalia italiana e il Somaliland britannico.8 Sarebbe stato in Ghana, dove fu in visita dal 6 al 10 gennaio 1960, che il primo ministro in-glese Harold Macmillan coniò dentro di sé la famosa frase sul wind of change che avrebbe scandito al parlamento di Città del Capo il 3 febbraio successivo per scuotere il Sud Africa dal razzismo, suscitando una vasta eco in tut-to il mondo: amo credere, scrive Nkrumah, che la permanenza di Macmillan in Ghana lo aiutò a cogliere il senso della nuova Africa (Kwame Nkrumah, I Speak of Freedom. A Statement of African Ideology, Heinemann, London 1961, pp. 203-205 [per un errore materiale nel testo con-

vastissime con risorse inestimabili e popolazioni in rapida crescita si affacciavano a nuove possibilità di sviluppo.

L’impulso fondamentale veniva dalla domanda di libertà dei popoli colonizzati e anzitutto di una classe dirigente nazionale che si era forma-ta alla scuola del pensiero occidenta-le e che si trovava a suo agio con gli istituti formalizzati, introdotti spesso in extremis e mai veramente collau-dati. Le gerarchie consuetudinarie, che pure avevano conservato un po-tere diffuso su delega delle autorità coloniali per assicurare il controllo sociale a livello locale, furono accan-tonate, a costo di aprire una frattura fra due ordini politici e in ultima ana-lisi due modelli di Stato. La lotta con-tro il colonialismo si presentava nella forma di una rivoluzione. L’appoggio della popolazione era necessario per tener testa alle potenze europee e le élites vi facevano affidamento senza

sultato, a p. 203, la data riportata per la visita di Macmillan è gennaio 1950]).

per questo abbandonare la direzione del processo e soprattutto senza fare troppe concessioni alle rivendicazioni che premevano “dal basso”. La pre-messa – la sostanziale “piattezza” della società africana in termini di classi – tornava tutta a favore dei gruppi dominanti. Sarà questa l’ac-cusa che verrà scagliata contro la negritude in quanto teoria di con-servazione da autori come il cubano René Depestre o il nigeriano Wole Soyinka9. Anche un dirigente sociali-

9 “Per voler difendere, ad ogni prezzo, le nostre civilizzazioni, abbiamo finito per cristallizzarle, per mummificarle”, scrive Paulin Hountondji, che altrove riconosce che “la tradizione non esclude ma implica al contrario, necessariamente, un si-stema di discontinuità” (per la prima citazione, Combat pour le sense: un itinéraire africain, Le Flamboyant, Cotonou 1977, pp. 43-44 e per la seconda Sur la philosopie africaine, Maspero, Paris 1976, p. 28). Fanon era consapevole che la negritude era stata sfruttata dalle élites per occultare le gerarchie sociali, ma nella sua inter-pretazione la negritudine non voleva recuperare un ieri idealizzato bensì mobilitare nel presente i popoli africani al riscatto dalla sottomissione al colonialismo e all’alienazione e per questo am-moniva neri e bianchi a non farsi imprigionare

steggiante come Julius Nyerere ama-va ripetere che tutti gli africani era-no have-nots, impegnati a misurarsi con un sistema di potere di origine straniera (il colonialismo e il neo-co-lonialismo) da intendersi come la sin-tesi degli haves10. La lotta di classe era ritenuta estranea alle tradizioni africane anche da Nkrumah, almeno fino al ripensamento maturato dopo aver sperimentato dal vivo l’opera del neo-colonialismo11. Senza paura di andare contro corrente, il france-se René Dumont, un agronomo che si spese come consigliere di molti go-verni africani, denunciò la falsa par-tenza di Stati che non solo avevano pochi poteri ma che per di più si fon-davano sulla fiducia di un ceto urbano poco o nulla rappresentativo di una popolazione formata in stragrande maggioranza da contadini12.

La decolonizzazione che culminò nel cosiddetto “anno dell’Africa” fu un trapasso relativamente indolore se si esclude il caso del Congo bel-ga, uno Stato di grosse dimensioni e dotato di immense ricchezze, osses-sionato dai ricordi letterari del con-radiano “cuore di tenebra”13. Che il Congo belga fosse un caso speciale lo si intuì dai tempi e dalle modalità con cui fu impostata la sua decoloniz-zazione. A metà degli anni Cinquanta

nella “torre sostanzializzata del Passato. […] Non c’è una missione negra; non c’è un fardel-lo bianco. […] Io non sono schiavo dello schia-vo che disumanizzò i miei padri” (Frantz Fanon, Peaux noires, masques blancs, Seuil, Paris 1972, pp. 183 e 186).10 Julius Nyerere, Socialismo in Tanzania, Istituto affari internazionali, il Mulino, Bologna 1970. 11 Nkrumah dedicherà uno studio apposito al significato e alle implicazioni del neo-colonia-lismo (Kwame Nkrumah, Neo-Colonialism. The Last Stage of Imperialism, Heinemann, Lon-don 1965).12 René Dumont, L’Afrique noire est mal partie, Seuil, Paris 1962.13 Molto istruttiva è la lettura di Adam Hoch-schild, Gli spettri del Congo, Rizzoli, Milano 2001. Il famoso testo di Conrad è disponibile in molte traduzioni italiane, per esempio: Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Garzanti, Milano 1990 (traduzione di Luisa Saraval).

Page 22: Numero 3/2010

22 | AltreAfriche |il governo di Bruxelles dichiarò irrea-lizzabile perché troppo sbrigativo un piano per portare il grande possedi-mento dell’Africa centrale all’indi-pendenza in 30 anni. Ai primi segni di turbolenza, nel 1958-59, subentrò il panico. Bruxelles non voleva correre l’alea di una guerra civile che avreb-be avuto ripercussioni devastanti in una società già alle prese con un ina-sprimento della tradizionale rivalità fra valloni e fiamminghi a causa del processo di impoverimento della re-gione francofona. Prevalse così l’op-zione dell’indipendenza subito e nel 1960 furono convocate per la prima volta elezioni generali. Ne emerse una specie di binomio al vertice fra Patrice Lumumba, capo del governo e astro nascente di un radicalismo quasi solo elitario, e il presidente della Repubblica, Joseph Kasavubu, esponente del nazionalismo su base etnico-regionale. Lumumba scoprì la sua vocazione nel discorso pronun-ciato alla cerimonia del passaggio delle consegne. Davanti a un re Bal-dovino sbigottito e via via sempre più irritato, il capo del governo del Con-go ricordò senza mezzi termini le vio-lenze subite durante il colonialismo: “Tutto ciò è ormai finito. […] Faremo regnare non la pace dei fucili e del-le baionette, ma la pace dei cuori e della buona volontà”. La visita di re Alberto II a Kinshasa (la ex-Léopold-ville) per le feste del Cinquantenario ha chiuso il cerchio.

A pochi giorni dall’indipendenza, il Congo sprofondò nella guerra civile per la decisione di Moïse Tshombe, presidente del Katanga, la provincia più ricca, di proclamare la secessio-ne. Dietro a quel gesto si intuiva un accordo tacito con l’ex-potenza co-loniale e il capitalismo mondiale14. Le truppe belghe si dimostrarono fin troppo pronte a intervenire con

14 Una ricostruzione molto ben documentata del contesto internazionale in Maria Stella Rognoni, Scacchiera congolese. Materie prime, decoloniz-zazione e guerra fredda nell’Africa dei primi anni Sessanta, Polistampa, Firenze 2003.

la scusa di proteggere i cittadini eu-ropei rimasti nel paese. Il Congo era esattamente sul crinale fra l’Africa in via di decolonizzazione e l’Africa “utile” che doveva essere preserva-ta per la sicurezza dei coloni bianchi e le fortune dei colossi finanziari e minerari.

L’Onu vide nella crisi del Congo lo spunto per esordire nella funzione di padrino dei popoli in via di sviluppo e di garante della decolonizzazione (un compito che diverrà abituale uti-lizzando i bilanciamenti del sistema bipolare). Il segretario generale, lo svedese Dag Hammarskjöld, un po-litico sensibile e ambizioso, si imme-desimò in quella sfida ma nonostante le buone intenzioni il risultato finale fu disastroso. Hammarskjöld si illu-deva di aver trovato una funzione per la massima organizzazione interna-zionale schivando le tensioni Usa-Urss. Gli sfuggiva che anche l’Africa, ultima venuta e rimasta parzialmente fuori dai blocchi militarizzati, era, come tutta la Periferia, parte della confrontazione Est-Ovest. La guerra civile in Congo fu la spia degli espe-

dienti con cui era stata imbavagliata la decolonizzazione. Quando l’ipote-si della secessione rientrò, Lumum-ba era stato ucciso e il Congo si era rassegnato alla “normalità” neocolo-niale15. Lo stesso Hammarskjöld perì in un incidente aereo mentre era im-pegnato in una frenetica “navetta” fra le varie capitali per negoziare una via d’uscita16.

Come det to, l’indipendenza dell’Africa spinse l’Onu ad applicare davvero il principio dell’universali-tà uscendo dall’impostazione occi-dentalista che l’aveva segnato alla nascita (gli Stati membri nel 1945 venivano pressoché tutti dall’Euro-pa e dell’America). La Carta di San Francisco citava ampiamente i po-

15 Il testo più recente e più completo sulle vicen-de è Ludo De Witte, L’assassinat de Lumumba, Kathala, Paris 2000.16 L’incidente avvenne il 18 settembre 1961. Nessuna prova è mai stata trovata su un pre-sunto attentato ma i dubbi sono rimasti. Pochi mesi prima era stato assassinato Lumumba nel Katanga.

Page 23: Numero 3/2010

23| AltreAfriche |

poli ma era stata concepita per gli Stati costituiti. In materia di colo-nialismo o anti-colonialismo, anche la Dichiarazione universale dei di-ritti dell’uomo adottata dall’Assem-blea generale dell’Onu nel 1948 non si spinge oltre indicazioni meramen-te programmatiche. L’universalismo eurocentrico non si è mai completa-mente dissolto e si è riproposto con vigore rinnovato dopo la fine della guerra fredda sulla scia della “vitto-ria” dei precetti liberal-democratici e il collasso del sistema socialista-rivoluzionario. Fin dall’inizio gli Stati di nuova indipendenza considerarono comunque l’Organizzazione delle Na-zioni Unite come un alleato nei loro sforzi per non essere inghiottiti sen-za scampo nello scontro fra le gran-di potenze. Dalla Conferenza di Ban-dung dell’aprile 1955 in poi l’Africa parteciperà con trasporto a tutte le espressioni della collaborazione ter-zomondiale, portando nel movimento dei non allineati la causa della lotta contro il colonialismo e il razzismo. L’Africa faticò, per la debolezza intrin-seca di molti dei suoi Stati, a coordi-

narsi con la strategia per un Nuovo ordine economico internazionale che fu lanciato dal Terzo mondo dopo il boom dei prezzi del petrolio nel 1973 come contraccolpo della guerra del Kippur e insistette più sull’aiuto che sulla riforma del sistema.

A posteriori, la decolonizzazio-ne può apparire come la razionaliz-zazione di un processo finalizzato al riassetto del potere al vertice più che alla base. Nella prospettiva Centro-Periferia, la decolonizzazione non rappresenta la fine dell’interdipen-denza ineguale e se mai la cristalliz-za nel divario sul piano politico e so-prattutto economico. Il colonialismo aveva concentrato le prerogative della sovranità in un numero esiguo di Stati europei, negando ai paesi dell’Asia, dell’Africa e del mondo ara-bo l’identità e i diritti di nazioni. Con le indipendenze dei territori coloniali si moltiplicava il numero dei soggetti della politica mondiale. Il potere ordi-nativo del mercato prendeva il posto delle altre forme di dominio. Non era certo alla portata dei paesi africani e del Terzo mondo in generale la dispo-

nibilità dei capitali, della tecnologia e della manodopera nei processi di ac-cumulo e produzione all’insegna del capitalismo. Faceva difetto un po’ a tutti i beneficiari della decolonizza-zione, e soprattutto ai governi africa-ni, una strategia coerente e consape-vole della transizione. Il Sud del mon-do era stato una specie di retroterra dell’Europa e dell’Occidente. Gli Stati Uniti si proponevano come capofila supremo del cosiddetto “mondo libe-ro”, dei paesi organizzati secondo il mercato, in antitesi con l’economia di comando vigente nell’Unione So-vietica e nei paesi dell’Est. Dal canto suo, Mosca appoggiava l’antimperia-lismo, la rivoluzione e il socialismo nei paesi emergenti, ma non aveva gli strumenti per stabilire un’interazione operativa con i paesi in via di svilup-po non essendo uno sbocco priorita-rio per i loro prodotti e non avendo i capitali e la tecnologia di cui essi avevano un urgente bisogno.

Il Terzo mondo – una pletora di-sorganica di paesi di diversa estra-zione e variamente dislocati nella scala di potere a livello internazio-nale17 – era una riserva economica e strategica, il luogo deputato della contesa fra due ideologie e due bloc-chi che avevano la pretesa di essere universali. Le nazioni del Terzo mon-do non erano consegnate di fatto o di diritto all’influenza dell’una o dell’al-tra superpotenza. L’“ordine di Jalta”, che presupponeva confini invalicabili e alleanze stipulate in forma debita, garantite con la persuasione o con la forza, non poteva essere esporta-to impunemente fuori dell’Europa18. Al contrario, la decolonizzazione era

17 L’origine della locuzione Terzo mondo (tiers-monde) si deve all’economista e demografo francese Alfred Sauvy in un articolo apparso su “L’Observateur”. Al pari del Terzo stato, il Terzo mondo era eterogeneo ed esprimeva una riven-dicazione nei confronti dei due stati (o mondi) dominanti (Vijay Prashad, The Darker Nations. A People’s Hisytory of the Third World, The New Press, New York 2007, p. 11).18 André Fontaine, Histoire de la guerre froide, Fayard, Paris 1965-1967, vol. I, p. 269.

Page 24: Numero 3/2010

24 | AltreAfriche |essa stessa movimento. Nel Terzo mondo sono possibili mutamenti di regime o addirittura spostamenti da uno schieramento all’altro. In Africa, il solo riparo, parziale, veniva dal pri-mato che Washington riconosceva in tema di “sicurezza” ai suoi maggiori alleati, Gran Bretagna e Francia, nel-la loro veste di potenze o ex-potenze coloniali. Gli Stati Uniti si riservava-no di agire e persino di intervenire solo dove il colonialismo non aveva lasciato dietro di sé l’armamentario che consente di praticare il neo-colo-nialismo. Era il caso in particolare dei possedimenti di Belgio, Portogallo e Italia. È stato soprattutto nel baci-no del Congo (Congo-Zaire, Angola) e nel Corno (Somalia, Etiopia) che le interferenze della guerra fredda sono state più lampanti. Nell’ordine mondiale post-bipolare anche il “cor-tiletto” della Francia (il pré-carré rap-presentato dal suo impero in Africa occidentale e equatoriale) si è aperto alla competizione libera: la svaluta-zione del franco Cfa decisa nel 1994, accogliendo finalmente le reiterate sollecitazioni della Banca mondiale per facilitare l’export, fu una spe-cie di spartiacque fra un “prima” e un “dopo”. Pressoché scomparsa la già debole intelaiatura creata dalla Russia quando era Urss, erano gli Stati Uniti ormai a candidarsi come il partner più convincente. I favori dell’unica superpotenza del sistema post-bipolare sono ovviamente gra-ditissimi se si sogna di inserirsi alle condizioni migliori negli interstizi del-la globalizzazione.

I gruppi dirigenti che cercano di normalizzare le istituzioni e di rispet-tare almeno sommariamente il prin-cipio del rule of law hanno rotto con il colonialismo, il neo-colonialismo e lo stesso anti-colonialismo. Essi appartengono a un contesto post-coloniale. Soprattutto nella regione che dal Corno si spinge verso l’Africa centrale fino al sempre bramato Con-go, si è prodotta una vera mutazione a livello di governo. Al posto di regimi che coltivavano il caos come rimedio all’impotenza dello Stato e alla man-

canza di risorse da distribuire, intanto ai propri clienti, sono arrivati al po-tere governi disposti a interpretare gli interessi dei ceti in crescita, che credono, fosse pure a proprio profit-to, nelle regole dell’internazionalizza-zione, puntando di nuovo al “ricono-scimento” delle alte sfere. La scena africana è tutt’altro che stabilizzata. Conflitti e colpi di Stato sono sem-pre all’ordine del giorno. La guerra scoppiata nel 1998 fra Eritrea e Etio-pia, formalmente per una disputa sul confine, fu un segnale particolarmen-te inquietante visto che i due paesi del Corno passavano per essere fra i capisaldi del “nuovo ordine”. Resta il fatto che il ricambio generazionale e sociologico avvenuto in paesi come il Ruanda, l’Uganda, forse la Nigeria e, con molti interrogativi, il Congo-Zai-re, oltre all’Etiopia (l’Eritrea rischia di finire nel novero degli Stati “falliti”), ha rappresentato un salto di qualità effettivo e duraturo.

Il termine di riferimento degli Stati africani è sempre di più e sem-pre più chiaramente l’America. Si deve agli aiuti finanziari dei grandi organismi internazionali e all’assi-stenza soprattutto in campo mili-tare degli Stati Uniti se paesi rela-tivamente piccoli come il Ruanda e l’Uganda possono aspirare a eserci-tare una politica di potenza in una regione cruciale come quella dei Grandi Laghi, che rigurgita di risorse economiche e strategiche. Un gros-so inconveniente dal punto di vita dell’etica politica e dell’emulazione virtuosa è che in Africa le guerre hanno cambiato il panorama politico molto più delle elezioni. Anche dove si sono tenute elezioni multipartiti-che e relativamente libere, esse si sono ridotte spesso al confronto fra due personalità o due partiti che rap-presentavano uno stesso, circoscrit-to gruppo di potere e quasi sempre l’esito della consultazione si è deciso su basi regionali o etniche invece che su alternative fra programmi diversi. È con le guerre che si sono affermati i governi più risoluti a chiudere con un passato fatto di instabilità, con-

Page 25: Numero 3/2010

25| AltreAfriche |flittualità e illegalità. Gli Stati Uniti, con una forzatura, hanno salutato a suo tempo questi governi come “democratici”19. Ma essi non sono democratici in senso proprio. Molto più semplicemente, praticano il libero mercato come discepoli diligenti del-le ricette della Banca mondiale. Un regime che nasce dalla forza è pro-babilmente portato a confidare nella forza per affrontare le scadenze più

ardue che via via si presentano. Fra sviluppo e democrazia c’è un rap-porto virtuoso ma è difficile stabilire empiricamente quale dei due fattori sostenga l’altro.

19 L’Uganda fu una delle tappe più significative di Bill Clinton nel corso del suo viaggio africano del 1998 e a Kampala il presidente americano pro-mosse l’elaborazione di una dichiarazione sulla democrazia e contro il genocidio che non impedi-rà altre guerre e altre violazioni dei diritti umani da parte degli stessi paesi firmatari.

L’Africa subsahariana è la regio-ne del mondo a cui tutti istintivamen-te pensano quando si parla di aiuto allo sviluppo. Tra il 1960 e il 1990, in un arco di tempo che viene general-mente considerato come tutto e solo negativo, sono stati raggiunti risulta-ti notevoli nel campo della mortalità infantile, della scolarizzazione della popolazione femminile, della pro-duttività agricola, ma nel complesso

l’Africa ha fatto registrare le perfor-mances più deludenti. A fronte di un aumento degli aiuti, il continente ha sperimentato (fino alla fine del No-vecento, perché nel Duemila ci sono stati alcuni anni molto positivi) una diminuzione del tasso di crescita del Pil individuale. L’impatto degli aiuti sulla crescita, del resto, non è pro-vato, continuo e costante. Nei paesi del Sud che hanno conosciuto un bal-zo in fatto di crescita, produzione e commercio, la cooperazione allo svi-

Page 26: Numero 3/2010

26 | AltreAfriche |luppo non è stata determinante. Con l’irruzione di Cina, India e Brasile, ma anche dei paesi del Golfo e dei Fon-di arabi e islamici il monopolio occi-dentale è finito. Anche per l’Africa è scoccata l’ora della nuova coopera-zione Sud-Sud come complemento o alternativa della globalizzazione nella versione imposta dall’Occidente. Sul-la scena continentale si è affermato il Sud Africa, il solo paese africano a far parte del G20.

Il sistema mondiale è troppo di-verso da quello degli anni Cinquanta per immaginare un remake di Ban-dung20, quando il bipolarismo teneva uniti i paesi del Centro capitalista (gli Stati Uniti, l’Europa occidentale, il Giappone) e d’altra parte il conflitto politico ed economico per la libera-zione e lo sviluppo vedeva uniti i pa-esi d’Asia e d’Africa contro il campo imperialista. Oggi. una politica afro-asiatica è destinata a essere meno ideologica e meno esclusiva. Il senso di fratellanza che aleggiava a Ban-dung nel 1955 o ad Algeri nel 1973 appartiene a un altro tempo. Anche l’ultimo fattore comune, il sottosvi-luppo, non è in realtà più lo stesso per tutti i paesi del Sud. Se il Sud conserva ancora interessi comuni, la dimensione Sud-Sud presenta essa stessa discrasie e disparità. Si con-ferma che superare l’asimmetria è il

20 Nel 2005 c’è stata in verità una celebrazione dei cinquant’anni di Bandung, ma alla riunione convocata a Djakarta non parteciparono sol rappresentanze di associazioni, partiti e mo-vimenti e non delegazioni ufficiali dei paesi afro-asiatici.

presupposto minimo per una coope-razione che promuova uno sviluppo reale. La combinazione fra aumento dei prezzi di alcune materie prime e la contemporanea riduzione dei prez-zi dei manufatti penalizza molti paesi in via di sviluppo dell’America latina e tanto più dell’Africa.

La situazione dell’Africa a sud del Sahara (e delle altre regioni più sfavorite dell’Asia meridionale e dell’America centro-meridionale) è peggiorata nonostante gli aiuti elar-giti. E questo è un solido argomento in mano a chi auspica una diminuzio-ne o addirittura l’abolizione dell’Aps (aiuto pubblico allo sviluppo, Oda nell’acronimo inglese) o quanto meno l’ impiego di quelle stesse risorse in altre direzioni (per esempio in cam-po commerciale). La corruzione è l’argomento che ricorre più spesso nelle requisitorie contro l’aiuto. Per amore di liberismo, ma non solo, si arriva a criminalizzare l’aiuto quasi che esso rappresenti un “contro-sviluppo” da esorcizzare, si sarebbe tentati di dire senza pietà, perché il vero incentivo dello sviluppo va cer-cato nel mercato e quindi in un am-bito non inquinato dal flusso di aiuti o anche solo dalla prospettiva che alla fine saranno i soccorsi dall’esterno a risolvere emergenze, sottosviluppo e povertà. La lobby anti-aiuti ha tro-vato appigli anche in opere che pro-vengono dal Sud. Sensazione hanno destato, fra i tanti i libri che voltano e rivoltano la questione dell’aiuto, i saggi di due donne africane: Wanga-ri Maathai, cittadina del Kenya, insi-gnita nel 2004 del Premio Nobel per la Pace in riconoscimento delle sue

battaglie per i diritti umani e a dife-sa dell’ambiente21, e Dambisa Moyo, originaria della Zambia e laureata a Harvard, che ha lavorato alla Banca mondiale e in altri istituti finanziari in America22. Sia l’una che l’altra fanno a pezzi la politica dell’aiuto all’Africa così come è stata gestita finora e so-stengono che provochi più danni che vantaggi. La scelta del mercato non esclude peraltro che lo sviluppo pos-sa dare frutti sociali come istruzione e sanità gratuite23. Altri testi si limi-tano a proporre una drastica riconsi-derazione delle modalità dell’aiuto, tanto più necessaria da quando non sono più solo gli Stati occidentali a fornirlo, con l’intento anzitutto di re-stituire più potere e più responsabili-tà ai paesi beneficiari24.

Lo Stato africano indipendente è un insieme complesso. In esso con-vivono dinamiche, codici e modi di

21 Wangari Maathai, The Challenge for Africa, Pantheon Books, New York 2009. Il libro criti-ca la dipendenza dagli aiuti, ma non esclude la necessità di flussi finanziari a titolo benevolo dall’esterno, purché non mettano in pericolo, con una crescita non governata, l’ambiente e le tradizioni della società africana.22 Dambisa Moyo, Dead Aid, Penguin Books, London 2009. Il libro è nettamente contrario all’assistenza esterna, ritenendola alle radici del sottosviluppo dell’Africa, della corruzione e dell’irresponsabilità dei governi nazionali.23 Nel suo libro (Dead Aid, cit., p. 73), Dambisa Moyo usa questa formula: strumenti di libero mercato al servizio di valori socialisti.24 William Easterly (ed.), Reinventing Foreign Aid, The Mit Press, Cambridge 2008; Lindsay Whit-field (ed.), The Politics of Aid. African Strategies for Dealing with Donors, Oxford University Press, New York 2009.

produzione che in parte sono di de-rivazione europea e in parte rifletto-no la storicità africana. Invece della mancanza di Stati – un classico del-la letteratura colonialista – l’Africa soffre se mai di una sovrabbondan-za di istituzioni. La cultura originale evolve e cambia per effetto delle contaminazioni dello sviluppo e della modernizzazione, ma riaffiora di con-tinuo in pratiche che seguono la con-suetudine o nei revivalismi etnici. La sovranità di tipo convenzionale vale soprattutto verso l’esterno. All’inter-no sopravvivono sfere di appartenen-za e quindi di giurisdizione che rical-cano piuttosto la tradizione. La tesi che liquidava lo Stato post-coloniale con le categorie del neo-colonialismo e della dipendenza si è rivelata sem-plicistica e in ultima analisi sbaglia-ta. Se le istituzioni centrali e formali rappresentano immancabilmente il “regno dell’importato” – ed è questa la dimensione più visibile – il compor-tamento dell’individuo nella socie-tà e specialmente nella vasta area dell’informale rappresenta di più il “regno dell’indigeno”. Non esiste del resto una dicotomia netta fra i due ordini. Gruppi dirigenti e popolazio-ne si muovono in una stessa società. I processi di democratizzazione, pur imperfetti, comportano un’ulteriore ibridazione non foss’altro perché con il decentramento le diverse funzioni si intersecano con rimandi reciproci in settori cruciali come la giustizia e la normativa sulla terra.

Professore di Storia dell’Africa, Università di Pavia e Roma La Sapienza e Senior Research Fellow, ISPI

Page 27: Numero 3/2010
Page 28: Numero 3/2010

Voliamo ogni giorno in tutti i cieli del mondoAlenia Aeronautica è un leader globale negli aerei regionali e un costruttore indipendente di livellomondiale nelle aerostrutture. La famiglia ATR domina il mercato dei turboelica. Tra breve entrerà inservizio il nuovissimo Superjet, basato su un’ampia collaborazione con Sukhoi.Il contributo al Boeing 787 e all’Airbus A380 conferma Alenia Aeronautica come vero “small prime” incampo civile. Alenia Aeronautica ha contribuito in modo significativo ai più importanti aerei di lineaBoeing e McDonnell Douglas. Una vasta gamma di aerostrutture e componenti Alenia Aeronautica èsugli Airbus, sui jet d’affari Dassault e sul futuro Bombardier C-Series. La controllata Alenia Aermacchiè un importante fornitore di gondole motore ad Airbus, Boeing, Dassault, Embraer e altri costruttori.

Quando le idee volano

www.alenia.it

Page 29: Numero 3/2010
Page 30: Numero 3/2010

30

[…]Il rapporto esamina l’economia di una im-

portante regione meridionale. Al Mezzogiorno la Banca d’Italia ha dedicato una particolare atten-zione, soprattutto in questi ultimi anni; è un’area troppo grande perché il paese possa permet-tersi di trascurarne l’importanza sotto i profili macroeconomico e della coesione sociale.

La nostra economia stenta a progredire. In assenza di un incremento della produttività, di un aumento della partecipazione al lavoro, vi sono rischi per la solidarietà intergenerazionale, che possono derivare, per esempio, dall’invec-chiamento della popolazione. Vi è la necessi-tà di aumentare il tasso di sviluppo del paese, puntando su tutte le risorse che possono esse-re mobilizzate. E nel Mezzogiorno ve ne sono in abbondanza.

Nel novembre scorso abbiamo presentato a Roma i risultati di una vasta ricerca sul Mezzo-giorno1 che si è concentrata sulle carenze di capi-tale sociale (inteso come insieme di norme e re-gole condivise che facilitano la cooperazione tra i membri di una società), sui divari di competitività nei mercati dei beni e del lavoro, sul capitale pub-blico, sul ruolo del sistema finanziario, sull’effica-cia degli aiuti alle imprese, sul ruolo della finanza pubblica e delle politiche regionali.

Una particolare attenzione è stata dedicata alla valutazione della qualità di importanti servizi pubblici: istruzione, sanità, giustizia civile, servi-zi pubblici locali. Le carenze nella disponibilità di buoni servizi influenzano infatti pesantemente la qualità della vita nelle regioni meridionali e il pro-cesso di convergenza economica.

L’Università Federico II di Napoli nello scorso aprile ha organizzato un convegno in cui sono stati discussi alcuni risultati delle nostre ricerche, assie-me ad altri lavori scientifici, che hanno contribuito a stimolare il dibattito sui problemi del Mezzogior-no. Colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a realizzare quell’iniziativa. Sono lieta che oggi la presentazione del rapporto

regionale sulla Campania sia ospitata dalla stes-sa Università.

Il lavoro che viene illustrato oggi è un segna-le dell’attenzione che la Banca d’Italia continua ad avere per il territorio, anche dopo il recente riassetto della rete territoriale, effettuato con successo, con la chiusura di alcune filiali e la ri-strutturazione di altre. Il riassetto ha reso la rete territoriale più aderente per struttura e compiti alla domanda di servizi da parte della clientela, sfruttando a pieno le possibilità offerte dalle nuo-ve tecnologie e modificando radicalmente le tradi-zionali operazioni di sportello. La ristrutturazione non ha significato “abbandonare” il territorio, né sul piano della vigilanza, né su quello della ricerca economica. Vi è un impegno della Banca verso il rafforzamento della capacità di analisi economica a livello territoriale.

La congiuntura recente

La crisi economico-finanziaria ha duramente colpito l’economia italiana in tutte le sue articola-zioni territoriali. Il PIL è caduto del 5 per cento in Italia; di poco meno nel Mezzogiorno, ma soltanto grazie alla maggior rilevanza in quest’area del set-tore dei servizi, relativamente meno esposto agli effetti della crisi2. All’interno dei singoli comparti dell’industria e dei servizi, la flessione dell’attività produttiva nel meridione è stata analoga a quella del Centro Nord.

L’elevata incertezza e un basso grado di utilizzo della capacità produttiva hanno portato le imprese italiane a ridurre gli investimenti, scesi del 15 per cento nel 2009; il calo è stato più contenuto nei servizi, soprattutto nel Mezzogiorno.

Al netto dei prodotti petroliferi, le esportazioni meridionali, già modeste in quantità nel confronto nazionale, si sono ridotte nel 2009 del 25 per cen-to (5 punti più che nel Centro Nord), con una peg-

IL RAPPORTO DELLA BANCA D’ITALIA L’ECONOMIADELLA CAMPANIA

Anna Maria Tarantola

Page 31: Numero 3/2010

31giore performance nei settori tradizionali (tessile, abbigliamento, cuoio, calzature e mobilio) e senza evidenti spostamenti verso i più dinamici mercati di sbocco extra-europei.

Nel mercato del lavoro si è manifestata la mag-giore fragilità del Sud. La generalizzata contrazione delle ore di lavoro nel 2009, dovuta alla crisi, si è tradotta in una caduta del 3 per cento dell’occu-pazione nel Mezzogiorno. Il calo nel Centro Nord è stato inferiore (-1,1 per cento), anche per il più ele-vato ricorso alla Cassa integrazione guadagni.

Soprattutto nel Mezzogiorno, la riduzione si è concentrata tra le figure marginali e più deboli sul mercato del lavoro: i lavoratori con un contratto temporaneo, quelli con un basso livello di istru-zione, i giovani.

Gli occupati in possesso della licenza media in-feriore, maggiormente diffusi nel Mezzogiorno, si sono ridotti in misura più consistente in quest’area (del 5,4 per cento, contro il 4 per cento nel Centro Nord). Le differenze territoriali sono ancor più mar-cate per i diplomati, rimasti stabili a Nord, cresciuti al Centro e ridottisi nel Sud.

Anche i giovani tra 15 e 34 anni con un contrat-to di lavoro dipendente sono stati fortemente colpi-ti dal calo dell’occupazione; il loro numero è sceso addirittura del 9,3 per cento nel Mezzogiorno, oltre 4 punti in più che nel resto del Paese.

Nel Mezzogiorno è inoltre particolarmente ampia la sacca di lavoratori scoraggiati, sostan-zialmente assente nel Centro Nord; essa è costi-tuita da coloro che rinunciano ad effettuare azioni di ricerca attiva di un posto di lavoro, uscendo dal calcolo dei disoccupati. Nel 2009 gli scoraggiati nel Mezzogiorno hanno superato il 5 per cento dell’intera forza lavoro, più che raddoppiando ri-spetto all’anno precedente.

Nel 2009 i prestiti bancari alle famiglie hanno continuato a crescere, seppure a ritmi moderati. I prestiti alle imprese hanno invece fortemente ral-lentato, riducendosi nella seconda parte dell’anno nel Centro Nord e rimanendo stagnanti nel Mezzo-giorno. In entrambe le aree vi hanno contribuito sia la ridotta domanda di fondi da parte delle imprese sia la maggiore cautela delle banche nell’erogazio-ne del credito. Negli ultimi mesi si osservano se-gnali di recupero dei finanziamenti nelle diverse aree del Paese.

Le difficoltà di accesso al credito per le impre-se sono state diffuse; nelle indagini condotte dalla Banca d’Italia la quota di imprese che ha dichiarato di non ottenere il credito desiderato è aumentata in tutte le aree geografiche nel 2009. Combinando quelle informazioni con l’archivio della Centrale dei bilanci, emerge che le aziende che hanno indica-

to un peggioramento delle condizioni di accesso al credito presentano, come prima dell’insorgere della crisi, una situazione economico-finanziaria meno solida; la loro domanda di credito risulta più elevata.

I divari nella rischiosità delle imprese tra Mez-zogiorno e Centro Nord sono rimasti sostanzial-mente inalterati; pesa la debolezza strutturale del sistema produttivo e delle istituzioni meridionali. Il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti è aumentato di circa un punto percentuale in en-trambe le aree, raggiungendo il 2,4 per cento al Centro Nord e il 3,2 nel Mezzogiorno.

Le nostre indagini sulle banche3 confermano che l’irrigidimento dell’offerta si sarebbe progres-sivamente attenuato nel corso del 2009 in tutte le ripartizioni territoriali; il miglioramento delle condi-zioni di offerta è segnalato anche per il primo se-mestre di quest’anno, soprattutto nel Nord Ovest e nel Mezzogiorno.

Dall’estate dello scorso anno si erano fatti più evidenti i segnali di un miglioramento dell’attività produttiva. Per il 2010 le imprese prevedevano una lieve espansione del fatturato e degli investimen-ti, in modo relativamente omogeneo per settore e area geografica.

Ma l’esplodere della crisi greca ha cambiato il quadro di riferimento. Le prospettive appaiono ora più incerte.

In diversi casi le ristrutturazioni operate dalle imprese durante la crisi hanno portato a un ridi-mensionamento del potenziale produttivo. Esistono peraltro casi di successo aziendale, che indicano anche nel Mezzogiorno una vitalità del sistema produttivo. Ma il ritorno su un più elevato sentie-ro di crescita non può basarsi solo sulla capacità e sull’impegno dei singoli, sul successo di casi iso-lati. Se non si rimuovono gli ostacoli allo sviluppo delle imprese vi è il rischio che il Paese tutto, ma in particolare il Mezzogiorno, non riesca a tenere il passo degli altri paesi industriali.

La difficoltàdi fare impresa

Nel Mezzogiorno più che altrove incide sul potenziale di crescita la difficoltà di fare impre-sa. L’Amministrazione pubblica non agevola l’at-tività imprenditoriale. Una specifica rilevazione della Banca d’Italia4 mostra che nel Mezzogiorno gli oneri amministrativi e burocratici necessari all’avviamento e allo svolgimento dell’attività di impresa, misurati in termini di tempi e costi, sono

generalmente più elevati. Alcune recenti modifi-che normative hanno avuto primi effetti positivi. Riguardo all’avvio d’impresa, la cosiddetta Comu-nicazione unica, introdotta nel 2007, ha consen-tito di interagire con un solo ufficio, in luogo dei quattro previsti in precedenza. Questo ha deter-minato un contenimento dei tempi per l’apertura di un’impresa in tutte le aree del Paese, con mi-glioramenti più accentuati nel Mezzogiorno, che ha così ridotto il divario con le altre regioni; i co-sti sono invece rimasti invariati dopo la riforma e più elevati nel Sud.

Tempi e costi per il trasferimento di una pro-prietà immobiliare sono superiori nel Mezzogiorno, dove sono necessari tempi più lunghi rispetto al Centro Nord anche per chiudere un’impresa.

I tempi della giustizia rimangono ancora lun-ghi, nonostante le iniziative intraprese. La lentezza dei processi implica elevati costi sociali, penalizza le parti economicamente più deboli, alimenta at-teggiamenti diffusi di sfiducia e di accettazione di situazioni di illegalità. Sono necessari interventi volti a rendere il sistema giuridico più efficiente, per favorire il buon funzionamento del sistema eco-nomico, per sostenere la competitività.

La soluzione giudiziale delle controversie com-merciali richiede tempi molto elevati in tutte le aree del Paese. Per ottenere un giudizio di cogni-zione ordinaria di primo grado si impiegano poco più di 3 anni al Sud, poco più di 2 nel Centro Nord. Le spese legali sostenute nel Mezzogiorno – circa un terzo del valore della controversia – sono no-tevolmente superiori rispetto a quelle registrate nelle altre aree.

La durata delle procedure fallimentari è me-diamente superiore nel Mezzogiorno. Il concordato preventivo, riformato negli ultimi anni, è divenuto più celere, presentando tempi medi di circa 6 mesi; questa procedura viene però meno utilizzata nelle regioni meridionali.

Gli aiuti alle imprese hanno avuto una modesta efficacia nel sostenere lo sviluppo del Sud. Come mostrano le nostre ricerche, gli incentivi a favo-re dell’attività di investimento hanno prevalente-mente generato un anticipo, da parte delle impre-se sussidiate, di investimenti che in larga misura si sarebbero comunque realizzati in seguito, anche in assenza del sostegno pubblico.

La qualità dei servizi pubblici nel Mezzogiorno è ampiamente inadeguata; i divari con le regioni del Centro Nord hanno assunto dimensioni rilevanti. La sanità è l’esempio più evidente di un settore in cui la modesta qualità dei servizi resi, testimoniata anche dalle migrazioni sanitarie, non dipende da una carenza di spesa. I risultati di nostre recenti

Page 32: Numero 3/2010

3232ricerche suggeriscono che è possibile conseguire risparmi senza ridurre qualità e quantità dei servizi sanitari offerti ai cittadini. Iniziative come quella recentemente avviata dal Ministero della salute, con la pubblicazione di indicatori di qualità ed ef-ficienza5, sono utili per diffondere le migliori pra-tiche, disporre di dati confrontabili, conseguire un più attento controllo sull’appropriatezza dei trat-tamenti di tipo ospedaliero, individuare gli ambiti di intervento per migliorare qualità ed efficienza. In diversi servizi pubblici locali – trasporti, servizi idrici, rifiuti urbani, distribuzione del gas e servizi per l’infanzia – le riforme degli ultimi quindici anni hanno prodotto miglioramenti soprattutto al Nord e in misura più contenuta al Centro. Permangono deficit di performance nel Mezzogiorno, riconduci-bili a una minore capacità di azione delle Ammini-strazioni pubbliche locali, alle più forti opposizioni della collettività ai processi di ristrutturazione del settore e a peggiori dotazioni di infrastrutture.

Effetti positivi sulla concorrenza e sullo svi-luppo potrebbero derivare da una maggiore tra-sparenza nei processi di fornitura di beni e servizi alla Pubblica Amministrazione e dalla riduzione delle connessioni tra amministrazioni e imprese. Secondo nostri studi6, per effetto dell’elezione di propri dipendenti nelle amministrazioni locali, le im-prese, in particolare quelle che operano nei settori che dipendono in prevalenza dalla domanda della Pubblica amministrazione, beneficiano di incremen-ti di fatturato e di profitti che non dipendono dalle caratteristiche del prodotto o dell’impresa. Que-ste connessioni, che si rilevano per la generalità delle imprese, assumono una maggiore rilevanza nel Sud, ove è più elevata l’incidenza della spesa pubblica sul prodotto; ostacolano il successo del-le imprese migliori che non dispongono di canali privilegiati di contatto.

Le difficoltà di fare impresa sono aggravate dalla diffusa presenza della criminalità organizzata che altera le condizioni di concorrenza, accresce i costi per le imprese e i cittadini, ostacola l’accu-mulazione di capitale.

Un adeguato livello di sicurezza e il rispetto della legalità sono prerequisiti indispensabili per il corretto funzionamento del sistema economico e della vita civile.

La presenza della criminalità organizzata ha ca-ratterizzato la storia di Sicilia, Campania e Calabria sin dal periodo preunitario; negli ultimi decenni si è estesa alle regioni limitrofe, soprattutto Puglia e Basilicata, nonché in alcune aree del Centro Nord. Il radicamento territoriale conferisce alle associa-zioni criminali la stabilità necessaria per gestire cri-mini potenzialmente complessi quali il racket delle

estorsioni e il traffico di stupefacenti; facilita altre-sì le relazioni corruttive che coinvolgono i soggetti privati e le amministrazioni pubbliche.

I costi per la collettività sono elevati. Alcune stime suggeriscono che l’espansione delle orga-nizzazioni criminali in Puglia e Basilicata dalla fine degli anni settanta ad oggi abbia comportato un significativo aumento dei reati più gravi. Nostre stime indicano che l’infiltrazione della criminalità è in grado di frenare significativamente la cresci-ta del prodotto.

Come indicato dal Governatore nelle Conside-razioni Finali di quest’anno, “nelle tre regioni del Mezzogiorno in cui si concentra il 75 per cento del crimine organizzato, il valore aggiunto pro capite del settore privato è pari al 45 per cento di quello del Centro Nord”.

Dal contrasto alla criminalità possono derivare benefici rilevanti per la crescita non solo del Mez-zogiorno, ma di tutto il Paese.

Le situazioni di crisi determinano difficoltà eco-nomiche e finanziarie per le famiglie e le imprese, aumentano i rischi di penetrazione criminale nel tessuto produttivo, possono favorire l’espansione dell’erogazione illegale del credito. Tali dinamiche incidono maggiormente sulle famiglie a più basso reddito e sulle imprese di minore dimensione.

La Banca, d’Italia ha ripetutamente richiamato la peculiare responsabilità degli intermediari nei momenti di difficoltà, sia in termini di sostegno all’economia, sia in termini di presidio contro fe-nomeni illeciti; nell’esercizio delle proprie funzio-ni è impegnata a promuovere legalità, integrità e correttezza nel sistema finanziario e nelle relazio-ni tra intermediari e clienti. Questo impegno tro-va una specifica ragione nelle finalità dell’azione di vigilanza.

Intensa è la collaborazione fornita alle Procu-re7, sia sotto il profilo della segnalazione di fatti di possibile rilievo penale riscontrati nell’azione di vigilanza sia per l’ausilio assicurato alle indagini in termini di documentazione prodotta e di con-sulenza prestata.

È divenuta più incisiva l’azione di prevenzione e contrasto alla criminalità economica, specie con riguardo all’usura e al riciclaggio. L’Unità di infor-mazione finanziaria (UIF), autorità indipendente e autonoma costituita nel 2008 presso la Banca d’Italia, ha intensificato l’analisi delle operazioni sospette e la collaborazione con le altre istituzio-ni nazionali e internazionali.

Il numero di segnalazioni anomale è cresciuto in modo significativo: dalle 12.500 del 2007 sino alle oltre 21.000 del 2009, con la previsione di supe-rare le 30.000 quest’anno. Rispetto al peso econo-

Page 33: Numero 3/2010

33mico e demografico delle aree geografiche del Pa-ese, è piuttosto contenuta la quota di segnalazioni provenienti da alcune regioni meridionali ad alto tasso di criminalità8. Questo fenomeno sembra di-pendere dai condizionamenti ambientali; viene con-siderato nel definire le priorità ispettive. Quasi il 60 per cento delle segnalazioni di operazioni sospette trasmesse dalla UIF nel 2008 sono state ritenute meritevoli di un seguito investigativo9, contro il 20 per cento medio degli altri Paesi europei.

La Banca d’Italia partecipa inoltre all’Osser-vatorio permanente sui fenomeni dell’estorsione e dell’usura; apposite riunioni sono state organizzate, in via prioritaria, nelle province meridionali a più alto rischio (Caserta, Palermo, Napoli).

Conclusioni Affinché lo sviluppo del Mezzogiorno possa

costituire una leva per la crescita dell’intera eco-nomia nazionale, è necessario agire su più fronti. Il recupero dei divari richiede innanzitutto un innalza-mento della qualità dei servizi pubblici: istruzione, giustizia, sanità, sicurezza sono aspetti essenziali per la competitività dell’economia e per la qualità della vita dei cittadini.

Occorre proseguire nell’azione di modernizza-zione delle Amministrazioni pubbliche, ampliare le informazioni disponibili sulle loro performan-ce, potenziare l’utilizzo di strumenti di valutazione dell’operato dei singoli comparti. La trasparenza consente un più consapevole vaglio da parte dei cittadini, può favorire il raggiungimento di stan-dard minimi di qualità nei servizi pubblici essen-ziali. Un significativo passo nella giusta direzione è stato avviato con il percorso di riforma delle am-ministrazioni pubbliche, che poggia sui pilastri del contrasto all’assenteismo, del rafforzamento dei controlli interni, dell’introduzione di meccanismi, anche giudiziali, di controllo esterno. Va integrato con un’azione di riordino delle strutture ammini-strative e delle loro prassi di funzionamento. Il si-stema sanzionatorio nei confronti della corruzione nella Pubblica Amministrazione andrebbe reso più incisivo per conseguire una efficace prevenzione e repressione.

Semplificare gli adempimenti normativi e ri-durre gli oneri burocratici sono passi necessari per rendere più agevole lo svolgimento delle at-tività imprenditoriali. Assieme all’abrogazione di norme ritenute obsolete e non più applicabili, è auspicabile il riordino e la razionalizzazione della normativa primaria e secondaria rimasta in vigore. Il processo iniziato con la riduzione di alcuni oneri

amministrativi a carico delle imprese nelle aree di competenza statale (lavoro, previdenza, beni cul-turali) andrebbe proseguito anche con un maggior contributo degli Enti locali e un migliore coordina-mento tra livelli di governo.

Dalla sicurezza e dal controllo del territorio possono discendere benefici grandi per il Mezzo-giorno. La Banca d’Italia e l’UIF forniscono, per i profili di loro competenza, il loro contributo all’azio-ne di contrasto alla criminalità.

L’impegno delle istituzioni va sostenuto anche dalla società civile. Negli ultimi anni le associazioni imprenditoriali sono state più attive sul territorio nel contrastare, anche culturalmente, le influenze della corruzione e della malavita sulla libera atti-vità d’impresa.

Affinché il Paese, e in particolare il Mezzo-giorno, possa cogliere i benefici della ripresa, e spostarsi su un più elevato sentiero di sviluppo, è importante realizzare, con il contributo di tutti, le condizioni di contesto entro le quali le imprese migliori possano trarre vantaggio dai benefici del-la concorrenza e le risorse più qualificate possano valorizzare le proprie capacità.

1 I lavori sono raccolti nei volumi “Mezzogiorno e politiche regionali”, Banca d’Italia, Seminari e convegni, n. 2 del novembre 2009; “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia”, Semina-ri e convegni, n. 4 del 2010 (di prossima pubblicazione) e L. Canna-ri, M. Magnani e G. Pellegrini (2010), “Critica della ragione meri-dionale. Il Sud e le politiche pubbliche”, Laterza, Bari.

2 Si veda “L’Economia delle regioni italiane”, Banca d’Italia, di prossima pubblicazione.

3 Tra marzo e aprile 2010 le sedi regionali della Banca d’Ita-lia hanno condotto una rilevazione su un campione di circa 400 intermediari bancari, estendendo soprattutto per l’articolazione settoriale e territoriale la Bank Lending Survey dell’Eurosistema; cfr. “La domanda e l’offerta di credito a livello territoriale”, Banca d’Italia, Economie regionali, di prossima pubblicazione.

4 L’indagine riprende la metodologia della Banca Mondia-le; cfr. M. Bianco e F. Bripi “Le difficoltà di fare impresa”, in “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia”, Banca d’Ita-lia, op. cit.

5 Ministero della salute (2010) “Il sistema di valutazione del-la performance dei sistemi sanitari regionali. Anno 2008”.

6 F. Cingano e P. Pinotti (2009) “Politicians at work. The private return and social costs of political connections”, Banca d’Italia, Temi di discussione, n.709.

7 Nel 2009 la Banca d’Italia ha inoltrato 70 denunce all’Au-torità giudiziaria e ha corrisposto a 159 richieste di informazioni e documentazione pervenute dalle Procure.

8 Dal Mezzogiorno proviene circa il 21 per cento delle segna-lazioni di intermediari finanziari e solo 18 delle 139 segnalazioni di professionisti ed operatori non finanziari.

9 Si veda l’ultima Relazione al Parlamento del Ministro dell’Economia.

Vice Direttore Generale della Banca d’ItaliaPresentazione del rapporto

“L’economia della Campania”Napoli. 7 Giugno 2010

Page 34: Numero 3/2010

34

el Decreto Leg-ge recante mi-sure di stabiliz-zazione finanziaria e di competitività

economica, all’articolo 43, si prevede l’istituzione delle “zone a burocrazia zero”. Nello specifico, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Economia e di con-certo con il ministero dell’Interno, si potranno cir-coscrivere specifiche aree in ritardo di sviluppo che necessitano – anche in deroga alle normative vi-genti – di misure straordinarie di semplificazione dei procedimenti amministrativi al fine di velociz-zare gli iter autorizzativi e il conseguente avvio del-le attività imprenditoriali.

I provvedimenti amministrativi, in tali zone, sa-ranno adottati da un Commissario di Governo che, solo quando necessario, potrà convocare apposite conferenze di servizio.

Se entro 30 giorni dal recepimento dell’istanza di parte avanzata dall’impresa, atto che da avvio al procedimento, non dovessero tuttavia comunque arrivare risposte dalla pubblica amministrazione, il provvedimento si intende adottato nei confronti del richiedente.

Restano ovviamente escluse dalla misura in oggetto le aree sottoposte a vincolo ambientale e paesaggistico.

E se la zona in questione coincide con una Zona Franca Urbana, sarà il Sindaco a gestire le risorse previste in favore di nuove iniziative imprendito-riali qui insediatesi, e a coordinare l’incrocio delle misure agevolative: alleggerimento burocratico più incentivi alle nuove aziende.

Tali aree godranno anche di un altro vantag-gio: le Prefetture dovranno predisporre specifici piani di messa in sicurezza del territorio, agendo così sulle condizioni di contesto – spesso dram-matiche – che rappresentano un reale disincentivo agli investimenti.

A queste misure va aggiunta la cancellazione generalizzata nel Mezzogiorno dell’odiosa IRAP, per le nuove attività produttive, nonché l’innovati-vo strumento del Contratto di Rete di Impresa, in-trodotto già nel 2009, che prevede decontr buzione fiscale e facilitazione nell’accesso al credito per le

piccole e medie imprese che decidano di mettere a fattor comune strategie di crescita e

investimenti oppure specifici asset dell’organizza-zione del lavoro e della produzione.

Oramai la competizione economica ed il con-fronto tra mercati non avviene più a livello di sin-gole aziende, bensì a livello di sistemi territoriali e contesti ambientali. E, nel Mezzogiorno, le prime due grandi diseconomie sono rappresentate proprio dall’inefficienza degli uffici pubblici e dalla crimi-nalità organizzata.

Come ha giustamente sottolineato la Presiden-te Marcegaglia nell’ultima Assemblea di Confindu-stria, occorre dire basta alla “manomorta ammini-strativa”: basta con le pratiche avanzate da privati che restano dormienti per interi mesi sulle scrivanie di funzionari senza alcuna responsabilità di fronte alla legge, basta con la sciatteria e il lassismo del-le strutture pubbliche, basta con la incivile pratica degli uffici di non presentarsi – magari a rotazio-ne – a conferenze dei servizi pletoriche e multili-vello provocando così il rinvio, sine die, dell’assun-zione delle scelte.

Un imprenditore che decida di investire nel Mezzogiorno deve anzitutto trovare un istituto ban-cario disposto a sostenere il suo progetto, cosa as-sai difficile per la cronica carenza nel Sud di attori finanziari solidi e di relativi centri decisionali. Poi deve intraprendere un iter amministrativo e auto-rizzativo dai tempi assolutamente ignoti, vagando tra gli uffici per interi mesi. Quindi deve tutelarsi da un intermediazione politica opprimente ed im-propria che spesso tende ad intervenire addirittura anche sulla selezione della mano d’opera da reclu-tare. Infine deve subire – quasi sempre – il ricatto della criminalità organizzata.

Questo non è fare impresa, questo significa ri-chiedere ad un imprenditore una vocazione al sa-crificio e al martirio.

Per invertire questa tendenza, l’articolo 43 della Finanziaria rappresenta un primo benaugu-rante passo.

Non credo che sia indispensabile mettere mano alla Costituzione per agevolare la libertà di impresa. La proposta a tal riguardo avanzata dal Governo sa

un po’ troppo di norma spot o di progetto bandiera. Bastano le leggi ordinarie, e soprattutto basterebbe dotare la pubblica amministrazione di un vero piano industriale e di un istituto terzo di valutazione delle performance, dotato di poteri sanzionatori rispetto ai dirigenti degli uffici inadempienti.

Si parla tanto, forse troppo, di Mezzogiorno ma raramente ci si mette poi di fronte a singoli problemi specifici alla ricerca di specifiche e circostanziate soluzioni di governo.

E questo approccio parolaio alla Questione,

Il Sud e la manovra finanziaria

Le z o n e a b u r ocr a z i a z e r oIvano Russo

Page 35: Numero 3/2010

35ha fatto forse più danni al Sud di decenni di poli-tiche sbagliate.

Il Mezzogiorno soffre da sempre, anzitutto, di un drammatico gap organizzativo che con le risorse finanziarie c’entra ben poco: ci sono i trasferimenti nazionali, le finanze locali provenienti dalla fisca-lità territoriale, ci sono i fondi europei Obiettivo Convergenza, i Programmi a Sportello Bruxelles, le risorse legate alle politiche europee di Vicinato ed Euro mediterranee. E poi, di fronte ad un chiaro disegno di sviluppo, non mancherebbero risorse private per investimenti produttivi.

Ciò che manca, invece, è un contesto ambien-tale amico di chi voglia fare impresa, a partire dal-la salvaguardia dei grandi beni e servizi comuni o di pubblica utilità: infrastrutture, ambiente, sanità, giustizia, qualità della scuola e della formazione, si-curezza. Lo Stato e la politica in tutte le rispettive

articolazioni, con-centrino le risorse pubbliche su que-sti grandi obiettivi, anche se forse non portano voti perché non direttamente e immediatamente riconducibili a spe-cifiche clientele o gruppi di pressio-ne, ed escano dal mercato.

In Italia abbia-mo oltre 1.470 so-cietà partecipare da istituzioni o enti locali, di cui oltre 450 diret tamen-te controllate. Si tratta di un effet-to droga rispetto al mercato di beni e servizi che pesa in-credibilmente sulle tasche dei cittadini offrendo tra l’altro, in cambio, servi-zi scadenti a tarif-fe alte.

Un vero e pro-prio paradosso a cui, c’è da augurarsi, il federalismo fisca-le dovrebbe porre argine: spendi ciò

che hai, e per i servizi essenziali ma fino ad una certa soglia può intervenire il livello centrale at-traverso il fondo di perequazione. Tuttavia se un Comune decide di tenere in piedi società pubbliche decotte affidate a manager ex politici disoccupati e impreparati, e per far ciò deve tagliare servizi so-ciali o asili nido o trasporti pubblici, lo faccia pure. Saranno poi i cittadini a giudicare.

L’importante è fissare il principio che “a piè di lista” non interverrà più “il centro” a sostenere e foraggiare sistemi locali di governance pubblica inefficienti e dediti a drenare consenso più che ad offrire servizi e buon governo.

Del resto, l’Italia ha un vincolo comunitario nel Patto di Stabilità, e questo può reggersi rispetto a Bruxelles solo se anche all’interno del Paese viga un analogo Patto tra centro e centri di spesa locali.

In questa direzione va il Decreto voluto da Tre-monti, che resta certamente migliorabile per quanto attiene il meccanismo di deroga nei confronti de-gli enti locali virtuosi e con i bilanci in attivo, che potrebbero permettersi investimenti – oggi buro-craticamente bloccati – in conto capitale per infra-strutture e servizi aggiuntivi.

La sfida è complessa: riqualificare la spesa pubblica, valutare in un quadro di insieme i POR delle Regioni ex Obiettivo 1, in base a ciò riprogram-mare i fondi FAS complementari alla spesa dei fondi europei, allargare le maglie del credito per favorire le iniziative imprenditoriali, sburocratizzare le pro-cedure amministrative e offrire maggior sicurezza di contesto a cittadini e operatori economici.

Sarebbe utile che gli osservatori attenti del-le questioni politiche meridionali si occupassero di questo, avanzando proposte concrete – anche alternative a quelle del Governo – e sviluppando temi correlati allo sviluppo e alla crescita econo-mica, magari sostenuti da una rinnovata classe dirigente diffusa.

Page 36: Numero 3/2010

Corsi master per neolaureati, per facilitarne un inserimento qualificato nel mondo del lavoroMDGI - Master in Direzione e Gestione di Impresa MILD - Master in International and Local DevelopmentHRM - Master in Human Resource Management CUMA - Master in Cultural Management MAM - Master in Auditing & Managerial accounting

Corsi master executive per Imprese (EMBA) e Pubbliche Amministrazioni (EMPM) per accompagnare lo sviluppo di carriera delle alte professionalità, dei dirigenti, dei knowledge worker

STOA’ School of Management del Sud,con una vocazione internazionale

STOA’ è tra le prime Business School italiane, con oltre 2000 giovani diplomati master con un tasso di occupazione del 90% in posizioni di prestigio e 8000 dirigenti, imprenditori, dipendenti pubblici e privati che hanno rafforzato le proprie competenze manageriali.

STOA’ - Istituto di Studi per la Direzione e Gestione di ImpresaVilla Campolieto - Corso Resina, 283 - 80056 Ercolano (NA)tel. +39 081 7882111 - fax +39 081 [email protected] - www.stoa.it

Formazione e assistenza agli Enti Locali, alla Pubblica Amministrazione, alle aziende di Servizi Pubblici Locali nei loro processi di innovazione e ammodernamento, sostenendoli nel ruolo di operatori di sviluppo economico e sociale del territorio

Formazione e consulenza alle Imprese nell’implementazione di progetti di sviluppo e innovazione di processo/prodotto

Diffusione e divulgazione di cultura manageriale attraverso ricerche, eventi, seminari e occasioni di apprendimento sviluppate anche in modalità on-line

Sul modello delle più importanti School of Management, STOA’ realizza:

Page 37: Numero 3/2010
Page 38: Numero 3/2010

38

Sin dal momento della sua nasci-ta, la Fondazione Mezzogiorno Europa ha individuato nella formazione uno degli assi portanti della sua attività. Le quattro Scuole realizzate dal di-cembre 2006 al febbraio 2009 han-no costituito momenti di discussione e confronto, superando ogni volta la dimensione spazio – temporale del singolo workshop, proseguendo tal-volta attraverso incontri di approfon-dimento, talaltra nella forma di veri e propri gruppi di lavoro, con un calen-dario di incontri ed una apprezzabile produzione di paper e documenti che hanno trovato ampio spazio nella rivi-sta e nel sito della Fondazione.

La tematica di fondo sulla qua-le sono state pensate e costruite le Scuole è stata sempre quella dello sviluppo del Mezzogiorno nella pro-spettiva europea e mediterranea. Per questo motivo ha suscitato in alcuni una certa sorpresa la decisione di dedicare la Summer School 2010 ad un tema, quello della Responsabilità Sociale delle Imprese, apparente-mente lontano dalle istanze tradizio-nali e dalla mission che Mezzogiorno Europa si è data sin dai tempi della vecchia Associazione. Di più, il tema della RSI, ripreso da Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate” appariva come estraneo alla radice riformista e laica della Fondazione, sebbene questa abbia avuto sempre un atteggiamento di estrema apertu-ra e massimo confronto con la cultura politica di matrice cattolica.

Ciò nonostante, il tema ci è sem-brato degno di attenzione ed appro-fondimento.

Dal punto di vista formale la Cor-porate Social Responsibility (Respon-sabilità Sociale delle Imprese, di qui in poi RSI) nasce nel gennaio 1999, quando l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, in occasione del suo discorso a Davos presso il World Economic Forum, in-vitò i leader dell’economia mondiale a stringere un Patto Globale (Global Compact) a supporto di nove principi universali nell’ambito dei diritti uma-ni, del lavoro e della tutela dell’am-biente. Da giugno 2004, ai nove prin-cipi ne è stato aggiunto un decimo re-lativo alla lotta alla corruzione.

L’iniziativa nasceva dalla volon-tà di arginare attraverso comporta-menti responsabili alcune delle ne-faste conseguenze introdotte dalla globalizzazione soprattutto nel set-tore del lavoro. La scarsa regolamen-tazione delle imprese “globalizzate” ha infatti prodotto problemi sociali di portata planetaria, nonché una “cor-sa verso il basso” per quanto riguar-da diritti dei lavoratori, salari, orari e condizioni di lavoro. Fenomeni come il lavoro infantile e in schiavitù, piut-tosto che diminuire sono aumentati, e peggio ancora si sono annidati sub-dolamente in alcuni passaggi della fi-liera produttiva, riuscendo spesso a passare inosservati.

A seguito del Global Compact, l’OCSE si è dedicata specificamente a costruire linee guida per le imprese multinazionali, mentre la Commissio-ne Europea nel Libro Verde del 2001

ha esplicitamente introdotto la RSI come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali delle imprese nei loro rapporti con le parti interessate… nell’ambito di un ap-proccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile”.

A partire dalla fine degli anni ’90 in linea di massima si è affermata una tendenza da parte delle aziende ad as-sumere comportamenti etici riguardo soprattutto al rispetto dei diritti e alla tutela dell’ambiente. Malgrado la na-scita di una cospicua normativa, so-prattutto europea, questi comporta-menti sono stati essenzialmente as-sunti su base volontaristica. Per una serie di ragioni tutto sommato in mi-nima parte pratiche (acquisire alcune certificazioni è condizione necessaria per accedere, ad esempio, ad alcuni bandi europei) le aziende hanno co-minciato autonomamente ad adotta-re codici etici, ad attenersi ai 10 punti fissati dal Global Compact, e in diversi casi anche ad usare uno strumento pe-culiare come il bilancio sociale.

La base essenzialmente volonta-ristica dell’applicazione della RSI ren-de molto difficile affrontare compiu-tamente e soprattutto correttamente il tema. La RSI è appunto un codice generale di comportamento folto di ri-chiami all’etica; un insieme di principi specifici circa il modo di trattare cor-rettamente, oltre agli azionisti, tutti coloro che per vari motivi sono inte-ressati all’attività di impresa, perché in essa “tengono una posta in gioco” (che è il significato letterale dell’in-glese stakeholder).

Ma come mai le imprese, cate-goria che Milton Friedman vuole per definizione orientata solo ed unica-mente al profitto, scelgono autono-mamente di assumere comporta-menti etici? La risposta, che è facile desumere se si naviga qualunque sito internet facente capo ad associazio-ni di imprese che promuovono la RSI, sta nel fatto che molte aziende han-no iniziato a considerare vantaggio-so e conveniente adottare comporta-menti socialmente responsabili, per-ché monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse è possibile cogliere anche l’obiettivo di conseguire un vantaggio competi-tivo e massimizzare gli utili di lungo periodo. Una motivazione di tipo eco-nomico quindi, peraltro teorizzata an-che da alcuni studiosi, primo tra tutti Robert Edward Freeman, che valoriz-za ed afferma valori etici. L’impegno dell’impresa nel rispetto dei codici etici e degli standard di responsa-bilità sociali ed ambientali apre una prospettiva nuova in cui essa lavora con lo Stato, con gli enti locali, con i territori e le loro comunità, con la società civile organizzata e con gli stakeholder per dare allo sviluppo economico e sociale, sostenibilità nel medio e nel lungo periodo.

Questo nuovo modello di svilup-po che si viene affermando e che ap-porta modifiche strutturali al modo di produzione capitalista, potrebbe rappresentare un’opportunità per il Mezzogiorno, il cui tessuto di impre-se piccole e medie si presta ottima-mente alla pratica della RSI. Di qui

LA SUMMER SCHOOL DI MEZZOGIORNO EUROPA

Cetti Capuano

Page 39: Numero 3/2010

39l’idea di dedicare al tema una Scuo-la. Ci piaceva dare il nostro contributo ad una nuova cultura del fare impre-sa, capace di incidere sui processi di lungo periodo. Inizialmente avevamo pensato ad una Scuola molto tecnica, essenzialmente rivolta a chi già lavo-ra dentro le imprese, che fornisse ai discenti le competenze per utilizzare gli strumenti della RSI, a partire dal bilancio sociale. Strada facendo ab-biamo compreso che in un territorio come il nostro poteva essere più utile affrontare il tema sotto il profilo cul-turale e politico in senso lato, per-ché la RSI rappresenta innanzitutto un cambiamento di mentalità e di cultura del fare impresa. Sul nostro progetto abbiamo voluto far conver-gere patrocini eminenti: Parlamento Europeo, Ministero dello Sviluppo Economico, l’Alta Scuola di Impresa e Società dell’Università Cattolica di Milano (ALTIS) e Global Compact Italia oltre a tradizionali partner ter-ritoriali quali Unione degli Industriali di Napoli, Camera di Commercio, Co-mune e Provincia. Da tutte queste re-altà siamo partiti per l’individuazione

dei relatori, riempiendo un panel di personalità dall’altro profilo scienti-fico e culturale.

La Summer School 2010 della Fondazione Mezzogiorno Europa, dal titolo “Etica, Coesione, Sostenibilità: la Responsabilità Sociale delle Impre-se come nuovo modello di sviluppo” si è svolta a Napoli, nella ormai con-sueta cornice dell’Hotel San Germa-no di Agnano, da 10 al 13 giugno. Ad essa hanno preso parte 70 studenti, che abbiamo selezionato esaminan-do più di 150 curricula. Tra questi, 12 studenti hanno potuto usufruire di una borsa di studio a totale copertura delle spese di partecipazione. È que-sta una innovazione che abbiamo in-trodotto con grande entusiasmo, nel convincimento che una Fondazione come Mezzogiorno Europa abbia il dovere di mettere le competenze e i saperi di cui dispone al servizio delle nuove generazioni, e di offrire il pro-prio contributo alla formazione delle nuove classi dirigenti. Per quattro giorni abbiamo discusso con un qua-lificatissimo gruppo di giovani laureati e ricercatori in discipline economico/

giuridiche, filosofia e sociologia, con-sulenti aziendali, esponenti dell’as-sociazionismo, di etica e sviluppo, approfondendo gli aspetti dei diritti e della sicurezza del lavoro, del ruo-lo che in un contesto etico spetta al credito e alla finanza, delle pari op-portunità e occupabilità femminile, del rapporto tra legalità e sviluppo del territorio. Per sviluppare il tema della RSI ci siamo avvalsi del contri-buto di 42 relatori (docenti universi-tari, rappresentanti delle istituzioni, imprenditori, consulenti di azienda, esponenti della società civile), cui ha voluto aggiungersi S.E. il Cardinale Crescenzio Sepe, che è intervenuto con un saluto alla classe, non forma-le, ma ricco di contenuti.

Il dato di fondo che è emerso dai lavori è che sicuramente in una società di cittadini sempre più infor-mati e consapevoli è necessario che ciascun gruppo portatore di interessi agisca in maniera responsabile, non semplicemente perché è giusto, ma perché conviene a tutti operare in un generale clima di fiducia. E che la RSI, come mentalità e cultura d’impresa,

può certamente costituire la chiave di volta per liberare il Mezzogiorno dal-la morsa dell’illegalità ed accelerare così i processi di sviluppo, perché le pratiche di RSI si prestano a rigene-rare il tessuto sociale, innescando dinamiche virtuose capaci di togliere terreno alle mafie.

L’interesse e l’entusiasmo con cui gli studenti hanno partecipato ai lavo-ri ci inducono a pensare di aver fatto un buon lavoro. Proprio dalla classe è emersa l’istanza di proseguire il di-scorso sulla RSI, magari immaginan-do una serie di incontri seminariali da tenersi in autunno nella sede del-la Fondazione. Sicuramente, come è già avvenuto in occasione delle altre Scuole, continueremo ad aggiornare la sezione documentaria dedicata alla Summer School 2010 all’interno del sito www.mezzogiornoeuropa.it. Ci piacerebbe infine giungere alla produ-zione di un volume, da realizzarsi con i contributi degli studenti. In attesa della Summer School 2011.

Responsabile Winter e Summer School Mezzo-giorno Europa

Page 40: Numero 3/2010

Vuoi rinfrescartisul Web ?

Web SolutionWeb Application

E-commerce

Siti e Portali aziendali

Web marketing

Mobile Application

Web design

Web-tv

www.kiui.it

Page 41: Numero 3/2010

  

     

 

 

 

el corso degli anni, ma anche di re-cente, si è avuto modo di registrare manifestazioni di sfiducia a proposito dell’ambizioso Progetto di Partenariato

Euro-mediterraneo.Sia per tentare di conquistare agli ambiziosi obiettivi del Progetto componenti autorevoli della società, sia per creare motivazioni a possibili iniziative imprenditoriali, abbiamo pro-mosso quest’incontro. È da presumere infatti che, per gli studi e le ricerche elaborate per l’occasione dalle strutture del Gruppo Intesa-Sanpaolo e per la qualità di coloro che interverranno, vi sarà modo di chiarire molti punti su cui oggi non ancora vi è diffusa consapevolezza.

Ciò anche perché gli avvenimenti degli ultimi anni inducono a pensare che la prospettiva per il Mezzogiorno di ritagliarsi un ruolo in quel progetto, non sia solo una ipotesi o un sogno, ma una inde-rogabile necessità.

L’attenzione verso la prospettiva Mediterranea, come è stato rilevato in tante occasioni, si è sostan-zialmente imposta con il crollo del muro di Berlino. E non solo per il Mezzogiorno, ma per l’intera area centro meridionale italiana, insieme con la Spagna del Sud, il Portogallo e la Grecia, pena un destino di emarginazione e di periferia per queste aree (come dimostrò a suo tempo una ricerca dell’European In-stitute of Urban Affairs ).

Questo perché l’impegno dell’Europa verso i paesi dell’Est, induceva l’Europa stessa a non guar-dare più a Sud. Anche per questo nacque nel 95 il Processo di Barcellona e con esso il Partenariato Euro-mediterraneo, oggi Unione per il Mediterra-neo, come si è ricordato.

Non credere e non lottare affinché questo ambizioso ma pur sempre realistico progetto sia perseguito, significava fino a qualche anno fa, dar vita alla profezia di quello scrittore marocchino, Mohammed Guessous, secondo il quale con l’ulti-ma pietra rinvenuta dalla demolizione del muro di Berlino se ne sarebbe costruito un altro attraver-so il Mediterraneo.Ma come si sono poi messe le cose, si potrebbe verificare che quel muro nel Me-diterraneo di qui a poco potrebbe riguardare solo il Mezzogiorno d’Italia. Oggi infatti con l’ingresso sui mercati dei grandi paesi come India e Cina, il Mediterraneo si è rivalutato e con esso i nostri mari. Non a caso si parla del raddoppio di Suez. La globalizzazione dell’economia e la stessa crisi finan-ziaria ed economica hanno poi rafforzato queste tendenze. Non cogliere questa opportunità, po-trebbe significare isolare Napoli ed il Mezzogior-

no da questo nuovo corso, nel quale devono invece arrivare a vantare un ruolo economico-finanziario ed, al tempo stesso, culturale e di proposta di as-soluta eccellenza. Il pericolo è altrimenti quello di riprendere la strada delle occasioni perdute, costi-tuite dall’intervento straordinario prima, elevando a sistema poi; seguito dall’incapacità di “intendere il significato rivoluzionario del decentramento am-ministrativo”, come insegnava Dorso, negli anni in cui furono istituite le Regioni.

Il Mezzogiorno non può competere con le Re-gioni del Nord nel saldarsi al “nuovo cuore” dell’Eu-ropa. L’Italia è lunga diceva De Gasperi. Ed anche se con le moderne tecnologie, fisiche ed elettroniche, lo stivale si accorcia, nella competizione con il Nord ne uscirebbe comunque battuto. È per questo che il Mezzogiorno ha bisogno di un suo ruolo e la pro-spettiva mediterranea può offrirglielo.

Naturalmente dipende da noi, da come sapre-mo modernizzare e garantire un efficace governo del territorio per stimolare ed attrarre investimenti, da come sapremo decidere ed essere più coerenti con le decisioni assunte; da come sapremo conferi-re efficienza ai processi burocratici ed amministra-tivi; infine da come sapremo valorizzare l’immenso patrimonio di beni culturali ed ambientali, che uno studioso della Bocconi riferendosi all’intero Medi-terraneo ha definito “ il petrolio verde”.

Certamente le difficoltà ci sono, ed è con esse che bisogna fare i conti. Ma ci sono anche le pre-messe per poter affrontare quella sfida. E che que-sta non sia solo un’affermazione di circostanza, lo dimostrano gli studi: quello promosso e pubblica-to con l’Associazione Guida ”Mediterraneo 2010” e quello elaborato dal Servizio Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo in occasione del convegno di oggi “I paesi del Sud del Mediterraneo: Crescita e Op-portunità di Business nel contesto delle relazioni con l’Unione Europea”.

L’importante è che il Mezzogiorno nel Me-diterraneo resti saldamente, insieme all’intero paese, “aggrappato all’Europa”, come ci ricordò l’Avv. Agnelli citando Ugo La Malfa, in un impor-tante convegno al Lingotto di Torino, proprio su questo argomento. Eravamo nell’86.

In ragione degli studi effettuati, che saran-no distribuiti nel corso del Convegno, tenuto con-to di quanto emergerà dal Convegno stesso, ci si propone di proseguire con iniziative di contenuto

operativo, dirette ad agevolare la missione degli imprenditori e delle stesse istituzioni.

Il Gruppo Intesa-Sanpaolo, di cui il Banco di Napoli fa parte, dispone infatti di un insieme di strutture e di professionisti che intende mettere a disposizione delle famiglie e del mondo imprendi-toriale italiano meridionale.

L’incontro di oggi si propone anche di promuo-vere la conoscenza di tali strutture.

Oltre il Servizio Studi e Ricerche che ha elabo-rato lo suo studio che presentiamo, vi sono la Ban-ca dei Territori, la Divisione Corporate, la Banca per le Infrastrutture, Innovazione e Sviluppo, il Servizio di Internazionalizzazione Country Desk di Padova, come ben si evince il gruppo è in grado di accom-pagnare le imprese a spingersi verso la sponda Sud del Mediterraneo e non solo.A conferma dell’inte-resse e della particolare attenzione che Intesa-San-paolo ha nei confronti delle imprese meridionali, le stesse possono fare affidamento sulla particolare competenza del nostro Direttore Generale Giusep-pe Castagna, la cui esperienza come Responsabile Corporate e della rete estera del gruppo sarà parti-colarmente utile per il nostro territorio.

Intesa-Sanpaolo è una realtà che assiste le imprese e le famiglie anche attraverso le banche estere, quella in particolare bagnata dal mar Me-diterraneo è la Bank of Alexandria di cui oggi ab-biamo l’onore di ospitare il Presidente Latif, proprio al fine di testimoniare la sinergia che il gruppo ri-esce a sviluppare nei suoi progetti in Italia e nel Mediterraneo.

Vi sono poi tutte le Banche dell’Est Europa come in particolare la Intesa Sanpaolo Bank of Al-bania e tutti gli uffici di rappresentanza ad Istan-bul, Tunisi, Casablanca. Cui si aggiunge la struttura del gruppo a Bruxelles, Intesa Sanpaolo Eurodesk. Sono certo che l’attuale incontro possa stimolare le sinergie necessarie per non perdere questa op-portunità; per vincere questa sfida che si chiama: Mediterraneo.

Nel concludere, in coerenza con il tema ogget-to di quest’incontro “Il Mezzogiorno nel Mediter-raneo, con e per l’Europa” non posso fare a meno di citare ancora una volta, non mi stancherò mai di farlo, il pensiero di due grandi studiosi Mateijevic e Braudel, riassunte in due frasi:

“Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa”. E poi “Essere stati è una condizione per essere”.

Introduzione al Convegno indetto dal Banco di Napoli sul tema: “Il Mezzogiorno nel Mediterraneo con l’Europa e per l’Europa”.

IL MEZZOGIORNO NEL MEDITERRANEOC O N L ’ E U R O P A E P E R L ’ E U R O P A

41

Enzo Giustino

Page 42: Numero 3/2010
Page 43: Numero 3/2010
Page 44: Numero 3/2010

4444

risultati delle recenti elezioni europee del 6 e 7 giugno 2009 sono ancora sub judice e po-

tranno subire anche variazioni note-voli. A nostro avviso la legislazione statale in materia penalizza il Mez-zogiorno in modo del tutto arbitrario, tanto da essere illegittima. Speria-mo che la Corte Costituzionale vor-rà sanzionarla, eliminando una ul-teriore discriminazione ai danni del Mezzogiorno.

Con l’ordinanza del TAR Lazio n. 6378 del 2009 è stato impugna-to dinanzi alla Corte costituzionale l’art. 21, comma 1, n. 3, della l. n. 18 del 1979 per il rinnovo del Parlamen-to Europeo. In particolare, nel ricorso è stato prospettato un contrasto tra l’art. 2, commi 2 e 3, della l. n. 18 del 1979 e l’art. 21, comma 1, n. 3, della

medesima leg-ge. Inizialmente i seggi tra le cir-coscrizioni per il Parlamento Eu-ropeo sono stati ripartiti, sulla base del censimento della popolazione residente. Sennonché, l’art. 21, com-ma 1, n. 3 della medesima legge pre-vede un articolato sistema di calcolo che utilizza, nell’assegnazione con-creta dei seggi alle liste nelle singo-le circoscrizioni, il criterio dei votanti invece di quello degli aventi diritto al voto e, quindi, l’assegnazione finale dei seggi viene fatta senza rispettare il numero dei seggi preventivamente attribuito alle singole circoscrizioni in relazione alla popolazione resi-dente. Il risultato applicativo del cri-terio di calcolo previsto dall’art. 21, comma 1, n. 3, è stato un trasferi-

mento di seggi e rappresentanti da una circoscri-zione ad un’al-tra, favorendo le

circoscrizioni del Nord e del Centro a danno del Mezzogiorno (cfr. tab. 1).

La questione di legittimità solle-vata dal TAR Lazio appare fondata. Il contrasto tra l’art. 2 e l’art. 21, com-ma 1, n. 3, dà luogo ad un conflitto tra norme in cui una disciplina di dettaglio si pone in contrasto con quella di prin-cipio: il legislatore ha adottato una scelta palesemente irrazionale. Le re-gole della logica costituiscono, infatti, un limite alla potestà legislativa non superabile: pertanto la Corte costi-tuzionale dovrebbe pronunciarsi per l’annullamento dell’art. 21, comma 1, n. 3, determinando una nuova distri-buzione dei seggi.

L’irragionevolezza della disciplina dettata dall’art. 21 risulta ancor più chiara, ove mai ve ne fosse bisogno, prendendo in considerazione i risulta-ti che effettivamente ne scaturiscono in sede applicativa, cristallizzati nello scarto tra i seggi assegnati alle circo-scrizioni sulla base degli abitanti resi-denti e i seggi realmente attribuiti a ciascuna di esse nelle recenti elezioni del 2009. La rappresentanza del Me-ridione ha subito una riduzione di qua-si il 17% passando da 18 a 15 seggi e quella delle Isole addirittura del 25% passando da 8 a 6 seggi (cfr. tab. 1). Nelle elezioni del 2004, per le quali all’Italia spettavano 78 seggi contro i 72 attuali, le circoscrizioni Meridio-ne ed Isole risultarono analogamente penalizzate, rispettivamente per il 10 ed il 20%, ma differente fu la distri-buzione del vantaggio rappresenta-tivo tra le altre circoscrizioni. Infatti, diversamente dal 2009, l’incremento dei seggi allora riguardò solo le circo-scrizioni del Nord Ovest e del Centro (cfr. tab. 2).

In termini generali ed astratti, collegando l’effettiva attribuzio-ne dei seggi alla percentuale dei votanti, secondo quanto previsto dall’art. 21, si ottengono risultati fortemente connotati da una sorta di casualità perché essi non sono espressione solo della percentuale di voto riscontrabile in ciascuna cir-coscrizione, ma anche dei rapporti che si instaurano tra le diverse cir-coscrizioni. Infatti, la partecipazione al voto in ciascuna di esse non viene considerata a se stante, ma è posta in concorrenza con quella delle altre circoscrizioni e, dunque, il numero dei seggi alla fine effettivamente attribuiti ad una circoscrizione non dipende solo dalla partecipazione al

La sottrazione di seggi europeial Mezzogiorno

Marco Betzue Pietro Ciarlo

TAB. 1 – ELEZIONI EUROPEE 2009

2009 Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole

Votanti (%) 71,09 71,04 67,93 61,96 44,70

Seggi in base ai residenti 19 13 14 18 8

Seggi in base ai votanti 21 15 15 15 6

Variazione % dei seggi + 10,5% + 15,3% + 7, 1% - 16,6% - 25%

TAB. 2 – ELEZIONI EUROPEE 2004

2004 Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole

Votanti (%) 75,05 77,04 75,18 70,05 63,99

Seggi in base ai residenti 20 15 15 19 9

Seggi in base ai votanti 23 15 16 17 7

Variazione % dei seggi + 15% = + 6,6% - 10,5% - 22,2%

TAB. 3 ELEZIONI EUROPEE 1999

1999 Nord Ovest Nord Est Centro Sud Isole

Votanti (%) 74,75 76,11 71,42 66,64 61,66

Seggi in base ai residenti 23 16 17 21 10

Seggi in base ai votanti 26 16 18 21 6

Variazione % dei seggi + 13% = + 5,8% = - 40%

Page 45: Numero 3/2010

45

voto in essa riscontrabile, ma anche dall’affluenza elettorale che si è avu-ta nelle altre. Tutti questi complessi calcoli sono, poi, condizionati anche dalla consistenza demografica delle circoscrizioni medesime in quanto nelle diverse circoscrizioni un punto percentuale di affluenza non ha lo stesso peso in valore assoluto trat-tandosi di circoscrizioni fortemente sperequate dal punto di vista de-mografico, infatti si va dai quasi 15 milioni di abitanti del Nord ovest ai circa 6,6 delle Isole.

Gli effetti paradossali di tale metodo di calcolo risaltano con an-cor più evidenza se si comparano le effettive assegnazioni delle elezioni del 2009 con quelle di dieci anni pri-ma. A seguito di questa sorta di con-fronto delle affluenze, nel 1999 gli in-crementi delle circoscrizioni del Nord e del Centro avvennero tutti a spese della rappresentanza delle Isole che dal passaggio dai residenti ai votanti perse ben il 40% scendendo da 10 a 6 seggi (cfr. tab. 3).

Nel 2009 alle Isole è stato attribu-ito lo stesso numero di seggi del 1999, nonostante l’Italia oggi goda di soli 72 seggi europei contro gli 87 di allora e nonostante la partecipazione al voto nelle isole abbia subito un vero e pro-prio tracollo passando dal 61,66 del 1999 al 44,70% attuale. Nella sostan-za i seggi effettivamente assegnati a questa circoscrizione nelle diverse tor-nate elettorali è avvenuta a prescinde-re sia dal numero complessivo dei seg-gi assegnati all’ Italia, sia dal tasso di partecipazione al voto nelle Isole, per

essere stati massimamente influen-zati dal flusso dei votanti riscontrato nelle altre circoscrizioni.

La formula elettorale, cioè il me-todo di calcolo per la trasformazione dei voti in seggi, prevista dall’art. 21, non solo si mostra in contrasto con principi consolidati di organizzazione della rappresentanza politica, con norme europee e costituzionali, con i principi dichiarati dalla stessa l. n. 18 del 1979 ma, alla prova dell’ap-plicazione, risulta anche intrinseca-mente irrazionale ed arbitraria, por-tando a risultati del tutto illogici e ir-ragionevoli. L’articolata ordinanza di rimessione del TAR Lazio appare, per-ciò, del tutto condivisibile e le norme in oggetto censurabili. Naturalmente chi ha una legittimazione da far va-lere nel processo ha tutto il diritto di resistere. Invece, meno chiara è la motivazione di chi interviene nel pro-cesso stesso a difendere la normativa per motivi politici che si pretendono di carattere generale. Il riferimento è ovviamente a quei partiti che hanno deciso di farlo.

La normativa impugnata, di cui sarebbe interessante ricostruire la genesi parlamentare, di fatto deter-mina una sottorappresentazione delle popolazioni meridionali poiché stori-camente esse partecipano meno al voto. È certamente un problema lega-to alle condizioni civiche del Mezzo-giorno, ma non crediamo che il modo migliore per affrontarlo sia quello di ridurre la rappresentanza politica di questa parte del Paese, fino a ne-garla sostanzialmente ove il divario

partecipativo dovesse ulteriormente incrementarsi. Sinora gli effetti puni-tivi per il Mezzogiorno sono stati oc-cultati dal tecnicismo della materia, ma questa volta il giudizio di legittimi-tà costituzionale, oltre a ripristinare

il diritto, potrà anche evidenziare la portata sostanziale di una normativa che, in questa fase politica di scarsa attenzione meridionalista, vede ac-centuarsi la sua portata, in fatto, di-scriminatoria.

45

Page 46: Numero 3/2010
Page 47: Numero 3/2010

47

Euronotedi Andrea Pierucci

L’Europa riacquista fiducia: Era tEmpo, ora dobbiamo spErarE chE duri

È certo che il principale avvenimento eu-ropeo di questi mesi riguarda l’azione del-le Istituzioni per rispondere alla sfida del mercato contro le finanze degli Stati dell’Unione europea e dell’Euro in particolare. A questo proposito dob-biamo ricordare le conclusioni del Consiglio europeo del 17 giugno, i lavori della task force creata da Van Rompuy, l’attuale Presidente in carica del Consiglio europeo, la risoluzione del Parlamento eu-ropeo della sessione di giugno, il dibattito presso il Comitato econo-mico e sociale europeo con la parte-cipazione di Van Rompuy e, non certo ultima, l’azione costante della Commissione per sbloccare le diverse proposte che trovavano ostacoli nell’uno o nell’altro governo. Prima di dare un giudizio anche sommario della provvisoria conclusione di que-sta vicenda, tocca analizzarne qualche aspetto.

L’Europa confErma La sua fiducia nELL’Euro

In primo luogo è confermato che gli Stati europei che partecipano all’Euro, Germania in testa, confermano la loro fiducia nella moneta uni-ca. Dopo i recenti attacchi e le immediate brillanti reazioni politiche e intellettuali, che già certificavano la morte dell’Euro, e nonostante una ferma azione di difesa della moneta con la dichiarazione che una cifra stravagante – 720 miliardi di Euro – era disponibile per contrastare la speculazione, era proprio necessario. In particolare, era necessaria una forte presa di posizione politica che contrastasse i giochi speculativi, fondati sulle valutazioni delle famigeratissime agenzie di rating (le stes-se, giova sempre ricordarlo, che davano voti altissimi alle banche anche poco prima della crisi finanziaria del 2008/2009). L’attacco sembra ve-nire dal mercato, ma non è difficile immaginare un disegno politico che certamente stava dietro a quest’attacco. Fin dall’inizio, infatti, la sfiducia del mercato nell’Euro e nei paesi in difficoltà era scarsamente giustifica-ta se si pensa alla massa economica composta dagli Stati membri. Non si poteva dubitare, nonostante i capricci elettorali della signora Merkel, che l’Europa avrebbe sostenuto gli Stati in difficoltà; tutti sapevano che accettare la defaillance di uno Stato sarebbe equivalso ad una crisi cata-strofica dell’Euro e, dunque ad una catastrofe per tutti. D’altra parte, se è vero che la Grecia aveva difficoltà effettive a far fronte ai propri impegni, si è dimostrato che Italia e Spagna non avevano affatto questo proble-ma. Per l’Italia, le stesse agenzie di rating avevano dovuto fare marcia

indietro sull’indicazione del nostro paese come futuro debitore insolvente. Per la Spagna, la verifica del FMI portava lo stesso Presidente Strauss-Kahn a certi-ficare a Zapatero che, effettivamente, il suo paese non correva rischi di que-sto genere. Dei rischi per il Portogallo non si sente quasi più parlare.

misurE concrEtE: L’appLicazionE è Lasciata

aL “buon cuorE” dEgLi statiIn secondo luogo, il Consiglio europeo ha pre-

visto delle misure per far fronte alla crisi, concernenti la sorveglianza del mercato, la tassazione delle banche,

una linea comune per il G20 in materia di regolazione dei mercati finanziari internazionali, controlli sui bilanci pubblici de-

gli Stati e incitamento a questi ultimi a risanare il deficit con misure restrittive. Ahi! Ma ormai anche i capi di Stato e di governo hanno ben compreso che la semplice ricetta “economia all’osso” non basta; anzi Galbraith ha spiegato a tutti che questo modello è solo recessivo e non risolve che a breve scadenza i problemi di deficit, per creare le condizio-ni per un rapido ritorno in forza di questi ultimi. Ecco, allora, che il Con-siglio europeo invita a ridurre i bilanci pubblici senza provocare effetti recessivi! Mah! Inoltre, e questo mi sembra più interessante, il Consiglio europeo ha approvato la strategia 2020 proposta e sostenuta con forza da Barroso compresi i suoi cinque obiettivi di cui alcuni, per esempio la lotta alla povertà e l’accento sull’educazione, hanno un forte carattere politico-sociale. Per memoria si ricorderà che la strategia 2020, basata sull’innovazione e sull’azione in materia ambientale, è il proseguimento della strategia di Lisbona che, per dieci anni, ha caratterizzato la politica economica in Europa con luci e tante ombre. Ma, almeno, ha costituito una prospettiva di sviluppo della società abbastanza seria.

Tutto bene, allora? No, perchè l’azione europea presenta due om-bre. La prima è che il Consiglio europeo ha preso degli orientamenti che speriamo siano poi interinati dal Parlamento che, salvo una grave ragione, lo farà e dal Consiglio che, invece, riunirà tutti i cavilli diplo-matici per annacquare le decisioni, limitare, ridurre, lasciare margini di manovra agli Stati. Questo è tanto più probabile, in quanto gli stessi Capi di Stato e di Governo hanno annacquato fortemente la minestra, lasciando margini agli Stati che consentono loro di non fare quello che tutti insieme hanno deciso, tant’è vero che Berlusconi non ha neanche finito di prendere il caffè con gli altri e subito annuncia che l’Italia non sostiene più la tassa sulle transazioni finanziarie internazionali, sostenuta all’unanimità dagli Stati membri come proposta al G20. È un po’ quel-lo che ha reso poco efficace la strategia di Lisbona. Quando si leggono le conclusioni dei dieci Consigli europei che se ne sono direttamente occupati, si ha l’immagine di un’Europa pronta a risolvere i propri pro-blemi; poi, gli stessi che hanno rivestito le penne del pavone, si svelano

Page 48: Numero 3/2010

4848come galline o paperette disposte a razzolare ciascuna nel proprio orto e a fare quel che loro pare utile, specie in vista del prossimo sondaggio, col beneplacito di tutti.

L’unionE c. L’intErgovErnativo;vincE iL sEcondo?

La stessa scelta di Van Rompuy di costituire la task force del Consi-glio europeo per preparare delle proposte è animata da buona volontà, ma rafforza l’ambito dell’azione intergovernativa contro la tradizionale azione delle istituzioni sempre più efficace rapida e attenta all’interesse comune. Lo stesso Parlamento europeo chiedeva ai governi di evitare la deriva intergovernativa, consapevole del rischio che le decisioni in-tergovernative rischiano di essere un flatus vocis o perlomeno poco effi-caci – la storia dell’Europa ne è una prova costante. Si è scelta la strada intergovernativa nella forma e nella sostanza, senza avere il coraggio di prendere impegni veri e formali. Non è un buon segno.

Viceversa, mi sembra che la scelta di agire a 27 – dunque tutti e non solo i paesi dell’Euro, come invece proposto da Sarkozy contro il pa-rere dei tedeschi – sia quanto mai opportuna. La solidarietà è assoluta-mente necessaria; se n’è accorto anche il premier britannico Cameron, ostilissimo all’entrata del Regno Unito nell’Euro, ha riconosciuto che il successo di quest’ultimo è una necessità anche per il medesimo Regno Unito. D’altra parte, mi viene la solita domanda: è certo che i “buoni” (gli Stati che hanno l’Euro, in questo caso),da soli, avrebbero fatto me-glio, viste le varie posizioni assunte? Cameron non ha per perso l’occa-sione di attaccare la prospettiva europea dichiarando che non cederà un solo potere di “Westminster a Bruxelles”.

iL probLEma dELLa Lotta contro La povErtà E L’EscLusionE sociaLE: una dEcisionE dEi govErni Ed un’iniziativa dEL cEsE

Resta da commentare brevemente la decisione del Consiglio euro-peo circa la lotta contro la povertà. Finalmente il Consiglio europeo ha accolto la proposta della Commissione di prendere impegni cifrati circa la riduzione della povertà. 20 milioni di poveri in meno entro il 2020. Gli impegni europei sono molto chiari, ma, ahimè, gli impegni per pae-se sono assai meno precisi; preoccupa il fatto che le misure da adottare sono di stretta competenza nazionale. E dire che anche questo risultato non molto soddisfacente lo si è ottenuto solo grazie ad un’azione molto decisa della Commissione europea e del Presidente Barroso! Tuttavia non tutto è perduto, perché gli Stati stanno negoziando con la Commis-sione degli obiettivi nazionali.

Un risultato debole, in particolare se si pensa che quest’anno è dedi-cato alla lotta contro la povertà. Un’azione importante è stata sviluppata a questo proposito dal Comitato economico e sciale europeo. Ogni due anni il Comitato organizza una manifestazione importante su un tema di società. Quest’anno il Presidente Sepi ha voluto dedicare la manife-

stazione all’educazione per combattere l’esclusione sociale. L’iniziativa ha avuto luogo a Firenze dal 20 al 22 maggio all’Istituto degli Innocenti ed ha visto una partecipazione molto importante di Ministri (eccetto gli Italiani, mah!), di parlamentari europei, fra i quali Gianni Pittella, la belga Isabelle Durant e Luigi Berlinguer, di personalità come Mario Monti o Martin Hirsch e di autorità locali; Barroso ha concluso l’iniziativa. So-prattutto vi è stata la partecipazione di qualche centinaio di organizza-zioni (che si occupano di questo problema) provenienti dall’Italia e da parecchi paesi dell’Unione, che hanno discusso in tre atelier dei diversi aspetti del problema, sia sotto un profilo più generale che attraverso la presentazione d’idee e d’iniziative. Un tratto comune (senza distinzio-ne di paesi) è stata la critica alla riduzione delle spese per l’educazione come strumento importante per contenere i deficit nazionali. L’assurdi-tà del doppio discorso dei governi (l’educazione è fondamentale per il futuro delle nostre società, è la via maestra per combattere l’esclusio-ne, ma bisogna ridurre i crediti a questo settore). In sostanza, i nostri governanti sono incapaci di trovare una via per assicurare il rispetto del-le priorità considerate essenziali per evitare la decadenza dell’Europa. Paradossalmente, la Ministra greca Anna Diamatopoulou ha espresso nel modo migliore questa difficoltà, citando la sua personale lacerante contraddizione fra la necessità del risanamento delle finanze pubbliche e finanziamento dell’educazione e delle politiche sociali. Si ha un po’ la sensazione (ma mi pare di averlo già sottinteso) che la politica europea sia governata più dalle agenzie di rating che dai propri governi! Pochi giorni dopo, in una forma più seminariale, il Comitato delle Regioni ri-prendeva il tema dell’esclusione sociale.

una prEsidEntE pEr iL comitato dELLE rEgioni, finaLmEntE!

L’Italia ha seriamente rischiato di perdere la presidenza del Comi-tato delle regioni. Come abbiamo visto nel numero precedente del-la rivista, la signora Bresso, governatore del Piemonte, era stata eletta Presidente del Comitato delle regioni. Poche settimane dopo, perde-va le elezioni in Piemonte e con ciò la sua carica di governatore. Ne conseguiva che, non avendo più il titolo per il quale era stata nomina-ta membro del Comitato, decadeva da membro e, conseguentemente, non poteva più essere Presidente del Comitato. Come abbiamo visto, l’immediato precedente riguardava il suo predecessore, anch’egli pri-vato della carica per la quale era stato nominato al Comitato. Il Belgio ha inventato qualsiasi cosa per non mettere in causa una “propria” pre-sidenza, anche se Van den Brandt è un personaggio scomodo nel pa-norama belga. L’Italia è diversa! Ci sono volute settimane per risolvere il problema, tanto che a metà giugno il Comitato ha dovuto rieleggere la signora Bresso Presidente del Comitato, allorché erano cominciate le manovre per “scipparle” la presidenza. È andata bene, per fortuna. Tralascio i commenti “irriguardosi” che ho dovuto ascoltare sui meriti del mio paese! Ma tant’è. Non ci resta che augurare a Mercedes Bres-so una presidenza di successo.

Page 49: Numero 3/2010

Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218

Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878

Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMEZIA TERME

Domus Luce Corso Italia, 74 COSENZA

Godel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331

Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1‑2 ROMA – Tf. 066797460

Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – BRUxELLES

Libreria La Conchiglia Via Le Botteghe 12 80073 CAPRI

Libreria Cues Via Ponte Don Melillo Atrio Facoltà Ingegneria FISCIANO (Sa)

C/o Polo delle Scienze e delle Tecnologie – Loc. Montesantangelo NAPOLI

H3g – Angelo Schinaia C/o Olivetti Ricerca SS 271 Contrada La Marchesa BITRITTO (Ba)

Libreria Colonnese Via S. Pietro a Majella, 32‑33 – 80138 Napoli – Tel. +39081459858

Le Associazioni, le biblioteche, gli Istituti:Ist. Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652

Associazione N:EA Via M. Schipa, 105‑115 NAPOLI – Tf. 081660606

Fondazione Mezzogiorno Europa Via R. De Cesare 31 NAPOLI – Tf. +390812471196

Archivio Di Stato Di Napoli Via Grande Archivio, 5 NAPOLI

Archivio Di Stato Di Salerno P.zza Abate Conforti, 7 SALERNO

Biblioteca Universitaria Via G. Palladino, 39 NAPOLI

Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Piazza Cavalleggeri 1 – Firenze

Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III” P.zza del Plebiscito Palazzo Reale – NAPOLI

Mezzogiorno Europa

Periodico della Fondazione

Mezzogiorno Europa – onlus

N. 3 – Anno X – Maggio/giugno 2010

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

Via R. De Cesare 31 – Napolitel. +39 081.2471196 fax +39 081.2471168

mail‑box: [email protected]

Direttore responsabileAndreA GeremiccA

Art directorLuciAno Pennino

Comitato di redazioneosvALdo cAmmArotA

cetti cAPuAno

LuisA Pezone

mArco PLutino

ivAno russo

eirene sbrizioLo

mAnueLA siAno

Coordinamento e segreteriaottAviA beneduce

uLiAnA GuArnAcciA

Consulenti scientificiserGio bertoLissi, WAndA d’A Les sio, mAriAno d’Antonio, vittor io de cesA r e, biAGio de GiovAnni, enzo Giustino, GiL berto A. mArseLLi, GustAvo minervini, mAssimo rosi, AdriAno rossi, FuLvio tessitore, serGio veLLAnte

Stampa: Le.g ma. (Na) – Tel. +39 081.7411201

La rivista la puoi trovare presso

Come abbonarsiSi può ricevere Mezzogiorno Europa in abbonamento annuale (6 numeri) al costo di 100,00 euro inviando i propri dati

– insieme al recapito e alla copia della ricevuta del versamento –attraverso il modulo online disponibile su www.mezzogiornoeuropa.it o via fax al numero +390812471168..

La quota può essere versata:La quota può essere versata a mezzo bonifico bancario a Fondazione Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa onlus

presso Banca Prossima via Manzoni ang. Via Verdi, 20121 Milano filiale 5000 c/c 10008974 IBAN: IT03S0335901600100000008974 BIC: BCITITMX.

Specificare la causale: “Abbonamento annuale Rivista Mezzogiorno Europa”.L’ABBONAMENTO DECORRE DAL NUMERO SUCCESSIVO ALLA DATA DI PAGAMENTO

Page 50: Numero 3/2010
Page 51: Numero 3/2010

Lavoriamo per ampliare i tuoi orizzonti.Camere di commercio d’Italia per l’internazionalizzazione delle imprese.Aiutare le imprese italiane a portare i loro prodotti sui mercati mondiali, questo è l’impegno delle Cameredi commercio. Uno sforzo sostenuto da molteplici iniziative: dall’organizzazione di missioni commercialiall’accesso a iniziative e programmi comunitari, dalla realizzazione di accordi internazionali all’assistenzaper l’attrazione di investimenti, fino al portale www.globus.camcom.it. Azioni realizzate anche grazie alSistema camerale italiano all’estero. Tante opportunità per un Made in Italy senza confini.

www.unioncamere.itwww.cameradicommercio.it

Page 52: Numero 3/2010

Messaggio pubblicitario con finalità promozionale. Per le condizioni contrattuali consultare i Fogli Informativi a disposizione in Filiale. La concessione del finanziamento è soggetta alla valutazione della Banca.

www.ambiente.intesasanpaolo.com

c’è un patrimonio che ci sta particolarmente a cuore.Il nostro pianeta è la cosa più importante che

abbiamo. E va protetto. Noi di Intesa Sanpaolo

vogliamo dare il nostro contributo, anche

offrendo soluzioni dedicate alle famiglie

e alle imprese che scelgono l’energia pulita.

Perché la natura è il migliore investimento.

Banca del gruppo