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C Carocci editore Manuale di psicologia dello sviluppo Nuova edizione A cura di Lavinia Barone Barone_def.indd 5 Barone_def.indd 5 17/07/19 17:05 17/07/19 17:05

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CCarocci editore

Manuale di psicologia dello sviluppoNuova edizione

A cura di Lavinia Barone

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Il volume è corredato di materiali consultabili online sul nostro sito Internet

L’editore è a disposizione per i compensi dovuti agli aventi diritto

2a edizione, settembre 20191a edizione, giugno 2009 (13 ristampe)© copyright 2019 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

Finito di stampare nel settembre 2019da Eurolit, Roma

isbn 978-88-430-9665-7

Riproduzione vietata ai sensi di legge(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,è vietato riprodurre questo volumeanche parzialmente e con qualsiasi mezzo,compresa la fotocopia,anche per uso internoo didattico.

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Indice

Introduzione 13di Lavinia Barone

1. Per capire oggi la psicologia dello sviluppo 17di Tiziana Aureli

1. Definire la psicologia dello sviluppo 172. Lo studio della prima infanzia 18 2.1. Un esempio: lo sviluppo sociocognitivo / 2.2. Natura e cultura: un’annosa que-

stione / 2.3. Nuovi contributi disciplinari

3. Lo sviluppo come processo complesso 274. Le differenze individuali 30 In questo capitolo 33 Per approfondire 34 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 34

2. I contesti elettivi dello sviluppo: la famiglia e la scuola 37di Paola Perucchini

1. Lo sviluppo dell’individuo nel contesto 37 1.1. Modelli teorici / 1.2. I processi di sviluppo e apprendimento nei contesti

2. La famiglia 49 2.1. Tipologie e caratteristiche / 2.2. I genitori / 2.3. I fratelli e altre figure educanti

3. La scuola 60 3.1. Caratteristiche e funzioni / 3.2. La classe / 3.3. La relazione insegnante-bambino /

3.4. Gli effetti di nido e scuola

In questo capitolo 74 Per approfondire 74 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 75

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Indice

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3. I metodi di ricerca 77di Rosalinda Cassibba

1. Come nasce una ricerca 772. Disegni di ricerca per studiare il cambiamento 78 2.1. Il disegno trasversale / 2.2. Il disegno longitudinale / 2.3. Il disegno retrospettivo

3. Disegni di ricerca per studiare le relazioni tra variabili 85 3.1. Il disegno sperimentale / 3.2. Il disegno sperimentale a soggetto singolo / 3.3. Il di-

segno correlazionale

4. La validità della ricerca 90 4.1. La validità interna / 4.2. La validità esterna

5. Le diverse fonti dei dati empirici 92 5.1. Le interviste / 5.2. I questionari / 5.3. I test / 5.4. L’osservazione diretta dei com-

portamenti

6. Aspetti etici relativi alla ricerca in psicologia dello sviluppo 104 In questo capitolo 105 Per approfondire 106 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 107

4. Lo sviluppo funzionale del cervello umano 109di Teresa Farroni

1. Lo sviluppo tipico 109 1.1. Lo sviluppo cerebrale / 1.2. Approcci teorici allo studio dello sviluppo cerebrale /

1.3. Sviluppo prenatale / 1.4. I cambiamenti legati all’età / 1.5. Basi neurali di specifiche

funzioni cognitive / 1.6. Basi neurali del riconoscimento dell’oggetto: l’oggetto socia-

le vs l’oggetto non sociale

2. Alterazioni dello sviluppo cerebrale 1363. Lo sviluppo atipico 137 3.1. Traiettorie atipiche dello sviluppo / 3.2. La classificazione dei disturbi dello sviluppo

In questo capitolo 141 Per approfondire 141 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 143

5. Lo sviluppo percettivo e motorio 145di Eloisa Valenza, Margaret Addabbo e Chiara Turati

1. Lo sviluppo tipico 145 1.1. Per capire lo sviluppo percettivo e motorio / 1.2. Lo sviluppo percettivo / 1.3. Lo svi-

luppo motorio / 1.4. Percezione e azione: un rapporto reciproco

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Indice

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2. Lo sviluppo atipico 173 2.1. Lo sviluppo percettivo atipico / 2.2. Lo sviluppo motorio atipico / 2.3. Il legame

percezione-azione nello sviluppo atipico

In questo capitolo 180 Per approfondire 181 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 181

6. Acquisire e utilizzare le conoscenze: lo sviluppo cognitivo 185di Luca Surian e Francesco Margoni

1. Lo sviluppo tipico 185 1.1. Per capir e lo sviluppo cognitivo / 1.2. Prima inf anzia / 1.3. Età prescolare / 1.4. Età

scolare / 1.5. Pubertà e adolescenza / 1.6. Terza età

2. Lo sviluppo atipico 211 2.1. Autismo / 2.2. Disturbo da deficit di attenzione/iperattività / 2.3. Disturbi speci-

fici dell’apprendimento / 2.4. Sindromi degenerative nella terza età

In questo capitolo 216 Per approfondire 216 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 216

7. Lo sviluppo della memoria 219di Maria Chiara Passolunghi

1. Processi e modelli della memoria 219 1.1. La memoria di lavoro / 1.2. Altri modelli di mantenimento temporaneo dell’infor-

mazione / 1.3. La valutazione della memoria di lavoro

2. Lo sviluppo tipico 227 2.1. I fattori di sviluppo della memoria / 2.2. La memoria a lungo termine

3. Lo sviluppo atipico 243 3.1. Memoria di lavoro e disturbi dell’apprendimento / 3.2. Memoria di lavoro e disa-

bilità intellettiva

In questo capitolo 254 Per approfondire 255 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 255

8. Sviluppo della comunicazione e del linguaggio nei contesti quoti-diani 259di Alessandra Sansavini

1. Lo sviluppo tipico 259 1.1. Per capire lo sviluppo comunicativo-linguistico / 1.2. Le componenti del linguag-

gio / 1.3. Ascoltare il linguaggio: dal periodo prenatale ai primi anni di vita / 1.4. Prime produzioni comunicative e vocali / 1.5. Lo sviluppo lessicale: azioni, gesti e parole /

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Indice

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1.6. Lo sviluppo grammaticale: combinare le parole in frasi / 1.7. Lo sviluppo prag-

matico: dialogare e raccontare / 1.8. Competenze metalinguistiche e alfabetizzazione

emergente: dal linguaggio orale al linguaggio scritto / 1.9. I principali approcci teorici

allo sviluppo del linguaggio

2. Lo sviluppo atipico 283 2.1. Ritardi e disturbi di linguaggio / 2.2. Lo sviluppo del linguaggio nei bambini nati

pretermine / 2.3. Lo sviluppo del linguaggio nei bambini con sindromi genetiche /

2.4. Lo sviluppo del linguaggio nei bambini con disturbi dello spettro autistico /

2.5. Lo sviluppo del linguaggio nei bambini sordi / 2.6. Comunicare con i bambini

con sviluppo atipico

In questo capitolo 293 Per approfondire 294 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 295

9. Imparare condividendo: emozioni e socializzazione 297di Lavinia Barone

1. Per capire lo sviluppo emotivo e sociale 2972. Lo sviluppo tipico 298 2.1. Che cosa prova e che cosa sa fare un bambino piccolo con le sue emozioni? /

2.2. Infanzia ed età prescolare / 2.3. Età scolare / 2.4. Pubertà e adolescenza / 2.5. Età

adulta e invecchiamento

3. Lo sviluppo atipico 317 3.1. Per capire lo sviluppo emotivo e sociale atipico / 3.2. Infanzia ed età prescolare:

l’adozione come esperienza di trasformazione sociale ed emotiva / 3.3. Età scolare e

adolescenza: disturbi da esternalizzazione e disturbo antisociale / 3.4. La disregola-

zione emotiva pervasiva in età adulta: il disturbo borderline di personalità

In questo capitolo 328 Per approfondire 328 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 329

10. Lo sviluppo morale e sociale 331di Dario Bacchini

1. Per capire lo sviluppo morale e sociale 3312. Lo sviluppo tipico 333 2.1. L’approccio cognitivo-evolutivo / 2.2. La teoria degli ambiti / 2.3. Le radici affet-

tive dello sviluppo morale / 2.4. Lo sviluppo dell’aggressività nei bambini / 2.5. Pro-

socialità e altruismo / 2.6. La socializzazione familiare

3. Lo sviluppo atipico 350 3.1. Per capire lo sviluppo morale atipico / 3.2. Il bullismo a scuola / 3.3. Antisocialità e

delinquenza in adolescenza / 3.4. I meccanismi di disimpegno morale in età adulta

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Indice

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In questo capitolo 358 Per approfondire 358 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 359

11. La valutazione e gli interventi psicologici nell’ambito dello svi-luppo 363di Furio Lambruschi e Cir o Ruggerini

1. Premessa 3632. Per capire gli interventi 3633. Multifattorialità dei disturbi dello sviluppo 3644. La prospettiva interpersonale e relazionale 3685. I sistemi di classificazione diagnostica 3696. Definizione dei campi d’intervento e del setting di lavoro 3727. Le aree specifiche dell’intervento clinico 377 7.1. Asse i: i disturbi dello sviluppo emotivo, affettivo e relazionale / 7.2. Asse ii: i di-

sturbi specifici dello sviluppo / 7.3. Asse iii: il ritardo mentale

8. Il sostegno alla genitorialità 410 In questo capitolo 411 Per approfondire 412 Prova di autovalutazione dell’apprendimento 412

Soluzioni 415

Bibliografia 417

Indice analitico 473

Gli autori 477

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1. Processi e modelli della memoria

La memoria, la capacità di ricordare le informazioni a breve o lungo termi-ne, è una funzione fondamentale nella vita quotidiana e nessun processo di apprendimento sarebbe possibile senza il funzionamento dei processi di me-morizzazione. Compiti di memoria a breve termine consistono ad esempio nel ricordare un numero telefonico appena sentito o ricordare l’aspetto di un volto appena visto, mentre compiti di memoria a lungo termine consistono nel ricordare un numero di telefono familiare senza aver bisogno di leggerlo sull’agenda, oppure ricordare l’usuale percorso stradale da casa al lavoro. Come si può intuire da questi esempi, la memoria non è un processo unita-rio, ma è costituita da molteplici processi. L’idea che essa potesse essere co-stituita da due o più componenti non è nuova, ma è stata dimostrata speri-mentalmente a partire dagli anni Cinquanta, grazie allo sviluppo di rigorose tecniche d’indagine. In quegli anni venne particolarmente studia-to il tema dell’oblio a breve termine; in particolare, Brown (1958) dimostrò che anche una piccola quantità d’informazione viene presto dimenticata se non è seguita da una reiterazione (ripetizione) attiva. Nello stesso anno, Broadbent presentò un importante modello di memoria a breve termine costituito da due sottocomponenti: il sistema “S”, un magazzino contenen-te informazioni sensoriali provenienti da diverse fonti, che fornisce infor-mazioni al sistema “P”. Il sistema “P” è caratterizzato da una capacità di ela-borazione limitata, determinata dall’incapacità di prestare attenzione a più fonti contemporaneamente. Altri studi misero in luce che la capienza della memoria a breve termine è li-mitata. Nel 1956 Miller pubblicò il famoso lavoro sul magico numero sette, in cui si dimostra che nel magazzino di memoria è possibile mantenere sette unità di informazione (il magico numero sette più o meno due). La quanti-tà di elementi che si possono ritenere può però aumentare se si adottano stra-tegie adeguate, tra le quali quelle di raggruppamento delle informazioni (chunking). Ad esempio, se si deve ricordare una serie di otto cifre rispettando l’ordine

La memoria è costituita da molteplici processi

Il magico numero sette

7Lo sviluppo della memoria di Maria Chiara Passolunghi

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di presentazione (3, 7, 5, 4, 1, 2, 6, 8) si può più facilmente ricordarla se le raggruppo a due a due (3-7, 5-4, 1-2, 6-8), diminuendo così il numero di unità di informazione da ritenere. Verso gli anni Sessanta il modello “classico” e più noto di memoria a breve termine è quello “modale”, di Atkinson e Shiffrin (1968), che si ispira alla te-oria di Broadbent (1958). Il modello è costituito da tre componenti (cfr. fig. 1): la prima comprende i magazzini sensoriali tampone (buffer), che con-servano per un breve lasso di tempo l’informazione proveniente dai diversi canali sensoriali; successivamente l’informazione sensoriale passa a una se-conda componente, il magazzino a breve termine (mbt), dove può essere ri-codificata e mantenuta attraverso la reiterazione (rehearsal); infine una parte del materiale rielaborato può raggiungere la memoria a lungo termine (mlt) dove viene conservata più a lungo. Gli autori ipotizzavano, quindi, la sequen-zialità tra i due sistemi in quanto l’informazione non poteva pervenire nella memoria a lungo termine se prima non era passata per la memoria a breve termine. Il ruolo del magazzino a breve termine è quindi centrale nel model-lo modale. L’apprendimento a lungo termine dipende dalla capacità di im-magazzinamento in questo sistema temporaneo e si suppone una relazione diretta tra la quantità di tempo in cui l’informazione viene codificata e risiede nel magazzino a breve termine e la probabilità che questa venga trasferita nella memoria a lungo termine. A partire da questo modello sono state proposte negli anni a seguire varie

Il modello di Atkinson e Shiffrin

Input esterno

Processo di reiterazione

Registro sensoriale

Magazzinoa breve termine

(mbt)

Magazzinoa lungo termine

(mlt)

figura 1 Memoria a breve termine: sistema modale di Atkinson e Shiffrin

Fonte: adattata da Atkinson, Shriffin (1968).

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versioni alternative. Il modello attualmente più conosciuto, e generalmen-te condiviso, è quello della “memoria di lavoro” di Alan Baddeley, origina-riamente sviluppato da Baddeley e Hitch (1974), in cui viene ipotizzata una specifica suddivisione del magazzino a breve termine.

1.1. La memoria di lavoro Baddeley (1986) definisce la memoria di lavoro (ml) come un sistema atto a mantenere temporaneamente e a manipolare l’informazione durante l’esecuzione di differenti compiti cognitivi, come ad esempio la comprensione, l’apprendimento e il ragionamento. Nel tentativo di proporre un modello alternativo a quello modale, Baddeley e Hitch (1974) hanno ipotizzato un sistema multicomponenziale che prevede tre diverse componenti: l’esecutivo centrale (central executive) e due sistemi subordinati (slave systems) dominio specifici: il loop articolatorio (phonological loop) e il taccuino visuospaziale (visuo-spatial scratch pad o sketch pad). Una rappresen-tazione schematica del modello è illustrata nella figura 2. Il modello è stato recentemente ampliato da Baddeley (2000) con l’aggiunta di una quarta componente, l’episodic buffer. L’esecutivo centrale è un sistema supervisore di controllo che possiede ca-pacità attentive e opera sui dati provenienti dai due sistemi subordinati che elaborano rispettivamente il materiale di tipo verbale e quello di tipo visuo-spaziale. Un primo tentativo di esplorare le caratteristiche dell’esecutivo cen-trale è rappresentato dal modello proposto da Norman e Shallice (1986). Il sistema attentivo supervisore (sas), da loro ipotizzato e considerato ana-logo all’esecutivo centrale, è un meccanismo di controllo superiore che ri-sulta coinvolto in attività che riguardano non solo i processi attentivi, ma anche quelli decisionali, mnemonici (in particolare in relazione alla memoria a lungo termine) e relativi alla configurazione dell’ambiente circostante. A tale componente sono attribuite varie funzioni, quali ad esempio selezionare le informazioni rilevanti per il compito, inibire le informazioni irrilevanti, focalizzare e dividere l’attenzione, modificare le rappresentazioni mentali at-tivate sulla base degli oggetti percepiti, aggiornare la memorizzazione delle informazioni in ingresso. Il loop articolatorio (o ciclo fonologico) è probabilmente la componente del sistema più approfondita da Baddeley, Thomson e Buchanan (1975). Esso è costituito da due elementi: un magazzino fonologico (di natura passiva), che ha il compito di mantenere in memoria l’informazione linguistica per pochi secondi prima del suo decadimento, e un processo di reiterazione (di natura attiva) basato sul linguaggio interno (subvocale), che permette di mantenere viva la traccia mnestica rimandandola al magazzino. Questo processo permet-te, inoltre, di convertire gli stimoli visivi in un codice fonologico. Diversi espe-rimenti condotti da Baddeley e collaboratori hanno permesso di verificare l’e-sistenza del sistema multicomponenziale e del suo funzionamento illustrando diversi fenomeni, quali ad esempio l’effetto di somiglianza fonologica, per il

I modelli della memoria di lavoro

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quale la rievocazione seriale risulta compromessa quando gli elementi sono si-mili tra loro dal punto di vista fonologico, l’effetto della lunghezza delle paro-le, ovvero il fenomeno secondo il quale i soggetti incontrano difficoltà nella ri-evocazione di parole lunghe in quanto lo span di memoria declina in funzione del numero di sillabe delle parole presentate (Baddeley, Thomson, Buchanan, 1975), e l’effetto della soppressione articolatoria, per cui se a un soggetto viene richiesta l’articolazione di uno stimolo irrilevante (ad esempio, la ripetizione continua di una sillaba) le operazioni del ciclo fonologico vengono disturbate e vengono soppressi il ripasso subvocale e la conversione fonologica.Il taccuino visuospaziale è la componente della memoria di lavoro che per-mette sia la ritenzione temporanea di informazioni riguardanti il materiale visivo e spaziale in entrata (ad esempio, il ricordo di informazioni percettive e la loro posizione nello spazio) sia la visualizzazione e la manipolazione di im-magini mentali. All’interno del taccuino visuospaziale è possibile individua-re una differenziazione tra memoria visiva e spaziale: entrambe sarebbero per lo più rappresentate nell’emisfero destro, ma con localizzazioni diverse. Lo-gie (1995) distingue tra la visual cache, che mantiene temporaneamente l’in-formazione visiva (ad esempio, forme e colori), e l’inner scribe, deputato al rehearsal motorio di sequenze spaziali. Studi che utilizzano il paradigma del doppio compito, che prevede di eseguire due compiti contemporaneamente, mostrano che la ritenzione di figure o colori è danneggiata dalla presentazio-ne di figure irrilevanti (Logie, Marchetti, 1991), mentre il mantenimento di percorsi o configurazioni spaziali è danneggiato da specifici compiti spaziali (Della Sala, Gray, Baddeley et al., 1999). Nel 2000 Baddeley ha modificato il modello originale nel tentativo di supe-rarne alcuni limiti. Le difficoltà riguardano soprattutto la relazione tra ml e memoria a lungo termine, l’assenza di una componente di interazione tra loop articolatorio e taccuino visuospaziale e la mancanza di sistema che rap-presenti la consapevolezza dell’individuo. Baddeley integra quindi il model-lo con una componente chiamata episodic buffer (buffer episodico), in quan-to in grado di immagazzinare informazioni episodiche situate nello spazio e nel tempo, e buffer (letteralmente, “tampone”), in quanto in grado di fungere

Sviluppi recenti del modello

figura 2 Rappresentazione semplificata del modello di memoria di lavoro di Baddeley e Hitch

Fonte: adattata da Baddeley, Hitch (1974).

Taccuino visuospaziale

Looparticolatorio

Esecutivocentrale

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da connessione temporanea tra i due sistemi subordinati di ml. Tale compo-nente è considerata sede di rappresentazione consapevole e può essere in-fluenzata dall’esecutivo centrale, tramite il quale può ricevere informazioni dal loop articolatorio, dal taccuino visuospaziale o dalla memoria a lungo termine. In sintesi, la specificità dell’episodic buffer è quella di ricevere le in-formazioni dai vari sistemi per costruire rappresentazioni integrate tra loro. Un’ulteriore modifica al modello originale riguarda la distinzione tra siste-mi cristallizzati (memoria a lungo termine), che mantengono la conoscenza a lungo termine, e sistemi fluidi (sistemi subordinati e buffer episodico) che conservano ed elaborano le tracce mnestiche grazie all’attenzione e non sono modificabili dall’apprendimento di nuove conoscenze (per una rassegna cfr. Mammarella, 2008).

1.2. Altri modelli di mantenimento temporaneo dell’informazione Parallela-mente allo sviluppo del modello multicomponenziale, alcuni studiosi hanno cercato di approfondire il concetto di memoria di lavoro in una prospettiva diversa da quella proposta da Baddeley. Tali linee teoriche si focalizzano sul ruolo dell’attenzione e sui processi di attivazione, mentre mettono in secon-do piano o addirittura in dubbio la presenza di specifici magazzini di memo-ria. In particolare Engle, Kane e Tuholski (1999) ritengono che i compiti che misurano la capacità della memoria di lavoro coinvolgano un unico elemen-to, che è quello dell’attenzione controllata, considerata fondamentale per modulare l’attivazione e rimuovere le rappresentazioni non pertinenti dal focus attentivo, prevenendo quindi distrazioni provenienti dall’ambiente o interferenze di informazioni presenti in mlt. Similmente al modello descrit-to da Engle e collaboratori, Cowan (2005) assume che le risorse attentive possano essere attivate in modo automatico o mediante processi volontari diretti dall’esecutivo centrale. Considereremo qui in maggior dettaglio il modello proposto da Cornoldi.Il modello dei continua, proposto inizialmente da Cornoldi (1995b) e am-pliato poi da Cornoldi e Vecchi (2000; 2003), è caratterizzato da due di-mensioni principali: il continuum orizzontale, strettamente connesso alla ti-pologia e alla modalità delle informazioni da elaborare (ad esempio, verbali, visive, spaziali) e il continuum verticale, definibile in base al livello di elabo-razione (maggiormente “attiva” o “passiva”) delle informazioni da ritenere (cfr. fig. 3). La struttura conica indica vari sottosistemi a livello “passivo” o periferico del continuum orizzontale, completamente indipendenti tra loro. Nel continuum verticale, con l’aumentare del livello di controllo e di elabora-zione dell’informazione, si osserva che i processi sono progressivamente più indipendenti dalla modalità con cui l’informazione è presentata. Il continuum orizzontale riceve le informazioni sensoriali dal mondo esterno, ma contemporaneamente è connesso con le rappresentazioni immagazzinate nella mlt. Anche se a livello ipotetico sono ammesse dissociazioni tra pro-

Il ruolo dell’attenzione

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cessi modalità-specifici (ad esempio, verbali vs spaziali), i confini tra i sistemi postulati nel modello sono sfumati. Quindi, se un compito è presentato se-condo una modalità spaziale, ciò non esclude che un individuo utilizzi una strategia visiva o addirittura verbale per affrontarlo. Spiegheremo più adeguatamente questo modello attraverso l’esempio di alcu-ni compiti di memoria. Innanzitutto va chiarito che non è possibile definire un compito come esclusivamente “attivo” o “passivo”, ma è bene vederlo situa-to in una determinata posizione lungo il continuum verticale e orizzontale. Prendiamo ad esempio compiti di span in avanti. In tali compiti si richiede di ricordare una serie progressivamente crescente di parole, cifre o sillabe (in ge-nere da 2 a 7) rispettando nel ricordo l’ordine di presentazione. Questi compi-ti possono essere considerati più “passivi”: richiedono che l’informazione ven-ga ricordata nel medesimo formato di presentazione e non necessitano di un’elevata manipolazione e trasformazione dell’informazione da ritenere. Si può quindi pensare che si situino alla base dell’ipotetico cono: lungo il conti-nuum orizzontale a livello dell’elaborazione verbale e lungo il continuum ver-ticale in posizione poco elevata, quella che richiede appunto un minor grado di elaborazione/attività. Consideriamo ora il Listening Span ideato da Daneman e Carpenter (1980). Il compito consiste nel giudicare la verità o la falsità di una serie di frasi (subito dopo averle sentite), tuttavia si deve ricorda-re solo l’ultima parola di ogni frase presentata. Le serie, progressivamente cre-scenti, sono composte da un minimo di due a un massimo di sei-otto frasi. La

Compito “attivo” o “passivo”

figura 3 Il modello dei continua

Fonte: adattata da Cornoldi, Vecchi (2003).

Verbale

Visivo

Attivo:elevato grado di attività

Passivo:basso grado di attività

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7. Lo sviluppo della memoria

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misura del ricordo è data dal numero complessivo di parole correttamente ri-cordate in ogni serie. Tale compito, più “attivo”, può essere situato lungo il con-tinuum orizzontale a livello dell’elaborazione verbale, mentre per quello verti-cale si trova in posizione particolarmente elevata, perché richiede un alto livello di controllo e di elaborazione dell’informazione da ricordare (ad esem-pio, dalle frasi vanno “estratti” gli stimoli target, le ultime parole, e contempo-raneamente vanno scartate le altre parole). Varie ricerche si stanno concen-trando sulla possibilità di individuare i criteri mediante i quali stabilire il grado di controllo richiesto per l’esecuzione di compiti più o meno attivi e chiarire se un compito attivo può essere di per sé considerato maggiormente complesso e difficile di uno passivo. In particolare, alcuni dati sperimentali dimostrano che il grado di difficoltà può essere manipolato, e che compiti passivi possono es-sere resi nettamente più difficili di quelli attivi. Si è quindi evidenziato che gli anziani hanno maggiori difficoltà nelle prove di tipo attivo, anche se comples-sivamente più semplici di quelle di tipo passivo (Vecchi, Richardson, 2000).

1.3. La valutazione della memoria di lavoro Vari metodi sono stati svilup-pati per valutare le capacità della ml (cfr. Passolunghi, De Beni, 2001). Esempi delle prove più comuni sono riportati nella figura 4. Una caratte-

Metodi di valutazione

figura 4 Le prove per valutare le capacità della memoria di lavoro

Funzioni della memoria Compiti

Span di numeri avanti

Esempi degli stimoli

Fonologica

Visuospaziale

Visuospaziale

Visual Pattern Test

Test di Corsi

Block recall

Ricorda la configurazione

Indicala su questo quadrato

Ricorda la serie di cubi che ti viene indicata

Ricorda nel medesimoordine di presentazione7, 5, 3; ... 9, 4, 2, 8

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ristica di questi metodi, particolarmente adatti per essere usati con i bam-bini, è la procedura di span, per cui la quantità del materiale da ricordare aumenta progressivamente e la prova si conclude quando il livello di pre-stazione del bambino cade sotto il livello di accuratezza predefinito dal test. In genere la prestazione di memoria aumenta velocemente fino all’età di 8 anni e poi manifesta un aumento più graduale (Siegel, 1994). Unica ecce-zione a questo profilo è la prestazione al Listening Span, che mostra un co-stante sensibile sviluppo fino ai 16 anni d’età (cfr. fig. 5). Questo può indi-care che gli span complessi, che coinvolgono maggiormente le funzioni dell’esecutivo centrale e lo sviluppo dei lobi frontali (cfr. cap. 3), richiedono un tempo di sviluppo maggiore rispetto ai compiti di span semplice con materiale visivo e spaziale (ad esempio, ricordo di parole/numeri o configu-razioni nello stesso formato di presentazione).

Aumento della prestazione fino a 8 anni

figura 5 Prestazioni in compiti di memoria in funzione dell’età

Legenda: quadrati neri = span di numeri avanti (memoria fonologica); triangoli scuri = ripetizione di non parole (memoria fonologica); cerchi bianchi = span di numeri avanti; quadrati bianchi = test di Corsi avanti (memoria visuospaziale); triangoli bianchi = Listening Span (span complessi, memoria di lavoro); cerchi neri = span di numeri all’indietro (memoria di lavoro).

Fonte: adattata da Gathercole (1999).

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7. Lo sviluppo della memoria

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2. Lo sviluppo tipico

2.1. I fattori di sviluppo della memoria Non vi è dubbio che la memoria si svi-luppi con l’età, meno chiari sono però i motivi e le cause di tale sviluppo. In questa parte del capitolo analizzeremo tali aspetti con particolare attenzione allo sviluppo della ml. Prendendo in esame i risultati presenti in letteratu-ra possiamo riassumere i fattori alla base dello sviluppo della memoria: la capacità della memoria, le strategie di elaborazione (processing strategies), le conoscenze, la velocità di elaborazione (processing speed), la capacità attentiva e della metamemoria.

2.1.1. La capacità della memoria Perlmutter (1980) ha utilizzato come mo-dello unitario per analizzare lo sviluppo e il declino della memoria ancora il classico modello modale di Atkinson e Shiffrin (1968), che considera le capa-cità mnestiche come l’hardware della memoria, ossia i magazzini a breve e a lungo termine. I processi di codifica, mantenimento e recupero rappresentano invece il software, ossia i processi che trasformano le informazioni in entrata, le trasferiscono nel magazzino a lungo termine e ne facilitano il recupero. Già nei primissimi mesi di vita il neonato è in grado di codificare e conserva-re delle esperienze. A 2 anni i bambini sono in grado di riconoscere all’incirca una dozzina di figure o oggetti in un compito di riconoscimento e sanno ri-cordare due o più stimoli in un compito di rievocazione libera; mostrano inoltre numerosi ricordi di eventi della vita quotidiana. Confrontando le lo-ro capacità di ricordo con quelle di bambini più grandi, all’incirca di 5 anni, si osserva che l’aumento di capacità è molto rilevante soprattutto nei compiti di rievocazione: raggiunge all’incirca il 60% di incremento nei compiti di rievocazione e appena il 10% in quelli di riconoscimento. Successivamente, i processi di rievocazione libera si sviluppano più lentamente perché richiedo-no strategie intenzionali per migliorare il ricordo.

2.1.2. Lo sviluppo delle strategie Senza sottovalutare l’importanza dell’au-mento della capacità per sé, molte ricerche sottolineano il ruolo predomi-nante dell’uso di strategie specifiche al compito, uso che permette l’aumento della quantità di informazioni che è possibile memorizzare. Possiamo defini-re la strategia come un piano d’azione, in genere deliberato e controllato, che ha l’obiettivo di migliorare una prestazione. Vi è un progressivo sviluppo nella comprensione e nell’uso di strategie in spe-cifiche situazioni, nell’abilità di implementarle senza sforzo eccessivo e nell’a-bilità di usarne la versione più efficiente. In particolare, sono state individuate quattro differenti fasi in cui si sviluppa l’uso di una strategia (Schneider, Sodian, 1997). Nella prima fase i bambini evidenziano un deficit di media-zione, ossia persino quando sono istruiti nell’uso di una strategia, la prestazio-ne non risulta essere migliorata dal suo uso. Nella fase successiva i bambini

Competenze precoci

Progressivo sviluppo delle strategie

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non si dimostrano in grado di usare spontaneamente la strategia, ma sono in grado di usarla se viene loro suggerita e ciò viene definito deficit di produzio-ne. A questa fase segue un periodo di deficienza d’utilizzo, frequente nella fase iniziale di acquisizione di una strategia, ossia quando l’esecuzione di una strategia, in questo caso messa in atto spontaneamente, non porta benefici al ricordo. Nella fase finale i bambini sono in grado di utilizzare in modo maturo e sofisticato le strategie più utili per uno specifico compito. Alcune strategie per migliorare il ricordo sono la ripetizione (o reiterazione, rehearsal), l’orga-nizzazione del materiale, l’elaborazione profonda e significativa del materiale da ricordare. La ripetizione può essere intesa come un processo di rivitalizza-zione (refreshing) degli elementi presenti in memoria per impedirne il decadi-mento. Nei compiti di memoria di lavoro fonologica, questi processi possono essere manifesti o nascosti e consistono nella reiterazione verbale degli item da ricordare a opera del circuito fonologico. Si è osservato che i bambini compio-no un meccanismo di ripetizione in modo spontaneo solo a partire dall’età di 7 anni. Anche la qualità della ripetizione cambia durante l’infanzia: in un compito di rievocazione libera di una lista di parole, i bambini di 7-8 anni tendono a ripetere solo una o due parole per volta, mentre i bambini di 10-12 anni ripetono la parola nuova insieme con le precedenti (ripetizione attiva e cumulativa). Per quanto riguarda il ricordo di immagini e percorsi, non è tut-tora chiaro fino a che punto sia possibile estendere le analogie dai processi di reiterazione verbale a quelli di reiterazione visiva e spaziale. Vari studi hanno trovato che bambini fino ai 7-8 anni codificano figure di oggetti in modo pre-valentemente visivo; al contrario dopo gli 8 anni tendono a usare un approc-cio fonologico per ricordare le figure (Hitch, Halliday, Dodd et al., 1989). Questo cambiamento nella codifica di figure nominabili (ad esempio, cane, porta, libro) è bene illustrato nella ricerca di Hitch e collaboratori (1988), in cui bambini appartenenti a due fasce d’età (5 e 10 anni) dovevano ricordare una serie di figure in diverse condizioni sperimentali. I risultati indicano tre importanti conclusioni: • i bambini più piccoli che nominano gli oggetti li ricordano meglio ri-spetto a quelli che non lo fanno (quindi un processo di ricodifica fonologica delle figure migliora il ricordo); • solo i bambini di 5 anni sono influenzati dall’effetto della similarità visiva delle figure (ciò indica che solo i bambini più piccoli utilizzano una codifica visiva per mantenere le informazioni); • i bambini di 10 anni sono invece influenzati dalla lunghezza del nome degli oggetti, ossia dall’effetto della lunghezza della parola (ciò indica che essi utilizzano una ricodifica fonologica per memorizzare le figure da ricordare).Come mai la ricodifica fonologica non viene utilizzata in modo spontaneo dai bambini più piccoli? Hitch e collaboratori (ibid.) hanno avanzato alcune ipotesi. I bambini più piccoli potrebbero non avere sufficienti risorse cogni-tive e capacità di elaborazione per effettuare l’operazione di ricodifica, inol-

Strategie dei bambini per ricordare

Nominare oggetti o figure aiuta a ricordare

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7. Lo sviluppo della memoria

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tre potrebbero non essere consapevoli che l’utilizzo di tale strategia permette di migliorare il ricordo. Va infine osservato che i bambini più piccoli sembra-no essere dipendenti dalla modalità di presentazione degli stimoli (ad esem-pio, a stimoli visivi segue una codifica visiva, mentre a stimoli uditivi una verbale): questa automaticità nella codifica rende più difficoltosa la riconver-sione degli stimoli in un’altra rappresentazione.Le strategie di organizzazione del materiale, tra cui quella di categorizzazio-ne, permettono di strutturare le informazioni in ingresso in base a vari criteri. In particolare un criterio di tipo semantico permette di raggruppare i nomi di una lista in base alla classe di appartenenza (ad esempio, nomi di animali, di frutta ecc.). L’uso dei raggruppamenti semantici può essere favorito dalle istruzioni date dall’adulto: si sono rilevate infatti prestazioni migliori nei gruppi che hanno ricevuto istruzione nell’uso di tale strategia, rispetto a quelli che non l’hanno avuta. Si è osservato inoltre che solo i bambini più grandi, a partire dalla scuola primaria, sono in grado di effettuare dei rag-gruppamenti di tipo semantico.Ovviamente la strategia di organizzazione è utile non solo con materiale sem-plice, quali liste di parole, ma anche con materiale più complesso e significati-vo quale ad esempio il ricordo di un testo. Varie ricerche hanno esaminato i procedimenti usati da bambini e adulti nel ricordo di brani. Con il progredire dell’età si osserva un aumento nell’uso di strategie di selezione, condensazione e più tardi invenzione di frasi significative che riassumono il testo. Durante gli anni di scuola si sviluppano strategie come prendere nota delle idee principali, sottolineare, porsi da soli delle domande, concentrarsi sulle parti più difficili, ossia tutta una serie di tecniche per dirigere e controllare l’attenzione molto utili nei processi di studio e memorizzazione. Va inoltre ricordato che tanto più viene elaborato in modo profondo e significativo il materiale da ricordare, tanto più efficace sarà il suo ricordo e quindi il suo apprendimento (principio di profondità della codifica; cfr. Craik, Lockhart, 1972).

2.1.3. Cambiamento nella conoscenza e nei contenuti nella memoria a lungo termine Con il progredire dell’età aumenta e diviene sempre più raffinata e organizzata la conoscenza immagazzinata nella memoria a lungo termine (mlt). La conoscenza permette ad esempio di raggruppare (chunking) le in-formazioni in modo significativo: questo consente di ridurre la quantità di in-formazioni da memorizzare e conseguentemente aumenta la capacità della memoria. Un famoso studio di Chi (1978) dimostra il ruolo della conoscenza nello sviluppo della ml. In questo studio veniva richiesto ai partecipanti, sud-divisi per livello di conoscenza del gioco degli scacchi, di ricordare la configu-razione dei pezzi su una scacchiera. È stato trovato che gli esperti giocatori di scacchi erano più abili nel ricordare le configurazioni, a patto però che le dispo-sizioni rispettassero delle configurazioni legittime per il gioco. L’osservazione particolarmente interessante è che in questo caso gli “esperti” erano i bambini,

Organizzare in categorie

Ricordare un brano di testo

Esperienza ed esercizio migliorano il ricordo

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mentre i “novizi” erano gli adulti. Ciò rinforza l’idea che per migliorare il ricor-do è importante l’esperienza e l’esercizio, ma tali conoscenze sono domi-nio specifiche (relative a un particolare dominio) e non dominio generale.

2.1.4. Cambiamento nella velocità di elaborazione (processing speed) Un altro fattore che si ipotizza essere alla base dello sviluppo della memoria di lavoro è la velocità di elaborazione. I cambiamenti nella velocità di elaborazione sembrano essere dipendenti dalla maturazione neurologica e dalla progressi-va mielinizzazione delle fibre nervose (cfr. cap. 4). Un più veloce processo di elaborazione permette di ridurre gli effetti del decadimento e dell’interferen-za nella ml in almeno due modi (cfr. Cowan, 1997; Cowan, Wood, Wood et al., 1998). Il primo, in termini di un tasso di reiterazione più rapido, che per-mette un maggior mantenimento degli elementi da ritenere in compiti fono-logici. Il secondo, in termini dell’aumento della velocità di ricerca in memo-ria e di recupero degli item da ricordare. Da osservazioni del comportamento dei bambini si denota che chi risponde più rapidamente (sia in compiti di memoria visuospaziali che verbali) ha in genere un ricordo migliore.

2.1.5. Cambiamento nella capacità attentiva Un ulteriore fattore determi-nante dello sviluppo della ml può essere considerato il cambiamento nella capacità attentiva. Sembra plausibile che il cambiamento nella quantità di informazione che può essere contenuta entro il fuoco dell’attenzione possa influenzare la prestazione. Come abbiamo visto, i processi attentivi possono essere ipotizzati come funzioni proprie dell’esecutivo centrale, funzioni che progressivamente si sviluppano con l’età. Le capacità attentive sono ritenute essere legate all’attività dei lobi frontali, che raggiungono la piena maturazio-ne solo nell’adolescenza. Conseguentemente è probabile che il contributo dei processi attentivi raggiunga la massima influenza in tale fase di sviluppo.

2.1.6. Lo sviluppo della metamemoria Nel 1971 Flavell scriveva che lo sviluppo della memoria sembra in gran parte un’intelligente strutturazione e immagaz-zinamento del ricordo, di operazioni di ricerca e di recupero, di controllo in-telligente e conoscenza di queste operazioni, ossia una specie di metamemoria. A partire da queste affermazioni, nell’ormai famoso simposio sullo sviluppo della memoria, ha origine una serie di ricerche che prendono in esame la co-noscenza e la consapevolezza del bambino sul funzionamento della memoria e sulle proprie capacità. I risultati di numerosi lavori sono a sostegno dell’ipotesi che il basso livello di prestazione dei bambini più piccoli sia determinato non tanto dai limiti nella capacità del sistema mnestico, quanto piuttosto dalla ca-pacità di utilizzarlo al meglio, attuando strategie deliberate. Per quanto riguarda la metamemoria, se ne possono distinguere due aspetti: la metamemoria come conoscenza dei propri processi mentali e la metame-moria come controllo, autoregolazione di questi processi (Brown, Bran-

La velocità di elaborazione migliora il ricordo

Il contributo dell’attenzione

Aspetti della metamemoria

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7. Lo sviluppo della memoria

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sford, Ferrara et al., 1983). Nel primo caso si attribuisce al bambino una teoria ingenua della mente e del suo funzionamento e si esaminano le sue “metaco-noscenze”. Nel secondo caso si esaminano i processi di autoregolazione del comportamento, quali ad esempio i meccanismi di previsione, pianificazio-ne, monitoraggio e controllo dei risultati. Varie sono le tecniche per valutare le metaconoscenze e i processi di control-lo, dalle tecniche d’intervista verbale, ai questionari, maggiormente adegua-ti a partire dall’età scolare, a tecniche più idonee con bambini più piccoli, quali i metodi che prevedono l’uso delle favole, di disegni e di racconti di storie con l’ausilio di pupazzi. Molte conoscenze metamnestiche sono pre-senti già a partire dai 5 anni e la loro presenza è strettamente correlata con lo sviluppo del pensiero logico (Vianello, Cornoldi, Moniga, 1991). Inoltre, Ghetti e collaboratori (2011) sostengono che a partire dai 10 anni vi siano un miglioramento e un perfezionamento nella capacità di monitoraggio della metamemoria. Questa traiettoria di sviluppo, come vedremo in seguito, ha delle importanti implicazioni sulla capacità di valutare la solidità e la veri-dicità di un ricordo recuperato dalla memoria. Aspetti centrali della cono-scenza metamnestica sono riconoscere che si può dimenticare, ma allo stesso tempo comprendere che il ricordo può essere migliorato utilizzando strategie adeguate. Usando la tecnica del racconto di una favola, Cornoldi e Orlando (1988) hanno preso in esame alcune idee chiave della concezione infantile della memoria, che costituiscono la base di un atteggiamento metacogniti-vo. Questa procedura permette di esplorare direttamente le conoscenze del bambino sulle cause e sui meccanismi del ricordo e dell’oblio evitando i problemi metodologici posti dalle domande suggestive e delle risposte ca-suali a domande scarsamente comprensibili. In questa procedura i bambini ascoltano il racconto di un principe che deve ricordarsi di compiere un certo numero di azioni per poter liberare una principessa (per un’esatta descrizio-ne della storia si veda il riquadro 1). Le affermazioni dei bambini più piccoli, quando spiegano le cause delle pos-sibili dimenticanze del principe, si concentrano soprattutto sulla prima fase, quella della codifica delle informazioni (il principe non ha ascoltato/capito) e sulle strategie di immagazzinamento (non ci ha pensato con attenzione), quelli più grandi aggiungono osservazioni anche sulla fase di ritenzione e re-cupero delle informazioni. Inoltre alcune osservazioni dei bambini più intel-ligenti richiamano le teorie della decadenza della traccia e dell’interferenza (è passato molto tempo, ha pensato ad altro, ha incontrato degli amici) e mo-strano una consapevolezza dei fattori dell’impegno e dello sforzo personale per migliorare il ricordo. Per ridurre la quantità di comunicazione linguistica, Wellman (1977) e Yussen e Bird (1979) hanno sviluppato una serie di figure particolarmente adatte per alunni della scuola materna, successivamente riprese e selezionate da Cornol-di e Caponi (1991). Al bambino vengono presentate coppie di disegni con la

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riquadro 1 Analisi della metamemoria con la tecnica di racconto di una favola

La principessa imprigionata

La principessa Fiordaliso stava per compiere 18 anni e questo era per lei un momento molto importante, perché poteva finalmente partecipare alle feste e conoscere molte persone. E la festa della principessa fu particolarmente bella, Fiordaliso si divertì molto e conobbe un bel principe che si innamorò di lei.Sfortunatamente, però, il re aveva dimenticato di invitare alla festa la strega Butranfana.Quando la festa finì, Butranfana, per vendicarsi, mise la gente del castello sotto un particola-re incantesimo: tutte le finestre e le porte del castello rimasero chiuse e nessuno era capace di aprirle.La mattina seguente il principe andò al castello, perché voleva chiedere al re il permesso di sposare la principessa, ma trovò tutto chiuso.In un primo momento pensò che tutti fossero andati via, ma incontrò un contadino il quale gli suggerì che probabilmente era un incantesimo e che la migliore idea era di chiedere consiglio a un vecchio saggio che viveva sulla cima di una montagna, vicino a un grande albero pieno di fiori rossi.Così il principe partì, attraversò foreste e grandi praterie, dovette anche oltrepassare dei fiu-mi e, poiché il viaggio era molto lungo, dovette fermarsi a dormire in una capanna.La mattina seguente si svegliò molto presto e, viaggiando attraverso montagne rocciose, arri-vò ad un grande albero, pieno di fiori rossi. Vicino all’albero c’era la caverna del vecchio, che stava ancora dormendo.Il principe gli raccontò ciò che era successo. «Sicuramente – disse il vecchio ridendo – è un incantesimo della strega Butranfana, ma lei è molto sciocca e tu potrai liberare facilmente la gente del castello. Devi andare di fronte alla porta centrale del castello, prendere un fiore, una foglia e un ramo e buttarli contro la porta: vedrai che la porta si aprirà. Capito? Stai attento. Non dimenticarti!».Il principe fece cenno con la testa e partì di corsa con il suo cavallo. Passò di nuovo attraverso rocce, foreste, fiumi e grandi praterie; cavalcò per tanto tempo e arrivò di fronte alla porta del castello quando il cielo cominciava a imbrunire.

Primo gruppo di domande

«Tu pensi che il principe si ricorderà?» (aspettare la risposta del bambino). Il principe non si è ricordato. È arrivato di fronte alla porta del castello e non si ricorda più quello che doveva get-tare contro. «Perché non si è ricordato?» (aspettare la risposta). Proprio per questo motivo il principe non si è ricordato. «Tu ti ricordi che cosa deve fare il principe?» (aspettare la risposta).

Secondo gruppo di domande

«E adesso che il principe è lì davanti alla porta, secondo te, può fare qualcosa per ricordar-si?» (aspettare la risposta del bambino). Pur facendo quello che tu dici, il principe purtroppo non riuscì a ricordarsi e così dovette ritornare dal vecchio uomo, in cima alla montagna.Quando finalmente arrivò, il vecchio rise a lungo, ripeté le istruzioni al principe e gli disse: «Questa volta non puoi assolutamente dimenticarti!».

Terzo gruppo di domande

«Tu pensi che questa volta si ricorderà? […] Questa volta il principe può fare qualcosa per essere sicuro di ricordarsi?» (escludere la possibilità che viene da ogni risposta per solleci-tare delle eventuali risposte nuove. Completare o lasciar completare al bambino la storia).

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7. Lo sviluppo della memoria

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figura 6 Tavola per valutare le conoscenze di metamemoria, basate sulle tavole di Wellman (1977)

Fonte: adattata da Cornoldi, Caponi (1991).

Indica in quale di queste figure la bambina ricorderà meglio

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richiesta di scegliere in quale dei due avverrà il ricordo migliore. Ad esempio, in una tavola (cfr. fig. 6) viene chiesto in quale dei due disegni la bambina riuscirà a ricordare un maggior numero di figure. Come si può intuire, questa tavola valuta se i bambini comprendono la strategia della profondità della codifica, cui abbiamo fatto cenno precedentemente (il materiale elaborato in modo più profondo è quello che viene ricordato meglio): se ad esempio viene scelta un’alternativa scorretta, con un colloquio successivo è bene approfon-dire le motivazioni che potrebbero rivelarsi valide e ap propriate.

2.1.7. Le capacità mnestiche negli anziani La memoria degli anziani è simile a quella di giovani adulti? Per rispondere a questa domanda varie ricerche sono state svolte mettendo a confronto l’ipotesi di una prestazione simile fra anziani e giovani e quella di un sostanziale generale declino nella capacità degli anziani. Altre ipotesi riguardano un peggioramento specifico solo in uno dei sistemi di memoria. In particolare le capacità degli anziani potrebbe-ro essere maggiormente compromesse in compiti d’immagazzinamento e manipolazione di materiale verbale rispetto a quello visuospaziale o, al con-trario, potrebbero essere maggiormente compromesse solo in compiti di im-magazzinamento e manipolazione di materiale visuospaziale. Gli studi hanno confermato l’ipotesi di una prestazione carente nei compiti di memoria di lavoro negli anziani, confrontati con giovani adulti (De Beni, Palladino, 2004; Waters, Caplan, 2003). Con l’aumento dell’età si associa un decremento nella capacità della memoria di lavoro: il declino mnestico è un processo continuo e lineare lungo l’arco della vita, senza però particolari ac-celerazioni nel corso della vecchiaia (Park, Lautenschlager, Hedden et al., 2002; per una meta-analisi cfr. Bopp, Verhaeghen, 2005; Johnson, 2003). Per quanto riguarda la dissociazione tra compiti verbali e visuospaziali il quadro appare meno chiaro. Infatti alcuni studi indicano che gli anziani so-no maggiormente carenti in compiti con materiale visuospaziale rispetto a quello verbale (per una meta-analisi cfr. Jenkins, Myerson, Hale et al., 1999), mentre altri dimostrano l’andamento opposto (Vecchi, Richardson, Caval-lini, 2005). La generalità del decremento della memoria di lavoro con l’età è stata invece evidenziata da Park e collaboratori (2002) i quali hanno trovato un graduale e lineare declino con l’età delle abilità di memoria di lavoro indipendente-mente dalla modalità del compito. Sostanzialmente non vi sono differenze tra memoria verbale e memoria visuospaziale: tali componenti della memoria peggiorano allo stesso ritmo nell’arco di vita. Sembra inoltre che gli anzia-ni abbiano prestazioni carenti rispetto ai giovani in prove di memoria che richiedono processi attentivi e di controllo, indipendentemente dal tipo di materiale presentato (de Ribaupierre, Lecerf, 2006; Kemps, Newson, 2006). Park e collaboratori (2002) hanno trovato che le misure di ml sono così al-tamente correlate da non poter essere considerate un costrutto distinto (cfr.

Il declino della memoria degli anziani

Prestazione carente nei compiti di memoria di lavoro

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7. Lo sviluppo della memoria

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anche Borella, Carretti, de Beni, 2008; e anche de Ribaupierre, 2001; Engle, Kane, Tuholski, 1999). È possibile quindi che il declino di risorse generali sia più cruciale, rispetto al declino specifico relativo al tipo di modalità (visiva vs spaziale), nello spiegare il decremento di memoria legato all’età. Alcuni studi mostrano infatti che con l’aumento dell’età le risorse cognitive diven-gono meno specializzate e differenziate rispetto all’età evolutiva, dove invece risultano essere nettamente differenziate. Questo tema interessante necessita però di ulteriori studi per essere chiarito e approfondito. Quali sono quindi i meccanismi ipotizzati per spiegare il declino delle capa-cità mnestiche con l’aumentare dell’età? Vari sono i fattori che possono essere alla base di tale declino. Uno di questi è la capacità di elaborazione cognitiva ridotta. La quantità di risorse attentive disponibili per l’elaborazione cogniti-va si riduce con l’età. Poiché compiti più complessi richiedono maggiori ri-sorse attentive rispetto a compiti più semplici, gli anziani hanno difficoltà a portare a termine con successo compiti che richiedono un carico cognitivo notevole. Questo spiega come mai gli anziani hanno in genere maggiore dif-ficoltà con compiti di memoria di lavoro più “attivi” (rispetto a semplici compiti di span, più “passivi”), con il ricordo di specifici nomi rispetto a fatti generali, con il ricordo libero rispetto a compiti di riconoscimento. Un altro fattore è legato alla difficoltà di controllo cognitivo. L’invecchia-mento si accompagna a un declino dei processi di controllo, mentre la capa-cità di elaborazione automatica rimane per lo più intatta. Di conseguenza, gli anziani non hanno problemi a giudicare un’informazione come familiare, ma hanno difficoltà a richiamare i dettagli di un’esperienza. L’invecchiamento si accompagna a una generale riduzione della velocità di elaborazione delle in-formazioni che, a sua volta, porta al declino di numerose funzioni cognitive, ivi inclusa la memoria. A questo proposito, Salthouse (1996) ha mostrato che l’età contribuisce solo debolmente alle misure di memoria, quando viene te-nuto sotto controllo il fattore “velocità di elaborazione”; di conseguenza, l’età è solo legata indirettamente alla prestazione mnestica. Questa ipotesi, seppur valida per molti aspetti, non spiega però alcuni dati sperimentali. Ad esempio, non spiega il declino legato all’età che si può osservare in alcuni compiti cognitivi, come il ricordo libero, dove non vi è una componente di velocità; non spiega come mai, dando un tempo illimitato di elaborazione del compito, i soggetti anziani non migliorano la prestazione. L’invecchiamento si accompagna anche a una minore efficienza dei meccani-smi di inibizione. L’inibizione svolge tre importanti funzioni rilevanti per la prestazione a compiti di memoria (cfr. Hasher, Zacks, May, 1999): • previene risposte predominanti ma inappropriate (funzione di controllo); • elimina le informazioni non più rilevanti dalla ml (funzione di cancella-zione);• determina quale, tra le rappresentazioni attivate, può entrare nella ml (funzione di accesso).

Riduzione della capacità di elaborazione cognitiva

Riduzione della velocità di elaborazione cognitiva

Diminuzione dei meccanismi di inibizione

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È possibile che solo certi tipi di inibizione, e in particolare quella di cancel-lazione, spieghino le variabilità individuali legate all’età (Dempster, 1993). Questa ipotesi spiegherebbe come mai gli anziani hanno difficoltà con di-strattori e interferenze e perché l’invecchiamento si associ a un aumento del-la percentuale di falsi riconoscimenti e intrusioni. I processi inibitori diven-tano meno efficienti con l’invecchiamento, anche se il declino delle funzioni inibitorie sembra essere meno marcato nei giovani adulti, mentre diventa più rilevante alle età più avanzate tra i 60 e 70 anni (Borella, Carretti, de Beni, 2008). Queste conclusioni sono in linea con l’ipotesi che i lobi frontali, e in particolare le regioni prefrontali, siano implicati nel controllo dei meccani-smi inibitori e siano maggiormente deteriorabili con il progredire dell’età (Rabbitt, Lowe, Shilling, 2001).

2.2. La memoria a lungo termine

2.2.1. Com’è organizzata L’espressione “memoria a lungo termine” è usata in riferimento agli eventi/conoscenze che sono accaduti/acquisiti, ore, gior-ni, mesi e anni or sono. Per quanto riguarda la neuroanatomia, la mlt coin-volge diverse aree corticali, tra cui ippocampo, cortecce circostanti, corpi mamillari, talamo, fornice e parte del lobo temporale. La mlt comprende vari distinti sistemi o processi di memoria, tuttavia le diverse componenti e le loro reciproche relazioni sono generalmente conosciute in modo minore rispetto alla memoria di lavoro. Tra le varie funzioni va menzionata la distinzione tra memoria esplicita, nel caso in cui il ricordo sia di tipo intenzionale e deliberato (ad esempio, voler ricordare una lista di parole), e memoria implicita, nel caso in cui il ricordo sia di tipo automatico e non intenzionale. Vi è una dissociazione tra questi due sistemi di memoria: ad esempio si è osservato che pazienti amnesici mo-strano una prestazione severamente deficitaria in compiti di memoria espli-cita, mentre le loro capacità si dimostrano pressoché preservate in compiti di memoria implicita (Gabrieli, Fleischman, Keane et al., 1995). La memoria implicita si sviluppa precocemente, andando incontro a un progressivo e significativo miglioramento nel corso dell’infanzia. Inoltre, la memoria implicita si manifesta come una facilitazione, che può essere mi-surata mediante la verifica di un miglioramento nella prestazione in vari tipi di compiti, senza che vi sia nessun riferimento consapevole a esperienze e apprendimenti precedenti. La memoria esplicita è misurata in genere dai classici test di memoria, che richiedono all’individuo la consapevolezza di ri-cordare una specifica situazione o un determinato materiale da memorizzare. Un’ulteriore importante distinzione, originariamente sviluppata da Tulving (1972), è tra la memoria semantica e la memoria episodica. Il termine “se-mantica” si riferisce alla conoscenza quasi permanente che abbiamo in rela-zione al mondo, ad esempio la comprensione del significato delle parole, la

Memoria esplicita e memoria emplicita

Memoria semantica e memoria episodica

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7. Lo sviluppo della memoria

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conoscenza del proprio nome e di determinate conoscenze specifiche. La memoria episodica, che qui tratteremo maggiormente, si riferisce invece alla memoria di specifici eventi, che possono essersi verificati recentemente o più lontano nel passato, di cui manteniamo un vivido ricordo. È ben noto che la memoria episodica vada incontro a un netto miglioramento nel corso dell’infanzia, grazie anche a un perfezionamento degli aspetti strategici e di controllo della memoria (Ghetti, Lee, 2011; Ghetti, Angelini, 2008; Ghetti, Castelli, Lyons, 2010). Ad esempio, quando dobbiamo recuperare i dettagli relativi a un ricordo, spesso mettiamo in atto la strategia di ricercare nella memoria informazioni riguardanti il luogo e il momento in cui è accaduto lo specifico evento. Tuttavia il ricordo di tali eventi è spesso incompleto, al-cune informazioni sono inevitabilmente andate perdute, mentre altre pos-sono essere mantenute per periodi molto lunghi. Questo tipo di ricordo di eventi specifici, che ha luogo dopo molti anni, è denominato memoria auto-biografica. Ovviamente la memoria autobiografica è fortemente riferita a sé stessi e fre-quentemente accompagnata da interpretazioni personali. Alcuni autori si sono focalizzati sull’importante ruolo delle figure genitoriali nello sviluppo della memoria autobiografica, in particolare durante il periodo prescolare. Infatti, lo scambio comunicativo tra genitore e bambino permetterebbe a quest’ultimo di comprendere che, per recuperare dalla memoria uno specifi-co dettaglio relativo a un evento, sono necessarie alcune informazioni impor-tanti come il chi, il quando e il dove. A tal proposito, alcune ricerche hanno analizzato lo sviluppo della capacità di ricavare i dettagli contestuali di un ricordo autobiografico. Quello che emerge è che la memoria per gli aspetti spaziali raggiungerebbe livelli simili a quelli dell’adulto verso i 9 anni e mez-zo, mentre la memoria per gli aspetti temporali solo verso gli 11 anni. Questo dato suggerisce quindi che, nel corso dell’infanzia, inizialmente il bambino recupera più facilmente i dettagli relativi al luogo in cui si è svolto un deter-minato evento. Con il passare del tempo diventerebbero maggiormente ac-cessibili anche le informazioni spaziali (Lee, Wendelken, Bunge et al., 2016; Guillery-Girard, Martins, Deshayes et al., 2013). L’interesse per la memoria autobiografica si è notevolmente sviluppato in questi decenni visto l’impor-tante ruolo che riveste nella capacità di ciascuno di affrontare le sfide quoti-diane e di connettere tra loro passato, presente e futuro (Coughlin, Lyons, Ghetti, 2014). La sempre crescente esigenza di verificare la testimonianza infantile, in particolare nel corso di processi per abuso sessuale, ha fatto sì che numerosi studiosi si siano focalizzati sull’argomento. Delle difficoltà meto-dologiche e del controllo di tali testimonianze parleremo più avanti.Una caratteristica particolarmente rilevante della memoria autobiografica è il fenomeno conosciuto come amnesia infantile. Questo termine si riferisce al fatto che è estremamente infrequente essere in grado di ricordare eventi che hanno avuto luogo prima dei 2 anni d’età e che i ricordi del periodo fra i

La memoria autobiografica

L’amnesia infantile

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2 e i 5 anni sono relativamente scarsi. In molti casi risulta inoltre difficile ve-rificare l’origine e la verità di ricordi estremamente lontani e che il ricordo non sia dovuto a una descrizione successiva dell’evento fatta dagli adulti. L’o-rigine delle cause dell’amnesia infantile può avere differenti interpretazioni. Una possibilità è che il fenomeno sia semplicemente una funzione dell’oblio e quindi i ricordi più distanti nel tempo siano memorizzati in modo minore rispetto a quelli più recenti. Un’altra possibilità, più plausibile, è che non vi sia una vera assenza dei ricordi, ma ciò che è impossibile è la loro accessibilità (Conway, 1990). Ciò che cambia nel corso dello sviluppo sono gli indizi, gli “schemi” e le strategie che guidano l’organizzazione dei ricordi e il loro recu-pero. Inoltre, prima della comparsa del linguaggio i bambini non presentano la medesima organizzazione dei ricordi in forma narrativa, coerente, tipica delle età successive: gli eventi non sono quindi organizzati con il medesimo codice linguistico che permetterà in futuro una buona chiave d’accesso ai ri-cordi. Inoltre, affinché si formino dei ricordi autobiografici è necessario si sia sviluppato il “sé cognitivo”, ossia sia presente la consapevolezza che l’indivi-duo ha delle proprie specifiche capacità cognitive, che emerge solo attorno ai 18-24 mesi (Howe, Courage, 1997).

2.2.2. La testimonianza infantile La necessità di comprendere la qualità di ricordi infantili per eventi lontani nel tempo è divenuta imprescindibile negli anni recenti come conseguenza della necessità di verificare la veridicità della testimonianza infantile in caso di processi per violenze domestiche, abusi ses-suali o per altri crimini. Le domande principali di quest’area di ricerca riguar-dano le differenze d’età nell’affidabilità dei ricordi dei bambini, nella suscet-tibilità alle domande suggestive poste dagli adulti, e infine riguardano quali siano i metodi migliori per ottenere testimonianze attendibili da parte dei bambini. Nella maggior parte delle ricerche di psicologia cognitiva che hanno attual-mente per tema la testimonianza infantile viene usato il paradigma della “memoria episodica”: il bambino vede lo svolgersi dell’azione di un evento oppure sente una storia in cui egli non risulta essere il partecipante attivo. Vari studi concordano sul fatto che i ricordi dei bambini più piccoli, specie in età prescolare, sono sensibilmente inferiori rispetto a quelli dei bambini più grandi e degli adulti. L’implicazione è quindi che i bambini piccoli hanno una memoria meno efficiente nella rappresentazione degli eventi, probabil-mente derivata da una scarsa comprensione causale degli eventi stessi (Pille-mer, Picariello, Pruett, 1994).Ovviamente anche la testimonianza oculare dei bambini più grandi e degli adulti può essere soggetta a errore e suscettibile di distorsioni e fraintendi-menti. Usando il paradigma della testimonianza originariamente sviluppato da Loftus (1979), in cui il ricordo di un evento viene seguito da alcune do-mande che contengono informazioni inaccurate, si è trovato però che i bam-

La testimonianza infantile in caso di processi

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7. Lo sviluppo della memoria

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bini più piccoli (all’incirca di 6 anni o di età inferiori) sono decisamente più vulnerabili alle distorsioni seguite all’esposizione di informazioni fuorvianti rispetto a bambini più grandi o agli adulti.La semplice esposizione alle domande degli adulti in relazione a eventi che non hanno avuto luogo è sufficiente, in determinate circostanze, a creare dei falsi ricordi. In uno studio di Ceci e collaboratori (1994) si è osservato che il 58% dei bambini in età prescolare esaminati nella ricerca ha prodotto dei fal-si ricordi a seguito di domande fuorvianti. Ceci e collaboratori videoregistra-rono le risposte dei bambini e sottoposero le registrazioni a psicologi specia-listi nell’analisi delle testimonianze infantili. Questi specialisti non furono abili nel discriminare, con un livello di affidabilità superiore al caso, tra ricor-di di falsi eventi e memorie reali. Varie ricerche hanno dimostrato che l’inte-grità dei ricordi dei bambini più piccoli per eventi di vita reale è estremamen-te sensibile a possibili distorsioni legate a domande dettagliate, ripetute o fuorvianti. Analizzando la letteratura degli ultimi decenni riguardante il tema dei falsi ricordi, emerge un importante legame con l’età. Una prova spesso utilizzata per indagare i falsi ricordi, sia nei bambini sia negli adulti (Mirandola, Tof-falini, Grassano et al., 2014), è il paradigma Deese-Roediger-McDermott (drm). Nella versione attuale (Roediger, McDermott, 1995), i soggetti leg-gono un elenco di parole semanticamente associate tra loro (ad esempio, in-fermiera, malato, medicina ecc.) che convergono in un’unica parola, definita “critica”, non presente nella lista (in questo caso, dottore). Il compito dei soggetti è di ricordare le parole. Al termine viene chiesto ai partecipanti di scrivere tutte le parole che ricordano. Successivamente viene chiesto ai sog-getti di indicare per ciascuna parola se è “vecchia” o “nuova”. Inoltre per ogni parola catalogata come “vecchia” viene chiesto di dare un giudizio Ricordo (quando si ricordano dettagli specifici della presentazione della parola in fa-se di studio) o Conosco (quando vi è la certezza che la parola sia stata presen-tata, ma non si ricordano i dettagli specifici). I risultati dimostrano frequen-temente il cosiddetto “effetto drm”: il soggetto ricorda, erroneamente, di aver sentito la parola “critica” tra quelle presentate nella lista. Il forte legame semantico che associa le parole elencate nella lista con la parola “critica” sem-brerebbe essere alla base di tale effetto. Inoltre si è osservato una relazione più forte fra giudizi di tipo Conosco e numero di falsi ricordi (ossia ricordi della parola critica). Alcuni studiosi si sono chiesti se avvertire i soggetti della presenza di una pa-rola “critica” avrebbe permesso loro di diminuire il numero di falsi ricordi prodotti. Da uno studio di Del Prete e collaboratori (2014) emerge che nei bambini di 7-8 anni l’avvertimento aumenta la produzione di falsi ricordi. Perciò, se da un lato l’avvertimento permette un’elaborazione più profonda del materiale mnestico, paradossalmente, dall’altro aumenta la produzione di falsi ricordi. Una possibile spiegazione consiste nel fatto che, a questa età,

I falsi ricordi

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i processi di controllo metacognitivo non si sono ancora completamente svi-luppati. Di conseguenza, tali meccanismi non sarebbero ancora funzionali al riconoscimento della parola “critica”. Infatti, i processi metacognitivi che supportano la riduzione dei falsi ricordi inizierebbero a emergere intorno ai 7 anni. Si tratterebbe comunque di meccanismi ancora rudimentali e quindi poco affidabili e sensibili alle caratteristiche specifiche del compito. Questi risultati hanno importanti implicazioni, in particolare sulla validità e sulla suggestionabilità della testimonianza del bambino.Quali sono però le cause alla base di questi effetti di suggestionabilità? Seb-bene la vulnerabilità dei bambini più piccoli nel ricordo e nella produzione di false memorie sia un aspetto generalmente condiviso dai ricercatori, le cau-se di tale vulnerabilità sono tuttora oggetto di discussione e dibattito. Tra i possibili meccanismi alla base di questi effetti di suggestionabilità è possibile che nei bambini più piccoli sia presente uno scarso livello di organizzazione e di integrazione delle informazioni dell’originaria traccia mnestica, caratte-ristica che la rende particolarmente suscettibile a deformazioni e modifiche originate da successive informazioni fuorvianti. È inoltre probabile che un elevato grado d’influenzabilità sia derivato da processi inibitori meno effi-cienti: per i più piccoli potrebbe essere più difficile inibire e cancellare i ricor-di distorti suggeriti in un momento successivo al verificarsi dell’evento. Un’ulteriore possibilità è che i bambini più piccoli abbiano particolari diffi-coltà a discriminare la fonte originaria di una serie di ricordi. Fanno ad esem-pio più errori rispetto ai più grandi e agli adulti nel discriminare tra azioni immaginate e azioni effettivamente eseguite. Ricerche recenti hanno mostra-to, però, che già i bambini di 6-7 anni sono in grado di distinguere un ricordo soggettivo di un fatto accaduto in passato dal ricordo di un altro evento di cui sono a conoscenza ma che potrebbe provenire da fonti indirette (Ghetti, Mirandola, Angelini et al., 2011). Durante le interviste relative alla testimo-nianza infantile appare quindi particolarmente importante introdurre delle domande relative al controllo della fonte (ad esempio, “Hai visto tu che è successo o è stato qualcun altro a dirtelo?”). I bambini sono maggiormente in grado di resistere alla suggestione nei casi in cui possono esplicitare le fonti dell’informazione e comprendere qual è l’origine dei ricordi.Va inoltre sempre tenuto presente l’effetto di suggestionabilità derivato da domande poste da figure autorevoli. I bambini più piccoli possono essere in-dotti a pensare che se un adulto fa una domanda specifica inerente al ricordo di un evento è molto probabile che quell’evento, o quella particolare situazio-ne, abbia avuto luogo. Inoltre, specie a seguito di domande ripetute, i bambini possono modificare la loro risposta perché possono supporre che la domanda venga ripetuta in quanto la loro prima risposta sia stata sbagliata. Si ritiene che durante le interviste relative alla testimonianza infantile l’uso di bambole o pupazzi possa aumentare il ricordo e anche compensare la ca-renza di comunicazione linguistica tipica dei bambini più piccoli. Tuttavia, si

La suggestionabilità della testimonianza infantile

Aumento della suggestionabilità di fronte a figure autorevoli

Saper “interrogare” i bambini

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è osservato che nei bambini in età prescolare vi è difficoltà a usare le bambole come rappresentazione di sé stessi (DeLoache, Marzoff, 1995). L’introduzio-ne di tali strumenti non garantisce quindi la maggiore accuratezza della valu-tazione della testimonianza infantile. Come si è precedentemente esposto, il livello di suggestionabilità dei bam-bini più piccoli è particolarmente elevato, tuttavia è bene non trarre delle conclusioni troppo pessimistiche. Va infatti ricordato che le ricerche di psi-cologia cognitiva di cui abbiamo parlato hanno come obiettivo principale quello di verificare se vi è un effetto legato all’età nel ricordare eventi distanti nel passato e questo aspetto è stato confermato da vari studi. Tuttavia va os-servato che i bambini più piccoli sono più resistenti a domande fuorvianti e a elementi confusivi se essi sono riferiti a punti centrali e nodali dell’evento, rispetto a caratteristiche secondarie. Inoltre ponendo delle domande, si deve accettare la possibilità che il bambino risponda “Non so”, cercando di non forzare indebitamente una risposta; questo permette di aumentare l’accu-ratezza del suo resoconto. Quindi persino i bambini in età prescolare sono in grado di fornire ricordi attendibili se richiesti con modalità opportune (Pezdek, Roe, 1995). Le ricerche sulla testimonianza infantile dipendono molto dallo stile degli esperimenti di laboratorio in cui il bambino sente una storia o guarda passivamente una storia di valenza neutra dal punto di vista emotivo. Al contrario, gli eventi della vita reale di bambini traumatiz-zati chiamati a fornire una testimonianza hanno una notevole rilevanza e una forte connotazione emotiva. Per questa ragione è richiesta particolare cautela nella tecnica dell’intervista e nella valutazione dell’attendibilità del ricordo.

2.2.3. Valutazione della suggestionabilità del ricordo Vi sono varie misure standardizzate per valutare la suggestionabilità della memoria in età evolu-tiva. Tra queste la Gudjonsson Suggestibility Scale (gss), il Bonn Test of Statement Suggestibility (btss) e la Video Suggestibility Scale for Children (vssc) valutano la suggestionabilità dovuta al modo di interrogare il bam-bino e in particolare la tendenza ad acconsentire a domande fuorvianti e la tendenza a cambiare risposta dopo un riscontro negativo da parte dell’adul-to. Per quanto riguarda i primi due strumenti, il primo è ideato per adulti ed adolescenti e il secondo per bambini dai 4 ai 10 anni, entrambi prevedono l’ascolto di una storia di cui viene poi richiesto un ricordo libero. Succes-sivamente viene fatta una serie di domande, sempre relative al racconto, di cui alcune suggestive e fuorvianti mentre altre con alcuni riscontri negativi, che segnalano arbitrariamente l’inesattezza di alcune risposte o mettono in dubbio le risposte del bambino (“Sei proprio sicuro?”). La vssc (Scullin, Ceci, 2001) è stata ideata per l’uso con bambini tra i 3 e i 10 anni. Il test inizia con la presentazione di un video di cui, dopo un intervallo da 1 a 10 giorni, viene chiesto un resoconto libero. Vengono poi poste delle

Scale e interviste

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domande sulle parti che il bambino non ha ricordato, ma anche domande fuorvianti e riscontri negativi per valutare la “resistenza” del bambino a que-sti elementi suggestivi. Altre tecniche per la valutazione della testimonianza infantile sono: l’in-tervista cognitiva per bambini (ic; cfr. Geiselman, Fisher, Firstenberg et al., 1984), la Step Wise Interview o intervista graduale (cfr. Yuille, Hunter, Joffe et al., 1993), l’Investigative Interviews Protocol del National Institute of Child Health and Human Development (nichd; cfr. Lamb, Sternberg, Esplin, 1998) e la Criteria-Based Content Analysis (cbca; cfr. Steller, Köhn-ken, 1989). La prima tecnica è adeguata se utilizzata con bambini di almeno 8 anni e ha lo scopo di ridurre la suggestionabilità in particolare cercando di ricreare nuovamente il contesto della situazione da ricordare, sottoline-ando la richiesta di ricordare ogni cosa. In fasi successive dell’intervista, per controllare l’attendibilità, viene chiesto di ricordare gli eventi in modo dif-ferente (ad esempio, dalla fine all’inizio) oppure di ricordarli nei panni di un’altra persona o da un punto diverso di osservazione. La Step Wise Inter-view può essere condotta anche con bambini con meno di 8 anni e prevede una serie di fasi, che permettono con passaggi graduali di porre le domande sull’argomento centrale della testimonianza. Nelle fasi iniziali l’intervista-tore parla di argomenti con valenza emotiva neutra e gioca con il bambino per avere una prima valutazione delle sue competenze cognitive e sociali e in particolare pone domande relative a eventi passati per valutare la qualità del loro ricordo. Le fasi finali riguardano l’evento base della testimonianza, che solo come ultima possibilità prevede il ricorso a domande dirette. Un altro protocollo di intervista, utilizzato soprattutto in ambito giuridico quando il bambino sia chiamato a testimoniare, è l’Investigative Interviews Protocol. Questo protocollo è stato creato da Lamb e collaboratori nel 1998 e tradotto successivamente in diverse lingue, tra cui quella italiana (Zappalà, 2009). Si tratta di un’intervista semistrutturata utilizzata a partire dai 4 anni. Il pro-tocollo del nichd si basa sul principio che, per minimizzare la suggestiona-bilità del ricordo e affinarne l’accuratezza, è necessario porre al bambino il minor numero possibile di domande chiuse, prediligendo invece quelle aper-te. Ricerche sulla validità e sull’efficacia del protocollo, condotte su bambini e bambine dai 4 ai 13 anni, hanno confermato una maggiore produzione di dettagli in seguito a domande aperte e una migliore qualità delle testimo-nianze fornite. Menzioniamo infine un ultimo strumento, la Criteria-Based Content Analysis (cbca; cfr. Steller, Köhnken, 1989), che si basa sull’idea che il ricor-do di un evento realmente accaduto è quantitativamente e qualitativamente diverso dal modo in cui viene descritta una fantasia o un racconto suggerito da altri. La tecnica prevede un’attenta analisi del resoconto infantile, basata su una serie di criteri predefiniti che permettono l’attribuzione di un pun-teggio complessivo della testimonianza. In base a tale punteggio dovrebbe

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essere possibile determinare con un certo grado di sicurezza se l’evento si è effettivamente verificato o è frutto della fantasia del bambino o di suggestio-ni dell’adulto.

3. Lo sviluppo atipico

3.1. Memoria di lavoro e disturbi dell’apprendimento

3.1.1. Difficoltà specifiche nell’apprendimento matematico In letteratura vi è un sostanziale accordo nel definire bambini o adulti con disturbi dell’ap-prendimento se essi hanno un livello intellettivo pressoché normale (pari o superiore a 85, valutando il qi con i classici test d’intelligenza), ma presenta-no una prestazione deficitaria in una o più aree di apprendimento (in genere un punteggio inferiore a due deviazioni standard in un test standardizzato di valutazione dell’apprendimento). Individui con disabilità specifiche nell’a-rea matematica possono rivelare deficit nei processi di elaborazione e rappre-sentazione in uno o più domini della matematica (ad esempio, aritmetica, geometria, algebra). Bambini con un adeguato livello d’intelligenza ma con specifiche difficoltà nell’area matematica sono relativamente frequenti a scuola. Varie ricerche in-dicano che approssimativamente il 5-8% di bambini in età scolare presentano deficit cognitivi o neuropsicologici che interferiscono con le loro competenze nell’area matematica (Gross-Tsur, Manor, Shalev, 1996). Nonostante la relati-va diffusione del fenomeno, solo recentemente la ricerca sperimentale in cam-po evolutivo ha affrontato il problema in modo sistematico e specifico. L’e-ziologia delle disabilità matematiche è multifattoriale; tra le cause di tipo cognitivo solo recentemente è stato affrontato lo studio della possibile in-fluenza determinante della ml (cfr. Passolunghi, Cornoldi, 2008). Vari autori hanno trovato che la memoria di lavoro assume un ruolo cruciale nel calcolo e nella soluzione dei problemi, quali ad esempio i problemi che tipicamente vengono proposti a scuola (Bull, Scerif, 2001; Fürst, Hitch, 2000; Passolunghi, Pazzaglia, 2004). Inoltre, si è osservato un deficit nella ml negli individui (bambini e adulti) che presentano disabilità di apprendi-mento matematico (D’Amico, Guarnera, 2005; Passolunghi, Cornoldi, 2008; Passolunghi, Siegel, 2001; 2004). Altri lavori hanno dimostrato una relazione causale tra capacità di ml e apprendimento delle abilità matemati-che all’inizio della scuola primaria (Passolunghi, Mammarella, Altoè, 2008; Passolunghi, Vercelloni, Schadee, 2007). Prenderemo qui in esame le difficoltà nella ml di bambini con specifiche dif-ficoltà nell’apprendimento matematico, avendo come riferimento il modello della ml di Baddeley (1986). Due domande guideranno la presentazione, in particolare una volta a individuare quale componente della ml influisce di più sulla capacità aritmetica (calcolo e soluzione dei problemi), la seconda

Difficoltà nell’area della matematica

Ruolo cruciale della ml nei compiti matematici

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volta a individuare relazioni specifiche tra le funzioni dell’esecutivo centrale e le disabilità nell’area matematica. È possibile che una ridotta capacità del loop articolatorio sia alla base delle difficoltà aritmetiche. Tuttavia le ricerche che hanno studiato il loop artico-latorio nei soggetti con disturbi aritmetici hanno dato risultati controversi (cfr. Passolunghi, 2006a). Swanson e Sachse-Lee (2001) hanno messo in evi-denza che bambini con difficoltà nella soluzione di problemi aritmetici pre-sentano prestazioni deficitarie in compiti volti a valutare il loop articolatorio (ad esempio, prove di velocità articolatoria, eliminazione di fonemi e span di numeri avanti). Al contrario, il loop articolatorio non rappresenta un deficit fondamentale per i bambini con bassa abilità matematica (Temple, Sherwood, 2002; Landerl, Bevan, Butterworth, 2004), in particolar modo se viene con-trollato il livello di abilità di lettura e comprensione (McLean, Hitch, 1999; Passolunghi, Siegel, 2001; 2004). Un’influenza distinta e separata del loop fonologico e dell’esecutivo centrale sui processi di calcolo mentale è stata individuata da Fürst e Hitch (2000). Tali risultati mettono in evidenza che nel calcolo mentale il loop articolatorio ha un ruolo nel mantenere temporaneamente l’informazione (ad esempio, i singoli numeri, i risultati parziali), mentre quando sono necessarie operazio-ni di riporto è l’esecutivo centrale ad assumere un ruolo fondamentale (cfr. De Rammelaere, Stuyven, Vandierendonck, 1999; 2001; Kaufmann, 2002). Questa componente della memoria di lavoro è relativamente ancora poco in-dagata in relazione alla sua influenza nelle difficoltà nell’area matematica. Geary (1993) ipotizza che uno dei tre sottotipi di disabilità matematiche da lui individuati abbia alla sua base un deficit delle abilità visuospaziali (White, Moffitt, Silva, 1992). Il deficit si evidenzia nell’organizzazione spaziale delle informazioni numeriche, di cui sono un esempio gli errori di scrittura di nu-meri (ad esempio, inversione di cifre) e di incolonnamento delle operazioni aritmetiche. Heathcote (1994) ipotizza che il taccuino visuospaziale abbia un ruolo rilevante nell’esecuzione dei calcoli mentali, perché potrebbe essere usa-to come una sorta di “lavagna mentale” in cui l’informazione visiva e spaziale è temporaneamente mantenuta durante l’esecuzione delle operazioni. Sebbene nel calcolo il ruolo del taccuino visuospaziale appaia più chiaro, è meno evidente la sua influenza in attività matematiche più complesse, quali la soluzione dei problemi. Alcuni studi non hanno evidenziato alcuna relazione tra ml visuospaziale e abilità matematica. In particolare Bull, Johnston e Roy (1999) non hanno trovato differenze tra bambini di 7 anni, abili e non abili nella matematica, nelle capacità di memoria visuospaziale valutate con speci-fici test. Tuttavia, ricerche che si sono focalizzate sullo studio di bambini e adulti con disturbo dell’apprendimento non verbale (danv o nld), una ti-pologia di disordini caratterizzata da un forte divario nel punteggio del quo-ziente intellettivo tra componenti verbali e non verbali, sembrano avvalorare l’ipotesi di una relazione tra matematica e abilità visuospaziali (Rourke,

Loop articolatorio e difficoltà aritmetiche

Esecutivo centrale e difficoltà artimetiche

Abilità visuospaziali e difficoltà aritmetiche

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Conway, 1997; Rourke, Finlayson, 1978). Queste indagini hanno messo in luce che bambini con (sindrome non verbale (snv) non hanno prestazioni deficitarie in compiti di memoria verbale, mentre presentano delle carenze in compiti visuospaziali (cfr. anche Cornoldi, Rigoni, Venneri et al., 2000). Varie ricerche sono a sostegno dell’ipotesi che un deficit nell’esecutivo cen-trale abbia un ruolo cruciale nell’abilità matematica, in particolare nella solu-zione dei problemi (Gathercole, Pickering, 2000; Passolunghi, 2006b; Pas-solunghi, Siegel, 2001; 2004). La soluzione di un problema aritmetico richiede innanzitutto la comprensione del testo. La completa comprensione di un problema richiede che il solutore si costruisca una rappresentazione mentale, che comporta l’integrazione e il mantenimento delle informazioni rilevanti per la soluzione. L’attività implica in modo particolare l’attivazione specifica delle funzioni dell’esecutivo centrale. Infatti la soluzione di un problema non richiede solo il mantenimento delle informazioni presentate, ma anche il loro controllo. Le informazioni in ingresso devono essere esaminate a seconda della rilevan-za, selezionate o inibite, integrate tra loro, e aggiornate con le informazioni già presenti in memoria. Il ruolo del loop fonologico potrebbe essere quindi meno rilevante. I nostri dati confermano questa ipotesi e mettono in luce che il loop fonologico non risulta essere compromesso nei bambini con difficoltà specifiche nella soluzione dei problemi aritmetici. Una possibile obiezione è che un deficit nella soluzione dei problemi potrebbe essere dovuto principal-mente a una carente abilità di comprensione. Anche controllando questo fat-tore (nei nostri studi i bambini con disabilità matematiche hanno buone abi-lità di comprensione del testo, simili a quelle del gruppo di controllo) emerge un legame diretto tra funzioni dell’esecutivo centrale e capacità matematica. Si ipotizza che la componente dell’esecutivo centrale del modello di Bad-deley può essere suddivisa in almeno tre componenti separate, relative ai processi di inibizione, updating (aggiornamento) e shifting (spostamento-cambiamento; cfr. Miyake, Friedman, Emerson et al., 2000). Il meccanismo di inibizione, e in particolare di inibizione cognitiva, consiste nell’abilità di controllare ed eliminare informazioni irrilevanti, non pertinenti al compi-to. Il processo di updating consiste nel continuo aggiornamento delle infor-mazioni in ingresso: avviene così una costante sostituzione degli elementi presenti in memoria, per cui solo un limitato numero di informazioni viene mantenuto attivo e disponibile. Infine l’abilità di shifting consiste nella capa-cità di passare dall’esecuzione di un compito a un altro e cambiare strategia con un buon livello di flessibilità ed efficienza.Vari nostri studi hanno avuto come finalità la verifica della relazione tra le singole funzioni dell’esecutivo centrale e l’abilità matematica e, più specifica-mente, l’abilità di risolvere i problemi aritmetici (D’Amico, Passolunghi, 2009; Passolunghi, Siegel, 2001; 2004). I risultati di questi lavori hanno messo in luce che il deficit di memoria dei bambini con disabilità matematiche sia

Un deficit nell’esecutivo centrale cruciale nella soluzione dei problemi

Deficit di memoria e difficoltà nei processi inibitori

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connesso con le difficoltà nei processi inibitori, e in particolare con una diffi-coltà a controllare ed eliminare le informazioni irrilevanti (o divenute irrile-vanti per il compito). Prendendo ad esempio gli errori d’intrusione nel compi-to del Listening Span (errori che consistono nel ricordare elementi non target, relativi alle parole che compongono le frasi, ma non corrispondenti alle parole finali delle frasi stesse), essi possono costituire un indice dell’efficienza dei meccanismi di inibizione. L’alto tasso di errori di intrusione compiuti dai bambini con difficoltà matematiche indica che essi tendono a mantenere alta-mente attive in memoria informazioni che inizialmente devono essere elabo-rate, ma che successivamente devono essere scartate ed eliminate. In bambini con disabilità matematiche si evidenzia lo stesso andamento dei risultati (ri-cordo deficitario delle informazioni target e alto ricordo di informazioni in-trusive) in vari compiti di memoria di lavoro e in compiti più complessi, quale il ricordo del testo dei problemi. Si può inoltre osservare un effetto selettivo di tipi diversi di informazioni irrilevanti: bambini con difficoltà matematiche sono particolarmente influenzati negativamente dalle informazioni irrilevanti di tipo numerico contenute nel testo dei problemi, rispetto a quelle di tipo verbale, mentre i risultati opposti si osservano in scolari con disturbo da deficit di attenzione/iperattività (Passolunghi, Marzocchi, Fiorillo 2005). Riguardo a un’altra funzione dell’esecutivo centrale, quella di updating, i nostri risultati sono a sostegno dell’ipotesi di una relazione tra tali processi e abilità di calcolo e soluzione dei problemi. Infatti, bambini con diagnosi di specifica disabilità matematica mostrano prestazioni carenti in compiti di updating (Passolunghi, Pazzaglia, 2005). Altre ricerche, che hanno seleziona-to e messo a confronto gruppi di bambini con alto o basso livello nei processi di updating, hanno riscontrato che il gruppo con basse abilità di updating, pur non differendo per abilità intellettive, presenta carenti abilità di calcolo, soluzione dei problemi e ricordo delle informazioni rilevanti di un testo di un problema (Passolunghi, Pazzaglia, 2004). Per quanto riguarda la relazione tra processi di shifting e abilità matematiche, la ricerca è ancora limitata e ulteriori studi sono necessari per chiarificare il tema. Ricordiamo però che alcune ricerche hanno messo in luce che bambini con difficoltà nell’area matematica presentano prestazioni carenti, e particolar-mente una percentuale più alta di risposte perseverative nell’uso di strategie (Bull, Johnston, Roy, 1999). Bull e Scerif (2001) ipotizzano che le risposte perseverative possono essere considerate una misura della capacità di inibire una strategia appresa, ma non più utile per il compito. La sperimentazione di training riguardanti lo sviluppo dei processi cognitivi implicati nei processi di apprendimento sembra essere particolarmente pro-mettente ed efficace. Sono però ancora limitati i tentativi di potenziare le abilità mnestiche per sviluppare specifiche abilità scolastiche. Tra questi ri-cordiamo gli studi di Hays e Pereira (1972) e di Whisler (1974), che dimostra-no che un training di memoria visiva produce significativi miglioramenti

Training di memoria

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nell’abilità di lettura di bambini di una classe prima della scuola primaria, e il lavoro di D’Amico (2006), che mette in luce un effetto positivo di un trai-ning di memoria (verbale, visuospaziale e funzioni esecutive) sull’apprendi-mento matematico all’inizio della scolarità primaria. Per quanto riguarda lo sviluppo delle abilità di metamemoria e l’utilizzo consapevole di specifiche strategie, ricordiamo i programmi Memoria e metacognizione di Cornoldi e Caponi (1991) e Abilità visuo-spaziali di Cornoldi, Friso, Giordano et al. (1997). Alla luce dei principali risultati raggiunti dalle recenti ricerche, che abbiamo delineato nei paragrafi precedenti, abbiamo progettato e sperimen-tato un programma volto al potenziamento delle abilità che si sono rivelate predittive e influenti sulla capacità di soluzione dei problemi aritmetici. Il training Risolvere problemi aritmetici (Passolunghi, Bizzaro, 2005) promuove lo sviluppo non solo delle componenti cognitive e metacognitive implicate nella risoluzione di un problema aritmetico, ma anche delle abilità mnestiche implicate nel processo risolutivo. I risultati ottenuti nella sperimentazione dimostrano la sua utilità e una maggiore efficacia, quando messo a confronto con i risultati di un programma di attività basato sugli usuali esercizi didatti-ci (Passolunghi, Bizzaro, 2007).

3.1.2. Memoria di lavoro e comprensione del testo Numerosi studi conver-gono nel dimostrare una chiara relazione tra la memoria di lavoro e l’abilità di comprensione del testo. Tuttavia la discussione è tuttora ancora aperta ri-guardo al legame tra difficoltà di comprensione e memoria di lavoro, legame che potrebbe essere specifico, dipendente dalla modalità del compito (i com-piti verbali potrebbero essere più predittivi di quelli visuospaziali), oppure di carattere generale, indipendente dalla modalità, ma particolarmente dipen-dente dal controllo attentivo. In quest’ultimo caso, compiti che richiedono processi di manipolazione e immagazzinamento dell’informazione, quale ad esempio il Listening Span, possono essere più predittivi di compiti che richiedono prevalentemente processi di immagazzinamento, come ad esem-pio prove di span parole/numeri in avanti. I risultati di una meta-analisi di Carretti e collaboratori (2009) hanno messo in luce che i compiti di memo-ria che richiedono un certo grado di controllo attentivo e l’elaborazione di materiale verbale sono i migliori indicatori nel distinguere tra individui con buone o carenti abilità di comprensione. Il risultato sembra indicare che sia fattori dominio specifici (il tipo di materiale da elaborare) sia fattori domi-nio generale, quali il livello di controllo attentivo, contribuiscono a spiegare sia la difficoltà sia il successo nella capacità di comprensione. La relazione può essere spiegata dal fatto che nella comprensione di un testo un lettore non deve solo mantenere l’informazione, ma soprattutto la deve elaborare attivamente (selezionando ad esempio le parti importanti, scartan-do gli elementi meno rilevanti) e la deve integrare con le sue conoscenze pre-cedenti. Coerentemente con questa interpretazione, le differenze individuali

Compiti con alto livello di controllo predittori dell’abilità di comprensione

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nell’abilità di comprensione risultano essere particolarmente salienti nelle capacità tipiche dell’esecutivo centrale, e in particolare nei processi di updating e di inibizione. Il fatto che compiti con un alto livello di richiesta attentiva siano i migliori predittori dell’abilità di comprensione rispetto a compiti di span semplice in avanti (Daneman, Merikle, 1996) e che le difficol-tà dei comprensori meno abili siano anche in parte legate alla specifica diffi-coltà nell’elaborazione di materiale verbale è particolarmente coerente con modelli non unitari della memoria di lavoro (cfr. Cornoldi, Vecchi, 2003). Per quanto riguarda le possibili implicazioni per il trattamento, i risultati della letteratura mettono in luce che la memoria di lavoro è un importante fattore per individuare le difficoltà di comprensione (Gathercole, Alloway, Willis et al., 2006). Questi dati sottolineano l’importanza della valutazione della ml per caratterizzare il profilo cognitivo dei comprensori deficitari. Abbiamo già accennato alla fine del paragrafo precedente ai benefici derivan-ti dai training sulla ml, ora ricordiamo che vari studi, prevalentemente con adulti e anziani, dimostrano che potenziare l’uso di strategie mnemoniche, quale l’immaginazione e l’elaborazione semantica, può migliorare anche la comprensione del testo (ad esempio, Carretti, Borella, De Beni, 2007; Caval-lini, Pagnin, Vecchi, 2003). Un aumento dell’efficienza della ml può infatti produrre un aumento della capacità di mantenere l’informazione rilevante per la costruzione del modello mentale del testo. Future ricerche potrebbero offrire ulteriori dimostrazioni a sostegno della necessità di introdurre la valu-tazione e il potenziamento della ml nel campo della comune pratica clinica ed educativa.

3.1.3. Disturbo specifico di linguaggio Il disturbo specifico di linguaggio (dsl, Specific Language Impairment) è definibile come una limitazione signi-ficativa in uno o più ambiti della competenza linguistica riscontrata in assen-za di deficit sensoriali, cognitivi, motori, affettivi o associati a gravi problemi di ordine socioambientale. I bambini con dsl presentano difficoltà di varia gravità nella comprensione, produzione, utilizzo del linguaggio, in una o più componenti linguistiche (fonologia, semantica, sintassi, pragmatica). Nono-stante la definizione faccia riferimento a un disturbo specifico, non sempre le cose stanno così. Infatti, sebbene la funzione del linguaggio sia la più colpita nei dsl, spesso accanto a tale deficit vi sono difficoltà nella cognizione non verbale, nelle capacità motorie fini e nell’attenzione. La prevalenza dei dsl in età prescolare è intorno al 6-8% (Tomblin, Records, Buckwalter et al., 1997), mentre in età scolare tale prevalenza scende fino all’1-2%. Tra le cause del dsl viene ipotizzata una riduzione nella velocità di elaborazione delle informazioni (speed of processing; Bishop, 1997). La ridotta capacità nella memoria di lavoro fonologica è un’altra causa associata alla dif-ficoltà di comprensione delle parole e allo sviluppo del vocabolario. Per convenzione vengono definiti come parlatori tardivi (late talkers) quei

Immaginazione ed elaborazione semantica possono migliorare la comprensione del testo

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bambini nei quali la comparsa del linguaggio è ritardata rispetto ai coetanei normali (cfr. cap. 8), e che presentano un vocabolario espressivo inferiore o uguale al 10o percentile a 24 mesi e/o assenza di linguaggio a 30 mesi. Molti studi indicano che i parlatori tardivi facilmente sviluppano in tempi succes-sivi specifici problemi di linguaggio. Le produzioni fonologiche dei parlatori tardivi sono caratterizzate da un repertorio ristretto di gesti articolatori, im-maturità sillabica delle lallazioni e limitatezza nell’espressione dei fonemi. Fattori di rischio extralinguistici vengono considerati: la familiarità per pro-blemi del linguaggio, il genere (i maschi sono più colpiti) e le otiti ricorrenti nei primi anni di vita. Nei bambini a rischio è molto importante prendere in esame il ritmo di ac-quisizione del linguaggio e, se questo è lento, è utile iniziare con un inter-vento (non strettamente logopedico perché potrebbe risultare troppo gra-voso) già a partite dai 24 mesi. È necessario che i genitori si rendano conto dell’importanza di parlare al bambino in modo appropriato al suo livello, sostenendo e incoraggiando ogni tentativo di comunicazione. Il linguaggio dovrebbe essere concreto, ancorato al contesto, con l’adulto in grado di di-rigere l’attenzione del bambino su oggetti visibili in modo da facilitare l’as-sociazione tra parola e oggetto. Vari studi hanno messo in luce l’importanza del comportamento comunicativo genitoriale sullo sviluppo linguistico dei figli. Spesso si è osservato che genitori di figli con dsl presentano un minor numero di interazioni comunicative, evitano negoziazioni e tendono a utiliz-zare stili comunicativi che privilegiano punizioni e rimproveri. I bambini con dsl presentano molti aspetti simili a coloro che soffrono di dislessia; tuttavia, secondo vari autori, questi disturbi non possono essere considerati appartenenti a uno stesso continuum (Bishop, Snowling, 2004). Nonostante varie somiglianze tra i due disturbi dal punto di vista comporta-mentale, va osservato che i dislessici presentano difficoltà con gli automati-smi della lingua scritta, ma buona padronanza della lingua orale, che è al con-trario carente negli individui con dsl. Inoltre, nonostante la presenza di problemi simili tra bambini dislessici e con dsl nell’elaborazione fonologica, i bambini con dsl hanno ulteriori deficit nell’area della semantica, della sin-tassi e dell’elaborazione del discorso, il cui impatto sull’apprendimento scola-stico è spesso sottovalutato a causa di una tendenza a concentrarsi sulla lettu-ra di singole parole piuttosto che sulla globalità del testo. Un aspetto che accomuna però individui con dsl e dislessici è il deficit nella memoria di la-voro fonologica, che ha una funzione rilevante nei processi di mantenimento dell’informazione linguistica, in quelli di corrispondenza suono-lettera e di legame tra sequenze di lettere e fonologia ortografica. Gathercole e Baddeley (1990) furono tra i primi a ritenere che alla base del dsl e delle difficoltà nell’apprendimento del vocabolario vi sia un deficit nel-la memoria di lavoro fonologica. Essi infatti hanno dimostrato che bambini con dsl manifestano una maggiore difficoltà nel ripetere parole composte

dsl e dislessia

Dislessie e dsl disturbi simili o differenti?

Deficit nella memoria di lavoro fonologica e dsl

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da tre o quattro sillabe rispetto a bambini con uno sviluppo tipico nelle com-petenze linguistiche. Gli autori hanno osservato che in un test di competenza linguistica e di vocabolario bambini con un’età media di 8 anni con dsl pre-sentano una prestazione paragonabile a quella di bambini di 6 anni e persino una prestazione a livello di bambini di 4 anni in un compito di ripetizione di non parole. Essi quindi hanno ipotizzato che a determinare i problemi dei bambini con dsl nell’apprendimento di nuove parole sia una ridotta capaci-tà di immagazzinamento di informazioni verbali. Studi successivi hanno riscontrato evidenze simili a quelle riportate da Gathercole e Baddeley. Il lavoro di Alloway e Archibald (2008) sembra con-fermare l’ipotesi della selettività: i bambini con dsl hanno prestazioni più basse nell’immagazzinamento e nell’elaborazione, ma solo con materiale ver-bale e non con quello visuospaziale. Va tuttavia notato che bambini con dsl possono manifestare non solo un’inferiore capacità di memorizzazione, ma anche una ridotta capacità percettiva degli stimoli, specie quelli relativi alle non parole. Il dibattito relativo alla selettività del disturbo della memoria di lavoro nei bambini con dsl è quindi tuttora ancora aperto.

3.2. Memoria di lavoro e disabilità intellettiva Spesso la disabilità intellettiva dovuta a cause genetiche è associata a deficit di memoria, tuttavia i sistemi di memoria possono essere deficitari o preservati a seconda del tipo di sindrome genetica. In questa sezione esamineremo quindi i profili di memoria nelle sindromi genetiche più comuni associate alla disabilità intellettiva, quali la sindrome di Down, di Williams, di X fragile e di Prader Willi. Per il ruolo della memoria nella testimonianza nello sviluppo atipico si veda il riquadro 2.

riquadro 2 Falsi ricordi e testimonianza nello sviluppo atipico

La necessità di verificare la qualità e l’attendibilità della testimonianza infantile nel caso di violenze, abusi sessuali o altri crimini, ha portato a un aumento delle ricerche volte a chiarire la veridicità, l’affidabilità e la suscettibilità dei ricordi e a cercare di definire quali possano essere i metodi migliori da utilizzare con bambini, adolescenti e adulti. In particolare, quan-do le persone chiamate a testimoniare in aula fanno parte di quelle che vengono definite “popolazioni cliniche”, ci si chiede quali siano le implicazioni dei loro ricordi sulla veridicità della loro testimonianza e quanto questi coincidano con quelli dello sviluppo tipico. Tutta-via, non si conosce ancora a sufficienza il funzionamento dei processi di memoria di base di tali popolazioni. A tale scopo, viene spesso utilizzato, soprattutto nell’ambito della ricerca, il paradigma drm. Esso viene impiegato anche nelle popolazioni atipiche per verificare il ruolo della conoscenza concettuale e semantica nella suscettibilità agli errori di memoria. Alcuni studi effettuati su popolazioni tipiche in via di sviluppo (Lyons, Ghetti, Cornoldi, 2010) e atipiche (Mirandola, Paparella, Re et al., 2012) hanno utilizzato invece un adattamento del paradigma drm. In questa versione, sono state presentate una serie di fotografie ritraenti azioni comuni di scene quotidiane, definite “script” (ad esempio, una persona che mangia al ristorante). Successivamente ai soggetti venivano mostrate alcune fotografie di azioni tipiche inerenti alla scena, oppure immagini di possibili effetti (ad esempio, una persona che pulisce il tavolo del ristorante) di cause non presentate nell’episodio (ad esempio, un bicchiere di

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3.2.1. Sindrome di Down Come ben noto, questa sindrome è causata dall’a-nomalia del cromosoma 21, ossia la presenza di un cromosoma 21 in più. La sindrome di Down (sd) è la causa cromosomica più diffusa associata a

coca rovesciato). Grazie a questo paradigma è possibile analizzare due tipologie di errori: l’errore di tipo gap-filling (ricordare, in modo non corretto, di aver visto un evento coerente con lo script che in realtà non era mai stato presentato) e l’errore di tipo backward causal-inference (ricordare, erroneamente, di aver incontrato una causa, in realtà mai presentata, di un effetto che invece era stato visualizzato precedentemente). Come accennato poco sopra, questo paradigma viene utilizzato anche come strumento di valu-tazione nello sviluppo atipico. Alcuni studi recenti, che hanno utilizzato tale paradigma, hanno messo in luce che i bambini con difficoltà di apprendimento e scarse capacità di elaborazione semantica produrrebbero un minor numero di falsi ricordi rispetto ai bambini con sviluppo tipico. I bambini con diagnosi di disturbo da deficit di attenzione/iperattività, ad esempio, pre-sentano talvolta una compromissione dell’elaborazione della memoria semantica (Cornoldi, Barbieri, Gaiani et al., 1999; Shallice, Marzocchi, Coser et al., 2002). Mirandola e collaboratori (2012) hanno infatti dimostrato che questi bambini non producono complessivamente un nu-mero più elevato di errori di memoria rispetto ai bambini tipici. Analizzando le prestazioni di questi bambini, si riscontra però una maggiore produzione di errori backward causal-inferen-ce e quindi la tendenza a ricordare di aver visualizzato una causa in realtà mai presentata. Al-tro dato che emerge è che i bambini con disturbo da deficit di attenzione/iperattività mostrano di essere molto più fiduciosi in merito alle loro risposte rispetto ai pari con sviluppo tipico. Per quanto riguarda i bambini con diagnosi di disturbo dell’apprendimento, in particolare con dislessia e disturbo dell’apprendimento non verbale (danv o nld), viene confermato il profilo precedentemente esposto. Infatti, essi producono tendenzialmente un numero inferiore di errori di memoria rispetto ai bambini con sviluppo tipico, associabile a una scarsa abilità di elaborazione semantica delle informazioni. Analizzando in modo approfondito la tipolo-gia di errori commessi, gli studiosi hanno evidenziato che, mentre i bambini con diagnosi di dislessia presentavano un numero simile di entrambe le tipologie di errore, i bambini con danv, commettevano un maggior numero di errori backward causal-inference, dimostrando-si inoltre più inclini ad attribuire effetti negativi a cause non visualizzate precedentemente (Mirandola, Losito, Ghetti et al., 2014). Riassumendo, se da un lato la scarsa abilità di elabo-razione semantica consente di produrre un minor numero di falsi ricordi, questo non sembra essere confermato per i soggetti con disabilità intellettiva. Dalla letteratura riguardante le disabilità intellettive di varia eziologia emerge che anche queste persone possono fornire un racconto accurato e perciò testimoniare particolari eventi. I risultati di numerose ricerche sui falsi ricordi nelle disabilità intellettive suggeriscono che, al fine di ottenere una maggio-re affidabilità del ricordo, sono necessari alcuni accorgimenti. Anzitutto è opportuno che la testimonianza venga fatta a breve distanza dall’evento in quanto questo permette di ridurre il decadimento della traccia mnestica. Un secondo accorgimento riguarda la tipologia di do-mande da utilizzare: si è visto, ad esempio, che, quando la rievocazione dell’evento è libera, l’attendibilità della testimonianza è maggiore. Man mano che le domande diventano chiuse l’accuratezza del ricordo tende a diminuire (Kebbell, Hatton, 1999). Dai dati emerge ancora che, di fronte a domande ripetute, spesso le persone con disabilità intellettiva tendono a cambiare anche le risposte date precedentemente e quindi a confondere i dettagli dell’even-to riportato (Henry, Gudjonsson, 2003). Studi che hanno utilizzato il paradigma drm hanno evidenziato la tendenza delle persone con disabilità intellettiva a rispondere in modo affer-mativo quando vengono fatte domande relative a eventi che non sono accaduti realmente. Vista l’importanza di capire e conoscere il grado di attendibilità delle testimonianze di quelle che abbiamo precedentemente definito “popolazioni cliniche”, sono necessarie ancora nu-merose ricerche che permettano di esaminare l’attendibilità, nonché i punti di forza e di de-bolezza, delle testimonianze fornite da queste popolazioni.

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disabilità intellettiva. L’incidenza attuale è all’incirca di uno ogni 700 nati (Sherman, Allen, Bean et al., 2007; Mégarbané, Ravel, Mircher et al., 2009). Gran parte degli individui con tale sindrome presenta da moderati a severi deficit intellettivi come pure una serie di disturbi di tipo fisico (ad esempio, sovrappeso, disturbi cardiaci). Spesso è presente un deficit di linguaggio, con diversi livelli di severità, mentre sono relativamente preservate le abilità visuospaziali. Per quanto riguarda la memoria di lavoro, la componente dell’esecutivo centrale sembra essere particolarmente deficitaria, in particolare i bambini con sd mostrano severe difficoltà in compiti di memoria di lavoro che ri-chiedono un alto livello di controllo e manipolazione del materiale da ricor-dare. Tale difficoltà sembra essere caratteristica in individui con disabilità intellettiva dovuta a cause organiche o a sindromi genetiche (Lanfranchi, Vianello, 2006; Lanfranchi, Cornoldi, Vianello, 2003). I bambini con sd presentano abilità carenti nella memoria di lavoro fonologica (compiti di span di numeri/cifre in avanti) specie se confrontate con il loro livello intel-lettivo e la loro abilità linguistica (Seung, Chapman, 2004; Vicari, Bellucci, Carlesimo, 2003). Confrontando le prestazioni di bambini con sd con quelle di bambini con sviluppo tipico di pari età mentale in compiti di ml verbale si riscontra una performance decisamente deficitaria nel primo gruppo. Tale performance peggiorerebbe con l’aumento della difficoltà del compito (Carney, Brown, Henry, 2013; Lanfranchi, Jerman, Dal Pont et al., 2010). Vi sono però alcuni studi che mostrano casi di individui in cui tale sistema di memoria non presenta differenze rispetto a coetanei di pari età mentale. È possibile che tutto il sistema del loop fonologico sia danneggiato oppure che lo siano solo alcune funzioni specifiche, quale ad esempio quella relativa al meccanismo di reiterazione. Vari risultati sono però attualmente a sostegno dell’idea che la difficoltà nel rehearsal non sia la causa primaria della difficoltà nella memoria fonologica in bambini con sd ( Jarrold, Bad-deley, Hewes, 2000; Jarrold, Baddeley, Philips, 2002; Seung, Chapman, 2000). Per quanto riguarda le abilità di memoria visuospaziale, valutate in genere con il test di Corsi, esse sembrano essere preservate se confrontate con quelle della memoria fonologica. Laws (2002) ha ipotizzato che sia la componente spaziale del test di Corsi a favorire la memorizzazione negli individui con sd. Concordemente con tale ipotesi Lanfranchi, Cornoldi e Vianello (2004) hanno messo in luce che bambini con sd mostrano abilità per il ricordo di configurazioni spaziali e ricordo di posizioni sostanzialmente analoghe a quelle di bambini con sviluppo tipico di pari età mentale. La componente dell’esecutivo centrale sembra essere particolarmente defici-taria, in particolare questi bambini mostrano severe difficoltà in compiti di ml che richiedono un alto livello di controllo e manipolazione del materiale da ricordare (per una rassegna della letteratura cfr. Godfrey, Lee, 2018).

L’esecutivo centrale

Abilità di memoria visuospaziale

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Inoltre, negli ultimi anni la ricerca si è focalizzata maggiormente sull’inibi-zione nelle persone con sd, argomento fino a oggi poco indagato e ancora dibattuto. In un recente studio di Traverso e collaboratori, bambini e adole-scenti con sd sono stati confrontati con bambini a sviluppo tipico di pari età mentale. Questa ricerca ha dimostrato un rallentamento nella traiettoria di sviluppo delle persone con sd sia nella capacità di inibire una risposta che in quella di gestire e controllare le informazioni interferenti. Visto l’importante ruolo dei meccanismi inibitori per altre abilità cognitive, come ad esempio la ml o l’intelligenza, gli autori di tale studio sostengono che sia importante sviluppare fin dall’infanzia lo sviluppo di tali meccanismi nelle persone con sd (Traverso, Fontana, Usai et al., 2018). Per quanto riguarda la mlt, la loro prestazione è carente non solo se con-frontata con quella di bambini con sviluppo tipico, ma anche se comparata con quella di altri individui con ritardo mentale con differente eziologia. Si è inoltre osservata una dissociazione tra memoria implicita e memoria esplici-ta: essi risultano essere particolarmente carenti in compiti di memoria espli-cita, ma hanno prestazioni simili a bambini con sviluppo tipico in compiti di memoria implicita (cfr. Vicari, Bellucci, Carlesimo, 2000).

3.2.2. Sindrome di Williams Questa sindrome è un raro disordine genetico, con incidenza all’incirca di 1 : 20.000, dovuto a una microdelezione del cro-mosoma 7 e precisamente nella regione q11.23. È caratterizzata da specifiche anomalie muscoloscheletriche, dismorfismi facciali e anomalie renali e car-diovascolari. Nonostante la disabilità intellettiva, gli individui con sindrome di Williams (sw) mostrano abilità sia di linguaggio sia di ricordo di volti relativamente buone, mentre presentano seri deficit nelle abilità spaziali.Le abilità di memoria fonologica sono considerate un loro punto di forza e sono in genere corrispondenti, o persino superiori, al loro livello di età menta-le. Al contrario sono severamente deficitarie le abilità di memoria visuospazia-le (Mervis, Morris, Bertrand et al., 1999). Più in particolare, Vicari, Bellucci e Carlesimo (2003) hanno trovato in individui con sw una dissociazione tra abilità di memoria di lavoro spaziale e memoria di lavoro visiva: abilità in compiti spaziali carenti, ma capacità in compiti visivi analoghe a quelle di un gruppo di controllo con sviluppo tipico di pari età mentale. Per quanto riguarda la memoria a lungo termine spesso le loro prestazioni so-no carenti, tuttavia Vicari, Bellucci e Carlesimo (2000) hanno evidenziato dei dati contrari, mostrando che individui con sw presentano un profilo simile a soggetti con sviluppo tipico di pari età mentale. Nella memoria implicita essi presentano particolari difficoltà nell’apprendimento di nuove procedure.

3.2.3. Sindrome di X fragile La sindrome di X fragile è una malattia genetica dovuta a un’alterazione del cromosoma X che riguarda approssimativamente 1 : 4.000 maschi e 1 : 8.000 femmine (Turner, Webb, Wake et al., 1996). Poi-

Differenze nell’inibizione e nel controllo delle informazioni

Abilità preservate e abilità compromesse

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ché il gene è localizzato nel cromosoma X, la malattia si manifesta in modo diverso nei due sessi. Nonostante la notevole prevalenza di tale sindrome, è possibile che essa sia considerevolmente sottodiagnosticata, vista la presenza di forme di gravità differente e la mancanza di caratteristiche fisiche peculia-ri. Spesso gli individui con tale sindrome presentano difficoltà d’attenzione e comportamento impulsivo. La mlt sembra essere meno gravemente deficitaria negli individui con sin-drome di X fragile. Per quanto riguarda la memoria di lavoro, vari studi evi-denziano che in tale sindrome spesso vi è un deficit nell’esecutivo centrale, con conseguente carenza nei processi di controllo, di pianificazione-organiz-zazione dell’informazione, shifting e passaggio da un concetto a un altro (Munir, Cornish, Wilding, 2000; Mazzocco, Pennington, Hagerman, 1993). Per quanto riguarda i moduli del loop fonologico e del taccuino visuospaziale, i risultati non sono ancora chiari: alcuni studi hanno individuato un deficit selettivo nella memoria di lavoro visuospaziale, con un loop fonologico relati-vamente preservato (Freund, Reiss, 1991a; Shapiro, Murphy, Hagerman et al., 1995), mentre altri hanno riscontrato un deficit generalizzato (Munir, Cor-nish, Wilding, 2000; Cornish, Munir, Cross, 2001).

3.2.4. Sindrome di Prader Willi La sindrome di Prader Willi è un’anomalia genetica, relativa alla delezione nell’area 15q11-q13, presente nel braccio lungo del cromosoma 15 di origine paterna. L’incidenza stimata è di circa 1 : 8.000-1 : 25.000 nascite. La maggioranza degli individui con tale sindrome presen-ta generalmente una disabilità intellettiva di grado lieve o moderato. I loro punti di forza sono nell’attenzione visiva paragonata a quella uditiva, nel-la memoria a lungo termine confrontata con quella a breve termine; molti dati indicano inoltre una loro notevole abilità nel risolvere i puzzle (State, Dykens, Lombroso, 2000). I punti di debolezza risultano essere nell’elaborazione uditiva di informazione verbale e sequenziale e nella ml. In particolare, le difficoltà nella ml sono più elevate di quanto ci si potrebbe aspettare in base al loro livello intellettivo. Co-me abbiamo detto, le loro difficoltà sono particolarmente marcate nell’atten-zione uditiva: ciò può essere dovuto a una disfunzione cerebrale o a un’infezio-ne cronica del canale uditivo. Questo potrebbe causare particolari difficoltà soprattutto nella memoria verbale. Walley e Donaldson (2005) hanno infatti trovato che individui con questa sindrome presentano maggiori difficoltà in compiti di memoria verbale rispetto a quelli con materiale visuospaziale.

In questo capitolo

• Si sono illustrati i principali modelli della memoria, evidenziando le di-verse componenti di cui quest’ultima si compone, con particolare riferimen-to alla memoria di lavoro.

Abilità preservate e abilità compromesse

Abilità preservate e abilità compromesse

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• Si è descritto lo sviluppo tipico dei processi di memoria attraverso un’ac-curata analisi dei fattori di sviluppo specifici lungo l’intero ciclo di vita e la presentazione delle caratteristiche peculiari della memoria a lungo termine. • Si sono trattati argomenti di interesse attuale, quali l’affidabilità del ri-cordo nella testimonianza infantile e la valutazione della suggestionabilità.• Si sono presentate alcune esemplificazioni di sviluppo atipico relative alla memoria di lavoro (disturbi dell’apprendimento) e all’area del ritardo mentale.

Per approfondire

cornoldi c., de beni r. (2005), Vizi e virtù della memoria, Giunti, Firenze.

Il volume illustra in maniera chiara e aggiornata i punti di forza e di debolezza della

nostra memoria.

d’alessio m., raffone a. (2008), La memoria nello sviluppo, Laterza, Roma-Bari.

Il volume presenta una panoramica storica delle ricerche sullo sviluppo della memoria

e prende in esame i processi e i sistemi della memoria umana e le strutture cerebrali.

d’ambrosio a., supino p. (2014), La sindrome dei falsi ricordi. Cosa sono i falsi ricordi, come individuarli e ridurne il rischio, FrancoAngeli, Milano.

Il volume si propone di affrontare i diversi modi con cui possono essere prodotti

i falsi ricordi, prendendo in analisi la cosiddetta “sindrome dei falsi ricordi”. Tale

volume fornisce una visione d’insieme, prendendo in esame la prospettiva neuro-

cognitiva, psicologica-psichiatrica e forense in merito all’argomento.

friso-van den bos i., van der ven s. h. g., kroesbergen e. h., van luit

j. e. h. (2013), Working Memory and Mathematics in Primary School Children: A Meta-Analysis, in “Educational Research Review”, 10, pp. 29-44.

L’articolo si focalizza sul ruolo della memoria di lavoro nelle abilità matematiche in

bambini della scuola primaria, analizzando e confrontando tra loro numerosi studi

presenti in letteratura.

wright d. b., ost j., french ch. c. (2006), Recovered and False Memories, in

“The Psychologist”, 19, pp. 352-5, https://thepsychologist.bps.org.uk/volume-19/

edition-6/recovered-and-false-memories.

L’articolo può essere consultato per approfondire il ruolo della memoria di lavoro

nelle false memorie.

Prova di autovalutazione dell’apprendimento

1. Le principali funzioni della memoria di lavoro (ml) sono:a) mantenere per breve tempo le informazioni durante l’esecuzione di com-piti cognitivi senza però manipolarle.

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b) manipolare per breve tempo le informazioni dopo l’esecuzione di com-piti cognitivi (quali ad esempio compiti di apprendimento, di ragionamento e di comprensione).c) mantenere per breve tempo e manipolare le informazioni durante l’ese-cuzione di compiti cognitivi (quali ad esempio compiti di apprendimento, di ragionamento e di comprensione).d) immagazzinare in memoria per lungo tempo le informazioni utili al re-cupero di un evento passato.

2. Quali sono le componenti della ml nel modello proposto da Baddeley e Hitch (1974)?a) L’esecutivo centrale e un unico sistema subordinato (il loop articola-torio).b) L’esecutivo centrale, due sistemi subordinati (il loop articolatorio e il tac-cuino visuospaziale) e il sistema attentivo supervisore (sas).c) Due sistemi centrali (l’esecutivo centrale e il taccuino visuospaziale) e un sistema subordinato (il loop articolatorio).d) L’esecutivo centrale e due sistemi subordinati (il loop articolatorio e il taccuino visuospaziale).

3. Quale affermazione in merito ai “falsi ricordi” è falsa?a) I bambini riescono a resistere maggiormente alla suggestione quando vie-ne data loro la possibilità di esplicitare le fonti dell’informazione e di com-prendere l’origine dei ricordi.b) Nella maggior parte delle ricerche di psicologia cognitiva che hanno at-tualmente per tema la testimonianza infantile viene usato il paradigma della “memoria episodica”, nel quale il bambino vede lo svolgersi dell’azione di un evento oppure sente una storia in cui egli non risulta essere il partecipante attivo.c) La semplice esposizione alle domande degli adulti in relazione a eventi che non hanno avuto luogo è sufficiente, in determinate circostanze, a creare dei falsi ricordi.d) I processi metacognitivi hanno un ruolo marginale nel ridurre i falsi ri-cordi e la suggestionabilità della testimonianza del bambino.

4. Nella maggior parte dei casi di disabilità intellettiva dovuta a cause ge-netiche si riscontrano compromissioni della ml. Nel caso della sindrome di Williams, quali sono le componenti della ml in cui si osserva una compro-missione più marcata? a) Esecutivo centrale, componente visuospaziale.b) Loop fonologico, componente visuospaziale.c) Esecutivo centrale, loop fonologico.d) Componente visuospaziale, loop fonologico.

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5. Nel caso della sindrome di Down, quali sono le componenti della me-moria di lavoro in cui si osserva una compromissione più marcata?a) Esecutivo centrale, componente visuospaziale.b) Loop fonologico, componente visuospaziale.c) Esecutivo centrale, loop fonologico.d) Componente visuospaziale, loop fonologico.

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