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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 13 APRILE 2014 NUMERO 475 Eravamo abituati a pensarlo come il grande fotografo del bianco e nero e della guerra E non avevamo ancora visto tutto NEW YORK ELLE GARE DI APNEA da ra- gazzino arrivavo fino a tre minuti. L’apnea è discipli- na mentale, se riesci a trat- tenere il respiro, a non ce- dere alla dittatura del diaframma, allora rie- sci anche a controllare le emozioni. Arrivo all’International Center of Photo- graphy di New York e tiro con il naso tutta l’a- ria possibile per riempire i polmoni. Davve- ro non so se davanti alle immagini che han- no costruito segmento dopo segmento la vi- sione che ho del mondo, le mie funzioni vita- li resteranno inalterate. Incontrare le foto di Robert Capa è come stare davanti a Raffael- lo o Caravaggio. Tutte le immagini che ave- te in mente sulla Seconda guerra mondiale, sulle truppe americane in Italia, sulla guer- ra in Spagna, sugli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento, sulle città bom- bardate, ecco, tutte queste immagini na- scoste in qualche angolo remoto della vostra memoria, esistono in voi perché è esistito Ro- bert Capa. Un fotoreporter che aveva quasi sempre la sua macchina fotografica pigno- rata e riusciva a riscattarla solo quando rice- veva i soldi di anticipo per un servizio foto- grafico. I suoi scatti più noti sono ormai proprietà della memoria di tutti: il miliziano anarchico colpito a morte nella guerra di Spagna, la sua foto forse più citata, le madri in lutto intorno alle bare dei ragazzi del liceo Sannazaro mor- ti combattendo i tedeschi nelle Quattro Giornate di Napoli. Le immagini sfocate del- lo sbarco in Normandia, quelle a cui Spiel- berg si ispirò per la sequenza iniziale di Sal- vate il soldato Ryan. Foto per definizione in bianco e nero. Per questo la mostra “Capa in Color” allestita qui per celebrarne il cente- nario rappresenta una sorta di shock visivo. Prima di tutte c’è quella, incredibile, di Ca- pucine, donna bellissima e sfortunata, mor- ta suicida a sessantadue anni. Incredibile perché standole accanto senti le sue narici respirare. Il mento posato sul pugno, la luce di Piazza di Spagna, la camicia rossa. In quel- lo scatto sembra esserci già tutto il suo de- stino, ed è la prova dell’arte di Capa che con il suo occhio, con il suo sguardo unico fonda un genere letterario. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE con un articolo di MICHELE SMARGIASSI Capa colori Il personaggio Issey Miyake “Ma non chiamatemi stilista” Spettacoli Andrea Camilleri “Mezzo secolo da funzionario della Rai” La copertina. Cosa succede se si spegne internet Straparlando. Giorgio Gaslini: “L’Africa e il jazz” La poesia del mondo. La “Bella gioventù” di Benn a N ROBERTO SAVIANO “CAPUCINE, MODELLA E ATTRICE FRANCESE, AL BALCONE (ROMA, AGOSTO 1951)” © ROBERT CAPA/INTERNATIONAL CENTER OF PHOTOGRAPHY/MAGNUM PHOTOS Cult Repubblica Nazionale

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 13 APRILE 2014 NUMERO 475

Eravamo abituati a pensarlocome il grande fotografodel bianco e nero e della guerraE non avevamo ancora visto tutto

NEW YORK

ELLE GARE DI APNEA da ra-gazzino arrivavo fino a treminuti. L’apnea è discipli-na mentale, se riesci a trat-tenere il respiro, a non ce-

dere alla dittatura del diaframma, allora rie-sci anche a controllare le emozioni.

Arrivo all’International Center of Photo-graphy di New York e tiro con il naso tutta l’a-ria possibile per riempire i polmoni. Davve-ro non so se davanti alle immagini che han-no costruito segmento dopo segmento la vi-

sione che ho del mondo, le mie funzioni vita-li resteranno inalterate. Incontrare le foto diRobert Capa è come stare davanti a Raffael-lo o Caravaggio. Tutte le immagini che ave-te in mente sulla Seconda guerra mondiale,sulle truppe americane in Italia, sulla guer-ra in Spagna, sugli ebrei sopravvissuti aicampi di concentramento, sulle città bom-bardate, ecco, tutte queste immagini na-scoste in qualche angolo remoto della vostramemoria, esistono in voi perché è esistito Ro-bert Capa. Un fotoreporter che aveva quasisempre la sua macchina fotografica pigno-rata e riusciva a riscattarla solo quando rice-

veva i soldi di anticipo per un servizio foto-grafico.

I suoi scatti più noti sono ormai proprietàdella memoria di tutti: il miliziano anarchicocolpito a morte nella guerra di Spagna, la suafoto forse più citata, le madri in lutto intornoalle bare dei ragazzi del liceo Sannazaro mor-ti combattendo i tedeschi nelle QuattroGiornate di Napoli. Le immagini sfocate del-lo sbarco in Normandia, quelle a cui Spiel-berg si ispirò per la sequenza iniziale di Sal-vate il soldato Ryan. Foto per definizione inbianco e nero. Per questo la mostra “Capa inColor” allestita qui per celebrarne il cente-

nario rappresenta una sorta di shock visivo. Prima di tutte c’è quella, incredibile, di Ca-

pucine, donna bellissima e sfortunata, mor-ta suicida a sessantadue anni. Incredibileperché standole accanto senti le sue naricirespirare. Il mento posato sul pugno, la lucedi Piazza di Spagna, la camicia rossa. In quel-lo scatto sembra esserci già tutto il suo de-stino, ed è la prova dell’arte di Capa che conil suo occhio, con il suo sguardo unico fondaun genere letterario.

SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

con un articolo di MICHELE SMARGIASSI

Capacolori

Il personaggioIssey Miyake“Ma nonchiamatemistilista”SpettacoliAndreaCamilleri“Mezzo secoloda funzionariodella Rai”

La copertina. Cosa succede se si spegne internet

Straparlando. Giorgio Gaslini: “L’Africa e il jazz”La poesia del mondo. La “Bella gioventù” di Benn

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<SEGUE DALLA COPERTINA

la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 30LA DOMENICA

LA MIA FORMAZIONE, tutto ciò che ho scritto e tutto ciò che hanno scrittogli autori che mi hanno influenzato, discende direttamente da lui. Ilneorealismo letterario, iconografico e cinematografico si è nutrito diRobert Capa. Di questo fotografo che arrivava a stento al metro e ses-santa ed è raccontato dalle biografie come indomito amante, crono-metrico nello sparire quando l’amata mostrava di volerglisi legarein un progetto di vita assieme. Aveva amato anche Ingrid Bergman,e proprio lui l’aveva introdotta al cinema italiano neorealista. Ros-sellini si è nutrito del rigore estetico di Capa, che non era solo scova-re il dramma, ma la sua pericolosa bellezza comunicativa, per ren-dere il dramma in grado di trasformare chi lo osserva. Questo, l’in-segnamento più profondo di Capa al cinema. Il suo lavoro non ci ha

solo consentito di costruire un personalissimo e sontuoso mosaico. No, Capa ha fatto moltodi più: ha fatto letteratura e comunicazione, nelle loro accezioni più moderne. Il suo modo discattare non è denuncia, non è indignazione, non è scelta d’arte, ma è tutte e tre queste coseinsieme. E può esserlo solo perché il suo è uno sguardo che compromette, immerso nella vi-ta, che della vita si bagna e si sporca. Che della vita non ha paura. Che dell’uomo non ha pau-ra. “Se le tue foto non sono abbastanza buone vuol dire che non eri abbastanza vicino”, reci-ta la sua massima più famosa. Stare dentro le cose. Le foto di Capa a colori mostrano proprioquesto: che lui non è in guerra ma è dentro la guerra, è tra i soldati, talmente vicino da ri-schiare la pelle. E questo vale per ogni sua fotografia. Anche per quando fotografa TrumanCapote a Ravello, o Martha Gellhorn mentre passeggia tra le rovine del tempio di Cerere aPaestum. È dentro tutto ciò che fotografa. Dentro tutte le persone che fotografa.

I suoi scatti gli sono costati odi eterni, profondi. Non è mai stato perdonato per la foto delmiliziano anarchico, sulla cui inautenticità esiste un’intera letteratura. Così come non gli so-no mai state perdonate le foto a colori dell’Urss stalinista pubblicate con i testi di John Stein-beck, detestate dai comunisti perché anticomuniste e dagli anticomunisti perché filocomu-niste. Qualunque foto facesse sapeva che avrebbe smosso reazioni istintive. Gli piaceva por-tare immagini di mondo e trasformare lo sguardo delle persone sul mondo.

ROBERTO SAVIANO

Budapest perché mi è capitato di essere natolì; ho avuto modo di fotografare Mosca che disolito non si offre a nessuno; ho fotografatoParigi perché ho vissuto lì prima della guer-ra; Londra perché ho vissuto lì durante laguerra; e Roma perché mi dispiaceva nonaverla mai vista e avrei invece voluto viver-ci». Ci sono foto di famiglie americane in Sviz-zera, patinate, da riviste per turisti, o di quel-le che si distribuiscono nelle agenzie di viag-gio. C’è la Magnani durante le riprese di Bel-lissima. Capa fotografa chiunque in qualsiasisituazione, persone note o sconosciuti, senzasnobismo, perché a lui non interessava avereun ruolo, perché per lui la priorità era staredentro la vita. Sapeva che l’osservazione eracompromissione e questo non lo spaventava.

Aveva imparato da Gerda Taro, che fu suacompagna. Gerda morì a ventisette anni, in-vestita da un carrarmato “amico” del FrontePopolare Repubblicano. Stava guardando incamera mentre era sul predellino di un mez-zo militare. Urtato, lei cadde e finì sotto i cin-golati. Anche Robert Capa nel 1954 in Indo-cina stava guardando in camera. Aveva deci-so di anticipare una colonna militare france-se mentre avanzava. Andò su un terrapieno.Indietreggiando mise il piede su una mina.Gerda e Robert non avevano messo alcuna di-stanza tra loro stessi e i soggetti delle loro fo-to. E questo essere dentro, dentro gli occhi dichi ti è davanti, dentro le sue fasce muscola-ri, dentro i paesaggi, le pieghe dello sguardodi una modella, l’orgoglio e l’insoddisfazionedi un imprenditore borghese, tutto questo èricerca. Capa fotografa con la consapevolez-za che nel momento stesso in cui inizi a cre-dere che la vita ti sia preclusa, che sia vanocercare verità, ecco, proprio allora hai persol’unica possibilità che avevi di essere davve-ro vivo, e di poter incidere su questo mondo.Nel momento in cui decidi di imboccare unadelle migliaia di scorciatoie possibili per mi-mare la vita, hai già perso. Il segreto di RobertCapa non sta nel risultato finale, ma nella ri-cerca, nel viaggio, che non può esistere se noncompromettendo tutto se stesso. Non c’è al-tra salvezza se non stare dentro ciò che vuoicapire. Se non stare dentro la vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“Prima tra tutte c’è

quella di Capucine,

bella e sfortunata...”

Saviano racconta

l’altro Robert Capa

La copertina

la vita

Il fotografodentro Ma le foto che sto osservando non cambia-

no solo il mio sguardo sul mondo, è come se fa-cessero nascere un’urgenza, come se lan-ciassero un allarme: ritornate a guardare ilmondo e non limitatevi a prenderne dei cal-chi, a strappare dal quotidiano una qualun-que immagine per reimmetterla in circuito,per bombardare di fotogrammi inutili che sa-turano la vista e non raccontano nulla. Questiscatti di Capa, infatti, non basta vederli, nonè sufficiente guardarli e poi passare oltre: bi-sogna fermarsi e leggerli. Sulla rivista Holi-day Capa scrive: «Sono tornato a fotografare

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 31

LE IMMAGINI

“CAPA IN COLOR” È IL TITOLO DELLA MOSTRACHE ESPONE LE FOTOGRAFIE A COLORI DI ROBERT CAPAIN CORSO ALL’INTERNATIONAL CENTER OF PHOTOGRAPHYDI NEW YORK FINO AL 4 MAGGIO.QUI SOPRA, “SPETTATORI ALL’IPPODROMODI LONGCHAMPS ” (PARIGI, 1952).IN ALTO DA SINISTRA, “GIOVANI IN ATTESA DI VISITARELA TOMBA DI LENIN SULLA PIAZZA ROSSA” (MOSCA, 1947),“SCIATRICE PRENDE IL SOLE DAVANTI AL MATTERHORN”(ZERMATT, SVIZZERA, 1950), “UNA MODELLA DIOR IN PLACE VENDOME” (PARIGI, 1948)

ER QUINDICI ANNI,quelli dellasua celebrità mondiale, BobCapa girò il mondo con duefotocamere al collo. Una eracaricata con rullini di

Kodachrome. Sì, il grande narratore delmonocromo vedeva a colori, fotografavaa colori. Ma per sessant’anni tanti hannopreferito ignorarlo. Quelle 4200diapositive policrome erano lì, negliarchivi dell’Icp di New York, la casa delfotogiornalismo impegnato creata dalfratello di Bob, Cornell. Ma, a partealcune in un volume di dieci anni fa,nessuno le aveva più tirate fuori dalcassetto. Ne escono adesso, per unamostra, quando Capa compirebbecent’anni. Forse perché col tempo i suoicolori (nessun colore, in fotografia, è“naturale”) hanno preso la patina dellastoria. O forse perché era ora diinfrangere certi tabù, come quello che ilcolore fosse roba per la pubblicità o almassimo la moda.Non erano tutte, come qualche biografoha affermato, “istantanee private”. Perquanto avesse fama di disordinatopokerista e scommettitore sui cavalli,l’apolide esule ungherese Endre Ernö

MICHELE SMARGIASSI

Due macchineal colloe una solaper la guerra

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Friedmann, rinato a Parigi come fintoamericano Robert Capa, è sempre statoun hard worker, per lui la fotografia eramestiere, non scherzo. Le sue foto acolori non sono una curiosità biografica,vederle cambia l’idea che abbiamo di lui.Cominciò a farle nel 1938, in Cina,sperimentando la nuova pellicola perdiapositive che la Kodak aveva messo sulmercato solo due anni prima, perchépensava di poterle vendere. Life infattigliene pubblicò quattro, su Hankou infiamme. Poi, dal 1941, Capa non viaggiòmai senza rullini a colori nella bisaccia. Ma la guerra in Capacolor non è la stessaguerra che Capa scattava in bianco enero. È quasi sempre sorpresa “a riposo”.Capa “sente” il colore, non fotografa acolori, ma fotografa i colori: marines inTunisia sventolano come trofeo unarossa bandiera nazista, soldati britanniciscrutano un azzurrissimo cielo diNormandia su un verdissimo prato. Enon sono tutte foto di guerra, anzi. Irotocalchi che gli chiedevano foto acolori, più che le corazzate delfotogiornalismo come Life, erano spessoquelli di viaggio, come Holiday, o ifemminili come il Ladies’Home Journal.Per i quali il nostro fotografavamontagne svizzere e giornate sugli sci, o i retroscena dellecelebrità, Hemingway cacciatore colfiglio, Picasso al mare con figli e amanti, idivi dei cinema dietro le quinte.Finito il secondo macello mondiale,fondando la Magnum, Capa proclamò divoler diventar il più grande fotografo diguerra disoccupatodel mondo. Non ciriuscì, e la guerra lo ebbe fino alla fine.Ma queste sue tavolozze fotografiche,queste palette inaspettate, sono forseun’ipotesi, un tentativo di quell’altroCapa che voleva essere e non fu.

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 32LA DOMENICA

APPUNTAMENTO è al 21_21 Design Sight, lo spazio espositivo che ha fon-dato nel cuore di Tokyo Midtown. Non ama le interviste e da buon giap-ponese si tiene alla larga da qualunque domanda possa apparirgli trop-po diretta o, figuriamoci, personale. Eppure Issey Miyake non lesinasorrisi quando ci viene incontro indossando con eleganza e amabilitài suoi settantasei anni.

Il Timelo ha inserito nell’elenco degli “asiatici più influenti del Ven-tesimo secolo” insieme a Gandhi, a Mao, al Dalai Lama e all’imperato-re Hirohito, e nel campo della moda ha vinto quasi tutto quello che c’e-ra da vincere. E però se ci sono due etichette che a questo instancabilee visionario sperimentatore vanno strette sono proprio l’Oriente e lamoda: «Le mie esperienze all’estero mi hanno suggerito la creazione

di cose che trascendono le differenze tra una parte o l’altra del pianeta». Quanto al suo lavoro nonsi è mai definito un fashion designer, ha sempre affermato di essere «più semplicemente un desi-gner». E non lo dice per snobismo, ma perché alle parole devono sempre corrispondere i fatti. E ifatti dicono che nel corso della sua lunga carriera Miyake non ha disegnato solo vestiti (o magliet-te: per esempio quelle nere indossate dal suo amico Steve Jobs), ma anche valigie, biciclette, lam-pade, spazi espositivi (per esempio quello in cui ci troviamo). E dunque non è soltanto un fashiondesigner. Semplice.

La passione per il design lo assale durante l’adolescenza, a Hiroshima, la città in cui è nato, lacittà della bomba. Quando viene sganciata, 6 agosto 1945, lui ha sette anni. Sua madre ne moriràtre anni dopo e come lei altri suoi famigliari. L’unica volta in cui Miyake ha riaperto pubblicamen-te quella ferita è stata nel 2009, in una lettera al presidente Obama pubblicata dal New York Ti-mes: “...Ero un bambino. Ancora oggi quando chiudo gli occhi vedo cose che a nessuno dovrebbeessere consentito di vedere. Ricordo tutto. Anche per questo nella mia vita ho preferito occuparmidi cose che potessero essere create, e non distrutte, e che potessero portare gioia, e bellezza...”. IlMiyake adolescente cominciò a individuarle ogni mattina mentre andava a scuola e attraversavail “Ponte per la pace” progettato dal nippo-americano Isamu Noguchi. Dopo essersi laureato ingraphic design alla Tama University di Tokyo, nel 1964 si trasferisce a Parigi per studiare FashionDesign presso la Chambre Syndicale de la Haute Couture. Nella capitale della moda lavora per GuyLaroche e Hubert de Givenchy, poi arriva il ‘68 e tutto cambia. Compresa la sua idea su cosa voles-se dire fare il designer. Miyake non vuole più progettare abiti solo per l’élite. Lascia Parigi, breveparentesi a New York, quindi di nuovo Tokyo dove, è il 1970, fonda il suo Studio di Design. «Vole-

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Il designer giapponeseci accoglie

nel suo quartier generale di Tokyo

per una (rara) intervista. In cui parla

dello tsunami, della cucina italiana,

del suo lavoro e del perché lo fa:

“Voglio creare oggetti che portino gioia”

LORENZA PIGNATTI

CREAZIONI

DALL’ALTO, IL “21_21 DESIGN SIGHT”PROGETTATO DALL’ARCHITETTO TADAOANDO E FONDATO DA MIYAKE NEL 2007A TOKYO MIDTOWN;LA LAMPADA “IN-EIISSEY MIYAKE” BY ARTEMIDE; “SUSHI”:IL COFANETTO A EDIZIONE LIMITATA DI TESSUTI “PLEATS PLEASE” CHE IMITAIL CIBO GIAPPONESE; UN ESEMPIO DALLA COLLEZIONE “A-POC”(A PIECE OF CLOTH, DAL 2006 AL MOMA):NELLA FOTO GRANDE, LO STILISTA ISSEY MIYAKE, 76 ANNI,ACCANTO A UNA DELLE SUE LAMPADE“IN-EI” BY ARTEMIDE

TOKYO

Il personaggio. Grandi bellezze

vo creare oggetti basati su un’idea univer-sale e che però allo stesso tempo fossero as-solutamente originali. Il Giappone era il luo-go giusto, perché è un Paese in grado di uni-re tradizione e nuove tecnologie e che in quelmomento storico non vedeva l’ora di farequalcosa di nuovo e di eccitante».

Universalità e originalità. Miyake è statoil primo stilista a cui la prestigiosa rivistad’arte americana Artforumha dedicato unacopertina. Era il 1982, e il suo abito dalle for-me fantascientifiche era stato realizzato inrattan e bamboo con una originalissima tec-nica artigianale tipica dell’isola di Sado, nelMar del Giappone. Anche il progetto A-Poc(A Piece Of Cloth, anno 2001), realizzatocon Dai Fujiwara, è esemplare per l’uso del-le tecniche rivoluzionarie: da un singolo filo,in un susseguirsi continuo, viene creato untessuto che ha le sembianze di un tubo al cuiinterno è suggerita la forma di una maglia,di una gonna o di un accessorio: chi comprail tubo di tessuto ha la possibilità di tagliarlo(seguendo le cuciture) e modificarlo a suopiacimento per personalizzarlo. Non a ca-so, dal 2006, A-Pocè parte della colle-zione permanente del MoMA diNew York. Ma è con Pleats Plea-se Issey Miyake che, con unatecnica che permette alle pie-ghe di rimanere nella “me-moria” del tessuto senza do-ver ripetere la pieghettatu-ra nel tempo, crea vestiti fi-nalmente facili da indossa-re per chiunque. L’univer-salità. «Insieme al mioteam siamo sempre in cer-ca di nuove idee e di nuovi

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modi per produrle» ci racconta mentre i piùgiovani designer dello studio gli sottopon-gono disegni e progetti. Lui ascolta tutti, contutti è cortese, paziente. «Una delle cose chemi piace di più è visitare le aziende negli an-goli più sperduti del Giappone. Con alcune diqueste, ma anche con alcuni piccoli artigia-ni locali, lavoriamo da anni. E per me è mol-to importante il rapporto che si instaura.Hanno tutti una fortissima tradizione allespalle ma sono anche sempre pronti a nuovesfide. Il Giappone ha una storia di conoscen-ze uniche in questo campo, una ricchezzache non è soltanto materiale ma direi spiri-tuale. Purtroppo l’artigianato giapponese,soprattutto dopo il terremoto e lo tsunamiche nel 2011 hanno sconvolto la parte orien-tale del paese, sta attraversando grandi dif-ficoltà sia per mancanza di successori allaguida delle aziende sia a causa dei costi diproduzione troppo elevati. Quell’anno pro-prio qui, al 21_21 Design Sight, abbiamo al-lestito due esposizioni, The Spirit of Tohokue The Art of Living in Tohoku, incentrate sul-la produzione artigianale tessile di quella re-gione devastata. Ma già nel 2007, proprioper sviluppare la collaborazione con le realtàdi quelle zone, avevamo creato il RealityLab.: un team che si occupasse esclusiva-mente di ricerca e sviluppo». È all’interno diquesto laboratorio che nasce la collezione diabiti 132 5. Issey Miyake realizzata con loscienziato informatico Jun Mitani. Il risulta-to sono dieci cartamodelli (dalle forme iden-tiche quando sono piegati) che si trasfor-mano in camicie, gonne, pantaloni e vestiti,secondo le combinazioni di forme uguali inscale diverse. Sembrano origami, realizzaticon una fibra poliestere prodotta attraversola lavorazione di prodotti chimici riciclati.Un processo che permette di ridurre il con-sumo di energia e le emissioni di anidridecarbonica di circa l’80 per cento. «Sono statequelle forme a ispirarmi le lampade In-Ei,che in giapponese significa ombra. Il con-cetto di base è la biodimensionalità dei ma-teriali che poi diventano tridimensionali,

mentre il materiale utilizzato è un tessuto-non tessuto ottenuto da bottiglie in Pet rici-clate. In questo caso volevo sviluppare il pro-getto con un’azienda internazionale. Hochiesto consiglio al mio amico Naoto Fuka-sawa e lui mi ha risposto che Ernesto Gi-smondi, presidente di Artemide, in quel mo-mento era in visita a Tokyo. Più precisa-mente si trovava nel mio negozio. È così checi siamo conosciuti e che abbiamo iniziato alavorare insieme». Il link con Artemide èun’occasione unica per introdurre un argo-mento non previsto dai rigidi canoni dell’in-tervista. Le piace l’Italia mister Miyake? «Hovisitato molti paesi in Europa, e il vostro èuno di quelli che preferisco. Quando ancoraero uno studente ho visto molti film italianie ne ho apprezzato i registi. Per citarne soloalcuni dico Vittorio De Sica, Luchino Viscon-ti e Federico Fellini. Ma nel corso degli annisono sempre stato ispirato dalla grandecreatività italiana. Restando nell’ambito deldesign, per esempio, non appena ho iniziatoa sviluppare il progetto Parfums ho subitopensato a due dei miei amici più cari, ShiroKuramata e Ettore Sottsass, e li ho invitati aprogettare la bottiglia. A loro abbiamo dedi-cato una mostra qui al 21_21. In quell’occa-sione abbiamo presentato anche i progettidi diversi anni prima. Era il 1996, e io avevopartecipato alla Biennale di Firenze il cui ti-tolo era Il tempo e la moda. Ho un bellissimoricordo di quell’esperienza, ho potuto visita-re Firenze, davvero una città fantastica, e so-no stato onorato di poter mostrare i miei abi-ti in uno spazio meraviglioso come il chiostrodi Palazzo Pitti. E poi c’è la cucina, natural-mente: ogni volta che vengo in Italia cerco dimangiare non piatti elaborati ma semplici,regionali, cucinati con ingredienti di stagio-ne».

Miyake ci invita a visitare con lui il 21_21,dove è in corso l’esposizione Toward a Desi-gn Museum Japan. Questo spazio ha un va-lore molto importante nella vita del desi-gner. Nel 2003 il quotidiano Asahi Shinbunpubblicò un suo appello in cui invitava leagenzie governative e le aziende private aunire le forze per aprire un museo del designin Giappone. Miyake voleva colmare un vuo-to, considerata l’importanza del design perl’economia e la cultura giapponesi. Così nel2007 nasceva il 21_21 Design Sight che daallora co-dirige con Naoto Fukasawa e TakuSatoh. Un sobrio edificio minimalista pro-gettato da Tadao Ando. Ma è solo il primopasso. Un vero e proprio Museo del designdovrebbe aprire nei prossimi anni. «Pensia-mo a un luogo in cui possano incontrarsiadulti e bambini, tradizione e contempora-

neità, Oriente e Occidente, un luogo incui si possa riflettere insieme sul futu-

ro della società contemporanea maanche in cui sia possibile esprimere

l’eccitazione, l’emozione, la gioiadi vivere e di fare le cose. Perché

per me design significa vita, eprogettare vuol dire creare iltempo in cui viviamo».

Prima di salutarci gli chie-do quali consigli darebbe a ungiovane designer. «Non pen-sare solo con la propria testama confrontarsi con chi lavoranelle aziende. Essere curiosi,osservare la natura, visitaremostre di arte e architettura.Ma, soprattutto, consigliereidi interessarsi alle persone: ildesigner ha una grande re-sponsabilità sociale, dovrebbepensare attentamente a ciò chela gente desidera per fare in mo-

do che il suo stile sia compreso einfine usato». Socchiude gli occhi

e, come se per un attimo tornassecon la memoria alle cose terribili che a

nessuno dovrebbe essere consentito divedere, ci congeda con queste parole e con

un sorriso: «In fondo ciò che dobbiamo fare èsolo trasmettere bellezza, gioia e — magari— anche un po’ di comodità».

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UELL’ESTATE passai molto tempo sulle mura di cinta a guardareil mare. Osservavo le barche che sparivano verso l’orizzonte trale isole e le boe, e bevevo birra al pub l’Univers, le cui pareti era-no tappezzate di fotografie e ritratti di celebri marinai e navi-ganti, da Cartier, il primo esploratore del Québec, a Tabarly,il più famoso velista francese. Ben presto mi fu chiaro che qua-si tutto a Saint-Malo ruotava attorno alla marineria, alla navi-gazione e al mare e che la stessa cosa sarebbe accaduta anchea me: il seme del sogno era piantato, anch’io un giorno avreinavigato per conto mio sull’oceano. Certo, di strada da fare mene restava parecchia: non sapevo navigare. Così, quando tor-nai in Svezia, feci quello che faccio di solito quando voglio rea-

lizzare un sogno, che si trattasse di vivere sott’acqua sulle tracce di Cousteau o diventarescrittore seguendo quelle di Hemingway: andai in libreria. Fu lì che incontrai Joshua Slocume il suo Solo, intorno al mondo. La copia con le pagine ormai ingiallite e la copertina logorache mi ha seguito di barca in barca nella mia biblioteca di bordo risale al 1977, l’anno in cuiil libro uscì in Svezia all’abbordabile prezzo di cinque corone — anche troppo poco per un li-bro che mi avrebbe cambiato la vita. Fu una vera e propria rivelazione. Trovai espressa nerosu bianco una possibilità di vita che fino ad allora avevo solo intuito da lontano: era davveropossibile navigare intorno al globo da soli, sulla propria barca, con la propria casa sotto i pie-di, se pure non sulla schiena come le chiocciole? A quanto pareva, sì.

Nessuno può circumnavigare il globo sen-za la sua dose di tempeste e onde di altezzavertiginosa, ma Slocum non perde mai la te-sta: ci è già passato, anche se non da solo e nonsu una barca a vela di undici metri varata qua-si cent’anni prima, e sa che una volta che è inballo deve ballare. Non se la prende mai con ilmare, per maledirlo o rivolgersi a qualche po-tenza celeste che gli salvi la pelle. Anzi, smi-nuisce sempre le proprie imprese. Esistonoscrittori che come persone lasciano alquantoa desiderare ma che hanno scritto ottimi ro-manzi, come per esempio Céline, ma è diffi-cile appassionarsi davvero a un racconto dinavigazione se non si prova la minima sim-patia per la persona che l’ha scritto. Questa

complicità con l’autore diventa ancora piùimportante quando costui è anche l’unicoprotagonista del libro, com’è necessaria-mente il caso quando si tratta di navigazionein solitaria. Anche lasciando da parte l’in-dubbia abilità di Slocum nel descrivere ciòche vede e vive, sono convinto che siano le suecaratteristiche personali, il suo atteggia-mento verso la vita, il mare e la vela, a rende-re il suo libro una lettura così piacevole, e lasua navigazione così esemplare e ispiratrice.

Non giudica né condanna mai le personeche incontra durante i suoi viaggi, nemmenoi pirati che lo inseguono nel Mediterraneo ogli indigeni che gli fanno la posta nello stret-

la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 34LA DOMENICA

La storia. Capitani coraggiosi

Un uomo

al timone

BJÖRN LARSSON

Scrittore e velista, Björn Larsson

rivive l’avventura di Joshua Slocum,

primo a circumnavigare il globo

in solitario. Raccontò tutto in un libro

che, dopo cent’anni, è ancora un faro

Q

solo

Repubblica Nazionale

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to di Magellano. Perfino il presidente Krüger,che a Città del Capo cerca di convincerlo chela Terra è piatta, viene descritto con diverti-ta indulgenza. Una prova della sua determi-nazione è l’attraversamento dello stretto diMagellano sotto incessanti venti di tempe-sta. Per ben sei volte viene risospinto indie-tro, una delle quali dopo aver doppiato CapoHorn, e nel frattempo deve continuamenteguardarsi dagli indigeni che circondano loSpray non appena il vento cala a sufficienzada mettere in mare le loro canoe. Entra nellostretto di Magellano l’11 febbraio e vede imonti della Patagonia sparire a poppa il 14aprile: gli ci vogliono più di tre mesi di lotta du-ra e faticosa contro gli elementi per attraver-sare lo stretto a vela. Non va nemmeno di-menticato che Slocum aveva passato i cin-quanta, all’epoca un’età considerevole. Unuomo e marinaio meno abile, dotato di menocoraggio e resistenza, avrebbe rinunciatomolto prima, soprattutto dopo aver evitatoper un pelo di affogare. Mentre Slocum sta ca-lando l’ancora, il suo battello si capovolge al-l’improvviso sotto una raffica violenta: «Inquel momento ricordai che non sapevo nuo-tare», annota. Ma malgrado le traversie, rie-sce sempre a dare prova di tenerezza e ri-spetto per quella natura inospitale: «C’era uncerto tipo di cigno più piccolo di un’anatramuschiata che avrei potuto abbattere con ilfucile, ma nella mancanza di vita che carat-terizzava quella terra tanto triste, non me lasarei sentita di distruggerne anche solo una,se non per difendermi».

Ma tra tutte le qualità di Slocum, quellache ha lasciato un’impressione più persi-

stente è il modo con cui affronta la solitudi-ne. All’inizio sembra essere la cosa che lo spa-venta di più. Per abituarsi ad affrontare le si-tuazioni più difficili parla da solo, dando or-dini ad alta voce. I suoi timori si avveranoquando incontra una tempesta proprio men-tre è in preda a forti dolori allo stomaco. Do-vrebbe prendere una mano di terzaroli, manon ha le forze per farlo. È dopo quell’episo-dio che viene a patti con la solitudine, e se lagode. Che all’epoca navigare in solitaria nonfosse affatto una cosa scontata emerge chia-ramente dalle reazioni che incontra a terra.Molti erano scettici o non credevano che fos-se solo a bordo: non era semplicemente pos-sibile. Durante una delle sue molte tappe,Slocum fece suffumicare la barca per dimo-strare di non avere nessun marinaio nasco-sto a bordo. Insomma, era perfettamenteconsapevole di essersi lanciato in un’avven-tura unica, a cui molti avrebbero fatto faticaa credere. Ma quello che riuscì a dimostrarefu proprio che era possibile attraversare insolitaria gli oceani e tornare a casa per rac-contarlo, anche su una piccola barca, semprese si sapeva cosa si stava facendo.

Non posso esserne certo, ma credo che siastato Solo, intorno al mondo a piantare il se-me che in seguito ha spinto tanti altri ad av-venturarsi da soli in mare, alcuni per l’espe-rienza in sé, altri per vincere una regata obattere un record di velocità. Il racconto diSlocum dà al lettore una sensazione di li-bertà a cui è difficile resistere. Nello Specchiodel mare Conrad, un altro che sa bene di co-sa parla, sostiene che i naviganti in generenon amano il mare, come piace romantica-

mente credere ai marinai d’acqua dolce: lotemono e lo rispettano. Al contrario, nutronoun amore profondo per le proprie navi, anchequando si tratta di ignobili bagnarole tenuteinsieme solo dalle tante mani di vernice. Con-rad sottolinea anche che l’amore che si pro-va per una nave è diverso da tutti gli altri ti-pi d’amore, perché non ha niente a che ve-dere con il possesso. I marinai farebberoqualsiasi cosa per salvare una nave in diffi-coltà, compreso mettere a rischio la propriavita, anche quando non hanno in ballo alcuninteresse economico. La mia seconda barca,un Folkboat con numero velico 38 costruitonel 1943, veniva ritenuta goffa come un ro-spo. Si chiamava Skum, “schiuma”, proprioin onore dello Spray di Slocum. Per due annici navigai senza motore, e con lei si creò un le-game molto personale. Quando la vendettiper passare a un IF-boat dotato di pozzettoautosvuotante, in modo da permettermi na-vigazioni più lunghe, lo feci con il dolore nelcuore, non solo metaforicamente, letteral-mente: fu una vera e propria sofferenza.

Su un punto lo Spray si differenzia da tut-te le barche su cui ho navigato o di cui ho an-che solo sentito parlare: aveva una stabilitàdi rotta fenomenale e poteva navigare in au-tonomia per miglia e miglia, se aveva le veleben regolate. Ecco cosa scrive Slocum del-l’ultima traversata dell’Atlantico: «In queiventitré giorni non ho passato più di tre oreal timone, includendovi il tempo impiegatoa bordeggiare nel porto delle Keeling. Mi li-mitavo a bloccare la barra lasciando andarela barca. Non faceva differenza se il vento sof-fiasse al traverso o di poppa: l’imbarcazione

teneva la sua rotta». Roba da far morire d’in-vidia i navigatori del giorno d’oggi, che nonpossono lasciare il timone più di un minuto odue prima che la loro barca vada all’orza opeggio ancora alla poggia, a rischio di unabella strambata. Mi spingo anzi ad afferma-re che Slocum non avrebbe mai potuto por-tare a termine il suo giro del mondo, o alme-no non in modo così felice e fortunato, se nonfosse stato per la capacità dello Spray di man-tenere la rotta. Lo skipper poteva semprecontare sul fatto che la sua barca se la sareb-be cavata da sola anche quando si ballava eche avrebbe proseguito dritta per la sua stra-da mentre lui riposava, si preparava da man-giare o tracciava la rotta. In inglese si dice cheper essere adatte alle lunghe navigazioni lebarche a vela devono avere due caratteristi-che: devono essere sea-kindly e sea-worthy,letteralmente “gentili con il mare” e “degnedel mare”. Devono avere il timone leggero,essere stabili di rotta e sapersi muovere condolcezza tra le onde senza piantarsi. Non de-vono imbarcare acqua se qualche onda si ab-batte in coperta, devono essere in grado di re-sistere a un arenamento senza perdere lachiglia e non disalberare in caso di vento for-te o scuffiata.

Forse una sola qualità mancava allo Spray,la bellezza. Ma la barca a vela perfetta non esi-ste, così come non esiste il racconto di navi-gazione perfetto. Anche se sia lo Spray che So-lo, intorno al mondo alla perfezione si avvici-nano parecchio.

Traduzione di Katia De Marco©Björn Larsson

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BJÖRN LARSSON

SCRITTORE SVEDESE E DOCENTEDI LETTERATURA FRANCESE,

HA 61 ANNI ED È UN NAVIGATOREHA SCRITTO A BORDO DELLA “RUSTICA”

ALCUNI DEI SUOI ROMANZIDI MAGGIORE SUCCESSO: TRA QUESTI,

“IL CERCHIO CELTICO” (ISBN, 2000)E “BISOGNO DI LIBERTÀ”

(IPERBOREA, 2007)

“Da qualche anno faccio parte

di una giuria che premia i migliori

libri di viaggio. Ne ho letti parecchi

ma è stato questo a cambiarmi la vita”

la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 35

IL LIBRO

IL TESTO DI LARSSON CHE QUI PUBBLICHIAMO FA DA PREFAZIONE A “SOLO, INTORNO AL MONDO” DI JOSHUASLOCUM (L’UOMO NELLA FOTO A SINISTRA)CHE VERRÀ ORA RIPUBBLICATO IN ITALIADA NUTRIMENTI (240 PAGINE,16 EURO,TRADUZIONE DI AMILCARE CARPI DE RESMINI) CON I DISEGNI ORIGINALI DI THOMAS FOGARTY E GEORGE VARIANREALIZZATI PER LA PRIMA EDIZIONE DEL 1900 (NELLA COPERTINA A SINISTRA)

JOSHUA SLOCUM

NATO AD ANNAPOLIS (USA) NEL 1844E MORTO NELL’OCEANO ATLANTICO

NEL 1909, FU IL PRIMO UOMOA CIRCUMNAVIGARE DA SOLO

IL GLOBO, DAL 1895 AL 1898, A BORDODELLO “SPRAY”, UN UNDICI METRI

DEL 1801 CHE AVEVA RICOSTRUITO.NEL 1900 RACCONTÒ QUEL VIAGGIO

IN “SAILING ALONE AROUND THE WORLD”

“Lo Spray sollevava un suo personale

arcobaleno per tutta la giornata

Il suo angelo custode si era imbarcato

per il viaggio; lo lessi nel mare”

Repubblica Nazionale

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 36LA DOMENICA

Vent’anni fa ha raggiunto la fama

inventando il commissario Montalbano

Ma prima, e per mezzo secolo,

l’autore siciliano ha fatto tutt’altro

tura. Tra i funzionari c’era un grande orga-nizzatore, Maurizio Ferrara, che ebbe l’ideadi sveltire le operazioni creando la figura diun funzionario che facesse da produttoresul campo, il delegato alla produzione. Era-vamo tre delegati: lo scrittore Raffaele LaCapria, la scrittrice Francesca Sanvitale e ilsottoscritto, che sarebbe diventato scritto-re solo molti anni dopo. Inaugurammo il Se-condo canale con una grossissima produ-zione: l’originale televisivo La trincea, trat-to da un racconto di Giuseppe Dessì su unepisodio di guerra della Brigata Sassari. Ilgiorno prima della messa in onda trasmet-temmo a circuito chiuso la prova generale.Invitai ad assistervi mio padre, che avevafatto parte della Brigata Sassari e ci tenevamoltissimo. Alla fine tutti facemmo i com-plimenti al regista Vittorio Cottafavi. An-che papà, che si era molto commosso, si con-gratulò con lui, ma aggiunse, con voce tre-mante, «Se mi posso permettere, tutte lemostrine delle divise sono sbagliate: non so-no della Sassari ma della Aosta Cavalleria».Vittorio se lo portò nella sala costumi, con-fabularono mezz’ora, papà fece dei disegni-ni, lavorarono nottetempo e così il Secondo

canale evitò di inaugurare i suoi programmicon una gaffe colossale.

EDUARDO E I FUOCHI D’ARTIFICIOGli intellettuali di destra o sinistra, in quei

primi anni Sessanta, avevano un atteggia-mento nei riguardi della televisione che va-riava dall’indifferenza al disprezzo: non vo-levano averci a che fare. Eduardo, aderendoall’invito per la ripresa televisiva di otto suecommedie, ruppe un muro. Ed era un gran-de intellettuale di sinistra, prima ancora diessere il grande commediografo che sappia-mo. Eduardo aveva intuito prima degli altril’importanza della televisione, la possibilitàdi far arrivare il proprio messaggio anche inquei tantissimi paesini dove non c’era unteatro e neanche un cinema. Insomma, laproduzione era delicatissima e doveva filareliscissima.

«Caro Camilleri, in televisione c’è la cen-sura e io lo so benissimo — mi avvisò —: quin-di dovete usarmi la cortesia di farmi saperequali sono le parti censurate prima ancora dientrare in sala prove». Ne Le voci di dentroc’era questa battuta: “Prima le feste si face-vano con un prete, un sacrestano e quattro

IL DOCUMENTARIO

IL TESTO E LE FOTO SONOTRATTE DA “CAMILLERI,

IO E LA RAI” DI ALESSANDRAMORTELLITI (SOGGETTO

CON ANNALISA GARIGLIO)PRODOTTO DA PALOMAR.

DALL’ALTO, CAMILLERI (CON OCCHIALI) IN RIUNIONE

CON, ANCHE, UMBERTO ORSINIE LAURA BETTI (A DESTRA);

CON ORSINI E CARLOHINTERMANN; CON GIANRICO

TEDESCHI E LIA ZOPPELLINELL’ALTRA PAGINA, EDUARDO

DE FILIPPO E ZIZÌ JEANMAIRE

Spettacoli. Autoritratti

ANNO1954: un bel giorno vengo chiamato a sostenere l’esameorale per il concorso Rai e la domanda cui rispondo al profes-sor Apollonio riguarda i rapporti intercorrenti tra JacquesCopeau, André Gide e la Nouvelle Revue Française. Apollo-nio si alza, mi dà la mano e commenta: «Credo di interpreta-re il senso della commissione dicendole che questa discus-sione interessante la proseguiremo a Milano, dove terremo icorsi per quelli che sono stati ammessi». Il che sta a significa-re, appunto, che sono stato ammesso. Così comincio ad aspettare questa cartolina, questo precet-to che mi convochi a Milano, ma non arriva niente. Passano imesi. Accetto un altro lavoro e dopo qualche tempo mi ritro-

vo in una cena davanti al dirigente Rai Gennarini. «Vuole sapere cosa è successo, Camilleri?È successo che abbiamo chiesto informazioni politiche ai carabinieri e quelle che sono arri-vate fanno di lei se non Stalin qualcosa di un gradino più giù». Al tempo la Rai aveva comepresidente l’ingegner Guala, che di lì a poco si sarebbe fatto frate trappista: figuratevi se po-teva ammettere un comunista facinoroso come ero io, perlomeno agli occhi di un maresciallodei carabinieri di un paese piccolo come il mio.

Un po’ meno di due anni dopo squilla il telefono: «Sono Cesare Lupo, direttore del Terzoprogramma radio della Rai: vuole sostituire la nostra funzionaria addetta ai programmi cheva in maternità? Le farei un contratto di sei mesi per mezza giornata di impegno». Lo rin-grazio, accetto ma mi sento in dovere di informarlo che al concorso non ero stato preso “per-ché comunista”. E lui mi rispose «Chissenefrega».

Così entrai e, a forza di contratti semestrali, passarono dieci anni prima dell’assunzione.L’apertura della Seconda rete televisiva fu affidata in blocco a tutti coloro che fin lì ave-

vano fatto parte del Terzo programma radio. Mentre il primo canale si rivolgeva a tutti, ilsecondo avrebbe dovuto essere più di nicchia, pensato per un pubblico più attento alla cul-

ANDREA CAMILLERI

Camilleric’ero

una voltaallaRai

Repubblica Nazionale

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 37

Funzionario, produttore, regista

e anche addetto alla censura.Tanti ruoli

che ora ripercorre in un documentario

Tra molti aneddoti e un’ultima verità

vecchiette che cantavano dietro, e venivanouna meraviglia; mò si fanno con un ministroe quattro sottosegretari: una schifezza”.

L’ufficio censura aveva chiamato per far-la tagliare, ma io non glielo avevo detto. Co-sì, vado in studio talmente nervoso che sbat-to contro una porta, mi rompo gli occhiali eassisto alla prova senza vedere praticamen-te niente. Eduardo è seduto accanto a me. Ri-provano la scena “incriminata” due, tre,quattro volte. Io muto: il coraggio non ce l’a-vevo e gli occhiali neanche. A un certo puntolui si volta verso di me e fa: «Camilleri, manon vi sembra un po’ troppo lunga sta bat-tuta?»; «Eh, un po’...»; «Allora tagliamola».Io che non sono credente ringrazio tutti i san-ti lo stesso, dentro di me. Scendiamo inascensore, dopo la registrazione, e Eduardomi fa: «Io la battuta ve l’ho tagliata, ma voiperché non me l’avevate detto?», «Non po-tevo, ero senza occhiali, minorato, come fa-cevo a discuterne... Ma poi a voi, Eduardo, chive l’ha detto?», «La faccia vostra me l’ha det-to! Non avete idea della faccia che facevate,e ho capito che vi avevano detto di tagliarla».Gli pagai il caffè.

Sempre ne Le voci di dentro c’è un perso-naggio, lo zio, che comunica col mondo soloattraverso i fuochi d’artificio da un soppalco.Alla prova generale, nel finale lo zio accendeuna fontana luminosa: tutto bene. Alla regi-strazione, lo zio accende lo zolfanello, e suc-cede il finimondo: non era una fontana, maun furgarone. Sale a venti metri, si apre a om-brello, rimbalza sul soffitto: un cataclisma.Urlano, scappano tutti. Il razzo si va a infila-re in una catasta di sedie di paglia della sce-nografia, dalla regia non vedo più niente, so-lo fumo. Terrorizzato, pensando che ci saràsicuramente qualche ferito, mi precipito giùe al centro dello studio trovo immobileEduardo con le mani dietro la schiena che mifa: «Caro Camilleri, la televisione è in manoai preti e ai piemontesi: non distinguono unafontana da un furgarone». E si allontana tri-stemente nella nebbia.

UN PARADISO FATTO A PEZZIDalla Pro Civitate Cristiana di Assisi rice-

vemmo l’incarico di mettere in scena il testoteatrale vincitore del loro concorso dram-maturgico biennale. Il copione era un deliriomentale: si passava da un albergo di Perugiaal paradiso come se niente fosse. L’allesti-mento comportava dunque problemi im-mani. Le scenografie erano di Silvano Falle-ni, grandissimo scenografo che non finì maiuna scenografia in vita sua. Si doveva tra-smettere in diretta, ormai il Radiocorrierel’aveva stampato. Ma Falleni si era rifiutatodi fare il paradiso, perché il Radiocorrierenon l’aveva citato, giustificandosi col fatto dinon averlo mai visto, il paradiso. Allora conl’aiuto del primo cameraman, che idea unasoluzione dipingendo nuvolette a mano a co-prire i tubi Innocenti, riusciamo comunquead allestire un paradiso.

Alla prova generale, nel pomeriggio cheprecede la rappresentazione serale in diret-ta, Falleni è latitante. Cinque minuti primami avvertono che gli ospiti della produzionevorrebbero assistere. Incautamente, accon-sento. Entrano cinque cardinali, una decinadi vescovi, uno stuolo di alti prelati. Il teatrosi riempie completamente di preti e suore. Inquel preciso momento entra Falleni, guardail paradiso e urla «oh che l’è quel troiaio lì?».Nel frattempo il regista televisivo era scom-parso, di fronte alle difficoltà della ripresa:s’era dato, e io ero stato convocato di corsanel pullman di regia. Ricompare Falleni do-po due minuti sul palcoscenico con un mar-tello e fa un salto per rompermi il paradiso.Avevo retto abbastanza: quando vedo Falle-ni che prende a martellate il paradiso, parto,attraverso bestemmiando come uno scari-

IL VATICANOINTERVENIVAPESANTEMENTE PURE

MISURANDO LE GONNEDELLE BALLERINE.IN TEATRO FECI SCAPPAREUNA PLATEA DI PRETIPICCHIANDO CHI VOLEVAPRENDERE A MARTELLATELA SCENOGRAFIA.E DURANTE UNA MESSAHO CAPITO CHE COS’ÈDAVVERO LA TELEVISIONE

NEL 1954 SUPERAIL’ESAME MA NON FUI AMMESSO

PERCHÉ RITENUTO“PERICOLOSO COMUNISTA”DAI CARABINIERI. ENTRAISOLO DUE ANNI DOPO.GLI INTELLETTUALIAL TEMPO DISPREZZAVANOLA TV: IL PRIMO A INTUIRNELA POTENZA FU DE FILIPPO,CHE IN ASCENSOREUNA VOLTA MI DISSE...

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catore di porto tutto il teatro, gli do un caz-zotto in faccia, gli levo il martello, scorgo duecarabinieri in un angolo e ordino «arrestate-lo!». E quelli lo portano via. Mi volto e non c’èpiù anima viva in sala. Le mie bestemmieavevano fatto scappare tutti. Era rimasta inplatea solo mia moglie, incinta col pancione,che piangeva disperata.

IL MONSIGNORE E IL MAGLIONCINOIn tv ho fatto non solo il regista, lo sceneg-

giatore o il produttore, ma anche un mestie-re ingrato: l’ambasciatore dell’ufficio cen-sura. Quello che doveva comunicare agli ar-tisti le decisioni della commissione. Venne inItalia Abbe Lane, per esempio, ed ebbe l’or-dine di esibirsi con lo sguardo sempre tassa-tivamente fisso alla telecamera, senza maivoltarsi di schiena per ovvie ragioni. C’erapoi una ballerina molto bella, Zizì Jeanmai-re, che cantava e ballava con un maglioneche le arrivava appena all’inizio delle gam-be. Mi telefona il Vaticano, che intervenivasempre pesantemente, e un monsignore michiede di allungare il maglioncino. Lo vado ariferire. Lei sorride e lo allunga di due dita.Tutto bene. Dopo la trasmissione della pun-tata, risquilla il telefono ed è lo stesso mon-signore: «Lo sa che c’è un problema, Camil-leri? La signora alza le braccia, il maglionci-no si solleva e tutti guardiamo lì...». Deci-demmo che non era il caso di dirle di ballaresenza sollevare le braccia.

UNO 007 IN AEROPORTODurante gli ultimi episodi di Maigret, di

cui ero delegato alla produzione, c’era unascena in cui il commissario doveva uscire dal-l’aeroporto e veniva aggredito. A Fiumicinoci assegnarono un’uscita secondaria nonaperta al pubblico per girare tranquilla-mente. Una comparsa doveva fare tre salti,puntare la pistola su Gino Cervi e tentare diportargli via il portafoglio. Il regista MarioLandi, ancora a luci spente, non soddisfattodall’azione fa provare varie volte la scena al-la comparsa, sempre più cattivo nella rapi-na. All’ennesima prova, al terzo balzo, con-temporaneamente si apre la porta e spuntadall’aeroporto un elegante signore quaran-tenne. In una frazione di secondo si vede que-sto che con la pistola puntata e con un’ele-ganza estrema alza la sua ventiquattrore, lasbatte in testa al finto aggressore, tira fuoriun revolver enorme e lo punta in faccia allacomparsa. Tutta la troupe salta fuori mani inalto urlando «cinema, cinema! Film!». E il si-gnore: «Oh yes, sorry», e si rimette la pistolain tasca. Era un autentico 007.

TUTTO FA SPETTACOLOOgni domenica veniva trasmessa la San-

ta Messa in diretta dalla Cappella di via Teu-lada nella sede Rai alle otto del mattino. Unvenerdì pomeriggio vedo le luci accese inquesta cappelletta e il prete che dice mes-sa. Finita la funzione, chiedo spiegazioni aldirettore di produzione e mi dice che ave-vano registrato la messa «perché domenicanon abbiamo la disponibilità delle teleca-mere». Questa fa il paio con la storia di quelcameraman che, dovendo riprendere il Pa-pa e volendo fare una bella inquadratura,gli disse «Santità mi scusi, finga di prega-re». Orbene: il miracolo della transustan-ziazione, cioè la trasformazione del pane edel vino nel corpo e nel sangue di Crsito, av-viene hic et nunc, no? In quel caso era av-venuto sì il miracolo, ma il venerdì: quelloche avrebbero visto i telespettatori la do-menica non era più un miracolo, ma la rap-presentazione di un miracolo. E questo è ildestino della televisione, la sua fortuna o lasua sfortuna: tramutare qualsiasi cosa inspettacolo. Perfino il miracolo.

Repubblica Nazionale

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ARIVOLUZIONEDIGITALEdella musica è tutt’altro che finita. Se qualcuno im-maginava che il mondo delle note avesse trovato la sua forma definiti-va con il download, legale o meno, deve oggi ricredersi. Quella stagione,aperta dalla valanga di Napster quindici anni fa, si sta infatti avviandoverso il declino, mentre quella dello streaming, ovvero dell’ascolto at-traverso internet, senza acquistare e possedere nulla, è già qui. Per ave-re un’idea più esatta del crollo del vecchio mondo, quello dei cd, bastapensare che nel 2000 l’industria americana guadagnava tredici mi-liardi con quel formato, e oggi ne guadagna poco più di due. Come ascol-teremo, dunque, la musica in futuro?

Più che la Rete, a fare la rivoluzione sono stati gli smartphone e lapossibilità di essere collegati sempre e a velocità sostenuta. I servi-

zi di streaming, ovvero la traduzione digitale del vecchio concetto di radio, si sono così mol-tiplicati, offrendo la possibilità di soddisfare il proprio bisogno di musica in ogni momen-to, senza dover comprare brani e album e scaricarli nella memoria del dispositivo elettro-nico. Deezer, Spotify, ma anche Beats Music, Rdio, TuneIn, Accuradio, Radioio, Nokia Mu-sic, Xbox Music, Music Unlimited di Sony e YouTube, solo per citare alcuni dei servizi di-sponibili, e tra breve anche da noi iTunes che fino a oggi si è occupata solo di download.

no del 4% rispetto all’anno prece-dente): i ricavi dello streaming, in-fatti, sono cresciuti in un anno del51% anche se probabilmente ascapito dei download che per laprima volta non aumentano. An-che in Italia c’è stato un incre-mento del 2% del mercato musi-cale, 117,7 milioni di euro contro i115,9 del 2012, sostenuto dallacrescita contemporanea dei mezzipiù nuovi e digitali (32% in più) e deipiù antichi (il vinile cresce del 6%). Nonmeno importante sarà anche il mercato“mobile” nel senso più stretto, quello delle au-

Deezer ha dodici milioni di utenti al giornoe cinque milioni di abbonati che pagano daicinque ai dieci euro al mese per poter ascolta-re i circa trenta milioni di brani che il serviziofrancese ha in catalogo. Spotify ha venti mi-lioni di brani a disposizione dei suoi venti-quattro milioni di utenti e sei milioni di abbo-nati (possono ascoltare i brani già scelti anchequando sono disconnessi dalla rete). Entram-bi i servizi offrono la loro musica gratuita-mente sul web, in cambio della presenza dipubblicità mentre Spotify lo fa da qualche me-se anche sui dispositivi mobili. È lo streaming,secondo il Digital Music Report del 2014, a gui-dare lo sviluppo dei maggiori mercati inter-nazionali (che globalmente nel 2013 scendo-

LStreaming batte download

ecco che cosaci passerà per la testa

musicaLasarà

liquida

Next. I have a stream

NEL MONDO CRESCONO I BRANIVENDUTI ONLINE. MA NON C’È PIÙBISOGNO DI SCARICARLIÈ SUFFICIENTE ASCOLTARLI

LA DOMENICA

ERNESTO ASSANTE

Repubblica Nazionale

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 39

E buonanotteai suonatoriLUCA VALTORTA

pochi mesi fa, che offre informazioni su cosaascoltano gli amici, o SoundTracking, che con-sente di “impacchettare” musica, foto e loca-tion e condividerli. Non tutto funziona: Twit-ter Music, lanciata lo scorso aprile, sta già perchiudere. Consentiva agli utenti di ascoltare ibrani più “condivisi” ma non ha riscosso gran-de successo. Twitter, comunque, ha in menteuna nuova strategia, e sta trattando conBeats, con Vevo e anche con SoundCloud peroffrire un nuovo servizio tra breve. Poi ci sonogli algoritmi, studiati da chi ha un approccioscientifico alla materia. L’azienda più impor-tante in questo settore è Echo Nest, da pochesettimane acquisita da Spotify, per fondere lapersonalizzazione e la scoperta musicale in ununico prodotto. Rdio è sulla stessa strada, conun servizio, YouFm, che mescola la storia de-gli ascolti di un utente con i like di Facebook ei follow di Twitter. La novità più importante,però, è che a fare concorrenza agli algoritmisono ritornati gli esseri umani che riempionola rete di playlist, di consigli, di suggerimenti.Il buon vecchio passaparola funziona ancora eresisterà anche in futuro. Ne sono convintipersino i cervelloni della Silicon Valley, chesulle recommendation stanno costruendo si-ti, software e app, cercando di trovare il giustopunto d’incontro tra tecnologia e passione. Ec-co dunque Pitchfork Weekly, Mixcloud, oplaylist.net, che mescolano scelte personali digiornalisti, deejay, esperti o appassionati, contecnologie digitali e dati.

to: la Bmw è stata la prima in Europa a inte-grare uno streaming service, Rara, nelle suemacchine internet enabled. Anche Apple è inprima linea e il suo CarPlay, che nei prossimimesi arriverà a portare la musica di iTunes (edi iTunes Radio), nelle automobili; Pioneer,all’avanguardia nell’integrazione tra i ricevi-tori per auto e internet, offre già da tempo unaApp Radio che permette lo streaming e l’a-scolto dei download dal cellulare. Un futuro diautomobili always on, collegate alla Retequindi non solo per le funzioni legate ai viaggio al trasporto, ma anche per quelle musicali.

A disegnare come potrebbe essere il nostroascolto musicale ci sono anche i visionari,quelli che immaginano un futuro molto al di làdel presente. Come Wu-Hsi Li, che al MediaLab del Mit di Boston sta immaginando Mu-sicscape, un’interfaccia attraverso la quale fa-re incontri musicali inattesi, ma anche colle-gare i brani a chi li ascolta e costruire così un’i-nedita piattaforma social. È proprio sul terre-no della music discovery che si combatterà labattaglia fondamentale nel futuro. A oggi èancora la radio lo strumento principale attra-verso il quale scopriamo e consumiamo musi-ca, ma con l’avanzare della rivoluzione digita-le, e il moltiplicarsi dei device attraverso i qua-li ascoltare musica in maniera personalizzata,sarà sempre meno così. Come scopriremonuovi artisti attraverso il nostro smartphone?Ci sono le funzioni specifiche di servizi comeSpotify e Deezer, ma anche app dedicate, co-me Soundwave Music Discovery, pubblicata

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IN QUESTO MODO SI COMBATTE LA PIRATERIA PERCHÉ LE CANZONICOSTANO COSÌ POCO DA RENDEREINUTILE PROCURARSELE GRATIS

L PRIMO grido d’allarme l’ha lanciato Thom Yorke deiRadiohead che ha definito i servizi in streaming «l’ultimorantolo disperato di un quasi cadavere». Poi è arrivato unaltro illustrissimo personaggio della scena musicale,David Byrne, autore dell’interessante libro Come

funziona la musica (Bompiani 2013) che in un recente articolosul Guardian ha calcolato come Get Lucky dei Daft Punk,ovvero la canzone dell’anno, abbia reso agli autori “solo” 13.000dollari a testa nonostante sia stata suonata 104.760.000 voltedalla sua pubblicazione. Nello stesso articolo aggiungeva: «Io eThom Yorke forse potremmo riuscire a sopravvivere con similipercentuali, un artista emergente no». Alla polemica si è poiunito anche il compositore David Lowery che ha scritto sul blogThe Trichordist, mettendo anche la foto dei tabulati, che la suahit del 1993, Low, è stata suonata su Pandora dagli utenti più diun milione e centomila volte con un guadagno di 16.89 dollari,«il prezzo di una t-shirt». Frances Moore, amministratoredelegato dell’Ifpi (International Federation of thePhonographic Industry, la federazione che rappresental’industria musicale a livello mondiale) ha risposto però che«questo è solo l’inizio e presto il modello di business siperfezionerà e lo streaming supererà il download per quantoriguarda i guadagni». A mediare interviene ancora Byrne sulsuo blog proponendo alcune modifiche ai modelli attuali perpermettere ai musicisti di sopravvivere. Per esempio, dice l’exTalking Heads: «Non dovrebbe più esistere un’opzione gratuitaper ascoltare musica in cambio di pubblicità». Inoltre«bisognerebbe dare agli artisti quello che attualmente Spotify,Deezer etc. danno alle etichette». Infine «i siti o i servizi distreaming dovrebbero essere più trasparenti e condividere idati con i musicisti in maniera chiara». Il futuro è aperto.

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I CONTI

SECONDO I TABULATI PUBBLICATI DAL MUSICISTA DAVID LOWERY

SUL SUO BLOG“TRICHORDIST”CON IL SUO BRANOLOW

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 40LA DOMENICA

ISCUTER AVEVA preparato dei filettini di branzi-no crudo macerati nell’olio al dragoncello, in-salata condita con aceto al limone, un aceto ita-liano naturalmente, spiegò Biscuter, e unagnello ripieno di verdure. Una snella bottigliadi Blanc Tranquil de Ramentós impose a Car-valho più sete che fame, al di sopra del disagiocon cui Biscuter contava e guidava i suoi boc-coni con gli occhi».

Fine gourmet, Manuel Vázquez Montalbánfa assaggiare al gastro-detective de Il Fratelli-no una delle nostre glorie alimentari, sia per

quantità — siamo i primi esportatori del mondo — sia per qualità. Il limone che caratteriz-za l’aceto dell’insalata di Carvalho, infatti, è una vera chicca, due acidità diverse e comple-mentari per impreziosire il più (apparentemente) facile e banale dei piatti.

Malgrado abiti le nostre tavole da sempre, dell’aceto si sa poco, e si parla ancora meno. Amaggior ragione uscendo dai larghi confini di vino e mosto, che firmano la grande maggio-ranza del prodotto in commercio. Eppure, i primi aceti del mondo sono stati di riso (Giap-pone) e fichi (Roma). Una tradizione che il continente asiatico ha perpetrato nei secoli, con-servando il metodo originale, dagli otri in-terrati alla muffa nobile per la fermentazio-ne del cereale.

Da noi, invece, l’acetificazione della frut-ta è diventata secondaria, protetta nelle nic-chie di produzione gastronomica già votatealla sua distillazione, Trentino Alto Adige eFriuli Venezia Giulia in primis. Ci sono volu-ti duemila anni perché la nuova cucina d’au-tore riscoprisse la magìa degli aceti di frut-ta: delicati, aromatici, originali, capaci di re-galare le note fresche e speziate che puli-

scono il palato senza invaderlo. A fare la differenza una sillaba, che di-

stingue gli aceti al (limone, lampone, sor-bo...) da quelli di. Nel primo caso, il fruttoscelto viene tagliato, messo in infusione conaceto di vino bianco, e poi filtrato. Un’aro-matizzazione simile a quella del peperonci-no nella bottiglia dell’olio. Nel secondo, ilsucco fermentato riposa in botti di legno acontatto con la madre (ovvero la pellicola dibatteri in superficie, da non confondere con

Gli altri aceti. Di pere, lamponio mele cotogne. Perché non è veroche solo l’uva sa essere acida

La novità

Nativo della Val di Non, Andrea Paternoster è l’uomo

che ha reinventato immagine e qualità dell’apicoltura

artigianale italiana con il marchio Thun

Gli aceti da miele di rosmarinoe da melata d’abete

sono originali e fragranti

Il sito

Sul sito www.acetosirk.it, storie, ricette e segreti

dell’aceto d’uva di Joško Sirk — storico patron de La Subida

di Cormons, Udine, colonna della ristorazione friulana

— fermentato naturalmente e affinato quattro anni

in piccole botti

I precursori

Storici produttori di vino e grappa, i trentini Pojer e Sandri

producono aceti da trent’anni,utilizzando solo frutta locale

(mele cotogne, pere Williams,lamponi, more, ribes nero,

ciliegie) coltivata senza chimicae lavorando i mosti in modo

lento e senza diluizioni

Sapori

la spessa gelatina che si forma sul fondo,esausta). Un processo capace di durare finoa due anni, durante i quali si formano costi-tuenti volatili che regalano all’aceto profu-mi soavi e sapore armonico. Proprio il ri-spetto di materia prima, tempo e tempera-tura ha segnato l’anno scorso la nascita de-gli “Amici acidi”, piccolo gruppo di produt-tori duri e puri, raccolti intorno alla ieraticafigura di Andreas Widmann, vignaiolo dellabiocantina sudtirolese Baron Widmann.

Una ricerca preziosa a metà tra approccioantico e nuove sapienze, che ha coinvoltostorici artigiani dell’aceto di vino — che inquesti giorni combattono contro i bassissi-mi limiti di residuo alcolico, 1,5 gradi, impo-sti dall’industria, a fronte dei 12 gradi dei vi-ni per una produzione di qualità senz’ag-giunta d’acqua — e dell’aceto tradizionalebalsamico, su tutti Andrea Bezzecchi dell’A-cetaia San Giacomo (suo uno strepitoso ace-to di mela cotogna).

Nel momento di massimo splendore delleinsalate, macinate del sale marino e giratebene le foglie, irrorate con un extravergineserio e poi spruzzate le foglie con un aceto difrutta — il boccettino spray è perfetto per ilgiusto dosaggio. Poi battezzate un plateaudi ostriche e celebrate degnamente l’ultimomese con la erre (i migliori per le ostriche).

I PRIMI NEL MONDOSONO STATI

I GIAPPONESI (RISO)E GLI ANTICHI

ROMANI (FICHI). MA SOLTANTO ORA

LA CUCINA, NONSOLO D’AUTORE,

RISCOPRE QUELLE NOTE

FRESCHEE SPEZIATE

CHE PULISCONOIL PALATO

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LICIA GRANELLO

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 41

E INSALATE, i latini lechiamavano acetaria.Designandole non per quelloche erano (lattughe?radicchi?) ma per come

venivano condite. Olio e sale, certo. Masoprattutto l’aceto. Un complemento,una “correzione” ritenutaindispensabile sia sul piano gustativo(per dare mordente al sapore esile diquei cibi) sia sul piano dietetico (percontrastare la loro tendenza acorrompersi). Intenti gastronomici esalutistici si mescolano sempre, nelletradizioni alimentari, e questa duplicefunzione dell’aceto – disinfettantenaturale e rilievo del sapore – si ritrovadi frequente. All’acqua, spesso diincerta potabilità, gli antichi amavanoaggiungere l’aceto per renderla piùgradevole e sicura: una siffatta bevanda,detta posca, era di ordinanza fra i soldatie fu donata anche a Cristo sulla croce;nel Medioevo la ritroviamo tra gli usi dimonaci e contadini. Alle verdure siaggiungeva aceto non solo al momentodi mangiarle ma anche per conservarle(pensiamo alla pratica dei crauti). Ma c’è di più. Le antiche culturegastronomiche, nell’Occidente europeocosì come nella tradizione cinese oindiana, sono fondate sull’idea che ognisapore sia la “rivelazione sensibile” diuna specifica qualità nutrizionale, e che,essendo la salute basata sull’equilibriodi queste qualità, la vivanda perfetta èquella che contiene tutti i sapori.L’aspro, l’agro, l’acerbo – tutte legradazioni dell’acido, che il linguaggioantico e medievale ama distinguerepuntigliosamente – sono presenzeindispensabili nella preparazione diogni vivanda. E nelle salse medievalil’acido è dominante: lo si ottiene conl’aceto di vino, di mele o di altri frutti;particolarmente apprezzato è l’agresto,ottenuto dall’acidificazione del succo diuva acerba.Nel gusto europeo, la centralitàdell’acido si è progressivamenteoffuscata, in parallelo con la tendenza(dal Settecento in poi) a semplificare e“separare” i sapori anziché tenerliinsieme. Ma le culture più conservativene mantengono tracce evidenti, peresempio nei paesi dell’est. Mi è capitatodi leggere la testimonianza di unimmigrato rumeno, che, dopo averdichiarato il suo entusiasmo per lacucina italiana, ha confessato di trovarlatroppo dolce e, soprattutto, priva diacidità. Sicché lui, negli spaghetti allacarbonara, aggiunge panna acida. Ilmondo dell’aceto e dei sapori agri èancora fra noi.

Il gustoperduto della vita agra

MASSIMO MONTANARI

MieleVarietà fluide, acacia su tutte,per uno dei primiaceti della storia, ricco di enzimi e oligoelementi Le sue noteamabiliaccompagnanol’insalata di faraona

MelecotogneSucco cotto e concentrato, poi fermentato per farne un sidroe infine acetificatoIntenso e profumato, ben si abbina alla scaloppa di fegato grasso

LamponiIl processo di acetificazionenon danneggia il re dei fruttirossi, che mantiene tutta l’intensitàaromaticaPerfetto con i pescid’acqua dolce

CiliegieArrosto di manzoaromatizzatoall’aceto balsamicodi ciliegia

Uva Dalla Malvasia al Lambrusco, i profumi dei vitignicaratterizzano la fragranza, gli acini bianchi o rossi firmano il coloreOttimo come sorbetto

RibesSolo bacchemature per il succo da acetificarelentamenteDiluito in acqua,combatte la fame nervosaBattezza i piatti di selvaggina e le carni rosse

RisoRiso cotto a vapore,fermentato in otri di terracotta con spore di aspergillusoryzae. Si utilizzacome condimentodel sushi e sulle verdurebollite

Fichi Dagli scritti di Columella, la ricetta dell’acetumficulneum, con cui i Romaniimpreziosivano i formaggiDà freschezza alla fruttacaramellata

SambucoFresco e aromatico come il succofermentato da cui deriva,regala freschezzaalle verdure in pastella (salvia, zucchine) e alla frittura di alici

MaltoBassa acidità,profumo di agrumi e cereali tostati:prodotto a partiredal mosto di birra, è magnifico su frittate di erbe di campo e stinco di maiale

MeleIl più diffuso alter egodell’aceto di vino, con proprietàantiossidanti e detossinanti,sgrassa lo stufatodi maiale e profuma la giardiniera di verdure

10modidi condire

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Melanzana con ricotta e pachinomarinata in salsa di miele

La ricetta

GLI CHEF

ALESSANDRONEGRINI E FABIOPISANI GUIDANOLA CUCINADEL BISTELLATO“IL LUOGO DI AIMOE NADIA" A MILANONEI PIATTI, SOLOMATERIE PRIMESTRAORDINARIEE SAPORIFRESCHI PULITI,COME IN QUESTARICETTA IDEATAPER REPUBBLICA

INGREDIENTI PER 4 PERSONE

1 MELANZANA DI CIRCA 160 G.; 30 GR DI LATTE; 200 G. DI RICOTTA

DI BUFALA CAMPANA; 4 POMODORI CILIEGINO; 10 G. PANE GRATTUGIATO

AROMATIZZATO CON PREZZEMOLO; PECORINO ROMANO, SALE, PEPE

20 G. DI FOGLIOLINE DI BASILICO, MENTA, LAVANDA; OLIO EXTRAVERGINE

DI OLIVE NOCELLARA; 40 G. DI MIELE DI GIRASOLE THUN;40 G. DI ACETO DI MIELE AL ROSMARINO THUN

NFORNARE la melanzana intera mezz’ora a 140°C. Intanto, si pre-para la marinata, emulsionando miele, olio (40 g.) e aceto, poimenta e basilico. Cotta la melanzana, si taglia in 4 cubetti, dafar riposare nell’emulsione 24 ore. In forno (10’ a 180°C) anche

i pomodorini, tagliati a metà, disposti su una placca, salati, cosparsicon poco zucchero e il pane aromatizzato. Per la salsad’erbe, bollire 30 g. di acqua, unire il mix dierbe, aggiungere due cubetti di ghiaccio efrullare. Infine, un cucchiaino di ex-travergine. Porre la melanzana alcentro, coperta con crema di ri-cotta, ottenuta frullando ricotta elatte. Schiacciando la crema,creare una concavità da riempirecon la salsa. Completare con i po-modorini e olio a filo.

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la RepubblicaDOMENICA 13 APRILE 2014 42LA DOMENICA

Èin partenza per New York dove a giorni il MoMA gli dedicherà una

grande retrospettiva. Lui, quasi sorpreso dell’omaggio, si prepara a

ripassare in pubblico cinquant’anni di carriera da regista fittamen-

te intrecciati con le vicende della vita: “Se potessi dividerla in capito-

li il primo riguarderebbe certamente la perdita della fede”. A segui-

re cinema, politica e psicoanalisi. “Non rinnego nulla di nulla, oggi

ho soltanto voglia di seguire le

mie idee. Sbagliate oppure no,

ha poca importanza”

Marco

«L’ULTIMA retrospettiva che mi è stata dedicata forse fuquella di Locarno, una ventina d’anni fa. Anzi no, cen’è stata anche un’altra un po’ più recentemente, aPesaro. Ma in America...». Il cinema di Marco Belloc-chio arriverà a New York tra pochi giorni, il 16 aprile.

Il regista di matrimoni aprirà al MoMa una retrospettiva di diciotto titoli che siconcluderà il 7 maggio con Vincere. «Non so, può darsi sia stato proprio il suc-cesso di quel film a favorire una cosa così corposa. Finora negli Stati Uniti era-no usciti solo alcuni dei miei lavori, e soltanto singolarmente» racconta il regi-sta in partenza per Manhattan. O forse la retrospettiva organizzata insieme al-l’Istituto Luce-Cinecittà vuole più semplicemente raccontare un percorso arti-stico lungo cinquant’anni: ci sono I pugni in tasca(1965), Enrico IV(1984), Dia-volo in corpo(1986), Il principe di Homburg(1996), La balia (1999), Bella ad-dormentata (2012) e le versioni restaurate di Vacanze in Val Trebbia (1980)e Gli occhi, la bocca (1982). E poi, perché no, dopo l’Oscar a Sorrentino una re-trospettiva così prestigiosa potrebbe anche essere un ulteriore segno di vita-lità del cinema italiano. «Certo che mi fa piacere, e anche se per carattere ten-do a tenermi a distanza so che non appena metterò piede sull’aereo cercherò diessere più reattivo e di farmi coinvolgere al massimo da questa cosa. Mi succe-de sempre così». Anche al Festival del cinema di Bari, dove avviene il nostro in-contro e dove Bellocchio ha partecipato all’omaggio a Gian Maria Volontè pre-sentando Sbatti il mostro in prima pagina (1972): «Ero arrivato non dico consuperiorità, ma con molto distacco. Poi alcune domande del pubblico, e certeespressioni di entusiasmo sincero, beh, mi hanno addirittura commosso».

A New York, negli incontri con i media e con gli spettatori, il regista saràobbligato a ripercorrere le fasi di una movimentata carriera artistica che siintreccia fortemente con la vita personale. Meglio portarsi avanti con unbreve ripasso. E dunque, se si potesse racchiudere una vita in capitoli in quel-la di Bellocchio il primo non riguarderebbe il cinema: «La regia è stata perme la quarta scelta. Un primo capitolo, partendo dall’adolescenza, potreb-be intitolarsi La perdita della fede, un passaggio fondamentale. Me ne resiconto proprio nel bel mezzo dell’educazione cattolica, mentre fre-quentavo il collegio dei Barnabiti. Andavo a messa tutti i giorni

e a un certo punto cominciai a chiedermi “perché sto qui?”,una domanda che è diventata poi il motore di tante altre co-se. Incoraggiato da mio fratello Piergiorgio mi sono dedicato al-la poesia, e intanto dipingevo. Credevo di soddisfare così la vo-glia di esprimermi». Non era vero perché, anche se nei primianni Sessanta un libro di poesie comunque lo pubblicò, I mor-ti crescono di numero e di età, «avevo una passione segre-ta, ed era quella di fare l’attore». Poeta, pittore, attore:«Nessuna delle tre ha funzionato. Finito il liceo, sono anda-to a iscrivermi all’Accademia dei Filodrammatici di Mila-

no ed è stato in quel periodo che sono intervenuti grossi problemi psichici. Simanifestavano nella perdita della voce, divenni completamente afono».

Costretto a lasciare il teatro, Marco non si arrese. Lasciò ancora una volta l’a-mata Bobbio, sui colli piacentini, dove è nato il 3 novembre del ‘39, stavolta perRoma: «Qui tentai l’esame come attore al Centro Sperimentale. La mia voce cheora è pessima allora era ancora più sgraziata, ricordo che con Orazio Costa ad-ducevo strani abbassamenti vocali. E comunque superai l’esame. E fu propriofrequentando i corsi come attore che cominciai a scoprire il cinema. Certo, ave-vo visto tanti film, ma a scuola era diverso, era la scoperta del muto, la magiadelle immagini in movimento dei grandi maestri del passato. Lì cominciai a de-siderare di “fare le immagini”. Mi ripresentai a un altro esame al Centro e fuiammesso al corso di regia. Mi fu parecchio utile l’esperienza della pittura».

All’inquieto ragazzo di Bobbio però anche Roma non bastava. «Mi sembra-va una provincia, decisi di andare a Londra e ci rimasi due anni. Oggi impararel’inglese è un obbligo, allora era una cosa più insolita. Erano gli anni dei Bea-tles, cominciava la Swinging London, ma io non mi scatenai. Andavo a teatro,all’Albert Hall a sentire Pollini. Ero prudente. Ancora oggi gli amici e France-sca (Francesca Calvelli, montatrice eccellente e attuale compagna di Belloc-chio, ndr) mi prendono in giro per non aver vissuto l’animazione e il fervore diquel periodo. Londra però è stata essenziale per la progettazione de I pugni intasca, perché lì ritrovai Enzo Doria, uno dei paparazzi de La dolce vita, uomo af-fascinante, amato dalle donne: era stufo di fare l’attore e voleva diventare pro-duttore. E io avevo il diploma del Centro Sperimentale ma sentivo di dover di-mostrare che ero davvero un regista». Non fu facile trovare i finanziamenti edopo vari tentativi falliti Bellocchio chiese di nuovo aiuto al fratello Piergiorgio.«Nel mio essere una persona tutt’altro che pratica, dimostrai una notevole pra-ticità. Pensai a una storia personale, la sola che avrei saputo raccontare, mi ar-rangiai a girare in casa di Piergiorgio, ma attento a non mandare in rovina lamia povera famiglia, che povera non era, ma tutti vivevano di quel patrimonio,e i costi furono tenuti bassi. Avevo avuto la fortuna di incontrare al Centro unragazzo biondo, Lou Castel, perfetto per il ruolo: non so come sarebbe andatase avessi scelto Gianni Morandi che pure a un certo punto era stato preso in con-siderazione».

Così, dopo La perdita della fede, Il fallimento dell’attore, La scoperta delle im-magini, arriva nel ‘65, a ventisei anni, il quarto capitolo - Il clamoroso esordioalla regiacon I pugni in tasca - seguito subito dopo da un quinto: La crisi pre-68.«Non mi sopportavo più come rappresentante della classe cui appartengo, laclasse borghese. Oggi fa ridere, allora era una cosa seria la ricerca di una cultu-ra diversa, opposta. Io sentivo il fascino dell’estrema sinistra, non operaista,piuttosto il movimento marxista leninista, Servire il Popolo. Per un ex cattoli-co come me c’era qualcosa di religioso, il fascino delle regole, le continue criti-che e autocritiche. La classe borghese era morta. Imparare dal popolo, solo met-termi al suo servizio poteva restituirmi una ragione. In quel periodo la mia par-te artistica fu praticamente annullata, feci giusto qualche film di propaganda,Il popolo calabrese ha rialzato la testa, Viva il 1° maggio rosso. Ma il contagionon durò».

Il film della crisi arriva nel 1972, Nel nome del padre, con Lou Castel e Laura

Betti, il racconto della ribellione alle regole in un collegio cattolico. «Era un filmin cui rileggevo un po’ marxisticamente pagine della mia vita. Ma il “fuori”, il

rapporto con la realtà sociale esterna non mi bastava. Continuavo adavere bisogno di capire chi ero io. E dunque la psicanalisi. Per qual-

che anno un’analisi classica, poi il mio grande amico Piero Natolimi portò alla scoperta dell’analisi collettiva e a Massimo Fagioli».Era il 1978, l’anno prima Bellocchio aveva fatto Il gabbiano daCechov, uno degli autori che con Pirandello più lo hanno attrat-to. «Con Fagioli il rapporto è stato graduale fino a diventare unforte legame personale e il cinema, con la sua partecipazione, mi

sembrava prendesse la direzione giusta. Il Diavolo in corpo è unfilm bello ma imperfetto, perché ci prese alla sprovvista: il

rapporto tra Massimo e me non era ancora collaudato.La condanna era già più orientato ideologicamente.Finché arrivammo a Il sogno della farfalla, un filmestremo, delicatamente estremo».

Fu il film che segnò la fine del legame con Fagioli e,con Il principe di Homburg, un ritorno al cinema clas-sico. «Non mi vergognavo più della mia origine e deimiei problemi personali. Senza rinnegare né il per-corso politico né quello psicanalitico sentivo di do-ver seguire liberamente le mie idee, quello che mi

veniva in mente, sbagliando o non sbagliando, nonaveva più importanza». Gli è rimasta invece, dice, una

dimensione anarchica di vedere le cose. «Mi appartie-ne da sempre, così come da sempre è fortissima la miainsofferenza nei confronti del Potere. Chissà, verrà for-se dalla formazione cattolica, ma ci tengo alla coeren-za e alla moralità. A proposito, mi piace molto il tito-lo del volume pubblicato per il MoMA: Morale e bel-

lezza».

MARIA PIA FUSCO

NON MI SOPPORTAVO PIÙ COMERAPPRESENTANTE DELLA CLASSE A CUIAPPARTENGO, LA BORGHESIA. LO SO, FA RIDERE, ALLORA ERA UNA COSA SERIALA RICERCA DI UNA CULTURA DIVERSA

NEGLI STATI UNITIFINORA ERANO

SÌ USCITI ALCUNI DEI

MIEI FILM, MA SOLOSINGOLARMENTE.

UNA RASSEGNA, E COSÌ CORPOSA,

MAI. FORSE È STATOILSUCCESSO

OTTENUTODA “VINCERE”,

CHISSÀ...

L’incontro. Maestri

BellocchioBARI

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LASCIAI BOBBIO PER ROMA E ROMA PER LA SWINGINGLONDON. MA NON MI SCATENAI. ANDAVO A SENTIRE I CONCERTI DI POLLINI. ERO PRUDENTE. GLI AMICIANCORA MI PRENDONO IN GIRO PER NON AVER VISSUTOL’ANIMAZIONE DI QUEL PERIODO

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