Menthalia Magazine - Marzo 2012

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® numero 0 - Anno I / marzo 2012 © Maurizio Visconti Editoriale #HappyBirthdayTwitter Vis à vis con Paolo Dal Bon Il disperato bisogno di comunicare World Mobile Congress 2012 Brand identity: nuovi scenari Curiosità L’ alta velocità della chiocciol@ in questo numero

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Periodico d'informazione sulla comunicazione e dintorni. In questo numero: Editoriale - #HappyBirthdayTwitter - L’ alta velocità della chiocciol@ - Vis à vis con Paolo Dal Bon - Il disperato bisogno di comunicare - World Mobile Congress 2012 - Brand identity: nuovi scenari - Curiosità

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numero 0 - Anno I / marzo 2012

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#HappyBirthdayTwitter

Vis à vis con Paolo Dal Bon

Il disperato bisogno di comunicare

World Mobile Congress 2012

Brand identity: nuovi scenari

Curiosità

L’ alta velocità della chiocciol@

in questo numero

pagina 2 numero 0 marzo 2012

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Testata in corso di registrazione presso il Tribunale di Napoli.

Direttore Responsabile: Fabrizio PonsiglioneDirettore Editoriale: Stefania Buonavolontà

Art Director: Marco IazzettaGrafica & Impaginazione: Menthalia Design

Hanno collaborato in questo numero:Valeria Aiello, Leandro Chianetta, Paolo Dal Bon

Martina Dragotti, Stefania Stefanelli

Menthalia srl direzione/amministrazione 80125 Napoli – 49, Piazzale V. Tecchio

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Sedi di rappresentanza: 20097 S. Donato M.se (MI) – 22, Via A. Moro

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Il Comunicatore...Un triste addio ha segnato questi giorni, quello di Lucio Dalla, che ha salutato il mondo della musica e dell’arte in generale. E quella Piazza Grande bolognese, che si è gremita per salu-tare un amico, è diventata l’emblema della fusione perfetta tra persona e personaggio, che in Dalla davvero non riusciamo a scindere. Una parola lo accompagnava ricorrentemente, quella di comunicatore. Ma cosa significa, in fin dei conti, essere un comunicatore?! In generale i vademecum per diventare “buo-ni comunicatori” sentenziano che “bisogna esprimere chia-ramente le proprie riflessioni e idee; sviluppare relazioni; rispettare gli atteggiamenti e le opinioni altrui; essere tolle-rante verso culture e costumi differenti; prestare la massima attenzione alle persone che ci stanno parlando; incoraggiare altre persone a parlare e porre domande appropriate; presen-tare le proprie idee in modo che gli altri siano aperti al nostro punto di vista; trattare le persone lealmente e fare sapere agli altri come vorremmo essere trattati”. Ma sembra quasi che essere un buon comunicatore talvolta coincida con l’essere una persona educata.Invece no. Un grande comunicatore, lo è senza sforzarsi di esserlo. Ha un carisma e una genialità che straripano dall’es-sere e che trasformano la normalità in una straordinaria e particolare unicità. Non ci sono regole da seguire... ma solo nuovi paradigmi da creare. E Lucio lo era. Senza bisogno di aspettare le luci del palcosce-nico per vestire i panni del personaggio. Lo era sempre, tra la gente e in solitudine, che stringesse una penna o il timone della sua barca, che parlasse a un solo amico o a un’intera platea, lui sapeva sorprenderci, incantarci ed ammaliarci. Proprio perché era lui a essere incantato e incuriosito dalla vita, dalle persone... Un piccolo uomo che da sotto il cappello scrutava il particolare e musicandolo lo rendeva universale, lui che alle regole preferiva le eccezioni.

Marco IazzettaGeneral Manager

MENTHALIA

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di Stefania Stefanelli, Autrice e Sceneggiatrice televisiva

L’ alta velocità della chiocciol@

“Caro amico, ti scrivo…” canta-va quel grande artista di cui siamo orfani da qualche setti-

mana. E quella canzone altro non era che la trasposizione in musica di una lettera, come prima se ne scrivevano tante. Le scrivevano gli emigrati in America per i parenti rimasti in patria, i figli partiti mi-litari alle madri disperate, gli innamorati clandestini e anche quelli semplicemente appassionati. Ci mettevano giorni, setti-mane, a volte mesi per arrivare, ma erano sempre attese e ricevute come se a portarle fosse il vento della novità. Venivano lette, rilette, mostrate, custodite. Avevano un grande valore.Oggi se ti arriva una lettera o è una multa o una bolletta. Nessuno prende più carta e penna per esternare un messaggio, tranne qualcuno di molto anziano o di molto ro-mantico. Perché le lettere imbustate e fran-cobollate sono tramontate, superate, out. E al loro posto da ormai quarant’anni tondi tondi esistono le email, ovvero le loro so-rellastre digitali.

“ Inventata nel 1972, l’electro-nic-mail ci ha messo in verità un po’ a diventare di uso comune per

l’utenza dei non specializzati. ”

Certo, perché internet ci ha messo anni per arrivare al grande pubblico. Ma non è solo questo: anche quando Google e soci sono diventati motori di ricerca delle no-stre giornate, la cara email veniva da taluni ancora vista con sospetto, quasi non meri-tasse fiducia in quanto usurpatrice del più antico mezzo di comunicazione (se esclu-diamo i piccioni viaggiatori, certo). Quasi la sua estemporaneità, la sua semplicità, sembrassero non all’altezza di comunica-zioni importanti e meritevoli di più atten-zione e di un più lungo tempo di reazione di quello che un lieve click sul tasto enter potesse scatenare.Beh, l’abito non fa il monaco: anche se non ci mettiamo cura nello scegliere il foglio

giusto, anche se non dobbiamo più porci il problema se scriverla a mano per trasmet-tere calore o batterla a macchina per appa-rire più seri di quanto non siamo, l’email è una lettera a tutti gli effetti. Quella giusta per i nostri i tempi.Una missiva. Anche se non la iniziamo quasi mai con quel “caro amico”, perché ai nostri amici più cari diciamo le cose attraverso i social network; anche se non la scrivono i figli che fanno il servizio di leva perché il servizio di leva obbligatorio è stato sospeso; non la inviano gli immi-grati perché per comunicare con i parenti usano il più immediato e comodo telefono; non se la scambiano gli innamorati perché ormai “ti amo” se lo dicono tramite sms. È il mondo che è cambiato e per il mon-do di oggi, un mondo in cui quello che sto scrivendo adesso domani sarà già obsoleto, le email, che viaggiano nella rete e ci met-tono pochi secondi a colpire il bersaglio, sono ciò di cui abbiamo bisogno. Imme-diate, pratiche, veloci. Le leggi e le cancelli. Usa e getta. E poi, cosa che di questi tempi non guasta, sono gratis.Si calcola che ne vengano spedite global-mente circa centosettanta milioni al mi-nuto, vengono usate per comunicazioni private, professionali, commerciali, ad-dirittura gli enti pubblici quali Inps, Inail ed altri comunicano così con i loro utenti, costringendo di fatto anche i più restii ad aprirsi alle nuove comunicazioni. Che pro-prio per questo a costoro appaiono come una scelta coatta.Addirittura ne è stata creata una certifica-ta, la PEC, che con l’ausilio di una firma di-gitale ha lo stesso valore di una raccoman-data di Poste Italiane. Si paga, questa qui. Ma volete mettere zero file, zero stress, zero paura che venga smarrita o ci metta una settimana ad arrivare a causa di in-toppi, scoppi, scioperi dei tir? L’ email è l’emblema della modernità.

“ E decisamente non si stava meglio quando si stava peggio. ”

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di Valeria Aiello, Project Manager

#HappyBirthdayTwitterLa vera storia dei 140 caratteri che fanno parlare il mondo

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La leggenda narra (come al solito) che Twitter sia nato in un garage dal genio di Evan Williams e Biz Stone, due ex dipen-denti di Google, con il supporto di Jack Dorsey. Ma le rivelazioni del popolare sito statunitense Businness Insider smentisco-no la versione ufficiale: gli anni della nasci-ta sarebbero meno cristallini di quanto sia stato raccontato. La storia della società che oggi vale più di 5 miliardi di dollari è ricca di particolari, sconosciuti ai più e, soprattutto, coinvolge un altro uomo che sarebbe stato ben più deter-minante rispetto ai primi due: Noah Glass. La vicenda parte dalla realtà fallimentare della società Odeo che, data la concorrenza del neonato dispositivo di Cupertino, abban-dona il progetto di podcasting, non dichiara fallimento e trova uno spunto per reinven-tarsi. Uno spunto nato da chi? E quando?Il core della società di quegli anni era Noah Glass, che aveva iniziato a lavorare a Odeo nel 2005 nel suo appartamento. La tecnologia che stava sviluppando permet-teva di convertire in mp3 il contenuto delle telefonate. Williams subentra solo in un secondo mo-mento, dopo aver venduto a Google la so-cietà Blogger e aver messo a disposizione il proprio appartamento come quartier generale della startup. Il successivo trasferimento in un ufficio vero e proprio dà la possibilità di circondarsi di nuovi collaboratori e dipendenti, tra cui il web designer Jack Dorsey e, allo stesso Wil-liams, di investirsi del ruolo di CEO di Odeo. Nell’assetto societario Glass è cofondatore. Twitter, in quegli anni, non era nemmeno... nei pensieri di queste persone. In seguito alla perdita di valore della società, Williams de-cide di rischiare e, con l’aiuto dell’amico Biz Stone di Mountain View, le menti dei 14 di-pendenti vengono messe alla ricerca di una nuova intuizione. La presenza di Jack Dor-sey è decisiva. La sua ossessione per la città, i taxi e l’informatica lo avrebbe portato al concepimento dell’idea vincente. “Ciò che mi eccita di più è pensare a ciò che si muove in una città. Per esempio, osservare i taxi che girano davanti a questa piazza, alla fine della Quinta Strada: c’è una tale carica di energia.” Il mondo dei taxi, il modo in cui comunicano tra loro, la concisione con cui

i tassisti si scambiano le informazioni via radio: Jack aveva una gran voglia di giocare con il funzionamento della città.In quegli anni Dorsey si iscrive a LiveJournal, uno spazio web dove era possibile creare una sorta di diario aggiornabile. Quest’esperien-za favorisce la sua mente connessa portan-dolo all’ideazione di uno strumento simile, ma caratterizzato dalla semplicità, velocità e vicinanza con l’utente: la condivisione degli “status”. A intuire la forza dell’idea è il co-fondatore Glass, che fin da subito si mostra il più entusiasta del team, tanto da ideare il nome Twttr, ispirandosi, a sua volta, all’al-lora già fortunato Flickr: il neonato servizio avrebbe permesso di comunicare aggior-namenti di stato attraverso l’invio di sms al numero “40404”. Proprio da qui nascono i famosi 140 caratteri che non sono altro che i 160 di un normale sms meno 20 caratteri destinati all’inserimento di nome e cognome dell’utente. Nel 2006 Odeo presenta Twttr e il primo a cinguettare, il 21 marzo alle 21,50, sarà proprio papà Dorsey con un messaggio lanciato dall’account inviting coworkers: “Just setting up my twttr”. Nell’estate del 2006 il cambio del nome nell’attuale, meno cacofo-nico, Twitter e la nomina di amministratore delegato per il ventinovenne Dorsey.Nel settembre dello stesso anno la svolta dal punto di vista azionario: Williams comunica agli investitori di Odeo il fallimento del pro-getto originario e propone loro di acquistare tutte le loro azioni, accennando solo vaga-mente alla piattaforma di microblogging e dichiarando che difficilmente la nuova realtà avrebbe giustificato gli investimenti fatti nella società. Williams diventa così il proprietario di un qualcosa che allora valeva cinque milioni di euro e che oggi ne vale più di cinque miliardi. Ma è proprio la mossa successiva a dirla lunga sul modo di agire di Williams: dopo aver comprato Odeo, cam-bia il nome della società in Obvious Corp e, nel giro di due anni, sia Glass che Dorsey vengono fatti fuori. Quest’ultimo si rifarà ideando Square, un servizio per pagamenti con carta di cre-dito, mentre Glass, essendo uscito dalla società con delle partecipazioni azionarie, non se ne andrà a mani vuote, a differenza di un altro noto cofondatore ripudiato... ma questa è un’altra storia.

“ Ciò che mi eccita di più è pensare a ciò che si muove

in una città. ”

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titolodi Stefania Stefanelli, Autrice e Sceneggiatrice Televisiva

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pagina 6 pagina 7numero 0 marzo 2012 numero 0 marzo 2012®®

Avrebbe twittato? Non credo; perlomeno non diretta-mente. Ma dei social network avrebbe sicuramente par-lato e disquisito nel suo teatro d’evocazione.

La comunicazione è un concetto fondamentale nell’eredità lasciata da Gaber nonché nella filoso-fia che guida la Fondazione. Ci riferiamo proprio al Master Spettacolo – Impresa al quale la Fondazione Gaber collabora, il cui scopo è il rinnovamento della formazione culturale e della preparazione professio-nale dell’operatore dello spettacolo. Raccogliere e ri-seminare... sembra essere l’intento.

Esattamente. Fare in modo che le sue preziosissime lezioni non vadano perdute. Ma nemmeno celebrate in maniera sterile. L’intento è pro-prio quello di ispirare altre menti, di fornire spunti e argomenti alle nuove generazioni. Insomma pro-muovere un “sistema Gaber” che è filosofico, pragmatico ed etico insieme.

Forma e contenuto per Giorgio non aveva-no una netta distinzione. Credo che que-sto sia una peculiarità dei grandi. Certo, Gaber e Luporini proponevano contenuti anche insoliti ed innovativi ma era fon-damentale per loro il linguaggio, la forma con la quale questi contenuti venivano proposti. Gli elementi che componeva-no la comunicazione teatrale, per quanto pochi fossero, (scena, luci, amplificazione recitazione e canto) per Gaber dovevano armonizzarsi insieme in modo rigoroso ed equilibrato e dietro il risultato eccellente che era solito ottenere non vi era nulla di casuale ma anzi, c’era un gran lavoro e una grande applicazione da parte sua e dei suoi collaboratori. E parlo di teatro perché era la sua prioritaria attività. Ma il discorso è lo stesso per quanto riguarda il poco ci-nema e la poca televisione fatta dagli anni ’70 in poi. Anche l’attività discografica, un po’ più frequentata, per Gaber richiedeva una comunicazione specifica e anche qui cercava con impegno e dedizione una for-ma prossima all’eccellenza. Insomma la comunicazione, cioè il modo di proporsi ed esprimersi, per lui era importante tanto quanto la fase compositiva e creativa.

L’utilizzo che faceva dei diversi mezzi di co-municazione testimonia che Giorgio amava sperimentare, contaminare e avvalersi di strumenti differenti che meglio si adattas-sero ai contenuti che intendeva comunicare al suo pubblico. La televisione, il teatro, il cinema, la canzone... erano modi diversi per esprimere il suo mondo.

Gaber è stato definito “intellettuale collet-tivo” nel senso di interprete del sentire e del bisogno di altri, non per forza di molti. Il concetto di collettività che si allontana da quello di moltitudine, e che si definisce invece nell’incontro di libertà, ora grandi ora piccole, da difendere, da racconta-re, da non dimenticare.

Le sue erano riflessioni in musica, talvolta scomode, talvolta rivolu-zionarie e controcorrente... Sca-vava nelle viscere portando alla luce una realtà senza fronzoli e bugie, senza banalità.

La sua voglia di partecipare, di condividere e raccontare la vita ci fa pensare a come Gior-gio avrebbe accolto il mondo dei social network. Non sareb-be sicuramente stato preda del pregiudizio ma neanche schia-vo di una tendenza...

Sarebbe stato uno strumento in più di analisi e riflessione. Ne avrebbe criticato l’alienazione e appoggiato la velocità della condivisione e dello scambio di informazioni.

di Paolo Dal Bon, Presidente della Fondazione Giorgio Gaber

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di Martina Dragotti, Advertising & Communication

Il disperato bisogno di comunicare

Quanti significati differenti potreb-be assumere questa frase. I sotto-testi potrebbero essere tantissi-

mi: “Storia di un cellulare senza credito”; “L’autismo, come relazionarsi”; “L’uomo e la tecnologia: avanguardie e manie”...Si potrebbe andare avanti ancora un bel po’ per comprendere che ognuno a quella pri-ma frase attribuirebbe significati differenti.Qual è la differenza tra un segno rosso in-significante sopra un foglio bianco e un’o-pera di arte moderna?Per quale motivo un’installazione mol-to simile alla pila di vestiti sulla poltrona della mia camera da letto se si trovasse al Moma di New York sarebbe vista da mi-gliaia di persone?!

“ L’ arte è negli occhi di chi la guarda o nel pensiero

di chi la crea? ”

Davvero, poi, tutto è comunicazione?Certo, lo insegnano al primo esame di semiotica. La comunicazione è intorno a noi. Tutto comunica: il corpo, il tono della voce, il colore di un rossetto. Ma la doman-da è un’altra: se l’universo è un pieno di in-formazioni e di messaggi da raccogliere e codificare, se la comunicazione è un flusso inesorabile che riempie le nostre giorna-

te, come discernere? Come orientarsi? E soprattutto, perché?

La comunicazione non è un’arte. È un bisogno. Una necessità. Sa-

perne leggere i diversi linguag-gi, conoscerne le regole, appli-

carle, sconvolgerle, crearle, ripensarle, ma soprattut-

to interpretarle... Beh, questo significa essere

esperti della comu-nicazione. Perché? Per lo stesso motivo per il quale il semaforo che in-

dica di fermarci è di colore rosso, ovvero per il bisogno primordiale di condividere un sistema di significati. Ecco allora l’esi-genza di creare dei segni... ovvero “qual-cosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno in qualche modo”.

De Saussure, padre della linguistica mo-derna (Ferdinando, per gli studenti di comunicazione), battezza il segno come discendente diretto di significante e si-gnificato: il significato è ciò che il segno esprime; il significante è il mezzo utiliz-zato per esprimere il significato, che lui chiama immagine acustica. Tra essi esiste un rapporto quasi mistico, affascinante, come due facce dello stesso foglio. Ma pur essendo inseparabili, il rapporto tra i due è arbitrario. Ciò è dimostrato dal fatto che, per esprimere uno stesso significato, diver-se lingue usano significanti diversi: cane, dog, chien, Hund... ecco come significanti diversi ci parlano sempre del caro vecchio Fido, migliore amico dell’uomo! Ma veniamo alla domanda. L’arte è negli occhi di chi la guarda o nel pensiero di chi la crea?

“ L’ arte è nel pensiero di chi la crea, se raggiunge occhi che hanno

bisogno di vederla. ”

Il miracolo della comunicazione è tutto qui: la condivisione del senso. Due si-stemi di significato che s’incontrano per condividere emozioni, stati d’animo, ne-cessità, conoscenza. E mi viene da sorridere pensando a un giovanotto che dopo aver letto un pic-colo tascabile sulla comunicazione, una mattina si veste di bianco per far capire alla ragazza del piano di sotto di essere un ragazzo serio, di non aver nulla da nascondere e di essere inte-ressato a lei. Ma, al fatidico incontro sul pianerottolo, lei gli chiede quan-do avrebbero terminato di ridipingere il palazzo. L’errore? L’aver ignorato la Teoria della Comunicazione di Jakobson ed essersi dimenticato fatalmente del de-stinatario, del canale, del contesto, del messaggio e del codice, elementi di base della comunicazione che si affiancano al mittente.Il giovanotto avrebbe dovuto puntare su argomenti migliori, avrebbe dovuto sapere che la comunicazione è una cosa da pren-dere seriamente... e le donne pure.

“Funzione propria del genio è fornire idee ai cretini

vent’anni dopo.”

Louis Aragon

REFERENTE

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di Stefania Buonavolontà, Marketing & Communication

World Mobile Congress 2012

Sempre più piccoli e leggeri, sempre più accattivanti nella forma e nelle po-tenzialità, smartphone e tablet ormai

sono entrati nella nostra vita quotidiana, e le società produttrici sono prontissime a sfidarsi in una guerra all’ultimo bit. Ecco allora una rapida carrellata delle principa-li proposte del World Mobile Congress di Barcellona, che si è concluso il primo mar-zo. È qui che sono stati lanciati tutti i nuovi trend nel campo della telefonia mobile e che sono stati decretati i vincitori e i vinti dell’anno 2012, almeno sulla carta. Il mer-cato, poi, farà il resto.Grandissimo il successo riscosso da Sony, con tre nuovi modelli che puntano ad af-fascinare già dal nome. La linea, chiamata Xperia, si rivolge a tre mercati diversi: un entry level, uno intermedio e quello di punta.A seguire troviamo Nokia, che con l’808 PureView si aggiudica il prestigioso premio Best New Mobile Handset, Device or Ta-blet. Sono stati inoltre presentati tre nuovi telefoni di fascia bassa: ASHA 202, ASHA 203 ed ASHA 302. Così come dichiarato in conferenza dal CEO Nokia, Stephen Elop, la società ha appreso che gli utenti utiliz-zano i propri smartphone principalmente per la comunicazione attraverso i messaggi e le immagini: da qui una strategia che mira a rispondere in maniera adeguata alle esi-genze dei suoi utenti. La Samsung ha interessato il pubblico con un nuovo tablet, il Galaxy Note 10.1, un di-spositivo molto particolare che potrebbe ri-scuotere un discreto successo contro il suo nemico giurato iPad 3 della Apple, unica grande assente alla manifestazione, che come sempre è riuscita a far parlare di sé anche facendo presenziare i suoi avversari.

È il turno di HTC, il produttore taiwanese che ha presentato tre nuovi smartphone: la linea ONE propone i modelli X, V ed S oltre all’HDMI Media Link HD che assicura im-magini veramente nitide, luminosità e resa dei colori che superano gli standard dei te-lefoni attualmente disponibili sul mercato.Voti appena sufficienti per Motorola e RIM; smartphone pronti a funzionare an-che “in ammollo” per Panasonic che punta all’usabilità con uno smartphone che, oltre a poter essere immerso per 30 minuti ad un metro di profondità, funziona anche come telecomando per altri apparecchi elettro-nici presenti in casa come ad esempio TV, lettori, sistemi home cinema o fotocamere digitali.Queste le ultime novità dal mondo della telefonia mobile che allarga sempre di più i suoi confini e i suoi campi di applicabilità. Non ci resta che aspettare il prossimo anno ed intanto imparare a convivere e ad utiliz-zare queste amabili diavolerie!

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Brandidentity

di Leandro Chianetta, Graphic Designer

Brand identity: nuovi scenari

Un segno con il quale presentarsi, riassumersi ed infine riconoscersi. Ecco in tre parole le principali esi-

genze che un brand aziendale deve soddi-sfare: affascinare all’impatto, parlare di sé, creare identificazione.Il brand, “questo conosciuto”, affonda le sue radici in una storia molto lontana, che inizia laddove sorge il primordiale bisogno umano di esprimersi. Segni, simboli, firme e marchi di fabbrica tutti a soddisfare un unico e urgente bisogno: quello di comuni-care e lasciare traccia della propria identità.Ore di studio e di progettazione, rimandi ed evocazioni attraverso i quali i brand designer ci informano che se oggi un logo ha un senso, è perché esso si basa su secoli di storia di segni e simboli. Un logo, uno di quelli che si rispetti, non va semplice-mente visto, ma letto. A tal proposito mi è capitato di imbattermi in una curiosità interessante, notando il simbolo araldico sulla tastiera Apple... Questo simbolo ⌘ che rappresenta un nodo, detto Nodo di Salomone, è utilizzato di frequente anche nell’araldica inglese nonché nella cultu-ra nord europea, per indicare i cosiddetti punti di interesse.

Ma oggi che tutto è stato detto e fatto, oggi che il mondo intero è stato bollato, è davve-ro lecita l’affermazione di Simon Manchipp “Logos are dead”. Qualcuno risponde che basta trovarsi al centro della pioggia di luci di Times Square per capire che oggi il brand è più grande e più potente che mai.Forse la riflessione è un’altra. Probabil-mente è terminata l’era di concepire il brand così come lo abbiamo sempre fatto. Nel brand design era pratica usuale nella progettazione di un logo quella di adat-tarlo a diverse declinazioni: un manifesto gigante, piuttosto che una carta intestata o un biglietto da visita. Oggi i supporti si sono moltiplicati, la declinazione si apre al digitale e l’azienda ha la necessità di co-municare la sua identità virtuale per non perdere la coerenza comunicativa. Profili social, siti web, applicazioni per smartpho-ne e tablet: anche le icone che identificano l’applicazione devono essere brandizza-te correttamente. Sono dunque i confini della brand identity che si sono ampliati ed una progettazione seria non può non tenerne conto. Ogni designer consegna al cliente un “manuale di corporate identity”: un insieme di documenti che tramanda e fissa il sistema di identità visiva che regola i campi e le modalità di applicazione del marchio aziendale. Nelle diverse versioni del marchio, nei caratteri tipografici e nel-la regolamentazione delle comunicazioni vi sono delle specifiche che comunicano l’azienda al mercato.Ma oggi il palcoscenico sul quale va in scena il brand è cambiato e bisogna adeguarsi. Oggi nel manuale di corporate identity bisognerà includere una sezione dedica-ta alle declinazioni device di vario gene-re e progettare una vera e propria digital identity, per non generare confusione e improvvisazione in coloro che dovranno gestire l’immagine digitale dell’azienda.Questa è la teoria. Ma nella pratica i clien-ti dovrebbero confrontarsi con un noioso manuale di numerose pagine da riuscire a codificare e mettere in pratica... Come regolarsi allora? Adottando un approccio smart, prevedendo tutti i possibili utilizzi secondo le peculiarità e gli obiettivi del brand e, non ultima, un’alfabetizzazione del cliente in tal senso.

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Curiosità

Piattola.com il motore “itagliano”

Si dice che uno dei modi per misurare il proprio successo e la popolarità sia il fatto di avere o meno una parodia, una caricatu-ra, un’imitazione...Ed ecco arrivare Piattola.com, il sito che fa il verso a Google. E che verso. Il motore di ricerca che non sa bene dove si trova, è questo il modo in cui si definisce, si beffa degli elementi essenziali del colos-so di Mountain View, dai tasti “mi sento fortunato” e “cerca con Google”, sostituiti con frasi demenziali in modalità random, alla grafica minimale che mette in primo piano la barra di ricerca. Basta collegarsi al sito per provare l’ebbrezza di interrogare un motore di ricerca che non parte: occorre digitare una parola nel campo di ricerca per sottoporsi agli sberleffi e alle prese in giro del team di Piattola.com.Assolutamente inutile, lo dichiarano i creatori, ma sicuramente divertente. Al-meno per i primi tre minuti.

Tweet-Journalism?!

Se sono quelli del Premio Pulitzer a cambiare la definizione per la categoria “breaking news” adattandola all’era dei so-cial, allora un tweet ci potrebbe davvero cambiare la vita!I giudici del prestigioso riconoscimento giornalistico non hanno dubbi: ormai è più importante “catturare gli eventi in maniera accurata e, mentre il tempo passa, andare più a fondo, fornire un contesto, espandere la copertura iniziale”. E aggiungono: “sarebbe davvero deludente se un evento accaduto alle 8 di mattina fosse raccontato per la prima volta su un quotidiano del giorno dopo”. Al-lora eccoli pronti ad espandere la definizione e includere quel nuovo genere giornalistico nativo del web che in molti ormai chiamano “real-time coverage”, cioè l’aggregazione in tempo reale dei tanti contributi pubblicati online tramite social network o blog.Nessun riferimento al noto social net-work... ma leggere il nuovo regolamento, fa pensare proprio ad un premio al live-tweeting!

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